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DISPENSE DELL’INSEGNAMENTO DI PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO E DELL’EDUCAZIONE PROF. SSA MICAELA CAPOBIANCO RICERCATORE (Lettera B) (art. 24 c.3-b L. 240/10) MODULO VIII LO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO E LE RELAZIONI AFFETTIVE: LA TEORIA...

DISPENSE DELL’INSEGNAMENTO DI PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO E DELL’EDUCAZIONE PROF. SSA MICAELA CAPOBIANCO RICERCATORE (Lettera B) (art. 24 c.3-b L. 240/10) MODULO VIII LO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO E LE RELAZIONI AFFETTIVE: LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO Argomenti VIII. 1 LO SVILUPPO SOCIALE IN UNA PROSPETTIVA MULTIFATTORIALE VIII. 2 LA CONSAPEVOLEZZA DI SE’ E RICONOSCIMENTO ALLO SPECCHIO VIII. 3 LO SVILUPPO DELLE EMOZIONI PRIMARIE VIII. 4. LE EMOZIONI SECONDARIE VIII. 5 I LEGAMI AFFETTIVI: LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO DI JOHN BOWLBY VIII. 6 “STRANGE SITUATION” E STILI DI ATTACCAMENTO VIII. 7 LA MORALITA’: UN ASPETTO DELLO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO VIII. 1. LO SVILUPPO SOCIALE IN UNA PROSPETTIVA MULTIFATTORIALE Il piccolo dell’umo fin dalla nascita vive immerso nei rapporti sociali ed è a contatto con gli altri, con le regole di comportamento prescritte dal suo gruppo di riferimento, con sistemi di norme che deve imparare a conoscere, tipiche della cultura di appartenenza. Qualunque aspetto della vita in età evolutiva, affettivo, emotivo, cognitivo o comportamentale e morale deve essere inserito all’interno delle dinamiche nei contesti di vita del bambino ed è legato in modo significativo alle prime esperienze con gli adulti caregiver, alle interazioni con i coetanei, con i fratelli, con le persone che svolgono un ruolo educativo. La modalità di espressione delle relazioni affettive e il modo di intendere le norme e i valori morali è strettamente legata al contesto socio-culturale del bambino. È opinione condivisa che vi sia una stretta connessione tra il mondo delle interazioni e i processi che guidano lo sviluppo sociale del bambino e le sue competenze morali. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che la letteratura scientifica ha ormai abbandonato la teoria del neonato TABULA RASA, per cui il bambino nasce già con un bagaglio di conoscenze che corrispondono, da una parte al suo patrimonio biologico dall’altro alle esperienze sensoriali e percettive avute nella vita intrauterina. Già durante lo sviluppo embrionale e fetale, il piccolo dell’uomo inizia ad elaborare e memorizzare diversi stimoli che lo aiuteranno ad affrontare la vita extrauterina. Il termine sviluppo sociale, che sostituisce socializzazione, viene impiegato per rendere chiaro che il neonato è un essere sociale fin da subito, ma diventa sempre più consapevole e competente grazie a processi bidirezionali di interazione, tra caratteristiche individuali e caratteristiche del contesto socio-culturale ed emotivo in cui è immerso fin dall’inizio. Lo spostamento di accento dalla funzione di modellamento dell’adulto ad una funzione di mediatore o di interlocutore nell’organizzare competenze e capacità, significa concepire l’individuo come dotato di risorse proprie, di predisposizioni che lo collegano al mondo circostante. In una prospettiva multifattoriale e complessa dello sviluppo sociale ed emotivo acquistano importanza sia i prerequisiti biologici sia i comportamenti sociali che il bambino produce spontaneamente e con cui influenza l’adulto, sia le relazioni affettive, sia i processi mentali che lo guidano nel produrre azioni e nel valutare fatti e persone. La dimensione sociale costituisce una chiave di interpretazione TRASVERSALE dello sviluppo, una prospettiva dalla quale osservare l’emergere delle competenze affettive, emotive e relazionali, più che un settore di studio con precisi confini. Schaffer afferma che l’ambito di studio dello sviluppo sociale riguarda essenzialmente «il modo in cui i bambini interagiscono con gli altri», vale a dire gli«schemi di comportamento, i sentimenti, gli atteggiamenti e i concetti manifestati dai bambini in relazione alle altre persone e al modo in cui questi diversi aspetti variano durante la crescita» (Schaffer 1996) La capacità di rapportarsi agli altri è strettamente legata alla capacità di inferire, comprendere e interpretare gli stati mentali altrui. Quando il bambino acquisisce la comprensione di sé e degli altri, la coscienza di possedere un’identità separata dalle altre persone dalle quali può differenziarsi, sicuramente raggiunge un passaggio fondamentale dal punto di vista sociale ed emotivo. Va da sé che lo sviluppo della teoria della mente, cioè la comprensione degli stati psicologici e del comportamento altrui, è un processo che interagisce con lo sviluppo socio-emotivo e si costruiscono parallelamente (vedi modulo teoria della mente) VIII. 2. LA CONSAPEVOLEZZA DI SE’ E RICONOSCIMENTO ALLO SPECCHIO Come anche descritto da Piaget nella teoria stadiale, il bambino raggiunge una rappresentazione stabile di se stesso, come immagine mentale che ha delle caratteristiche peculiari e stabili, solo dai 18 mesi circa, o meglio tra i 18 e i 24 mesi, proprio perché raggiunge una intelligenza cosiddetta simbolica che permette al bambino di mantenere in memoria elementi del mondo fisico e sociale. Ha una intelligenza basata sull’astrazione. In questo periodo, infatti, il bambino manifesta il GIOCO SIMBOLICO o di FINZIONE, è in grado di utilizzare un oggetto al posto di un altro (usa una banana e fa finta di telefonare), imita il comportamento dei genitori, fingendo di scrivere, leggere o di pulire. Inoltre si osserva una IMITAZIONE in differita, ossia, mantenendo in memoria sequenze di azioni osservate, può riprodurle in un secondo momento in modo contestualizzato. E’, quindi, una riproduzione di azioni recuperati alla mente in un secondo momento e non in modo contingente, come può essere con l’imitazione immediata. La rappresentazione mentale di sé stesso determina una aspettativa relativamente alla possibile riproduzione di se stesso in foto, nei video o allo specchio. Se questa rappresentazione in foto o allo specchio non corrispondesse con la propria percezione di sé si avverrebbe una “violazione dell’aspettativa” e quindi la reazione dovrebbe essere di sorpresa, di non riconoscimento della propria immagine. Sul tema della consapevolezza di sé, (Lewis 1990) riprendendo la classica distinzione tra Io e Me introdotta da James in ambito filosofico, distingue tra un Sé esistenziale, inteso come la componente implicita del Sé che organizza l’esperienza, e un Sé categorico, la componente esplicita del Sé che deriva dall’autoconsapevolezza. Ipotizza uno sviluppo graduale del Sé esistenziale nel primo anno di vita e ritene che la comparsa di un Sé categorico coincida, intorno ai 2 anni, con l’autoriconoscimento, e con la capacità di utilizzare alcune semplici categorie esteriori quali il genere, l’età, il colore dei capelli. In che modo osservando il comportamento del bambino dai 16 mesi circa possiamo individuare la presenza o meno di una consapevolezza di sé? Infatti, come in tutti i domini dello sviluppo, anche la comparsa della consapevolezza di sé si presenta in modo ampiamente variabile tra i bambini all’interno di una finestra che dai 15 ai 24 mesi. Gli indicatori a cui si può far riferimento