L'Abbraccio Che Crea - Libro Completo PDF

Summary

Questo libro esplora l'importanza delle relazioni nello sviluppo psicologico, dal bambino all'adulto. Basato sulla teoria dell'attaccamento, l'autore evidenzia il ruolo dei caregiver nella formazione della personalità e dell'assetto cognitivo ed emotivo. Il testo include anche un'analisi della vita prenatale e della Kangaroo Mother Care.

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L’ABBRACCIO CHE CREA - LIBRO COMPLETO PRESENTAZIONE Il libro che ho il piacere di presentare parla dell'importanza della relazione nello sviluppo psicologico e del ruolo dei caregiver nel favorire processi di base che influenzano la formazione della personalità e dell'assetto cognitivo ed emotivo da...

L’ABBRACCIO CHE CREA - LIBRO COMPLETO PRESENTAZIONE Il libro che ho il piacere di presentare parla dell'importanza della relazione nello sviluppo psicologico e del ruolo dei caregiver nel favorire processi di base che influenzano la formazione della personalità e dell'assetto cognitivo ed emotivo dal bambino all'adulto. Il modello principale di riferimento è quello dell'attaccamento, sistema complesso e biologicamente pre-programmato, che favorisce l'adattamento mediante l'acquisizione e il rafforzamento del senso di sicurezza. Questo serve sia a proteggere dai pericoli che ad acquisire nuove informazioni esplorando l'ambiente in un clima di calore affettivo. L'internalizzazione dell'esperienza d'attaccamento consente la formazione di schemi cognitivi e modelli operativi basati sulle rappresentazioni mentali che si sviluppano dalla prima infanzia fino all'età adulta. Quanto più questi modelli saranno flessibili e aperti, tanto più saranno produttivi e creativi: un attaccamento sicuro consente di integrare informazioni anche contraddittorie e potenzialmente perturbanti, evitando rigidi schemi difensivi contro l'ansia che risultano inibitori o distorsivi della realtà complessa cui nello sviluppo si deve far fronte. Si sviluppa così una "narrativa di sé" fatta di pensieri ed emozioni coe-renti, capacità di auto- osservazione e adattamento attivo. Un intervento psicologico ed educativo centrato sulle relazioni di attaccamento aumenta la consapevolezza di sé, evita distorsioni cognitive, automatismi e generalizzazione di schemi mentali e comportamentali ripetiti-vi, consente la positiva sperimentazione della diversità e lo sviluppo di forme creative di relazione col mondo. In questo senso, quello che Elena Commodari definisce "abbraccio" dei caregiver - primari come i genitori e secondari come gli insegnanti - favorendo un attaccamento sicuro è fonte di flessibilità cognitiva ed emotiva e quindi di creatività. Il libro si chiude con un flashback sulla vita prenatale e presenta una terapia intensiva nel nato pretermine focalizzando l'esperienza della Kangaroo Mother Care. Gli spunti per l'intervento su tematiche importanti connesse all'attacca-mento, come l'adozione e i problemi psicologici legati ai disturbi del neu-ro-sviluppo, rendono il libro utile per gli psicologi e gli educatori, sia già professionisti che in formazione, ma anche per i genitori che costruiscono col loro atteggiamento e con i loro modelli mentali la mente e i comportamenti dei loro figli, evitando chiusure difensive o disorganizzazioni dell'assetto psicologico, e invece orientandoli alla apertura e alla creatività. Santo Di Nuovo INTRODUZIONE Questo volume si propone di indagare alcuni aspetti dello sviluppo socio-cognitivo attraverso una prospettiva teorico-applicativa che mette in luce l'assoluta indissolubilità dei processi emozionali e cognitivi che, nell'abbraccio creativo della relazione, si intersecano in maniera inscindibile già a partire dalla vita intrauterina, dando vita a quella magnifica opera che è la persona come essere sensiente, pensante e capace di amare se stesso e gli altri. Il testo vuole approfondire alcuni temi classici della psicologia dello sviluppo, a partire da una delle più famose teorie dello sviluppo sociale, la teoria dell'attaccamento, con incursioni nella teoria piagetiana, enfatizzando le relazioni tra attaccamento e meccanismi cognitivi sottostanti, i quali saranno descritti e analizzati non in sezioni a sé stanti ed esaustive, come spesso viene fatto nei volumi di psicologia, ma come digressioni concettua-li, utilizzando una prospettiva integrata. Sulla base delle recenti evidenze scientifiche che sottolineano il ruolo fondamentale della vita intrauterina come momento primario di sviluppo, una sezione a sé stante affronta la tematica della gravidanza, come fase della vita in cui il bambino "in costruzione" stabilisce la prima forma di interazione con il mondo esterno. Il volume può essere uno strumento utile a tutti coloro che, avendo già conoscenze basiche di psicologia dello sviluppo, ne vogliano approfondire alcune tematiche, attraverso un approccio integrato in cui i linguaggi propri della disciplina si intersecano con quelli tipici della psicologia sociale, della psicologia clinica e della psicologia cognitiva, in un interscambio che mette in luce la complessità e ricchezza del bambino nel suo percorso di crescita psicologica. PARTE PRIMA L’ABBRACCIO CHE CREA 1.L’INTERAZIONE PRECOCE MADRE-BAMBINO E IL RUOLO DELLA RELAZIONE NELLO SVILUPPO PSICOLOGICO La mamma veglia, calma nel sorriso, presso il lettuccio dove la bimba dorme. Hanno nel sonno le infantili forme una soavità di paradiso... (Ada Negri) 1. L'interazione precoce madre-bambino Il bambino si trova immerso, sin dal momento del concepimento, in un mondo sociale e socializzato. Già nel grembo materno è, infatti, in grado di reagire a molte sollecitazioni che provengono sia dall'ambiente intrauterino che dall'ambiente esterno, seppure queste ultime siano "filtrate" dal corpo della madre. Lo sviluppo sociale inizia, quindi, in epoche di sviluppo estremamente precoci e già nel corso delle prime settimane di vita il comportamento del bambino appare contraddistinto da aspetti di bi-direzionalità e coordinazione rispetto alle condotte materne, che mostrano come egli sia "naturalmente" predisposto all'interazione con l'altro. Una delle prime evidenze di tale predisposizione allo scambio interattivo può essere facilmente osservata nell'organizzazione di quella che è l'attività principale che il neonato svolge, cioè la suzione. Numerose ricerche svolte negli anni '80 del secolo scorso (Kaye, 1982; Kaye e Fogel, 1980) hanno messo in evidenza, infatti, come la suzione sia organizzata precocemente secondo un modello di alternanza di attività-pausa che costituisce una sorta di proto-comunicazione tra il bambino e la madre. Chiunque abbia osservato un neonato mentre viene allattato al seno o attraverso il biberon, avrà di certo notato che il bambino non succhia in maniera continua durante tutto il pasto ma fa delle pause più o meno lunghe. E proprio intorno a tali pause che si organizzano le prime forme di interazione coordinata. Quando il bambino succhia, la madre tende a rimanere pas- siva, permettendo al bambino di nutrirsi, mentre quando quest'ultimo smette di succhiare, la madre, attraverso le sue parole e i suoi gesti, avvia attività di stimolazione e contatto attivo. A sua volta, il neonato ben presto "impara" a riprendere la suzione non appena la madre smette di parlare o giocare con lui, con un'alternanza reciproca tra attivita e pause che ricorda molto l'alternanza in turni caratteristica degli scambi comunicativi. Quest'alternanza diventa sempre più armoniosa, tanto che ad appena quindici giorni di vita il bambino mostra di avere pienamente acquisito la regola dei turni, imparando ad "aspettare" che la madre abbia terminato il suo turno di attività prima di riprendere la suzione. Allo stesso modo, la madre, altrettanto rapidamente, diventa in grado di adattare ai ritmi del figlio la durata delle sue interazioni attive. Anche le attività simultanee, come quelle caratterizzate dall'interazione faccia a faccia tra madre e bambino, presentano forme sofisticate di coordinazione proto-comunicativa. Un esempio è dato dalla co-orientazione visiva, fenomeno che viene considerato il più precoce precursore della referenza linguistica. La co-orientazione visiva si manifesta attraverso il contemporaneo guardare uno stesso oggetto da parte di caregiver e bambino. Il guardare nella stessa direzione è il risultato di una focalizzazione attentiva comune che permette a ciascuno dei due partecipanti all'interazione, cioè neonato e adulto, di inserirsi l'uno nella traiettoria mentale dell'altro. La co-orienta-zione degli sguardi è quindi una delle prime modalità con cui l'adulto stabilisce una condivisione della realtà con il bambino, cioè una referenza con-giunta. Tale condivisione viene favorita anche dal comportamento verbale dell'adulto che, oltre a volgere lo sguardo nella stessa direzione del bambi-no, spesso nomina l'oggetto cui lo sguardo è rivolto, costruendo così una vera e propria proto-conversazione. Gli studi sulle prime forme di interazione tra il neonato e l'adulto mettono in luce, quindi, come il contesto sociale costituisca il substrato fondamentale dello sviluppo psicologico. Attraverso l'interazione faccia a faccia con l'adulto, il bambino apprende quei pattern relazionali che gli consentono di entrare in un rapporto cooperativo con gli altri membri della propria specie e che sono il fondamento della progressiva acquisizione degli schemi senso- motori e del linguaggio (Ugazio, 1997). La possibilità di realizzare precocemente modalità di interazione reciprocamente adattate e coordinate sembra essere resa possibile dalla presenza, nel bambino, di una predisposizione "congenita" al rapporto con l'altro e dalla concomitante capacità dell'adulto ad adattarsi ai ritmi e ai bisogni del bambino stesso. La sensibilità della madre ai "segnali" prodotti dal bambino è es-senziale, infatti, per lo strutturarsi dei legami di attaccamento, che giocano un ruolo centrale nello sviluppo sociale, emozionale e cognitivo. Benché la teoria dell'attaccamento, elaborata da John Bowlby (1969, 1973, 1980) e sviluppata da Mary Ainsworth (1967; 1978; Ainsworth M.D.S. e Ainsworth L.H., 1958), si sia oggi evoluta rispetto alla sua formulazione originaria, il ruolo dell'attaccamento sullo sviluppo emozionale, cognitivo e sociale è riconosciuto in modo condiviso in ambito scientifico. Sempre più rilevanza viene attribuita, infatti, alla qualità della relazione tra il bambino e i suoi caregiver, come variabile fondamentale per l'adattamento sociale e il benessere psicologico. 