per comprendere se un bambino ha raggiunto la consapevolezza mentale di sé riguardano comportamenti verbali e non verbali all’interno dello sviluppo comunicativo-linguistico. Come discusso nel modulo delle abilità comunicativo-linguistiche, intono ai 18 mesi compaiono nel lessico del bambino forme nominali e, successivamente, pronominali per riferirsi a se stesso e agli altri. Ad esempio si chiede al bambino come si chiama e lui/lei risponde con il proprio nome o prenome. In generale fa riferimento a sé utilizzando il nome o il prenome. Successivamente nel repertorio lessicale compaiono i pronomi e il bambino utilizza parole come “io”, “mio”, “tu”. Intorno ai 18 mesi compare anche il gesto deittico dell’INDICAZIONE DI PERSONA, quando il bambino si riferisce a se stesso indicandosi mantenendo lo sguardo sulla stessa linea di quello dell’adulto. L’udo dell’indicazione di persona è un ulteriore indice di presenza della consapevolezza di sé anche quando il bambino non ha ancora un lessico ricco e non utilizza i pronomi. Un altro aspetto tipico da osservare nel bambino è il riferimento alle sue diverse parti del corpo. Un bambino che ha raggiunto la consapevolezza di sé, infatti, è in grado di rispondere alle domande su dove si trovano il suo naso, le sue braccia, i suoi capelli etc, mostrandoli all’adulto in modo chiaro. L’uso dell’indicazione e la discriminazione delle sue parti del corpo sono aspetti relativi al comportamento non verbale che denotano la presenza dell’autoriconoscimento. Lewis e Brooks-Gunn (1979) hanno usato un paradigma di ricerca denominato ROUGE TEST o PROVA ALLO SPECCHIO, già impiegato con gli scimpanzé (Gallup 1970) e divenuto ormai standard, che consiste nell’applicare una macchia rossa sul naso del bambino senza che egli se ne accorga e nel controllare come reagisce alla sua immagine allo specchio. Se il bambino, alla vista casuale dell’immagine allo specchio, tocca il proprio naso e cerca di cancellare la macchia su se stesso, vuol dire che è consapevole non solo che il viso nello specchio è suo, ma anche che la macchia viola lo schema mentalmente rappresentato che si è costruito del proprio viso. Mentre tra i 9 e i 12 mesi, pur guardando con interesse la propria immagine allo specchio, i bambini non si toccano il naso oppure cercano di cancellare la macchia sullo specchio non attribuendola a loro stessi, tra i 15 e i 18 mesi cominciano a farlo in una percentuale oscillante tra il 19 e il 25% e, tra i 21 e i 24 mesi, portano la mano al proprio naso nella gran parte dei casi. La consapevolezza di sé, in breve, comincia ad apparire intorno ai 15 mesi circa (tra i bambini in cui compare più precocemente) e accomuna gran parte dei bambini di età compresa tra i 21 e i 24 mesi. Questa abilità, verificata ulteriormente non solo dal vivo ma anche attraverso l’uso di filmati e fotografie che escludono la presenza di segnali contingenti, legati alle circostanze o a situazioni specifiche, conferma che, intorno al secondo anno di vita, l’autoriconoscimento avviene in base a segnali legati alla percezione stabile della propria identità fisica. Per fare ciò il bambino deve avere una INTELLIGENZA RAPPRESENTATIVA. SORPRESA LEGATAALLA VIOLAZIONE DELL’ASPETTATTIVA DELLA PROPRIA IMMAGINE Le elaborazioni sul Sé e sugli altri non sono statiche, ma nel tempo si stabilizzano, arricchiscono e si rafforzano sia per lo sviluppo parallelo degli altri domini (sviluppo delle EMOZIONI, TEORIA DELLA MENTE, GIOCO SIMBOLICO) sia per la tipologia delle esperienze affettivo-relazionali che si costruiscono quotidianamente con gli adulti e con i pari. Il bambino gradualmente struttura un sistema cognitivo fatto di abilità inferenziali, di interpretazioni, più o meno ricco e stabile, che tende ad utilizzare in modo sempre più costante durante le interazioni quotidiane. Questi modelli cognitivi di elaborazione sono soggetti a continue ristrutturazioni e rielaborazioni, come esito delle esperienze sociali e di una diversa comprensione della realtà, fornita dai nuovi strumenti concettuali che si affermano nel corso dello sviluppo. Pensiamo ad esempio al passaggio da un pensiero operatorio concreto ad un pensiero ipotetico deduttivo in adolescenza. Le rappresentazioni mentali sono aspetti dinamici che permettono di dare un senso personale alle percezioni e alle immagini degli oggetti e delle persone. Alcune di loro si stabilizzano in modo significativo, fino ad essere ricorsive e automatiche durante la vita quotidiana e a rappresentare a volte un circolo vizioso da cui è difficile uscirne. In tal caso, capita che i bambini o gli adolescenti tendano ad interpretare alcuni eventi in modo assolutistico, estremo, attuando delle interpretazioni spesso erronee della realtà dette anche BIAS COGNITIVI. Interrompere e destrutturare alcuni pensieri e interpretazioni ricorsivi spesso non è facile, soprattutto se non è stato possibile intervenire precocemente e si mantengono fino all’età adulta. Queste strutture cognitive vengono spesso confermate dal comportamento degli altri e dalla percezione da parte del bambino di come gli altri ci valutano. Nel corso del tempo il bambino tende a sviluppare azioni e a svolgere attività sempre più autonome, desidera imparare e dimostrare la propria competenza, teme il giudizio degli altri ed è impegnato a superare sensi di colpa e di inferiorità. È quindi, estremamente sensibile alle opinioni degli adulti che imita e con cui tende ad identificarsi e presta attenzione ai ruoli e al modo in cui le persone li svolgono. Come, già discusso sopra, i bambini durante il gioco spesso assumono il ruolo degli adulti ed elaborano una finzione collettiva, dove ciascun partecipante assume le vesti di un personaggio diverso. In tal modo imparano a comprendere e a padroneggiare i diversi ruoli e ad utilizzarli per esprimere e anche per capire ciò che provano. Verso i 7-8 anni compare il gioco con regole o gioco sociale che indica come si vada sviluppando anche l’attenzione alle norme e al loro significato interpersonale. Se il bambino ha costruito un’immagine di sé e degli altri caratterizzata da insicurezza e se le circostanze ambientali restano negative, le idee su se stesso, sulle altre persone e sulle relazioni saranno dominate da sfiducia, incertezza, impulsività o passività e dalla tendenza ad interpretare in modo negativo sia i segnali dell’ambiente sia quelli provenienti dagli altri. L’insieme di valutazioni che riguarda il Sé nelle sue diverse componenti di Sé fisico, capacità sociali e identità, vanno a comporre ciò che viene abitualmente definita AUTOSTIMA e AUTOEFFICACIA, rispetto alla percezione di sé come adeguato nelle diverse condizioni dii problem solving. VIII. 3 LO SVILUPPO DELLE EMOZIONI PRIMARIE Parallelamente alla costruzione di una propria identità distinta dagli altri c’è la capacità di riconoscere le EMOZIONI e di comprenderne il significato. Nel corso dei primi due anni di vita, il bambino esprime il proprio stato emotivo, riconosce il significato di alcune emozioni fondamentali negli altri e vi reagisce in modo congruo, e impara a manifestare le emozioni in base a regole appropriate alle diverse circostanze. Intorno ai 18 mesi la comparsa delle emozioni sociali costituisce un passaggio fondamentale legato alla sensibilità del giudizio-valutazione altrui. La colpa, la vergogna e l’imbarazzo, la mortificazione sono espressioni emotive complesse legate alla socializzazione, alle pratiche educative, al contesto culturale e richiedono capacità cognitive e metacognitive di valutazione di sé, degli altri e delle aspettative sociali. Vanno di pari passo anche con lo sviluppo morale. Nascono dal riconoscimento di comportamenti o di attributi negativi rivolti a se stesso e che hanno origine dalla percezione del fallimento di standard posti dall’esterno o interiorizzati. Per sentirsi in colpa il bambino deve comprendere di aver commesso un’azione disapprovata dall’adulto e provare disagio e preoccupazione, paura. Deve essere in grado di valutare il proprio comportamento in relazione alle norme poste dall’adulto. La vergogna ha una dinamica diversa e coinvolge il Sé nella sua totalità e non solo il comportamento. Sorge dalla consapevolezza del giudizio negativo dell’altro e dalla percezione di come un Sé imperfetto e mortificato potrebbe apparire agli altri. Ricostruiamo insieme le tappe dello sviluppo delle emozioni nserendole in un modello multifattoriale e multidimensionale. Cosa sono le EMOZIONI? Sono “esperienze complesse di mediazione tra l’organismo e l’ambiente, determinate da uno stimolo (interno o esterno), che svolge una funzione preparatoria a fronteggiare lo stimolo stesso. Si differenzia dall’umore, in quanto quest’ultimo è uno stato più diffuso, temporalmente dilatato e non delimitato da un evento stimolo scatenante specifico. Si differenzia dal sentimento come disposizione affettiva rivolta in maniera relativamente stabile verso specifici oggetti, prodotto sulla base di esperienze precedenti e dell’apprendimento sociale. Le emozioni sono innate? Darwin (1872) ipotizzò la natura innata di alcune emozioni. Alla nascita, infatti, si parla di SCHEMI RIFLESSI che provocano nei primi mesi di vita un SORRISO ENDOGENO E ESOGENO. riconosciuto come espressione universale di un’esperienza di gioia, presente nei bambini sin dalla nascita Nella prima fase, quindi, il sorriso è uno stimolo innato che fa parte di risposte fisiologiche a stati interni. Dalle prime ore di vita fino a 6 settimane circa abbiamo, quindi, un “sorriso come attivazione di un riflesso”: Sorriso endogeno: l’espressione facciale di sorriso è un puro riflesso attivato da stimoli interni. E’ una risposta fisiologica, spesso durante fase “REM” del sonno SORRISO ENDOGENO, DURANTE IL SONNO: 2 MESI Sorriso esogeno: generato da stimoli esterni, quali voce materna o occhi materni Sorriso sociale: Intorno ai 4 mesi circa compare il sorriso come una vera e propria emozione” provocato dal contenuto dell’evento e non da semplice stimolazione. Alla base del sorriso sociale, infatti, c’è un processo cognitivo. Ad es., riconoscimento del volto di una persona familiare e/o oggetto familiare, voce familiare, è intenzionale: può essere prodotto in risposta e/o spontaneamente SORRISO SOCIALE, DAI 4 MESI CIRCA Ekman e Friesen (1971) evidenziano la stessa posizione di Darwin ma secondo loro: L’Esistenza di differenze culturali che intervengono nello stabilire gli eventi stimolo di un’emozione, le regole di esibizione, il comportamento conseguente, la prevalenza e l’accettazione di una determinata emozione, influiscono sull’espressione dell’emozione stessa. Ad esempio, le regole relative all’espressione emotiva sono influenzate dalla personalità, dal contesto ed hanno una connotazione culturale. Le emozioni primarie compaiono nelle prime settimane di vita, hanno una base innata sono caratterizzate da pattern espressivi e fisiologici prototipici e sono riscontrabili in tutte le popolazioni umane (anche in alcuni primati). Si esprimono attraverso le espressioni facciali, la voce e le reazioni corporee. Hanno una funzione adattiva specifica. Vengono espresse indipendentemente dai processi cognitivi, dall’apprendimento e dalla cultura. Con l’età i bambini riescono ad organizzarle in modo sempre più complesso per raggiungere i propri obiettivi e far fronte alle richieste del contesto. Qui di seguito uno schema sintetico che illustra le emozioni primarie rispetto alla loro funzione adattiva. Un aspetto imporante,infatti, è che tutte emozini sono fondamentali e fisiologiche e ognuna svolge una importante funzione nel processo continuo di adattamento del bambino al suo ambiente. Qual è il loro valore adattivo? Gioia: aiuta ad instaurare relazioni sociali, invitando alla vicinanza, sia fisica che psicologica, come prerequisito per la cura e la collaborazione reciproche. Tristezza: segnala la richiesta di vicinanza, il bisogno di essere accuditi. Rabbia: è funzionale ad assumere una approccio autodifensivo (predispone all’attacco e alla difesa) di fronte a stimoli che minacciano l’integrità del sé. Paura: indica che nell’ambiente vi è un pericolo, predispone ad un ritiro funzionale ad affrontare lo stimolo avverso. Sorpresa: serve per organizzare l’organismo nei confronti dell’esplorazione di uno stimolo inatteso, di cui talvolta non si conosce la pericolosità o il vantaggio. Disgusto: predispone al rifiuto e/o all’allontanamento da uno stimolo potenzialmente dannoso. In letteratura ci sono DIVERSE TEORIE sullo sviluppo delle emozioni in età evolutiva, rispetto alla comparsa, eziologia e sviluppo. TEORIA DIFFERENZIALE (Izard, 1991) Il bambino viene al mondo con un bagaglio di emozioni fondamentali e distinte («Differenziale» = natura distintiva delle emozioni). Tale gamma comprende paura, rabbia, gioia, tristezza e sono facilmente individuate dalle espressioni facciali dei neonati. Si sviluppano seguendo un programma maturativo innato ed universale. Ogni emozione compare secondo specifiche tappe, in base al momento in cui sarà più funzionale all’adattamento all’ambiente (prospettiva evoluzionista). Per ogni emozione vi sono programmi neurali innati e, le espressioni emotive emergono insieme alla maturazione neurologica. Si ha una stretta relazione tra esperienza emotiva ed espressione facciale.Lo sviluppo cognitivo e la socializzazione non contribuiscono alla comparsa delle emozioni, ma intervengono nel corso dello sviluppo per far si che queste vengano espresse e gestite in modo adattivo. TEORIA DIFFERENZIALE (Izard, 1991) Nei primi 2 mesi di vita ci sono manifestazioni regolate da meccanismi fisiologici e riflessi (risposta alla variazione della stimolazione ambientale). Le espressioni corporee non sono ancora specifiche di determinate emozioni, spesso sono comuni a più sensazioni. Da 3 mesi le espressioni emotive diventano più articolate. Compaiono gioia, tristezza, rabbia, paura, sorpresa in reazione agli stimoli ambientali. Intorno ai 8-9 mesi si presenta la paura dell’estraneo. Tra 6 e gli 8 mesi infatti i bambini iniziano a discriminare tra persone familiari e persone non conosciute e reagiscono a queste ultime con comportamenti di evitamento, paura, pianto. La teoria dell’attaccamento interpreta la fase della paura dell’estraneo in senso biologico-adattivo, come risposta all’estraneità di un segnale di pericolo capace di favorire i comportamenti di vicinanza alla mamma utili per la sopravvivenza della specie (Bowlby). TEORIA della DIFFERENZIAZIONE (Sroufe, 1995) Le emozioni sono il risultato di un processo di differenziazione da uno stato iniziale di eccitazione. Nei primi 2 mesi di vita ci sono manifestazioni regolate da meccanismi fisiologici e riflessi (intensità stimolo - come per la teoria differenziale). A 3-4 mesi si osservano i precursori delle emozioni (elicitati dal tipo di