2. Un legame speciale: l'attaccamento L'attaccamento è il legame emozionale che si instaura tra un bambino e il suo caregiver, cioè la persona che si prende cura di lui. Sebbene nelle prime teorizzazioni la teoria dell'attaccamento ponesse l'accento sulla relazione privilegiata tra il bambino e la figura materna, con il termine caregi-ver oggi si fa riferimento non solo alla madre ma a tutte le figure che si prendono cura del bambino in maniera stabile e continuativa e che instaurano con lui una relazione significativa (nonni, baby-sitter, insegnanti). Per tale motivo, si tende a differenziare i caregiver primari, cioè i genitori o le figure che accudiscono il bambino in maniera stabile e continuativa già dai primi mesi di vita, e quelli secondari, come gli insegnanti o altre figure con cui il bambino trascorre molto tempo nel corso della sua giornata. La formazione di un legame di attaccamento tra il bambino e il suo ca-regiver è un evento assolutamente normale e atteso. Tutti i bambini stabiliscono legami di attaccamento con le persone che si prendono cura di loro, anche quando non ricevono cure adeguate. Tali legami possono pertanto assumere peculiarità qualitative molto diverse, in relazione alle caratteristiche del bambino, dell'adulto che lo accudisce, nonché delle modalità di cura. 3. La base sicura e le tipologie di attaccamento Secondo la teoria dell'attaccamento, i bambini usano le figure di attaccamento come una base sicura, a partire dalla quale muoversi per esplorare l'ambiente circostante e in cui rifugiarsi in situazioni di difficoltà. Il concetto di base sicura è stato formulato sulla base dei risultati delle osservazioni naturalistiche realizzate attraverso la cosiddetta Strange Situation Procedure (SSP), una procedura sperimentale, elaborata da Mary Ainsworth (Ainsworth e Bell, 1970; Ainsworth, 1978; Ainsworth e Wittig, 1969). La SSP (si veda scheda di approfondimento n. 1) si fonda sull'osservazione del comportamento di attaccamento di un bambino nei confronti di un caregiver significativo, e permette di tipizzare la qualità della relazione tra il bambino e chi si prende cura di lui, valutando il grado di sicurezza del legame affettivo-emozionale con la figura di riferimento. In particolare, questa procedura consente di analizzare le condotte del bambino in condizioni caratterizzate da diversi livelli di stress, quali quello dovuto al trovarsi in un ambiente nuovo, sia in presenza che in assenza del caregiver, all'essere lasciato solo in compagnia di un estraneo, e al trovarsi da solo in un ambiente nuovo in assenza di un adulto. Scheda di approfondimento n. 1: la Strange Situation Procedure La procedura sperimentale comprende 8 scenari, chiamati da Mary Ainsworth "episodi". Episodio 1-3: Il bambino, in compagnia del suo caregiver, viene portato in un ambiente a lui estraneo, arredato come una stanza da gioco. Nella stanza entra una persona estranea. Episodio 4: Il caregiver lascia la stanza e il bambino è lasciato solo con l'estraneo. Episodio 5: Il caregiver ritorna nella stanza, mentre l'estraneo si allontana. Episodio 6: Il caregiver lascia nuovamente la stanza e il bambino rimane solo. Episodio 7: L'estraneo rientra nella stanza. Episodio 8: Il caregiver ritorna nella stanza. Per evitare che l'atteggiamento del caregiver possa influenzare il comportamento del bambino, questi è invitato a non iniziare alcuna interazione con il bambino e a limitarsi a rispondere alle sue richieste. Nella versione originaria della SSP, almeno due osservatori rilevavano il comportamento del bambino attraverso uno specchio unidirezionale; oggi il comportamento viene videoregistrato e codificato successivamente. Il setting della SSP simula una stanza da gioco nella quale il bambino incontra un adulto non familiare ed è separato brevemente per due volte dalla sua figura di attaccamento. Attraverso l'analisi delle risposte comportamentali alla situazione sperimentale, sono state individuate 4 tipologie di attaccamento (Ainsworth e Marvin, 1995): sicuro, insicuro-evitante, insicuro ambivalente e insicuro disorganizzato. Attaccamento sicuro: nella procedura sperimentale, il bambino mostra di sentire la mancanza della madre, o comunque del suo caregiver abituale, quando questa si allontana, e ne ricerca la vicinanza al momento del ricon-giungimento, essendo tranquillizzato dalla prossimità con lei e ricominciando a svolgere le attività eventualmente interrotte dopo la separazione. Il bambino con attaccamento sicuro "usa" la madre come una base sicura da cui partire al fine di esplorare l'ambiente circostante e a cui fare ritorno in situazioni di pericolo. Attaccamento insicuro-evitante: il bambino non mostra alcuna particolare reazione all'allontanamento del caregiver né al suo ritorno, assumendo talora aperti atteggiamenti di evitamento verso di lui dopo il suo rientro nella stanza. Le strategie comportamentali di evitamento messe in atto dal bambino con attaccamento insicuro-evitante sono fondate sulla negazione, da parte del bambino stesso, dei bisogni di sicurezza e sull'assunzione di una falsa autonomia che lo conduce a sopprimere le proprie emozioni, al fine di evitare di rompere la relazione con la figura di riferimento da cui si attende un atteggiamento rifiutante (Caviglia, 2003). Attaccamento insicuro-ambivalente (detto anche resistente): il bambino si mostra angosciato per la separazione. Il ritorno del caregiver nel setting sperimentale non riesce però ad avere un effetto tranquillizzante sul bambino, che spesso esprime, in rapida successione, rabbia e ricerca di contatto nei confronti dell'adulto di riferimento, non riprendendo l'attività che svolgeva prima della separazione. I bambini che presentano tale tipologia di attaccamento, nelle situazioni stressogene alternano la ricerca di contatto ad atteggiamenti di rifiuto e spesso sviluppano un'immagine di sé come persone vulnerabili e incapaci di far fronte alle difficoltà. A tale immagine di sé si associa una scarsa fiducia nell"altro" che viene percepito come inaf- fidabile, pericoloso o ostile. Attaccamento insicuro-disorganizzato/disorientato: il bambino non presenta comportamenti chiaramente classificabili all'interno delle categorie precedenti. I comportamenti messi in atto non sono idonei ad attivare condotte di accudimento da parte della madre, e sono in genere disorganizzati e non funzionali alla situazione. Durante i primi anni di vita, in situazioni naturali, i comportamenti di attaccamento sono particolarmente evidenti in condizioni di stress. In situazioni potenzialmente stressogene, è facile osservare nel bambino la ricerca di vicinanza al caregiver, manifestazioni di protesta o dispiacere a seguito della separazione da esso, così come il particolare senso di fiducia che il bambino con attaccamento sicuro nutre nei confronti di chi si prende cura di lui (Weiss, 1982). In situazioni emotivamente neutre, invece, la ricerca del contatto e della prossimità fisica è ridotta e il bambino si impegna in condotte esplorative dell'ambiente circostante, come ad esempio le attività di gioco. Quanto più il genitore, o il caregiver primario abituale, è sintonizzato sui bisogni fisici ed emotivi del bambino e in grado di rispondere a essi, tanto più l'attaccamento sarà sicuro e ciò favorirà lo sviluppo di un'adeguata fiducia in se stesso e nel mondo circostante. I bambini con attaccamento sicuro cercano, infatti, prontamente i loro caregiver quando sono spaventati o preoccupati ma si sentono sufficientemente al sicuro da muoversi liberamente nell'ambiente nei momenti di tranquillita. Al contrario, l'indisponibilità dei genitori, la non sensibilità alle esigenze emozionali del bambino, o la non coerenza nel modo di porsi nei suoi confronti, favoriscono lo sviluppo di stili di attaccamento insicuro. E stato rilevato, infatti, che i modelli di attaccamento sicuro risultano significativamente correlati alla sensibilità materna o del caregiver primario che si occupa stabilmente del bambino. 4. I Modelli Operativi Interni (MOI) Dato che i genitori differiscono per la natura e la qualità delle cure che forniscono ai figli, ciascun bambino sperimenta in maniera ripetuta particolari modelli relazionali che nel tempo si consolidano in Modelli Operativi Interni, i cosiddetti MOI (Bowlby, 1973). I MOI consistono nell'interiorizzazione dei modelli abituali di relazione che il bambino esperisce nella sua vita quotidiana e quindi riflettono le peculiarità dei legami di attaccamento vissuti. Essi si strutturano attraverso l'interiorizzazione di ripetuti scambi interattivi sperimentati all'interno delle relazioni primarie di accudimento e contengono modelli del sé, delle figure relazionali, nonché dell'ambiente nel quale tali relazioni hanno luogo (Bretherton e Munholland, 1999). I MOI si sviluppano nei primi anni di vita e si mantengono relativamente stabili nel tempo, costituendo una sorta di guida che influenza i comportamenti futuri. Vengono definiti operativi proprio perché si configurano come mediatori e organizzatori della percezione ed elaborazione delle informazioni relative alle relazioni che la persona esperisce nel corso della vita (Bretherton, 2005; Coppola et al., 2006). Essendo legati alle diverse tipologie di rapporti significativi che il bambino esperisce nell'infanzia, come per esempio quelli con la madre, il padre, i nonni, i fratelli o altri adulti (Bowlby, 1980), i MOI sono multipli. Inoltre, pur essendo relativamente stabili, essi non devono essere considerati immutabili, dato che possono modificarsi nel corso del ciclo di vita (Crittenden, 1999). Alcune esperienze, relative, per esempio, alle variazioni nelle cure genitoriali nel corso dell'infanzia o ai legami con il partner nell'età adulta, possono, infatti, favorire e determinare un cambiamento delle rappresentazioni di attaccamento in entrambe le direzioni, da sicure a insicure e viceversa. L'influenza dei MOI sulle condotte relazionali non si esaurisce nell'infanzia, in quanto è stato rilevato che essi giocano un ruolo fondamentale anche nella strutturazione delle relazioni significative in età adulta, condizionando la scelta del partner e il modo in cui la persona attuerà le condotte di accudimento nei confronti del proprio figlio. Le esperienze negative di attaccamento, segnate da esperienze traumatiche, da perdite e separazioni precoci, determinano, infatti, la formazione di MOI caratterizzati da una peculiare difficoltà a rispondere ai bisogni affettivi propri e altrui, con un impatto significativo anche sulla rappresentazione mentale che il genitore si forma del figlio. 2. LO SVILUPPO DELL’ATTACCAMENTO NEI PRIMI ANNI DI VITA: TRA RELAZIONE E COGNIZIONE... Ti conquisti la casa a poco a poco, e il cuore della tua selvaggia mamma. Come la vedi, di gioia s'infiamma la tua guancia, ed a lei corri dal gioco... (Umberto Saba) I pattern di attaccamento, siano essi di tipo sicuro o insicuro, tendono a manifestarsi con modalità differenti nelle diverse fasi della vita. Mentre un bambino nella prima e nella seconda infanzia rivela la sua sicurezza nell'attaccamento attraverso l'evidente preferenza nei confronti della persona che si prende cura di lui e a cui tende a rivolgersi in situazioni di difficoltà, con il progredire dell'età l'attaccamento non si esprime più attraverso la semplice ricerca di prossimità fisica e il mantenimento di contatto con il caregiver ma in maniera molto diversa, tanto che il contatto fisico può diventare secondario rispetto a un legame prettamente affettivo-emozionale. 1. L'attaccamento nel primo anno di vita John Bowlby ha teorizzato che il legame di attaccamento si sviluppi sulla base di una particolare predisposizione del bambino a ricercare e mantenere la vicinanza fisica con la persona che si prende cura di lui. Questa persona, in condizioni normali, coincide con la madre. Tale predisposizione è necessaria a garantire la stessa sopravvivenza, dato che la relazione privilegiata che il bambino instaura con chi lo accudisce è essenziale per la sua incolumità e crescita fisica, oltre che per uno sviluppo psichico sano. Questo concetto è ampiamente sottolineato anche da Mary Ainsworth (1979), che considerava la relazione originaria di attaccamento del bambino alla madre come il prototipo di tutte le relazioni che la persona costruisce nel corso della vita. Secondo questa studiosa, e come ampiamente confermato in ambito sperimentale e clinico, i rapporti primari di attaccamento sono estremamente rilevanti per lo sviluppo psicologico, tanto che tutti i fattori che ne ostacolano continuità e stabilità, come ad esempio separazioni e abbandoni prolungati, possono interferire con un equilibrato funzionamento socio- emozionale. Il periodo in cui approssimativamente i bambini iniziano ad "attaccarsi" al proprio caregiver si colloca, secondo Bowlby, intorno al secondo semestre di vita, anche se non esistono limiti temporali rigidi. In tempi recenti, come già brevemente esposto nei paragrafi precedenti, si è evidenziato, infatti, che anche i rapporti significativi che il bambino stabilisce in età più avanzata, come per esempio quelli con gli educatori del nido o gli insegnanti, possono assumere le caratteristiche tipiche di un legame di attacca-mento. Allo stesso modo, anche i legami precoci che si stabiliscono subito dopo la nascita, e secondo alcuni studiosi addirittura in età prenatale, presentano molte caratteristiche tipiche dell'attaccamento. Già durante le prime settimane dopo la nascita, il bambino ha una propensione naturale verso l'essere umano ed egli impara ben presto a distinguere il mondo delle cose da quello delle persone. Gli organi sensoriali del neonato sono, infatti, particolarmente adatti alla ricezione di stimoli di natura sociale, come verrà ampiamente esposto in paragrafi successivi di questo volume. Il bambino, nei primi mesi di vita, mostra una preferenza per la configurazione percettiva del volto ed è in grado di discriminare la voce umana rispetto ad altri tipi di suoni. Il neonato ha, inoltre, una certa