stimolo conosciuto/sconosciuto – contenuto stimolo). A 6 mesi il bambino è in grado di valutare l’evento emotigeno e dargli significato (attribuzione significato). Gli stimoli si caratterizzano prima per intensità, poi per contenuto e infine (da 6 mesi in poi) dal significato che viene loro attribuito. Bridge (1932), sostiene che durante i primi tre mesi dallo stato di eccitazione si differenziano uno stato negativo di sconforto e uno positivo di piacere. Per Sroufe (2000), è fondamentale soffermarsi su come viene cognitivamente valutata l'eccitazione che genera le emozioni. Tre percorsi di differenziazione Sistema di piacere – gioia Sistema della circospezione – paura Sistema della frustrazione – rabbia Ad es., il neonato non è capace di provare rabbia, bensì una reazione generalizzata per stimoli che gli provocano malessere. Durante i primi 6 mesi di vita, questa reazione evolve in frustrazione, e solo dopo compare la rabbia vera e propria. Sviluppo emotivo subordinato a quello cognitivo (segue le tappe piagetiane; ogni emozione (gioia, paura, rabbia) emerge attraverso stadi paralleli a quelli relativi allo sviluppo dell’intelligenza senso- motoria e ha origine da un precursore (piacere, circospezione, frustrazione). Sistema del piacere-gioia 0 mesi/2 mesi: sorriso endogeno (risposta fisiologica indica stato di benessere); piacere (precursore) 3 mesi: sorriso sociale (risposta psicologica rivolto in maniera preferenziale) 4 mesi: gioia (emozione differenziata vera e propria) 8 mesi: elicitata dal significato che il bambino da all’evento (ripetizione di un gioco con il caregiver) 12 mesi: esultanza 18 mesi: affetto per se stesso 36 mesi: [orgoglio] emozione complessa Sistema della circospezione-paura 0-1 mese: trasalimento, dolore, attenzione forzata (pianto come segnalazione di malessere) 3 mesi: circospezione (reazione di disagio alla presenza di un estraneo - precursore) 6/8 mesi: paura dell’estraneo (emozione differenziata) 12 mesi: impazienza 18 mesi: vergogna (emozione complessa) 36 mesi: senso di colpa Sistema della frustrazione-rabbia 0 mesi: disagio da costrizione e sconforto 3-5 mesi: disappunto, frustrazione (precursore) 5-7 mesi: rabbia (emozione differenziata) 18 mesi: collera e opposizione VIII. 4 LE EMOZIONI SECONDARIE Le prime emozioni secondarie (sociali e autocoscienti) necessitano della consapevolezza di sé – il bambino inizia a pensarsi con caratteristiche categoriche e ad osservare il proprio comportamento da un punto di vista esterno (18 mesi). Rispetto alle emozioni primarie sono maggiormente influenzate dall’apprendimento, dal contesto, dalla cultura d’appartenenza. Non sono caratterizzate da pattern di attivazioni fisiologica specifici e distintivi. Presentano aspetti espressivi tipici. A 24 mesi, i bambini si autovalutano e riescono a vedersi dalla prospettiva di un adulto A 30 mesi, con l’avanzamento di abilità cognitive, emergono emozioni sempre più complesse (vergogna, senso di colpa, orgoglio e superbia). Emergono abilità sociali e cognitive complesse: riconosce la propria individualità, riconosce aspetti specifici del sé, considera la responsabilità personale nel determinare il comportamento e l’emozione che ne deriva, comprende il contesto, valuta se stesso e il proprio comportamento in base a norme e standard interiorizzati. Le emozioni secondarie continuano ad affinarsi durante gli anni prescolari e la fanciullezza. Diventano sempre più abili a distinguere le emozioni primarie dalle secondarie. Diventano sempre più abili a regolare le risposte in base al contesto. Sviluppano un maggiore senso di responsabilità Comprendono meglio le regole. A 5 anni compare la capacità di individuare e comprendere la propria responsabilità personale, il confronto con le norme e l’interiorizzazione del giudizio altrui (Harris, 1989). A 9 anni compare la capacità di utilizzare le etichette linguistiche adeguate per definire il proprio e l’altrui stato emotivo riferito alle emozioni secondarie (es. «senso di colpa»). Le emozioni secondarie continuano ad affinarsi durante gli anni prescolari e la fanciullezza. Diventano sempre più abili a distinguere le emozioni primarie dalle secondarie Diventano sempre più abili a regolare le risposte in base al contesto Sviluppano un maggiore senso di responsabilità Comprendono meglio le regole Ad esempio. Un bambino di 12 mesi può provare felicità se riesce a fare qualcosa, ma non avendo ancora consapevolezza di sé, non riesce a valutarsi come soggetto che ha successo e, quindi ad attribuirsi orgoglio. Vergogna Colpa Orgoglio Superbia Invidia Empatia Gelosia Oggi la psicologia riconosce il ruolo fondamentale delle emozioni in tutti gli aspetti della vita degli individui; nello specifico, la psicologia dello sviluppo e dell’educazione ha ampiamente dimostrato come le emozioni siano centrali tanto per lo sviluppo sociale che per quello cognitivo. Per tale motivo diventa importante promuovere precocemente la “competenze emotiva” che può essere definita come L’insieme delle capacità che consentono di riconoscere, comprendere e rispondere coerentemente alle emozioni altrui e regolare le proprie (Albanese et al. 2006). Insieme di abilità pratiche necessarie per l’autoefficacia dell’individuo specialmente nelle transazioni sociali che suscitano emozioni. Le risposte adattive alle emozioni sono connesse ad un fitto intreccio di abilità cognitive e sociali. Vediamo alcune condizioni importanti per lo sviluppo delle competenze emotive. Ruolo dell’ambiente sociale: genitori, contesto familiare allargato (fratelli/sorelle), pari. Ruolo del gioco libero (interazione tra pari ed espressione spontanea): dall’età di tre anni i bambini imparano ad accettare sconfitte, ad adattarsi alle regole, apprendono l’alternanza dei turni e lo scambio di ruoli. Ruolo del linguaggio: centrale in adolescenza, momento in cui l’individuo preferisce parlare delle situazioni sociali e delle proprie emozioni (condivisione emotiva e supporto all’interno del gruppo dei pari). Ruolo del contesto culturale: differenza tra campioni occidentali (stampo individualistico) e orientali (stampo collettivistico). Distinguere ed etichettare le emozioni che si provano, identificarne le cause, comunicarle agli altri, riconoscere la loro importanza nel fornire informazioni utili su se stessi e sulle relazioni con gli altri si può definire consapevolezza emotiva I bambini non imparano in modo automatico: in età prescolare confondono i segnali fisici con sintomi dolorosi o di malattia (Pennebaker, 1984) (es. si lamentano del mal di pancia, senza comprendere che ciò dipende da un evento che elicita l’emozione). I cargiver guidano i bambini nella comprensione del legame tra segnale fisico ed evento che elicita l’emozione. La consapevolezza/comprensione emotiva è un prerequisito per un’efficace comunicazione delle emozioni che tenga conto dei bisogni e dei desideri individuali, ma anche degli obiettivi sociali. Riconoscimento espressioni facciali Display rule (regole di esibizione): regolazione delle espressioni facciali per aderire alle richieste del contesto o per perseguire i propri obiettivi. Le emozioni possono essere nascoste, dissimulate (esprimendo un’emozione diversa) o mostrate in modo più o meno intenso. A 6 anni queste tecniche diventano consapevoli: i bambini comprendono la distinzione tra l’emozione che si comunica e quella che si prova, accettano la discrepanza in