familiarità con i movimenti abituali della madre, di cui ha fatto esperienza già nella vita intrauterina. Alcuni autori, tra cui Brazelton (1982), hanno collegato la capacità che madre e bambino mostrano nel coordinare le loro interazioni, di cui si è parlato nel capitolo precedente, alla sincronizzazione materno-fetale, che può essere riscontrata, per quel che riguarda i cicli di attività e pausa, a partire dal terzo trimestre di gravidanza. La relazione con l'altro è favorita, già nei primi istanti di vita, dalla presenza nel neonato di pattern comportamentali che presentano un'organizzazione temporale endogena che permettono all'adulto di prevederne e interpretarne le esigenze, nonché dalla predisposizione del neonato stesso all'interazione comunicativa. Già a poche ore dalla nascita il bambino, in- fatti, smette di piangere se viene preso in braccio, viene cullato o sente una voce umana, anche se è solo alla fine del secondo mese che si osserva la comparsa di un'embrionale capacità di distinguere tra figure familiari e non familiari. È solo in questo periodo che il bambino comincerà a riconoscere chi lo accudisce abitualmente, mentre intorno ai sei mesi si manifesterà una preferenza spiccata e differenziata verso tale figura. Il bambino impara così a seguire con lo sguardo la mamma che si allontana, mostra manifestazioni di felicità al suo ritorno, e pian piano diventa in grado di "usare" il caregi-ver come punto di partenza per muoversi alla scoperta del mondo, pronto a ritornare da lui non appena si sente in pericolo o in difficoltà. Pur esistendo una grande variabilità individuale, e in questo periodo della vita che il bambino inizia a mostrare timore e diffidenza verso gli estra-nei, fino alla comparsa di quella che è comunemente chiamata "paura dell'estraneo", che di solito si osserva intorno all'ottavo mese (si veda scheda di approfondimento n. 2 per la descrizione delle fasi dell'attaccamento). Scheda di approfondimento n. 2: Le fasi dell'attaccamento secondo J. Bowlby Fase 1. Il bambino mostra una preferenza verso le figure umane ma la capacità di discriminazione tra esse è estremamente limitata. In questa fase, il bambino può smettere di piangere udendo una voce o vedendo un viso. Fase 2. Il bambino inizia a mostrare una preferenza verso i caregiver abituali. Fase 3. Il bambino ricerca attivamente la vicinanza con la figura di riferimento, attraverso la locomozione e l'uso di segnali prodotti intenzionalmente. Il bambino saluta il caregiver, cerca di seguirlo quando si allontana, mostra diffidenza per gli estranei. Fase 4. Il bambino comincia ad avere una sensibilità nei confronti degli stati d'animo del caregiver e la relazione acquisisce caratteristiche di reciprocità. 1.1. I comportamenti di segnalazione e i comportamenti di accostamento Man mano che il bambino cresce, la relazione con la figura di accudimento diventa sempre più articolata e sempre maggiormente caratterizzata da manifestazioni di reciprocità. Con l'acquisizione della permanenza dell'oggetto, di cui si parlerà nei paragrafi successivi, e il progressivo aumento dell'autonomia, si ampliano le modalità attraverso cui l'attaccamento si manifesta, con l'adozione, da parte del bambino, di molteplici modelli comportamentali che hanno come effetto quello di mantenere il livello di vicinanza desiderato con la figura di attaccamento. I comportamenti di attaccamento messi in atto dal bambino possono essere raggruppati in due grandi categorie: i comportamenti di segnalazione e i comportamenti di accostamento. I comportamenti di segnalazione comprendono il pianto (si veda scheda di approfondimento n. 3), il sorriso, e tutte le manifestazioni linguistiche che segnalano all'adulto un bisogno o una necessità. I comportamenti di accostamento riguardano, invece, tutte quelle azioni che il bambino compie per avvicinarsi all'adulto, come ad esempio la suzione per fini non alimentari, l'aggrapparsi e il protendere le braccia verso di lui. Mentre i comportamenti di segnalazione servono a favorire l'avvicinamento della madre al bambino, i comportamenti di accostamento servono al bambino stesso a mantenere la prossimità fisica con la madre, avvicinandosi lui stesso a lei. Scheda di approfondimento n. 3: Il neonato piange nella lingua materna? Una ricerca condotta su neonati francesi e tedeschi (Mampe et al., 2009) ha analizzato i modelli di pianto di rispetto alla melodia e all'intensità. Lo studio ha rilevato che il pianto dei neonati francesi aveva un contorno melodico ascen-dente, mentre quello dei neonati tedeschi aveva un contorno melodico discendente. La prosodia della lingua cui il neonato era stato esposto, che è molto diversa nella lingua francese e tedesca, aveva influenzato la melodia del loro pianto, presumibilmente sulla base di precocissimi processi di apprendimento, che trovano terreno fertile nella predisposizione del bambino al riconoscimento di suoni umani rispetto ad altre tipologie di suoni. È noto che la percezione delle caratteristiche prosodiche di una lingua, quali la melodia, l'intensità e il ritmo, sia essenziale per l'acquisizione del linguaggio da parte del bambino, e questo e altri studi dimostrano che i bambini sono sensibili alle caratteristiche prosodiche della loro lingua madre molto prima dell'acquisizione del linguaggio. Ciò è presumibilmente legato anche al fatto che le caratteristiche prosodiche del linguaggio sono ben mantenute dalla barriera addominale e arrivano in utero sostanzialmente invariate, a differenza degli aspetti propriamente fonetici del discorso. La prosodia di una lingua viene quindi recepita, e forse anche appresa, già durante la gravidanza. Nei neonati, le tracce di questi primi processi di apprendimento uditivo si riflettono nelle preferenze percettive, subito dopo la nascita, per le melodie a cui sono stati esposti nel periodo prenatale, come verrà esposto in maniera più dettagliata nelle parti finali di questo volume. 2. La percezione come mediatrice del contatto con la realtà esterna Lo sviluppo della relazione e della capacità di rapportarsi al mondo fisico e sociale non può essere pienamente approfondita se non ci si focalizza sulla funzione cognitiva che rende possibile ogni forma di rapporto con la realtà esterna, cioè la percezione. È per mezzo del contatto con la figura di accudimento, attraverso la mediazione di tutti gli organi di senso, quali la vista, l'udito, il gusto, l'olfatto e il tatto, che permettono le prime esperienze di relazione con l'ambiente, che il bambino costruisce le prime conoscenze del mondo in cui vive e, grazie a esperienze sensoriali appaganti e positive, sviluppa quella fiducia nel mondo che è il germe per la costruzione delle competenze sociali. Quando si pensa ai primi rapporti madre-bambino e ai primi contatti del neonato con l'ambiente in cui vive, spesso ci si interroga su quanto il neonato veda o senta, ma non ci si chiede mai cosa egli percepisca realmente. Si dà infatti quasi per scontato che egli colga gli stimoli in modo analogo a quanto fanno gli adulti, senza tener conto del fatto che il modo in cui ciascuno esperisce la realtà circostante dipende da specifici processi fisiologici e psicologici che nel neonato non sono pienamente sviluppati. La realtà fisica e la realtà fenomenica non sono pertanto coincidenti, per cui il modo in cui il mondo appare al neonato e al bambino di pochi mesi può non essere lo stesso di quello sperimentato da un adulto. È quindi indispensabile interrogarsi su come il neonato e il lattante costruiscano la loro "immagine" del mondo esterno, e su come questo mondo si popoli di cose e persone, per cogliere appieno tutti gli aspetti dello sviluppo socio-cognitivo. Ciò può essere fatto solo soffermandosi sulla disamina dei processi percettivi. La percezione costituisce, infatti, il fondamento di ogni esperienza e conoscenza della realtà circostante e il substrato di tutte le capacità cognitive complesse. 2.1. La costruzione del mondo fisico e sociale nel neonato e nella prima infanzia La percezione è il processo attraverso cui l'uomo trae informazioni dal mondo che lo circonda e attraverso cui le informazioni ricevute dagli organi di senso sono organizzate in oggetti, eventi, situazioni, o persone dotati di significato per il soggetto. Essa nasce dalla sensazione ma non si esaurisce con essa, in quanto coinvolge l'elaborazione e l'attribuzione di un significato alle informazioni sensoriali. Gli organi di senso e le vie nervose a essi collegate sono, infatti, implicati nelle fasi iniziali di ricezione degli stimoli ambientali, mentre la percezione coinvolge processi corticali correlati con la comprensione del mondo circostante e con il dare un senso alla realtà. Ogni esperienza e conoscenza è, quindi, la risultante di un complesso processo di analisi e trasformazione delle informazioni ambientali, che nasce dall'attivazione dei recettori dei nostri organi di senso e dalla trasmissione di impulsi bioelettrici a differenti regioni della corteccia cerebrale. Le differenti forme di energia fisica e chimica provenienti dagli stimoli ambientali producono complessi eventi fisiologici a cui corrispondono, sul versante psichico del vissuto soggettivo, sensazioni e percezioni. Queste ultime sono definibili come impressioni complesse e organizzate della presenza di realtà ambientali. La percezione non è un semplice riflesso della realtà esterna e il cervello non deve essere immaginato come un registratore di dati, anche perché non tutte le forme di realtà fisica vengono rilevate e recepite. I recettori di ciascun organo di senso sono, infatti, tarati per ricevere una certa gamma di stimoli ed essere insensibili al di fuori di questa gamma. Inoltre, le informazioni ricevute e trasmesse al cervello sono assolutamente parcellari e frammentarie e devono essere quindi ricostruite in unità dotate di senso attraverso meccanismi di elaborazione che si costruiscono nel corso dello sviluppo. Appena nato, il bambino deve imparare a dare un significato a ciò che i suoi organi di senso ricevono, identificando oggetti e persone, attribuendo loro specifiche caratteristiche (riconoscimento) e localizzandole (localizza-zione), stabilendo cioè la posizione che essi assumono rispetto al suo corpo e rispetto agli elementi presenti nell'ambiente. La ricerca di prossimità, che è frequente nei bambini piccoli, implica, per esempio, la capacità di discriminare la persona con cui si cerca il contatto rispetto agli altri elementi presenti nell'ambiente e di coglierne la posizione rispetto a sé e allo spazio cir-costante, al fine di avviare un comportamento di accostamento. Affinché localizzazione e riconoscimento possano aver luogo, è necessario che operi la cosiddetta costanza percettiva (si veda la scheda di approfondimento n. 4), cioè la capacità del sistema percettivo di attribuire una certa invarianza a stimolazioni che variano notevolmente. L'aspetto degli oggetti e delle persone cambia continuamente in funzione delle condizioni ambientali, per esempio della luminosità, della vicinanza, o della presenza di altri stimoli, per cui le indicazioni ricevute dai recettori sensoriali sono di fatto sempre diverse. La costanza percettiva richiede l'integrazione delle informazioni ricevute tramite gli organi di senso, per esempio quelle relative alla dimensione e alla forma dell'immagine retinica nel caso della percezione visiva, con una serie di indizi psicologici, quali quelli sulla distanza, grandezza e inclinazione apparente degli oggetti, e consente di cogliere percettivamente gli elementi dell'ambiente come dotati di caratteristiche invarianti, riconoscendone forme e dimensioni. Grazie alla costanza percettiva, l'identità, la grandezza e la configurazione di un oggetto o di una persona rimangono, quindi, invariate anche quando la proiezione retinica dell'oggetto varia al modificarsi dei rapporti spaziali tra l'oggetto fisico e l'osservatore. Scheda di approfondimento n. 4: La costanza di grandezza Come fa un bambino a riconoscere l'immagine della propria madre pur vedendola in situazioni diverse, per esempio seduta, in piedi, a pochi passi di distanza o molto lontano da sé? Come fa un bambino a capire che un oggetto ha sempre le stesse caratteristiche pur apparendogli molto diversamente se è vicino oppure lontano? La dimensione della proiezione retinica di un oggetto cambia al variare della posizione rispetto all'osservatore, ed è molto piccola se un oggetto è lontano e più grande se l'oggetto è vicino. Nonostante ciò, una persona è in grado di percepire la realtà come dotata di caratteristiche invarianti. Attraverso meccanismi fisiologici e psicologici di coordinazione e compensazione un oggetto viene, infatti, percepito come avente delle dimensioni stabili. Per esempio, se un bambino vede un adulto molto lontano da sé (immagine retinica piccola) egli lo percepirà delle dimensioni abituali e non crederà che questi si sia rimpicciolito e abbia l'altezza tipica di un bambino. Tale capacità dipende dalla cosiddetta costanza percettiva di grandezza, che riguarda il mantenimento di rapporti invarianti tra la dimensione dell'oggetto, colta attraverso la proiezione retinica, e la distanza apparente di tale oggetto, che a sua volta dipende da una serie di indizi psicologici. Se alla riduzione della dimensione dell'immagine retinica corrisponde un aumento della distanza appa-rente, l'oggetto verrà percepito come lontano ma della stessa misura con cui era percepito quando era posto vicino all'osservatore. Affinché cose e persone possano essere riconosciute come unità dotate di significato, è necessario, infine, un corretto operare dei principi di articolazione figura-sfondo, che presiedono alla ricostruzione a livello fenomeni-co, cioè di impressione soggettiva, dell'unità propria dell'oggetto fisico. La costruzione fenomenica dell'unità figurale degli oggetti si fonda su alcuni principi di organizzazione (vicinanza, somiglianza, chiusura, continuità di direzione, buona forma, ed esperienza passata), noti come principi di unificazione formale, che favoriscono l'articolazione del campo percettivo in figure che si stagliano su uno sfondo, ed è attraverso tali principi che gli stimoli vengono segmentati e organizzati in unità. La prima unità figurale di natura sociale che il neonato riconosce è quella costituita dalla gestalt occhi-naso-bocca. A partire dal secondo mese di vita, infatti, il lattante inizia a reagire con il sorriso al viso umano, a condizione che esso sia posto di fronte a lui con gli occhi ben visibili e che sia in movimento. In questa fase della vita, in cui il bambino impara a discriminare il mondo umano da quello delle cose inanimate, nessun altro oggetto è in grado di provocare questa risposta, che non si osserva neanche se il volto umano è di profilo, segno che ancora non è sviluppata la costanza percettiva di forma. Nei bambini con disturbo del neuro-sviluppo, la capacità di discriminazione precoce della gestalt occhi-naso-bocca può essere compromessa. I genitori di bambini autistici, per esempio, riferiscono che i loro figli durante il primo anno di vita non rispondevano con il sorriso alla loro presenza. A livello comportamentale, il sorriso sociale implica, infatti, l'integrazione temporale di due diverse componenti: una motoria, relativa all'espressione, attraverso la mimica, di uno stato emozionale positivo e l'altra, più propriamente cognitivo- comportamentale, relativa all'orientamento dello sguardo verso un'altra persona. Entrambe queste componenti sono deficitarie nei bambini con disturbi dello spettro autistico, i quali hanno difficoltà sia nel contatto oculare che nell'attenzione condivisa e presentano spesso anche alterazioni nell'espressività mimico-facciale delle emozioni (Nichols et al., 2013). Tale evidenza ha importantissimi risvolti da un punto di vista applicativo al fine del riconoscimento precoce di segni che possano far ipotizzare potenziali condizioni di sviluppo atipico. Per tale motivo, è sempre essenziale sensibilizzare genitori e caregiver affinché attenzionino che il sorriso sociale compaia nei tempi attesi, che il bambino sia in grado di instaurare il contatto oculare e che impari a reagire al proprio nome. L'assenza di tali reazioni e comportamenti deve portare ad avviare percorsi di accertamento volti a verificare la presenza di una problematica di tipo evolutivo. 2.2. La coppia percettivo-motoria. La percezione e l'azione come fondamento dello sviluppo socio-cognitivo La percezione in epoca neonatale e durante la prima e la seconda infanzia domina lo sviluppo cognitivo, influenzando in maniera fondamentale l'evoluzione delle strutture mentali. Si usa, infatti, il termine di coppia percettivo-motoria per indicare l'assoluta sinergia tra lo sviluppo percettivo e lo sviluppo motorio che, procedendo in maniera integrata l'uno con l'altro, rendono possibile l'evoluzione socio-cognitiva del bambino. La percezione guida le azioni ed è attraverso i risultati delle azioni che il bambino acquisisce una conoscenza sempre più obiettiva e completa della realtà circostante, tanto che è possibile dire che lo sviluppo motorio è espressione dello sviluppo della mente. I bambini, infatti, coordinano i loro movimenti con le informazioni percettive per imparare come muoversi, stare in equilibrio e raggiungere gli oggetti nello spazio. La stretta relazione tra lo sviluppo percettivo e lo sviluppo motorio è facilmente rilevabile già dall'osservazione di un lattante che impara a sostenere il collo e a girare la testa da un lato all'altro. La competenza motoria, resa possibile dal progressivo controllo muscolare, permette agli occhi, sede dei recettori deputati alla visione, di scoprire caratteristiche nuove dell'ambiente, e la visione di alcune di queste caratteristiche particolarmente attrattive per il bambino lo porterà a sua volta a sperimentare la sua motricità, come ad esempio quando tenta di allungare una mano verso gli og-getti. Lo sviluppo è, infatti, il risultato dell'interazione tra processi di matrice biologica, relativi alla maturazione fisiologica, e processi di matrice esperienziale, mediati dall'apprendimento, il quale può essere definito come l'insieme di cambiamenti nelle conoscenze e nei comportamenti prodotti dall'esperienza. Il bambino nasce con un bagaglio biologico e una serie di potenzialità che necessitano dell'esperienza per potersi estrinsecare e sviluppare adeguatamente. Se un bambino vive in un contesto sufficientemente stimolante e non presenta condizioni organiche che ostacolano il rapporto con l'ambiente, svilupperà, attraverso l'interazione con cose e persone, abilità cognitive progressivamente più complesse e articolate, grazie alla capacità di imparare dall'esperienza e di mantenere nel tempo le acquisizioni fatte. 2.3. La percezione degli stimoli sociali nel neonato e nel bambino e l'acquisizione degli schemi senso-motori Il neonato è capace di reagire agli stimoli esterni già immediatamente dopo la nascita. Egli trasalisce a un rumore improvviso, chiude gli occhi se viene puntata verso i suoi occhi una luce troppo intensa, piange se viene poggiato sul suo corpo un oggetto freddo o gli viene dato un pizzicotto. Anche la sensibilità propriocettiva, come per esempio l'equilibrio, è attiva, tanto che il neonato agita le braccia e si irrigidisce se viene inclinato all'indietro. Dai primi giorni di vita, il neonato è in grado di riconoscere una serie di stimoli sensoriali legati al rapporto con l'altro. Dopo pochi giorni, è capace di riconoscere la voce materna e a un mese e mezzo mostra una preferenza per il baby talk, cioè per quel tipo di linguaggio che gli adulti usano abitualmente per rivolgersi ai bambini. Nell'ambito degli stimoli olfattivi, già nella prima settimana, i bambini manifestano una particolare preferenza per l'odore del latte materno, tanto che il fare sentire al neonato l'odore del latte della propria madre ha un effetto calmante. Subito dopo la nascita, anche l'odore del liquido amniotico ha un effetto simile. Per quel che riguarda la percezione visiva, si è già citata nelle pagine precedenti la precoce capacità di riconoscere il volto umano. Gli studi pionieristici di Fantz, negli anni '60 del secolo scorso, hanno mostrato come nel neonato esista una predisposizione alla fissazione della figura umana rispetto ad altre configurazioni percettive e che, a partire dai due mesi di vita, la preferenza per l'osservazione di un volto rispetto ad altri stimoli o cerchi uniformi diventa molto netta (Fantz, 1958). Il neonato, inoltre, pur avendo ridotte capacità di messa a fuoco, è in grado di focalizzare a una distanza che corrisponde a quella tra il suo volto e quello della madre che allatta e ciò favorisce il legame precoce con la figura materna. La capacità di discriminazione dei diversi aspetti di una configurazione percettiva di carattere sociale diventa poi assolutamente evidente con la già descritta paura dell'estraneo. Il miglioramento delle capacità di discriminazione percettiva nei primi mesi si accompagna allo sviluppo di un'altrettanto precoce capacità di imparare dall'esperienza, come mostrato dall'estensione degli schemi riflessi a nuovi oggetti, con la formazione delle prime abitudini. I riflessi sono reazioni automatiche e al di fuori del controllo volontario che caratterizzano l'attività motoria del neonato. Alcuni riflessi, come per esempio lo sbadigliare, persistono per tutta la vita, altri scompaiono dopo alcuni mesi dalla nascita, a seguito della maturazione fisiologica e del concomitante aumento del controllo muscolare. Nel corso del primo periodo di vita, come sopra accennato, si osserva nel bambino un progressivo miglioramento dell'esecuzione delle attività riflesse, con la formazione delle prime abitudini. Se, per esempio, un bambino viene allattato al seno, la suzione diventerà sempre più vigorosa e aumenterà anche la capacità del bambino di attaccarsi al seno e di trovare rapidamente la mammella ruotando il volto. Al miglioramento dell'esecuzione di questi schemi di azione, si aggiunge ben presto l'estensione delle attività riflesse ad altri oggetti. Facendo riferimento all'esempio precedente, il bambino diventa in grado di applicare lo schema di suzione dal seno al biberon o al ciuccio e, attraverso tale ampliamento del suo repertorio compor-tamentale, darà dimostrazione non solo di essere in grado di individuare similarità tra i diversi oggetti, cui applica lo stesso schema di azione, ma anche di notarne le differenze. Il bambino, infatti, può accettare il ciuccio se è in uno stato di benessere fisiologico o ha sonno e vuole addormentarsi, ma potrà rifiutarlo quando è affamato poiché riconosce che questo non fornisce alcuna forma di nutrimento. Mentre la formazione delle prime abitudini nell'ambito di processi regolati biologicamente è espressione di un inizio di assimilazione riproduttrice di ordine funzionale che è effetto dell'esercizio, l'estensione di uno schema riflesso di azione ad altri oggetti è espressione di un'assimilazione genera-lizzatrice e traspositiva che rivela, tra l'altro, lo sviluppo delle capacità di discriminazione percettiva (si vedano lo schema di approfondimento n. 5 e i paragrafi successivi per la definizione di assimilazione). Il distinguere un oggetto rispetto ad altri mostra come la mente del bambino si popoli ben presto di significati differenziati e come egli diventi progressivamente in grado di elaborare e di dare un senso ai dati che riceve attraverso gli organi di senso, formandosi le prime rappresentazioni mentali della realtà circostante e le prime pseudo-categorie che costituiranno il substrato dello sviluppo del pensiero. L'estensione degli schemi riflessi a nuovi oggetti e la formazione delle abitudini, determinano la comparsa delle cosiddette reazioni circolari, che consistono nella riproduzione attiva, da parte del lattante, di un risultato che era stato ottenuto la prima volta per caso, con conseguente progressiva acquisizione di nuovi schemi psicomotori (Piaget, 1947). Le reazioni circolari inizialmente coinvolgono solo il corpo del bambino e non stimoli esterni (reazioni circolari primarie). Il bambino mostra un progressivo interesse verso i propri arti, i propri movimenti e i risultati delle sue attività. Scopre casualmente che certe azioni, come per esempio il mettere in bocca le dita delle mani o dei piedi, producono sensazioni piacevoli e inizia così a riprodurle per ottenere lo stesso effetto. In questo stadio evolutivo, il bambino sperimenta sentimenti elementari, definiti da Piaget (1972) affetti percettivi, che