nome di convenzioni sociali condivise (Schaffer, 2004). Tra le emozioni morali la VERGOGNA e il SENSO DI COLPA. rappresentano le emozioni più pericolosa e dolorosa per lo sviluppo dell’autostima. Ad es. i genitori che rimproverano il figlio per caratteristiche personali piuttosto che per comportamenti contribuiscono ad elicitare vergogna, minare l’autostima dei bambini e inibire i comportamenti di riparazione. Olthof et al. (2000) ipotizzano che vergogna e senso di colpa emergono in funzione di determinati contesti e situazioni: Situazioni morali: viene trasgredita una regola o commesso un danno, ci si sente responsabili e quindi si prova senso di colpa. Situazioni non morali: situazioni in cui è presente solo l’aspetto dell’identità non voluta, emerge la vergogna. La vergogna regola il comportamento per renderlo appropriato al contesto (possibili risvolti maladattivi). Il senso di colpa spinge ad adottare comportamenti riparativi utili alla crescita di legami sociali. Queste due emozioni senza dubbio Come abbiamo detto dall’inizio, lo sviluppo sociale ed emotivo sono strettamente legati e la capacità comprendere, autoregolare, riconoscere e pensare alle proprie e altrui emozioni in modo sempre più complesso dipende dalle esperienze fin dalla nascita delle relazioni affettive con i cargiver. Il fenomeno del Social referring (referenza sociale) ne è un esempio concreto. Già a partire dagli 8 mesi circa l’infante fa riferimento all’espressione facciale ed emotiva della madre per orientare il proprio comportamento verso una persona, un oggetto. Prima dei 9- 10 mesi, il piccolo reagisce al contatto con oggetti o persone soltanto in base all’effetto che tali stimoli esercitano su di lui. La ricerca di riferimento sociale, invece, spinge il bambino a cercare i segnali della persona di riferimento prima di agire, in modo da essere aiutato a valutare la situazione, specie quando è ambigua o nuova. La capacità di comprendere le emozioni è mediata dai comportamenti empatici con i caregiver, che implicano processi di risonanza emotiva grazie ai quali il bambino sa provare le emozioni degli altri, inizialmente in forma ancora indifferenziata e non cognitiva, ma ben presto secondo modalità più perfezionate. A 14 mesi i bambini sono capaci di chiedere e dare conforto ai fratelli in difficoltà. Nel secondo anno di prevedere le reazioni emotive altrui traendone specifiche conseguenze. Verso la fine del secondo anno appare la capacità di fare finta, di comprendere il “come se” e di padroneggiare l’ambiguità delle espressioni emotive. Intorno ai 4 anni il bambino impara anche a modulare deliberatamente le proprie emozioni adeguandole alle circostanze sociali. Verso i 4-5 anni il bambino si rende conto che pensieri ed emozioni degli altri possono essere diverse dai propri, cosa che permette al bambino di prevedere le reazioni degli altri in funzione del contesto, con precisione sempre maggiore. Infine, un ultimo importante progresso è costituito dalla capacità di comprendere che possono essere provate diverse emozioni nello stesso tempo, oppure emozioni ambivalenti (di opposta natura), evoluzione che ha luogo verso i 7-8 anni. Questi processi sono strettamenti legati alla costruzione del legame di ATTACCAMENTO con la mamma che si costruisce nei primi due anni di età e la qualità del legame affettivo influenzerà lo sviluppo socio-emotivo successivo. Affrontiamo qui di seguito la teoria dell’attaccamento di John Bowlby. VIII.5. I LEGAMI AFFETTIVI: LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO DI JOHN BOWLBY John Bowlby (1907-1990) I lineamenti principali della teoria dell’attaccamento sono rintracciabili nei lavori di Bowlby. La teoria dell’attaccamento costituisce un importante punto di partenza per la comprensione dello sviluppo umano e della personalità. Appoggiandosi e rifacendosi alla psicoanalisi e all’etologia, Bowlby fu in grado di elaborare una teoria del tutto originale, da molti definita una teoria di tipo spaziale. Essa infatti prevede che un soggetto si senta bene quando si trova vicino a chi ama, e si senta invece ansioso, triste e solo quando si trova lontano dai propri oggetti d’amore. Per l’autore, l’attaccamento è una motivazione intrinseca biologica specie-specifica dell’uomo. E’ un modello che viene da lui denominato EPIGENETICO, proprio perché esso prevede che per ogni individuo siano possibili più linee di sviluppo, il cui risultato finale dipende dall’interazione dell’organismo con il proprio ambiente. La teoria BOWLBY è strettamente legata alle teorie biologiche ed ecologiche come alla teoria evoluzionistica e fa riferimento agli studi di Konrad Lorenz sull’imprinting Nelle specie animali esiste un periodo critico in cui i piccoli apprendono e memorizzano le caratteristiche della figura allevante. Oche: “prontezza” del piccolo a seguire il primo oggetto in movimento (nelle prime 48h di vita) con l’obiettivo di mantenere la prossimità con la propria madre, che assicura la sopravvivenza. Secondo Lorenz: la prima figura in movimento vista dagli anatroccoli viene seguita dagli stess, i quali ignorano la madre vera. Riprendendo il discorso dell’attaccamento come motivazione biologica intrinseca, Harry Harlow (1905-1981) aveva osservato in laboratorio che delle scimmiette appena nate passavano il tempo necessario per prendere il latte da un poppatoio su una “madre” di ferro, mentre manifestavano un comportamento di attaccamento per una “madre” sempre di ferro ma ricoperta di pezza e dunque più morbida. Se nella gabbia veniva introdotto qualche oggetto minaccioso che spaventava la scimmietta, essa correva subito a rassicurarsi sulla madre di pezza e non sulla madre di ferro da cui prima aveva ricevuto nutrimento. In situazioni di pericolo la scimmia va ad abbracciare la mamma “morbita” Se il comportamento è manifesto, misurabile e rilevabile attraverso la sola osservazione, il legame è ciò che unisce profondamente e strettamente due persone. Esso è dunque riservato solo a pochissimi individui. Il comportamento di attaccamento si costruisce mediante continue tipologie di esperienze relazionali che si maturano primariamente nei primi due anni di vita, generalmente la mamma. Secondo Bowlby non esiste un’antitesi tra innato ed acquisito. Ogni carattere è il prodotto dell’interazione tra il patrimonio genetico e l’ambiente. Queste componenti assolvono la funzione di legare il bambino alla propria madre e contribuire alla reciproca dinamica di legare la madre al proprio bambino. Secondo Bowlby esistono cinque pattern di comportamento della specie umana che permettono di instaurare un attaccamento: 1. Succhiare 2. Aggrapparsi 3. Seguire- Mantenere la madre vicina visivamente e acusticamente. 