sono strettamente legati allo stato del soggetto. Questi stati affettivi dipendono dalle condizioni fisiologiche e dalle elementari attività che il bambino svolge con le cose e sulle cose, e non sono legati ad alcuna forma di consapevolezza dei rapporti esistenti con le altre persone. Le azioni che caratterizzano le reazioni circolari primarie che, come esposto sopra, sono compiute dal bambino sul suo stesso corpo, progressivamente vengono rivolte agli oggetti esterni con cui il bambino stesso entra in contatto grazie al miglioramento delle attività di prensione. Egli diventa in grado di riprodurre risultati che ha ottenuto per caso attraverso l'uso degli oggetti (reazioni circolari secondarie). Se, per esem-pio, si accorge che sbattendo un sonaglino sul seggiolone o per terra questo fa un rumore a lui gradito, ripeterà molte volte tale azione, come per avere conferma che è il suo agire a provocare tale effetto per lui piacevole o inte- ressante. Le reazioni circolari secondarie, a loro volta, portano alla comparsa delle cosiddette reazioni circolari terziarie, che implicano la sperimentazione di variazioni delle azioni sugli oggetti, come per verificarne i cambiamenti di risultato. Il bambino, per esempio, inizia a lanciare in varie direzioni un giocattolo per vedere cosa succede e se l'effetto prodotto dall'azione è sempre lo stesso o cambia. Similmente a quanto fa attraverso il suo agire sulle cose, il bambino inizia a sperimentare l'effetto delle sue azioni sulle persone che lo accudisco-no, divenendo in grado di associare il suo comportamento a diversi tipi di conseguenze e comprendendo sempre più se e quanto il suo comportamento possa essere in grado di determinare una reazione nell'altro. L'ampiamento della capacità di azione del bambino produce, quindi, a poco a poco, quell'articolazione delle condotte che caratterizza il comportamento finalistico. Il bambino non si limita a mettere in atto schemi di azione fissa, ma diviene in grado di modificarli, fino ad arrivare a quell'importante conquista che è la capacità di connettere un mezzo a un fine. A partire dagli otto-nove mesi circa, con la comparsa delle reazioni circolari terziarie, gli schemi di azione diventano, infatti, suscettibili di coordinarsi tra loro. Per prendere un oggetto posto dietro uno schermo, per esempio, il bambino cerca di allontanare lo schermo stesso servendosi degli schemi motori abituali, attraverso l'azione dell'afferrarlo o del colpirlo, fino al raggiungimento dell'obiettivo. In questo modo, egli impara ad associare il mezzo al fine raggiunto, e la scoperta di queste connessioni rende gli schemi d'azione sempre più articolati e generalizzabili a situazioni simili. Tutto ciò si accompagna alla costruzione di rappresentazioni mentali sempre più complesse e congruenti con la realtà. Anche l'affettività si arricchisce attraverso il progressivo rafforzarsi dell'interesse attivo per le conseguenze delle azioni che il bambino impara ad associare a emozioni positive o negative. È attraverso l'azione e l'interazione, quindi, che nel corso del primo anno di vita, in quello stadio evolutivo definito da Piaget come stadio senso-motorio, il bambino costruisce le quattro categorie che rendono possibile la sua evoluzione come essere psichico, cioè le categorie di oggetto, di spazio, di tempo, e di causalità, che inizialmente sono categorie di tipo esclusivamente pratico e non concetti del pensiero (Piaget, 1972), come verrà esplicitato nel paragrafo successivo. 3. Divenire un essere psichico: la permanenza dell'oggetto e altre acquisizioni Secondo Piaget, lo schema pratico di oggetto è legato alla permanenza sostanziale che il bambino impara ad attribuire agli insiemi sensoriali. Esso è quindi relativo alla consapevolezza, che si sviluppa entro il primo anno di vita, che ciò che viene percepito corrisponde a qualcosa che continua a esistere anche quando cessa di essere colto tramite gli organi di senso. Nei primi mesi di vita, il lattante non riconosce gli oggetti propriamente detti, ma solamente degli insiemi sensoriali che è progressivamente in grado di identificare percettivamente ma non di collocare in qualche luogo nello spazio quando sono al di fuori del suo campo percettivo. Il bambino riconosce le persone con cui si rapporta abitualmente, in particolare la madre, ma non per questo ha coscienza della sua esistenza quando lei non è con lui. Allo stesso modo, non ha consapevolezza dell'esistenza permanente delle cose, come mostrato nei classici esperimenti piagetiani che mettono in luce che il bambino non ricerca un giocattolo che scompare alla sua vista neanche se ha assistito al fatto che esso venga nascosto o allontanato da sé. Anche quando il bambino inizia a cercare gli oggetti nascosti, non è ancora in grado di tener conto degli spostamenti successivi, come se ogni oggetto fosse legato alla situazione di insieme in cui viene percepito e non costituisse una realtà indipendente dal contesto in cui si trova (Piaget, 1972). E soltanto verso la fine del primo anno di vita che il bambino inizia quindi a costruire mentalmente un mondo compiuto, esterno alla propria persona e alle azioni che lui stesso compie sulle cose e, parallelamente a tale costruzione mentale, inizia a svilupparsi il concetto di spazio come contenitore di tutti gli oggetti di cui egli ha conoscenza. Il concetto di uno spazio unitario non è presente nei primi mesi di vita. Il neonato e il lattante percepiscono tanti spazi separati quanti sono i campi sensoriali a loro familiari, come se esistessero uno spazio tattile, uno spazio orale, uno spazio visivo e uno uditivo, assolutamente distinti e autonomi l'uno dall'altro. Solo tra il primo e il secondo anno, grazie anche all'incremento della capacità di movimento e in particolare all'acquisizione della deambulazione autonoma, il bambino diventa in grado di intuire l'esistenza di uno spazio generale che contiene tutti gli altri, compreso il suo corpo, e insieme all'oggettivazione dello spazio si struttura anche il concetto di tempo e di continuità temporale. Attraverso l'ampliamento delle capacità di azione, migliora anche la comprensione della causalità, anche se essa è, per così dire, estremamente generalizzata. Il bambino, infatti, quando coglie una relazione tra la sua azione e una conseguenza, estende questa relazione a tutti gli ambiti possibili, in una sorta di causalità magico-fenomenica che perdura fino al secondo anno di vita, al raggiungimento del quale si osserva una progressiva og- gettualizzazione e spazializzazione delle cause e una rappresentazione interiore della realtà sempre più articolata. La vita mentale, quindi, come magistralmente espresso da Piaget (1972), tende ad assimilare l'ambiente circostante per mezzo di strutture il cui raggio di azione è sempre più ampio. Inizialmente, la percezione e i movimenti elementari che il bambino riesce a compiere, come per esempio la prensio-ne, permettono il possesso degli oggetti fisicamente vicini e presenti nel campo percettivo, successivamente l'intelligenza pratica e la memoria consentono di ricostruire lo stato precedente degli oggetti e anticiparne le tra-sformazioni. La funzione che la mente assolve di incorporare a sé l'universo viene pertanto realizzata attraverso forme diverse che procedono dalla percezione al movimento, sino alle operazioni cognitive complesse. La conoscenza non è, quindi, una copia passiva della realtà ma il risultato di un'attività costruttiva che il bambino compie sugli oggetti e che, attraverso l'interazione tra le strutture mentali e la realtà fisica, porta a una trasformazione dell'oggetto stesso secondo la struttura applicata. Tale attività di incorporazione del dato esterno sulla base delle strutture mentali esistenti, che viene chiamata da Piaget assimilazione, si accompagna a meccanismi di accomodamento che comportano una trasformazione delle strutture mentali per adattarle alle variazioni esterne, con il realizzarsi di un continuo, seppure mutevole, equilibrio definito adattamento (si veda la scheda di approfondimento n. 5). Le strutture cognitive si costruiscono, quindi, sulla base delle interazioni del bambino con l'ambiente fisico e sociale con cui egli si rapporta, in un rapporto bidirezionale in cui ciascuna struttura proviene da quella precedente e genera quella successiva. Questo processo continua negli anni fino alla formazione delle strutture logiche che permettono una conoscenza coerente della realtà esterna e caratterizzano l'attività mentale dell'adulto. La logica che definisce l'attività di pensiero trova, quindi, il suo fondamento nell'azione, dato che già negli schemi sensomotori del bambino si osserva la presenza di strutture organizzate secondo relazioni di tipo spaziale e temporale che possono essere definite di tipo logico, seppure si tratti di una logica che è nell'azione piuttosto che nella mente. La gerarchia delle condotte del bambino, partendo dal riflesso e dalle percezioni globali che caratterizzano il primo periodo della vita sino all'articolazione mezzi-fini e alla comparsa di schemi di azione flessibili e integrati, può essere considerata, infatti, espressione di una sorta di estensione delle distanze tra soggetto e oggetto. Tale distanza diventa sempre più ampia quando la persona diviene capace di agire e operare mentalmente con oggetti solo pensati e non materialmente presenti, come accade negli stadi dello sviluppo cognitivo che Piaget definisce operatorio concreto e formale, il cui tipo di attività mentale è proprio espressione di una progressiva complicazione degli itinerari che caratterizzano gli scambi tra il soggetto e l'ambiente in cui vive (Piaget, 1947). Ognuna di queste estensioni rappresenta quindi una nuova struttura, e la successione delle diverse strutture è sottomessa alla necessità di un equilibrio che dovrà essere sempre più mobile con l'aumentare della loro complessità. Scheda di approfondimento n. 5: Assimilazione e accomodamento L'assimilazione è il processo attraverso cui il dato esterno viene incorporato nella struttura mentale esistente. Attraverso questo processo, la realtà viene, per così dire, adeguata alla struttura mentale che si ha a disposizione. Per esempio, un bambino di un anno che ha esperienza solo di cani, non avendo mai visto un animale diverso, se vede un gatto potrà facilmente chiamarlo "bau". Ciò mostra che egli ha incorporato il dato esterno nella struttura mentale esistente e identificato l'elemento ambientale al "pre-concetto" già costruito nella sua mente. L'accomodamento è il processo per cui la struttura mentale esistente viene modificata sulla base delle caratteristiche del dato esterno. Il bambino, attraverso il contatto con il mondo circostante, scopre nuovi aspetti e funzioni degli oggetti conosciuti nonché nuove realtà e ciò porta alla modifica delle strutture preesistenti che non sono adeguate a rappresentare le nuove informazioni. 4. La rappresentazione del mondo esterno. Dalla codifica all'apprendimento: il percorso della conoscenza nei primi anni di vita Il meccanismo cognitivo che determina l'attribuzione di senso alle informazioni sensoriali e la trasformazione di uno stimolo esterno in una rappresentazione mentale interna prende il nome, in psicologia cognitiva, di codifica. La codifica comprende l'insieme delle attività che vengono messe in atto al momento della percezione di uno stimolo e del suo eventuale immagazzinamento in memoria. La codifica implica l'analisi, la discrimina-zione, la selezione e l'elaborazione dello stimolo al momento della sua ricezione sensoriale, ed è intimamente connessa con l'attività di categorizzazione che determina la formazione dei concetti mentali. La codifica costituisce il fondamento dei processi di apprendimento che, nella prima infanzia, si realizzano in maniera prevalentemente non inten-zionale. Essa determina, infatti, il significato che il bambino darà a oggetti, persone e situazioni con cui si rapporta e cosa egli imparerà circa le loro funzioni e caratteristiche. Se un aspetto della realtà fisica non viene codifi-cato, di esso non rimarrà alcuna traccia nelle rappresentazioni mentali del bambino ed è come se quell'aspetto non esistesse. La codifica nella prima infanzia si realizza in modo automatico e senza alcun controllo volontario. Il bambino, attraverso la sua interazione con cose e persone, sperimenta le caratteristiche del suo ambiente di vita, codificandone gli aspetti per lui salienti e, pur senza avere alcuna intenzione esplicita di farlo, impara dall'esperienza. In maniera inconsapevole, costruisce così a poco a poco la sua conoscenza e amplia i suoi repertori comportamentali. Sia nella prima che nella seconda infanzia, la codifica è generalmente centrata sulle caratteristiche fisiche degli stimoli esterni e solo nella tarda infanzia diventa più frequente una codifica su base semantica. L'età critica che segna il passaggio alla dimensione concettuale si colloca, infatti, intorno ai sei anni, che è anche l'età in cui avviene il passaggio dallo stadio preoperatorio allo stadio operatorio concreto dello sviluppo cognitivo. La tipologia di codifica influenza direttamente la formazione delle categorie mentali che nell'infanzia, a causa del predominio percettivo, sono centrate su attributi tipici e particolarmente vistosi degli stimoli. Il bambino costruisce, infatti, le sue rappresentazioni mentali, che chiameremo pre-concetti (per distinguerle dai concetti veri e propri che costituiscono le rappresentazioni mentali proprie delle epoche successive di sviluppo), fondandosi sulle caratteristiche più evidenti degli esemplari con cui entra in contatto (caratteristiche prototipiche), piuttosto che sulla base delle caratteristiche realmente definitorie della categoria di cui un esemplare fa parte (caratteristiche nucleari). Ciò può facilmente indurre in errori di valutazione della realtà esterna (si veda la scheda di approfondimento n. 6). Scheda di approfondimento n. 6: Categorie e concetti Un concetto è una classe di eventi o oggetti aventi proprietà comuni e distintive ed è il risultato di un'attività di categorizzazione attraverso cui aspetti della realtà (oggetti, eventi, persone) sono collocati in una stessa classe sulla base delle loro caratteristiche e sono quindi trattate come se fossero equivalenti. I concetti sono un prezioso strumento di economia cognitiva, perché permettono di attribuire alla realtà anche aspetti e attributi non immediatamente percepibili, che vengono associati loro proprio in virtù dell'appartenenza a quella particolare ca-tegoria. Le caratteristiche distintive che meglio rappresentano una categoria vengono chiamate prototipiche. Generalmente, si tende a collocare un oggetto in una determinata categoria sulla base della sua somiglianza con il prototipo, anche se non sempre le caratteristiche prototipiche sono quelle che definiscono correttamente l'appartenenza categoriale (per esempio, un delfino non è un pesce anche se ha tutte le caratteristiche prototipiche di esso). Un bambino, crescendo, deve imparare che le caratteristiche nucleari sono migliori indicatori di appartenenza categoriale rispetto alle caratteristiche prototi-piche. Mentre le caratteristiche prototipiche vengono acquisite tramite l'esperienza, quelle nucleari, nella maggior parte dei casi, richiedono un apprendimento esplicito per essere conosciute e scoperte. Il bambino, di solito, si forma un'immagine prototipica degli oggetti o delle diverse tipologie di persona che incontra nella sua esperienza di vita attraverso un confronto per semplice somiglianza tra ciò che vede e ga esemplari già noti di quel concetto (strategia degli esemplari) e solo successivamente impara a usare una strategia di verifica di ipotesi, attraverso l'esame di esempi noti di un determinato concetto e la ricerca di caratteristiche comuni che egli ipotizza caratterizzino il concetto stesso. Un momento fondamentale nell'evoluzione del modo in cui il bambino si costruisce la sua realtà interna, e che segna il passaggio dalla fase di sviluppo descritta nel precedente paragrafo, cioè lo stadio sensomotorio, a quella successiva di tipo pre-operatorio, è legato all'acquisizione della funzione simbolica, la cui padronanza è testimoniata dalla comparsa dell'imi-tazione differita, del gioco simbolico e dalla successiva acquisizione del linguaggio, che ne rappresenta la massima espressione. Insieme alle nozioni di permanenza oggettuale, spazio-temporale e di causalità, la comparsa del linguaggio costituisce un'acquisizione fondamentale dello sviluppo psicologico. Nello stadio pre-operatorio, con lo sviluppo della capacità linguistica, il bambino diventa in grado di rappresentare significati attraverso significanti collegati ai primi solo in maniera arbitraria, attraverso le etichette costituite dalle parole, costruendo rappresentazioni mentali non legate in senso stretto al dato percettivo, seppur ancora vincolate a esso, e imparando ad assegnare etichette comuni a gruppi di oggetti che hanno caratteristiche simili. Il pensiero, in questa fase evolutiva, è però ancora di tipo pre-logico. Il bambino non è in grado, infatti, di cogliere la nozione generale di classe, come insieme di elementi che presentano caratteristiche comuni e distinti-ve, né è capace di costruire rappresentazioni mentali che racchiudono tutte le proprietà necessarie e sufficienti per identificare gli esemplari di una specifica categoria. In questa fase dello sviluppo, inoltre, il bambino, pur possedendo la nozione di permanenza del singolo oggetto, in rapporto alla prossimità delle azioni che possono essere compiute su esso, non sa estendere questa nozione in uno spazio lontano e ad avvenimenti che si ripetono a intervalli di tempo diversi. I pre-concetti su cui si fonda il pensiero in questo stadio dello sviluppo hanno un'esistenza indipendente l'uno dall'altro e sono collegati solo per semplici somiglianze. L'attività mentale procede, infatti, dal particolare al particolare con inferenze, spesso fortuite, al generale, e anche il ragionamento procede per analogie immediate. Pur essendo presente la capacità di raggruppare gli oggetti, riconoscendone le somiglianze e le differenze, sono ancora presenti errori suggeriti dalla percezione, anche se non di natura propriamente percettiva. Il bambino coglie correttamente, come già accennato sopra, le caratteristiche percettive degli oggetti ma non coordina le trasformazioni spaziali o temporali subite da questi. Non riesce, per esempio, a capire che è il cambiamento di prospettiva a produrre il cambiamento nell'aspetto di un oggetto visto da posizioni diverse o che gli altri non sempre vedono o sentono ciò che lui vede o sente in un certo momento; non è raro, infatti, osservare un bambino di due anni che al telefono, in comunicazione vocale, mostra a qualcuno ciò che lui fa, credendo che l'ascoltatore veda le sue azioni. E pertanto assente la capacità di classificazione e conservazione, che si svilupperà solo nella fase del pensiero operatorio concreto, quando il bambino diventerà capace di coordinare azioni e trasformazioni, imparando ad associare a ogni azione la sua inversa. Lo stadio di sviluppo preoperatorio, che è stato appena discusso, viene suddiviso da Piaget in due sotto-stadi, il primo di tipo pre-concettuale, che dura fino a circa i quattro anni, e il secondo di tipo intuitivo, che precede immediatamente lo stadio operatorio concreto. Nello stadio preoperatorio in cui, come già esposto, il bambino possiede la nozione di conservazione di un unico oggetto, ma non quella di un insieme di oggetti, le azioni mentali sono rigide e irreversibili. Il pensiero inizia ad andare al di là dei dati attuali, dato che il bambino pian piano diventa capace di anticipare le conseguenze delle azioni o di ricostruire eventi e azioni passate, ma ciascuna azione da lui compiuta (fisi-ca o mentale che sia) non si coordina con le altre e da questo dipende il suo fallimento nei compiti di conservazione o di classificazione. Il pensiero operatorio viene quindi raggiunto attraverso la progressiva e graduale coordinazione dei rapporti rappresentativi e un crescente sviluppo dell'attività concettuale che si fonda inizialmente su quella che Piaget chiama intuizione, cioè il tipo di attività mentale che controlla i giudizi mediante azioni regolatrici che sono analoghe, sul piano della rappresentazio-ne, a quelle della percezione sul piano senso-motorio, e che poi approda al pensiero operatorio. 5. L'imitazione: un processo sociale bidirezionale Il progressivo sviluppo delle capacità rappresentative nel corso dell'infanzia può essere rilevato anche dal progressivo aumento delle capacità imitative. Le ricerche hanno messo in luce che l'imitazione di diversi tipi di comportamento emerge in epoche di sviluppo differenti. Ciò supporta una lettura della capacità imitativa come risultato dell'interazione di componenti sociali, cognitive e motorie, ciascuna delle quali ha una propria storia evolutiva (Jones, 2009). Mentre nel neonato si osserva una capacita di imitazione riflessa di tipo sensomotorio, che è stata collegata anche all'attività dei neuroni specchio, a partire dai due mesi si manifesta un'imitazione di tipo funzionale, in cui la ripetizione di gesti motori sembra essere motivata dal piacere di agire indipendentemente dal significato degli stessi. E a partire dai sei mesi che compare poi una forma di imitazione mirata alla realizzazione di un obiettivo, mentre nei mesi successivi si osserva la già citata imitazione differita, in cui la riproduzione di un gesto o di un comportamento avviene a distanza di tempo e di spazio rispetto all'evento osservato, segnalando un progresso nell'acquisizione della funzione simbolica. Il valore fondamentale dell'imi-tazione differita nello sviluppo mentale è dato, infatti, dal fatto che essa implica l'immagazzinamento e l'uso di una rappresentazione mentale che, conservata fino al momento dell'emissione comportamentale, viene riattivata attraverso il comportamento imitativo. In generale, l'abilità del bambino a imitare la persona che si occupa di lui costituisce un importante elemento della relazione tra cure materne e sviluppo cognitivo (Schaffer, 1977). Ciò che però è particolarmente rilevante in un'ottica di sviluppo dell'attaccamento è il fatto che non è soltanto il bambino a imitare la madre ma anche il contrario. La madre, infatti, imita frequentemente il comportamento del lattante, in particolare l'attività che ha luogo nell'area intorno alla configurazione occhi-naso-bocca e tutti i nuovi pattern comportamentali che man mano si presentano. L'imitazione delle azioni e delle espressioni mimiche del bambino da parte della madre ha un profondo significato nel contesto dello sviluppo mentale perché, attraverso l'imitazione, la madre fornisce al figlio precise istruzioni comportamentali, come se attraverso il ripetere le sue espressioni o i suoi gesti desse al bambino (che vede ciò che la madre imita) anche indicazioni sul risultato che lei desidera venga ottenuto da un particolare comportamento (per esempio, la madre che imita il bambino che apre o stropiccia gli occhietti dopo aver dormito enfatizza un'azione spontanea, mostrandone il risultato atteso che è quello di un'apertura completa degli occhi per riprendere le attività tipiche dello stato di veglia). La madre, attraverso le sue condotte imitative, diventa a sua volta il volano dello sviluppo dell'imitazione nel bambino, fornendo, sin dai primi giorni di vita, una sorta di specchio biologico che dà al piccolo la possibilità di associare le informazioni enterocettive, legate ai suoi stessi movimenti, alla rappresentazione visiva ed esterna degli stessi. Benché il bambino nei primi mesi di vita non abbia alcuna "prova" della somiglianza tra le sue espressioni o movimenti e quelli della madre, cosa che invece avverrà quando l'imitazione materna riguarderà le emissioni vocali o i movimenti volontari delle mani, tale imitazione precoce del bambino da parte della madre permette comunque al bambino stesso di imparare ad associare le sue azioni a una reazione, favorendo così una serie di atti caratterizzati da reciprocità e sincronizzazione, come accade, per esempio, quando entrambi escono fuori la lingua alternativamente. Anche se il bambino non si rende conto della somiglianza reciproca degli atti compiuti da lui e dalla madre, può comunque iniziare precocemente a scoprire che il suo agire sollecita con una certa regolarità una risposta nell'altro e la contingenza di questa risposta può innescare meccanismi di apprendimento. Schaffer (1977) evidenziava inoltre che il bambino di solito non sorride quando la mamma dà istruzioni sull'aprire la bocca o altre attività orali, mentre sorride quando la madre imita le attività orali del bambino stesso. 