4. Sorridere 5. Piangere. Questi pattern comportamentali utilizzati dal bambino mirano ad attivare il comportamento materno di vicinanza a una figura preferita e a strutturare l’effetto “base sicura” (l’atmosfera creata dalla figura di attaccamento per la persona che le si attacca). L’essenza della base sicura è che essa permette di potenziare la curiosità, le capacità di esplorazione dell’ambiente da parte del bambino. Un altro aspetto legato all’attaccamento è proprio la protesta per la separazione. La protesta come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dai genitori. Pianto, urla, morsi, calci sono reazioni normali ed hanno la doppia funzione di riparare il legame di attaccamento la cui rottura è minacciata dalla separazione, e di allertare chi si cura del bambino per evitare ulteriori separazioni Una interessante caratteristica dei legami di attaccamento è la loro resistenza. Il caregiver, come già accennato, è la figura di riferimento del bambino. Si configura come una base sicurada cui potersi allontanare per esplorare il mondo e a cui poter far ritorno in situazioni di pericolo. È la figura che si occupa in primo luogo dei bisogni fisiologici del bambino, in primis l’alimentazione, e per questo motivo è solitamente la madre. Provvede a mantenimento dell’omeostasi del bambino che, nelle prime fasi della vita, non è in grado di occuparsi da solo delle proprie necessità, affettive e fisiche. L’allontanamento dal caregiver è associato ad emozioni negative che svolgono una funzione adattiva: mantenere la vicinanza permette protezione e, quindi, la sopravvivenza. Il bambino che sperimenta le prime separazioni dal caregiver tendenzialmente piange, prova ansia e tristezza, alle volte anche rabbia. È una reazione normale e comprensibile durante il distacco dalla figura i riferimento. Lo sviluppo del legame di attaccamento è caratterizzato da 4 FASI individuate da BOLWBY. Normalmente queste tappe si notano in modo speciale nella relazione tra madre e figlio, anche se questo tipo di vincolo affettivo può nascere tra il bambino e il caregiver principale.Vediamo dunque l’evoluzione di questo vincolo secondo la teoria delle fasi dell’attaccamento di Bowlby. FASE 1. Comportamenti di segnalazione e di avvicinamento 0-2 mesi: il bambino mette in atto comportamento di attaccamento generici e non intenzionali. In parte è ancora troppo piccolo per riconoscere le sue figure di riferimento, ma soprattutto si comporta in modo egocentrico perché è guidato dall’istinto di sopravvivenza. Questa fase avviene nelle prime sei settimane di vita del bambino. Il piccolo accetta facilmente, in linea generale, qualsiasi essere umano che gli offra conforto e cure. Vale a dire,non mostra preferenza per nessuna persona in particolare. FASE 2. Orientamento verso le figure familiari 2-6 mesi: nei mesi successivi il bambino comincia a discriminare le persone che si occupano dei suoi bisogni da tutti gli altri con cui entra in contatto. Inizia ad emergere il rapporto privilegiato con il caregiver principale. FASE 3. Segnali di mantenimento della vicinanza 6-18 mesi: il legame di vicinanza al caregiver si struttura sempre più e compaiono le proteste e l’ansia alla separazione o paura dell’estraneo. Intorno all’anno si considera già formato il legame di attaccamento vero e proprio: il bambino ha acquisito le necessarie abilità motorie per esplorare il mondo e si appoggia al caregiver dando inizio al processo di separazione- individuazione. In questo periodo, quindi, preferisce la figura materna e piange se ad esempio è messo in braccio da uno sconosciuto. FASE IV. 18 mesi: questa fase è particolarmente significativa in quando la relazione bambino-genitore diventa bidirezionale. Se fino ad ora era solo il caregiver a provvedere ai bisogni del bambino, adesso inizia anche lui ad accorgersi di quelli del genitore. Inoltre si sviluppa una relazione basata sul set-goal (scopo programmato), che consiste nel perseguimento di scopi e obiettivi regolati da un sistema comportamentale di controllo (come un termostato) rispetto agliinput ambientali. VIII. 6. “STRANGE SITUATION” E STILI DI ATTACCAMENTO Mary Ainswart, allieva di Bowlby, ha proseguito gli studi sull’argomento, strutturando i diversi stili di attaccamento che si potevano instaurare tra madre e bambino durante il secondo anno di vita. Nel 1973 ideòuna procedura osservativa standardizzata denominata “Strange Situation“. Come suggerisce il nome, la Strange Situation è un contesto strutturato (come un piccolo esperimento in laboratorio) e non naturale, nel quale vengono simulate situazioni di separazione e ricongiungimento tra bambino e caregiver. Ha lo scopo di indagare le dinamiche nella relazione di attaccamento, mettendo in luce lo stile specifico che ilcaregiver di riferimento ha strutturato con il proprio bambino. La modalità i cui il bambino reagisce a livello e motivo e comportamentale e- parallelamente come si comporta la mamma - durante momenti di esplorazione, separazione e ricongiungimento, infatti, permette di ricostruire lo specifico stile di attaccamento che il bambino ha maturato durante i primi 18-24 mesi, che rappresentano il periodo sensibile di sviluppo delle modalità relazionali prevalenti.Un altro concetto fondamentale legato allo stile di attaccamento strutturato sono i MODELLI OPERATIVO-INTERNO (INTERNAL WORKING MODELS, MOI), che posono essere definite come delle vere e proprie rappresentazioni mentali strutturate nel tempo che hanno la funzione di indirizzare il bambino, già dai 24 mesi, nell’interpretazione delle informazioni del mondo esterno e quindi di guidare il comportamento conseguente. Sono rappresentazioni mnestiche che derivano dalla memoria episodica e dalla memoria semantica delle immagini che il soggetto ha costruito dei genitori e di se stesso. Bowlby sottolinea come le esperienze realmente sperimentate nei primi 2 anni di età con la figura di attaccamento determinano non solo uno stile relazionale ma anche un certo tipo di struttura cognitiva di base che orienterà in modo specifico le relazioni sociali future e l’adattamento del bambino all’ambiente nella vita quotidiana. Un buon legame di attaccamento genera una rappresentazione di sé positiva: degno di amore e idea che le proprie esigenze di conforto hanno valore, mentre esprienze di interazione con il caregiver nei primi anni vita per lo più disfunzionali determinano una rappresentazione di sé non meritevole di amore e attenzione. Vediamo quali sono nello specifico gli stili di attaccamento individuti da Mary Ainswart e le caratteristiche della procedura della Strange situation. Attraverso trenta minuti circa di osservazione in cui si trovano in una stanza il bambino, la mamma ed un estraneo, si possono osservare i diversi comportamenti e le reazioni emotive del bambino in presenza della madre, al momento della separazione da questa ed in compagnia di un estraneo. Lo stile di attaccamento che un bambino svilupperà dalla nascita in poi dipende in grande misura dal modo in cui i genitori, o altre figure parentali, lo trattano.La Strange Situation si compone di otto episodi dalla durata di 2/3 minuti ciascuno, per un totale di 30 minuti di osservazione. L’obiettivo che si prefigge è quello di sollecitare il sistema di attaccamento infantile, cioè sottoporre il bambino a una condizione di stress moderato ma crescente nel tempo. Significativa è la presenza di una figura estranea, invitata a prendere parte all’esperimento a partire dal terzo episodio, al fine di osservare anche la relazione con l’estraneo in presenza e in assenza del caregiver. Gli otto episodi sono i seguenti: 1° episodio: il bambino e il genitore vengono collocati in una stanza, in cui ci sono una sedia e dei giocattoli; il caregiver colloca il piccolo a terra, consentendogli di orientarsi nello spazio attorno a lui. 2° episodio: il bambino comincia a prendere confidenza con l’ambiente circostante, ad adattarsi, ed eventualmente esplorarlo. Madre e bambino possono interagire o giocare assieme. 