6. La forma delle rappresentazioni mentali Da quanto esposto nei paragrafi precedenti, appare evidente che lo sviluppo socio-cognitivo e il formarsi di legami relazionali stabili e significativi siano mediati dalla formazione di strutture mentali che garantiscono una conoscenza progressivamente più "oggettiva" della realtà, fino alla formazione delle strutture logiche che permettono una visione pienamente coerente dell'ambiente circostante. La conoscenza si realizza, infatti, attraverso un continuo confronto tra ciò che è stato acquisito in passato e conservato nella memoria, e le informazioni nuove con cui un individuo entra in contatto attraverso la percezione. Tale confronto è guidato sia dalle aspettative che un bambino si forma su eventi, oggetti e persone che incontra e con cui si rapporta, sia dalle informazioni che riceve in ogni momento dall'ambiente di vita. Come già ampiamente descritto nei paragrafi prece-denti, le informazioni immagazzinate in memoria, cioè le conoscenze pre-cedenti, contribuiscono al formarsi di aspettative che guidano la successiva attività conoscitiva, la quale, a sua volta, dipende da ciò che viene colto dagli organi di senso ed elaborato tramite i meccanismi percettivi. È possibile, infatti, affermare che le strutture di conoscenza pregresse e la percezione attuale vincolino le diverse fasi del processo cognitivo, influenzando la codifica delle informazioni in ingresso e condizionandone la memorizzazione e il ricordo (Commodari, 2013a). La riattivazione di ciò che è stato appreso in precedenza si configura, infatti, come un processo di tipo costruttivo in cui le informazioni conservate in memoria non vengono semplicemente recuperate ma ristrutturate in modi sempre diversi. Non esiste una concordanza scientifica sulle modalità in cui l'uomo rappresenta mentalmente la conoscenza. Paivio (1971) ha proposto la nota teorizzazione del doppio codice secondo cui l'uomo utilizza un sistema rappresentativo di tipo verbale e un sistema di rappresentazione mediante im-magini, mentre altri autori ipotizzano un sistema proposizionale (Bower, 1972; Pylyshyn, 1981, 2002), secondo cui le rappresentazioni mentali non sono immagazzinate secondo un codice analogico ma in forma proposizio-nale, dove per proposizione si intende il significato sottostante a una particolare relazione tra concetti. La teoria del doppio codice elaborata da Paivio afferma che l'uomo utilizza un codice analogico, che si fonda sull'uso di immagini, e un codice verbale per rappresentare l'informazione immagazzinata in memoria. Alcune idee sono rappresentate con più facilità per mezzo delle parole, mentre altre attraverso le immagini. In generale, comunque, nessuna rappresentazione, sia essa verbale o analogica, possiede tutte le caratteristiche di ciò che viene rappre-sentato, per cui ciascun tipo di rappresentazione veicola meglio alcuni tipi di informazione piuttosto che altri. Le immagini e le parole rappresentano, infat-ti, le relazioni tra le cose in maniera molto diversa. Le immagini colgono le informazioni concrete spaziali in modo analogo all'entità del mondo reale che esse rappresentano e trasmettono informazioni in modo simultaneo. Le parole, invece, esprimono l'informazione in modo sequenziale e descrivono con chiarezza l'immagine astratta e categoriale di ciò che viene rappresentato. Il modello proposizionale, alternativo a quello di Paivio, ritiene invece che le rappresentazioni mentali della conoscenza presentino una forma che è intrinseca al cervello umano e che non può essere rappresentata con nulla che vediamo con i nostri occhi o spiegata in parole. Secondo tale prospetti-va, che gode di un grande credito tra gli studiosi di psicologia cognitiva, le rappresentazioni mentali proposizionali non possiedono le proprietà fisiche degli stimoli che rappresentano. La rappresentazione mentale di una frase, per esempio, non conserva le caratteristiche acustiche o visive delle parole e la rappresentazione mentale di un'immagine non ne conserva l'esatta forma percettiva, dato che sia le immagini che le espressioni verbali sono rappresentate mentalmente nei termini dei loro significati profondi. Di recente Johnson-Laird (1980; 2005) ha proposto un ulteriore modello secondo cui le rappresentazioni mentali possono consistere in proposizioni, modelli mentali o immagini. Mentre le proposizioni sono rappresentazioni totalmente astratte di un significato, che però possono essere espresse in forma verbale, i modelli mentali sono rappresentazioni analogiche dei concetti o di oggetti, che mantengono alcune caratteristiche dei percetti (ad esempio, un modello mentale di "sedia" potrebbe essere rappresentato come una "sedia" generica visibile in qualunque prospettiva). Le immagini, infine, sono rappresentazioni più specifiche che conservano molte delle caratteristiche percettive di oggetti particolari, guardati da un'angolatura specifica, con i dettagli di un particolare esempio. 3. IL RUOLO DEI CAREGIVER NELLO SVILUPPO SOCIO-COGNITIVO... You are the bows from which your children as living arrows are sent forth (Kahil Gibran) 1. La sensibilità del caregiver alle esigenze del neonato e del bambino Non è solo il bambino, come ampiamente esposto nei capitoli preceden-ti, a essere predisposto al contatto sociale ma anche il caregiver, che svi-luppa, attraverso le esperienze di accudimento, una particolare sensibilità che gli permette di rispondere prontamente alle richieste del bambino, favorendo la strutturazione di un legame sicuro ed emotivamente solido. La sensibilità dell'adulto ai bisogni del piccolo di cui si prende cura si esprime anche a un livello percettivo, con una particolare prontezza a riconoscere i diversi segnali emessi dal neonato. Un esempio tipico di tale sensibilità si osserva nel cosiddetto "sonno della nutrice", che consiste in quel particolare fenomeno per cui il sonno della madre si sintonizza con quello del figlio, rendendola capace di reagire al minimo cambiamento del ritmo del respiro del bambino pur non percependo tutti gli altri rumori ambientali. Tale sensibilità non si determina solo nella madre biologica ma si attiva in tutti gli adulti che stabiliscono un rapporto di accudimento continuato e significativo. A tale proposito, alcuni studi hanno rilevato che anche i padri adeguano il sonno alle necessità di dormire dei propri figli, se impegnati costantemente nell'accudimento, e tale adeguamento ha un preciso riscontro fisiologico che si manifesta nell'abbassamento dei livelli di testosterone, come è stato osservato negli uomini che attuano periodi di co-sleepling con il figlio rispetto a quelli che dormono da soli o con il solo partner (O' Connor et al., 2012). Un'altra evidenza della predisposizione biologica all'accudimento e alla relazione emotiva con i neonati e gli infanti è data dalla capacità della madre di discriminare i diversi tipi di pianto del proprio figlio (Sagi, 1981). Il pianto è un potentissimo attivatore emozionale, cioè è uno stimolo che è in grado di produrre spontaneamente una forte risposta emotiva in chi lo ascolta, e tale effetto attivatore è amplificato in chi accudisce costantemente un bambino, soprattutto nella madre, che è in grado meglio di ogni altra persona di distinguere tra un pianto di fame, di dolore o dovuto ad altra causa. Ciascuno di questi pianti è caratterizzato, infatti, da peculiari sequenze ritmiche rilevabili anche attraverso analisi spettrografiche. 2. La prontezza a rispondere Perché si strutturi un legame sicuro tra il bambino e il suo caregiver, non basta però che quest'ultimo sia sensibile ai segnali emessi dal bambino ma è fondamentale che le risposte ai suoi bisogni fisici o emozionali siano suf. ficientemente rapide, dato che la tolleranza alle frustrazioni è piuttosto bas-sa, specialmente nella prima infanzia. Il differimento di una risposta deve, quindi, tener conto dei limiti di sopportabilità, per evitare che il piccolo non riesca più a regolare le proprie manifestazioni emozionali. Non trova quindi alcuna giustificazione la prassi, talora messa in atto dai genitori, di far piangere il neonato e non andare subito da lui quando richiede attenzioni, per evitare di farlo abituare a essere tenuto in braccio e così non viziarlo, perché l'effetto che tale modalità di cura ha sul bambino è proprio l'opposto di quello che si vuole ottenere. Bisogna, però, differenziare la sensibilità del caregiver da un atteggiamento di iperprotezione (Imbasciati, 2008; Imbasciati e Cena, 1991, 2008). Un caregiver sensibile permette al figlio di acquisire una crescente autono-mia, ma è pronto a supportarlo e sostenerlo, non ostacolando i suoi bisogni esplorativi e di relazione. I figli di madri con adeguata sensibilità, ma non iperprotettive, sono infatti in grado, già a un anno, di giocare autonomamente, di esplorare il contesto circostante, ma nello stesso tempo di ricercare il supporto materno nelle situazioni di stress. Un atteggiamento sensibile del caregiver facilita anche la tolleranza di limiti e imposizioni. I bambini con una madre sensibile si mostrano più sereni e meno ansiosi e irritabili rispetto ai bambini allevati da caregiver con poca sensitivity. Questi bambini, infatti, pur apparendo più indipendenti dall'adulto, sono meno tolleranti alle frustrazioni e alle regole loro imposte, e mostrano più frequentemente manifestazioni di ansia, aggressività o rabbia (Imbasciati, 2008; Imbasciati e Cena, 1991, 2008). La sensibilità materna sembra svolgere un ruolo fondamentale anche sulla regolazione emozionale. Già a quattro mesi di età, i figli di madri poco sensibili mostrano minori capacità di regolazione emotiva rispetto ai coetanei le cui madri manifestano maggiore sensibilità (Braungart-Rieker et al., 2001) e tale evidenza diventa sempre più rilevante con l'aumentare dell'età del bambino. La tendenza a rispondere alle richieste del bambino solo quando esse vengono espresse in maniera molto intensa, per esempio solo dopo che egli inizia a piangere disperatamente o ha manifestazioni emotive e comportamentali estreme, favorisce un attaccamento insicuro- resistente. Il bambino impara, infatti, ad avere una rapida escalation emotiva per attirare l'attenzione del genitore, che a sua volta avrà molte difficoltà a calmarlo. Il risultato di tale modalità di interazione è che il bambino impara ad assumere comportamenti eccessivi rispetto alla situazione, con manifestazioni emotive estreme e teatrali non appena ha un bisogno, ma contemporaneamente si sente ansioso, frustrato e impotente, poiché il genitore non è pronto nella sua risposta. Ciò produce nel bambino una progressiva incapacità di regolare le proprie emozioni e il modo in cui esse si manifestano. La non responsività del caregiver, così come la sua impenetrabilità o ostilità, favorisce, invece, un attaccamento insicuro-evitante. Il bambino impara a non esprimere liberamente le proprie emozioni e a non ricercare l'aiuto dell'altro nelle difficoltà, con la conseguenza che non svilupperà a-deguate strategie di coping. I bambini con attaccamento insicuro-evitante imparano a non far trapelare quelle emozioni che li fanno sentire vulnerabili e, anche in situazioni emotivamente coinvolgenti, diventano facilmente aggressivi o apparentemente molto distaccati, proprio come conseguenza di questa tendenza a un eccessivo controllo delle loro emozioni. Il bambino con attaccamento sicuro impara invece dai suoi caregiver che quando le emozioni diventano travolgenti e sembrano sovrastarlo ci sarà qualcuno pronto ad aiutarlo a contenerle. Impara così a comunicare le sue emozioni, a controllare la rabbia, ed è aperto ad accogliere il supporto e le azioni di conforto che l'adulto mette in atto nei suoi confronti. Tale capacità di regolazione emozionale è fondamentale in tutte le fasi dello sviluppo e garantisce, con la crescita, un positivo adattamento agli ambienti esterni alla famiglia con cui il bambino si confronta. 