3° episodio: il terzo episodio è significativo perché comincia la procedura sperimentale, dal momento che entra l’estranea; l’estranea interagisce con la figura di attaccamento e cerca poi di entrare in contatto col bambino. Lo scopo dell’osservazione sperimentale è valutare la reazione del bambino alla presenza dell’estraneo, il modo in cui utilizza il caregiver per valutare la situazione e se e come si lascia coinvolgere nell’interazione. 4° episodio: il caregiver abbandona la stanza, separandosi dal bambino, che resta da solo con la figura estranea. Viene osservata la reazione del bambino alla presenza di potenziale disagio. 5° episodio: il bambino si ricongiunge con la figura di attaccamento, mentre l’estranea lascia la stanza, e viene valutato il modo in cui il bambino si relaziona con il genitore al momento del ricongiungimento. 6° episodio: il caregiver lascia di nuovo la stanza e il bambino resta da solo. 7° episodio: l’estranea torna nella stanza; in questa fase della Strange Situation Procedure si indaga se e come il bambino utilizza l’estranea come figura affettiva sostitutiva. 8° episodio: termina la procedura; il caregiver ricompare fermandosi sulla porta e aspettando che il bambino reagisca alla sua presenza. Alcune variabili osservate durante la procedura sperimentale sono il tipo di risposta che il bambino mette in atto in presenza dell’estraneo, la reazione alla separazione e al ricongiungimento con il caregiver, la qualità del gioco e dell’esplorazione, e la funzione di base sicura che il caregiver svolge per il bambino, cioè l’equilibrio tra desiderio di vicinanza e desiderio di esplorazione. Sulla base di questa indagine osservazionale, Mary Ainsworth definì e descrisse gli stili di attaccamento infantile: -Attaccamento di tipo B – Sicuro; -Attaccamento di tipo A – Insicuro/Evitante -Attaccamento di tipo C – Insicuro/Ambivalente o Ansioso-resistente -Attaccamento di tipo D – Disorganizzato (aggiunto in seguito assieme al contributo di Mary Main). ATTACCAMENTO SICURO (B.) Nella Strange Situation manifesta un chiaro desiderio di contatto fisico e di interazione verso la figura di attaccamento. Figura presente: il bambino appare relativamente autonomo nell’esplorazione dell’ambiente e tende a ricercare in modo attivo la partecipazione dell’adulto. Separazione: può mostrare segni di stress o di disagio in relazione all’assenza della figura di attaccamento e non al fatto di essere stato lasciato solo. Ricongiungimento: chiari segnali di attaccamento nei confronti del genitore, lo “saluta”, ricerca la sua vicinanza o l’interazione, oppure, se è a disagio, richiede contatto fisico e consolazione. Quando ottiene contatto fisico o vicinanza, mette in atto comportamenti che tendono a preservarli. Il bambino Sicuro manifesta in modo chiaro e aperto i propri bisogni psicologici di conforto e di protezione (quindi non manifesta esitamento o resistenze verso il genitore) e quando ottiene contatto fisico e consolazione dal genitore si dimostra appagato, si lascia consolare e riprende l’esplorazione. Il genitore rappresenta per il piccolo una base sicura, un “porto” sicuro, presso il quale rifugiarsi e trovare protezione, ma dal quale potersi allontanare fiduciosamente per esplorare il mondo circostante. Vi è un corretto bilanciamento fra esplorazione dell’ambiente e attaccamento nei confronti del genitore. ATTACCAMENTO INSICURO EVITANTE (A) Nella Strange Situation, mostra un notevole esitamento del genitore, in particolare negli episodi di riunione. Figura presente: bambini particolarmente autonomi e indipendenti, maggiormente centrati sull’esplorazione dell’ambiente e sui giocattoli che sulla presenza dell’adulto di riferimento. Separazioni: minori segni di disagio e di ricerca nei confronti del genitore Ricongiungimento: sembrano ignorare o dare poco rilievo al ritorno dell’adulto, ad esempio salutandolo distrattamente oppure mostrandosi assorti e intenti nelle proprie attività di gioco: essi quindi tendono a minimizzare le proprie reazioni affettive. In senso più generale nei bambini con attaccamento Insicuro Evitante il bilanciamento tra esplorazione dell’ambiente e attaccamento nei confronti del genitore è spostato in favore della prima: il loro comportamento enfatizza gli aspetti di indipendenza, autonomia e autosufficienza affettiva nei confronti della figura di riferimento. Il genitore non rappresenta una vera e propria base sicura per loro e per questo essi tendono a non fare riferimento a lui quando si sentono moderatamente spaventati e tendono a inibire la manifestazione dei propri bisogni psicologici di confronto e protezione rispetto alla figura di attaccamento. ATTACCAMENTO INSICURO AMBIVALENTE (C) Nella Strange Situation manifestano un marcato attaccamento nei confronti del genitore, nel senso che tendono a essere maggiormente centrati sulla relazione con l’adulto che sull’esplorazione dell’ambiente circostante e ciò diviene sempre più evidente con il trascorrere della procedura. Figura presente: minore capacità di esplorare l’ambiente in modo autonomo e di interagire con la figura estranea Separazione: notevole disagio durante, accompagnato anche da una minore capacità di recupero nei momenti di ricongiungimento. Ricongiungimento: non sembra sufficiente a consolarli, come se la presenza della figura di attaccamento non fosse in grado di ristabilire il loro senso di sicurezza. Accanto alla tendenza a non consolarsi con il genitore, questi bambini manifestano comportamenti ambivalenti nei suoi riguardi. Nei bambini Ambivalenti, il bilanciamento tra esplorazione e attaccamento è in disequilibrio a favore del secondo. Il genitore non rappresenta una base sicura e i bambini appaiono dipendenti e centrati sul genitore, con pochi aspetti di autonomia, e con la tendenza a mettere in atto forti manifestazioni di attaccamento, caratterizzate da sentimenti di rabbia o da passività, che non si placano anche quando il loro fine (ottenere la presenza della figura di attaccamento) viene raggiunto. ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO (D). Main, Kaplan e Cassidy alla fine degli anni ‘80 sono riuscite ad isolare e descrivere ulteriori tipi comportamenti caratteristici dei bambini, che prima non erano classificabili, e che testimonierebbero la mancanza o l’insussistenza di una strategia organizzata di comportamento, da cui deriva il termine di “disorganizzato”. Caratteristiche complessive più evidenti: contraddittorietà di alcuni movimenti osservati, che fanno dedurre a una sottostante contraddittorietà nelle intenzioni o nei piani comportamentali del bambino (disorganizzazione) e/o la sensazione che il piccolo abbia una perdita di orientamento nell’ambiente circostante (disorientamento); atteggiamenti visibilmente impauriti e rigidi sia a livello corporeo sia per ciò che concerne l’espressione del viso. Nel complesso, il bambino con attaccamento insicuro Disorganizzato/Disorientato ha un comportamento apparentemente simile a quello dei bambini Sicuri, Evitanti o Ambivalenti, ma in alcuni momenti sembra privo di una strategia coerente nella relazione con il genitore. Quali sono stati i comportamenti prevalenti del caregiver nei bambini che sviluppano successivamente uno specifo stile disfunzionale piuttosto che un altro? Quali i Modelli operativi interni (MOI) che si vengono a strutturare durante il secondo anno di vita? I comportamenti disorganizzati o disorientati si verificano solamente quando il genitore è presente e, soprattutto, nei momenti di riunione dopo la separazione, come se non si trattasse di una caratteristica del bambino, ma di un tratto definitorio della relazione. Questo stile è legato purtroppo a storie di abuso/maltrattamento da parte del genitore, il quale diventa fonte di contraddizione e paura per il bambino, invece di essere una figura a cui riferirsi.Il bambino così si costruisce una rappresentazione del caregiver come una figura negativa, pericolosa, spesso abusante e persecutrice, della quale si sente vittima, ma al tempo stesso il caregiver rappresenta la sua salvezza, la sua fonte di protezione, il suo rifugio affettivo. Per il MOI, ne deriva una frammentazione delle rappresentazioni di sé con l’altro (o compartimentazione) e una percezione della realtà distorta e disgregata. Bambini con attaccamento evitante: hanno raccolto svariati rifiuti delle loro manifestazioni emotive, in particolare delle emozioni negative verso le quali le madri sono meno reattive. Di conseguenza tali bambini nascondono la sofferenza per paura del rifiuto o del rimprovero. Idem per quelle positive a cui molto spesso non c’è risposta da parte della madre.Il caregiver è una figura incapace di sintonizzarsi con gli stati affettivi del bambino, ora presente ora assente, a seconda dei propri bisogni e manifesta un comportamento incoerente, imprevedibile. Ciò si riflette anche nella rappresentazione mentale (MOI) che il bambino si costruisce di sé e del mondo: non crede di meritare stima e amore dagli altri, che gli appaiono parimenti imprevedibili nei comportamenti. Bambini con attaccamento ansioso ambivalente: hanno raccolto manifestazioni incoerenti e incostanti quando esprimevano le loro emozioni. Di conseguenza sviluppano reazioni emotive esagerate soprattutto per il dolore e la rabbia, nel tentativo disperato di attirare l’attenzione. Di fronte a situazioni di disagio la madre ha risposto in modo ambivalente e variabile per cui il bambio non è in grado di operare aspettative coerenti del comportamento della mamma in diverse situazioni.Il caregiver è una figura incapace di sintonizzarsi con gli stati affettivi del bambino, ora presente ora assente, a seconda dei propri bisogni e manifesta un comportamento incoerente, imprevedibile. Ciò si riflette anche nella rappresentazione mentale (MOI) che il bambino si costruisce di sé e del mondo: non crede di meritare stima e amore dagli altri, che gli appaiono parimenti imprevedibili nei comportamenti. Inserendo la teoria dell’attaccamentoin in una prospettiva più recente multifattoriale e complessa possiamo sicuramente affermare che le esperienze affettivo-relazionali nei primi 3 anni di età rappresentano un fattore significativo per il benesse psicofisico dell’individuo rispetto alla capacità di metere in atto legami relazionali funzionali, manon dobbiamoipotizzare ad una relazione stretta di causa ed effetto. Studi più recenti hanno dimostrato che, anche le esperienze affettive positive successive ai 3 anni di vita, possono diventare fattori protettivi che permettono di modificare in qualche modo i modelli operativi interni struttuati neli primi anni. Inoltre,si deve considerare che il bambino struttura diverse relazioni affettive e non solo con la figura materna o un caregiver principale. Ad esempio, i legami affettivi paralleli con il padre o i nonni hanno un ruolo determinante nella strutturazione ed evoluzione successiva dello stile di attaccamento. VIII. 6 LA MORALITA’: UN ASPETTO DELLO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO Per sviluppo morale del bambino intendiamo il giudizio morale che il comportamento morale ed è un aspetto motoimortante che si sviluppa parallelamente allo sviluppo affettivo-emotivo che rientra tra i processi di socializzazione, investe anche problemi che riguardano dimensioni più interne del funzionamento della persona, e in particolare le interazioni tra affetti, esperienza sociale e processi cognitivi che portano alla coscienza moral individuale. Le principali teorie sullo sviluppo della moralità sono quelle di Piaget e di Kohlberg, che si collocano nell’ampia prospettiva cognitivo-evolutiva e all’interno della teoria stadiale. Secondo Piaget i bambini cominciano con lo sviluppo di una morale basata sulla stretta aderenza alle regole, per cui ad un’azione errata segue automaticamente una punizione, e successivamente, attraverso l’interazione con altri bambini e losviluppo emotivo, scoprono che un comportamento strettamente aderente alle regole può talvolta essere problematico. Quindi, sviluppano uno stadio autonomo di pensiero morale caratterizzato dalla capacità di interpretare le regole criticamente e selettivamente basandosi sul mutuo rispetto e sulla cooperazione. Piaget individua due forme di moralità: il REALISMO MORALE e il RELATIVISMO MORALE. Il realismo morale, prevalente fino agli otto anni, è caratterizzato da una prospettiva egocentrica del mondo e con il predominare di un modo di pensare “realistico”: la validità dei principi, rigidi e immutabili, è determinata dall’autorità di chi li ha emanati ( es. i genitori, la maestra), e dalla capacità di questi ultimi di far rispettare tali principi con adeguate sanzioni in caso si trasgressione. In questa prospettiva i comportamenti sono giudicati o giusti o sbagliati, e i bambini ritengono che tutti debbano giudicarli in questo modo. Successivamente nello sviluppo, nella forma del relativismo morale, descritta anche come morale dell’autonomia, l’intenzione e il contesto assumono un ruolo importante nella valutazione dell’atto. Questa forma di moralità tende a prevalere dopo gli otto anni. I principi non sono più considerati immutabili, ma fondati e mantenuti dal consenso reciproco, e quindi modificabili in rapporto a situazioni e contesti diversi. Per esempio, nei bambini in cui prevale il realismo morale la bugia è considerata ‘cattiva’ perché può comportare una punizione. Successivamente, per quegli stessi bambini la bugia diventa qualcosa di cattivo di per sé, anche se le punizioni venissero soppresse. Infine, è considerata negativa perché danneggia la fiducia reciproca, quindi la regola è stata internalizzata. Da quanto detto prevale un senso di giustizia derivante dal passaggio da una morale eteronoma ad una morale autonoma. Una vita sociale che favorisce i suoi bisogni di cooperazione, questo promuoverà una morale fondata sulla reciprocità e non sull’obbedienza. Nello specifico Piaget approfondisce il concetto di giustizia e sanzione evidenziando ch il concetto di EQUITA’ può essere raggiunto solo intorno ai 12 anni quando il fanciullo ha raggiunto un pensieroipotetico deduttivo e può esprimere un giudizio sulla trasgressione e sulla sanzione tenendo conto degli elementi del contesto. La pena materiale diventa secondaria rispetto al significato della trasgressione come atto che rompe un legame sociale. Luigi ha 3 anni e aiuta con entusiasmo la madre a preparare la tavola… «sono proprio bravo» commenta ad alta voce soddisfatto…poco dopo inciampa e un piatto si rompe…. Luigi scoppia in un pianto dirotto rifugiandosi tra le braccia della madre. La norma assume quindi un significato affettivo-emotivo nella misura in cui contiene una qualsiasi indicazione su come l’individuo si sente (o dovrebbe sentirsi) nei casi in cui rispetta (orgoglio, soddisfazione, autostima) o viola la norma (colpa, imbarazzo, vergogna).

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