3. La funzione riflessiva genitoriale Alcuni autori hanno concettualizzato la capacità dell'adulto di cogliere i bisogni emotivi dei propri figli attraverso il concetto di funzione riflessiva genitoriale (Parental Reflective Functioning, PRF), che consiste nella capacità dei genitori di mentalizzare e riflettere sul loro ruolo genitoriale. La PRF riguarda la capacità del genitore di riflettere sulle sue esperienze interiori, in particolare su quelle che coinvolgono la relazione con il figlio. Tale costrutto è stato introdotto da Peter Fonagy e collaboratori (1998) e riguarda la capacità dei genitori di cogliere e accogliere gli stati mentali del bambino, divenendo in grado di percepirne intimamente stati d'animo e modi di pensare e soddisfarne le esigenze. La capacità di un genitore di mentalizzare gli stati emotivi e cognitivi del proprio figlio è un presupposto essenziale per la strutturazione nel bambino di un'esperienza non solo fisica ma anche psicologica di conforto e sicurezza. Secondo Fonagy, la funzione riflessiva è, infatti, un'acquisizione evolutiva che permette alla persona di rispondere adeguatamente al comportamento degli altri e di coglierne intimamente sentimenti, credenze, speranze, aspettative, e progetti. 4. LA RELAZIONE CON I CAREGIVER DOPO IL SECONDO ANNO DI VITA... Sarà difficile lasciarti al mondo e tenere un pezzetto per me e nel bel mezzo del tuo girotondo non poterti proteggere... (Luciano Ligabue) 1. L'attaccamento nell'età prescolare e scolare Le ricerche sull'attaccamento in età prescolare e scolare hanno rivelato una sostanziale stabilità nelle rappresentazioni di attaccamento formatesi nella prima infanzia, ma anche un significativo cambiamento nel modo in cui l'attaccamento si esprime. La maggior parte degli studi hanno confermato che, se non intervengono eventi particolarmente significativi, l'attaccamento sicuro si mantiene dalla prima alla seconda infanzia fino all'adolescenza e oltre, come mostrato anche in ricerche svolte in contesto italiano da Ammaniti e Speranza (2002). La stabilità delle rappresentazioni di attaccamento non significa però immutabilità. L'attaccamento sicuro può essere compromesso dal verificarsi di eventi negativi, quali lutti, divorzi, malattie, abusi, nonché da tutti quei fattori che possono modificare la struttura e l'organizzazione familiare, mentre, all'inverso, la possibilità di costruire legami emotivi solidi e rassicuranti può produrre lo sviluppo di modelli di attaccamento sicuro in bambini che avevano strutturato in passato rappresentazioni di attaccamento insicuro. Bambini insicuri possono, infatti, modificare le loro rappresentazioni di attaccamento se il caregiver assume atteggiamenti di sensibilita e supporto (Belsky e Fearon, 2002). Con l'età cambia anche il modo in cui l'attaccamento si manifesta. Lo sviluppo cognitivo, l'acquisizione di una teoria della mente e la costruzione dei sistemi motivazionali influenzano, infatti, il modo in cui il bambino vive i legami di attaccamento. Crescendo, aumentano l'empatia e la capacità di comprendere emozioni, sentimenti e motivazioni dei genitori e delle altre figure di riferimento, e il bambino, attraverso il superamento dell'egocen-trismo che caratterizza le prime fasi dello sviluppo, comincia a tener conto dell'"altro" quando pianifica azioni e comportamenti. Egli inizia a preoccuparsi del benessere dei genitori, ne coglie le espressioni emozionali e i vissuti psicologici, e si rende conto se soffrono o sono preoccupati, diventando progressivamente in grado di adattare i propri comportamenti alle caratteristiche della situazione. Tutto ciò è legato anche al progressivo sviluppo delle funzioni esecutive, di cui si parlerà ampiamente in altre parti di questo volume. In età prescolare e scolare, la relazione con i caregiver significativi inizia a essere basata su quella che viene chiamata mutual goal corrected partnership (GCP). La GCP è un processo diadico, costruito in sinergia re-ciproca, attraverso cui genitori e figli negoziano, seppur implicitamente, un reciproco equilibrio tra il crescente bisogno di autonomia e di affermazione di sé del bambino e la necessità di garantirgli protezione e sostegno, ponendogli dei limiti che, tenendo conto dei bisogni di crescita, ne garantiscano l'incolumità e uno sviluppo fisico ed emotivo sano (Ainsworth, 1985; Ko-bak et al., 1993; Nucci et al., 1996). Con l'aumentare dell'età, la prossimità fisica con le figure di attaccamento diventa sempre meno importante, mentre assumono rilevanza le aspettative che il bambino nutre circa la disponibilità e prontezza dell'adulto a fornire supporto e sostegno. La sicurezza si esprime nella consapevolezza di poter contare sul caregiver ogni qual volta ce ne sarà bisogno, piuttosto che sul bisogno di contatto e presenza fisica. Diventano, pertanto, progressivamente più rare le occasioni in cui i sistemi comportamentali di attaccamento si atti-vano, e quanto più è solido il senso di sé che il bambino sta costruendo, tanto più egli svilupperà la capacità di autoregolare la propria condotta senza la necessità di avere qualcuno materialmente vicino come sostegno. Si può proprio dire che, tra la seconda e la terza infanzia, i sistemi di attaccamento si esprimono attraverso la progressiva disattivazione degli stessi comportamenti di attaccamento, cioè delle condotte di segnalazione e di accostamento. Mentre l'attivazione del sistema di attaccamento nella prima infanzia serve, infatti, ad avviare nel bambino quei comportamenti che hanno lo scopo di ottenere quella prossimità e contatto con l'adulto che lo fanno sentire sicuro, a partire dalla seconda infanzia, attraverso un processo progressivo e graduale, la prossimità fisica diventa meno importante e la comunicazione e il supporto mentale diventano l'elemento significativo che caratterizza la relazione sicura, permettendo così lo sviluppo di altri sistemi comportamentali di tipo esplorativo e sociale, che favoriscono una crescente autonomia e la costruzione del senso di identità. I genitori iniziano a concedere al bambino una maggiore libertà di muoversi nell'ambiente, e ciò gli permette di sperimentare diversi tipi di relazione con adulti e coetanei al di fuori della famiglia. Attraverso le esperienze di vita, i modelli di attaccamento e di relazione diventano sempre più articolati, anche se nell'infanzia si osserva la permanenza di rappresentazioni sociali dicotomiche, con tendenza a concettualizzare persone ed eventi sociali in maniera rigida. Una persona viene così vista come buona o cattiva, una situazione come bella o brutta, e ancora il bambino non è in grado di percepire pienamente la realtà come variegata e non valutabile in maniera univoca. Vale la pena ricordare, inoltre, che il desiderio di vicinanza fisica è ancora evidente durante tutti gli anni della scuola primaria. I bambini, infatti, tengono ancora i genitori per la mano quando camminano in un ambiente non conosciuto o sono preoccupati, e richiedono il contatto con i genitori quando sono malati, tristi o spaventati, sedendosi sul loro grembo o abbracciandoli. Pur permanendo il bisogno di contatto, i bambini crescendo acquisiscono, però, una maggiore capacità di comunicare esplicitamente i propri bisogni di attaccamento, esprimendo, per esempio, il disagio quando devono separarsi per qualche motivo dalla figura di riferimento. Così, per esempio, mentre un bambino, quando non vuole andare a scuola, se è molto piccolo si attacca letteralmente alle gambe di mamma o papà, quando diventa più grande si limiterà a piagnucolare dicendo di voler stare a casa. 2. Le manifestazioni dell'attaccamento nell'adolescenza L'adolescenza è il periodo di transizione tra l'infanzia e l'età adulta e costituisce una fase della vita caratterizzata da eclatanti cambiamenti sia di natura fisica che psicologica, che coinvolgono il funzionamento cognitivo e l'adattamento socio-emozionale. Da un punto di vista propriamente cognitivo, l'adolescenza si caratterizza per il pieno padroneggiamento del pensiero operatorio-formale e per la capacità di pensare in termini logici attorno a concetti e possibilità solo ipo-tetiche. In questo stadio dello sviluppo, che secondo Piaget viene raggiunto intorno ai 12 anni, i processi di pensiero possono svolgersi su un piano di pura astrazione, attraverso l'uso di strategie che permettono di escludere varie spiegazioni alternative e consentono di dimostrare scientificamente la correttezza delle proprie conclusioni. I cambiamenti cognitivi si accompagnano anche a un importante sviluppo in ambito morale, dato che in questa fase della vita si realizza l'interiorizzazione dei valori morali che guidano la vita di ciascuno (si veda la scheda di approfondimento n. 7). Scheda di approfondimento n. 7: Lo sviluppo morale Lo sviluppo morale secondo Piaget Primo stadio (4-7 anni) - Moralità eteronoma. I bambini pensano che la giustizia e le regole siano proprietà immutabili del mondo, decise da autorità potenti su cui le persone non hanno alcuna possibilità di controllo, e giudicano la correttezza di un comportamento sulla base delle conseguenze e non delle intenzioni. Fase di transizione (7-10 anni). Sono presenti caratteristiche del pensiero morale tipiche del primo stadio e alcune caratteristiche di quello successivo. Secondo stadio (dai 10 anni) - Moralità autonoma. Il bambino diventa consapevole che le norme e le regole sono ideate dalle persone e pertanto possono essere cambiate. Nel giudicare un'azione, tiene in considerazione le intenzioni di chi la compie oltre che le conseguenze dell'azione stessa. Lo sviluppo morale secondo Kholberg Primo livello - Livello pre-convenzionale. La persona agisce sulla base di considerazioni relative a vantaggi e punizioni. Stadio 1 - Modalità eteronoma. I bambini basano le loro decisioni morali sulla paura della punizione e obbediscono alle norme stabilite dagli adulti solo perché questi ultimi gli dicono di farlo. Stadio 2 - Individualismo, scopo strumentale e scambio. Ciò che è giusto implica uno scambio equo; i bambini perseguono i propri interessi e lasciano che gli altri facciano lo stesso, pensando, per esempio, che se sono gentili con gli altri, gli altri lo saranno con loro. Secondo livello - Livello convenzionale. La moralità della persona si incentra sul bisogno di rispettare le regole sociali. I principi morali applicati sono decisi da al- tri, per esempio dai genitori. Stadio 3 - Aspettative interpersonali reciproche, relazioni e conformità interper-sonale. Gli individui danno valore alla fiducia, all'altruismo e alla lealtà verso gli altri come fondamento dei giudizi morali. Stadio 4 - Moralità volta al mantenimento del sistema sociale. I giudizi morali sono basati sulla comprensione dell'ordine sociale, della legge, della giustizia, del dovere. Terzo livello - Livello post convenzionale. La moralità è interiorizzata e non più basata su standard altrui. La persona riconosce diverse condotte morali e decide tra varie opzioni sulla base di un codice morale personale. Stadio 5 - Contratto sociale o utilità e diritti individuali. Gli individui ritengono che i valori, i diritti e i principi o stanno alla base o vanno oltre la legge. Stadio 6 - Principi etici universali. È presente un modello morale basato sui diritti umani universali. Quando si trova di fronte a un conflitto tra legge e coscienza, l'individuo segue una coscienza personale individualizzata. L'adolescenza costituisce, quindi, una fase molto delicata nel percorso di crescita. L’adolescente non è più un bambino ma non è ancora un adulto e in lui coesistono, spesso in maniera fortemente conflittuale, bisogni di autonomia e di protezione, insieme al desiderio di non perdere del tutto, all'interno della famiglia, alcuni privilegi che l'essere "bambino" gli assicuravano. Per tale motivo, questa fase dello sviluppo si configura come una tappa della vita fondamentale rispetto all'attaccamento, dato che la persona esplora nuovi ruoli sociali, costruisce rapporti sempre più significativi con il gruppo dei pari, e instaura le prime relazioni sentimentali. Durante questa fase della vita, sono frequenti conflittualità con il mondo degli adulti, in specie con i genitori, che non di rado sono percepiti dall'adolescente quasi come un ostacolo alla realizzazione di se stesso e dei suoi obiettivi. L'adolescente può diventare poco tollerante alle imposizioni e ai vincoli posti dalla famiglia, sente il bisogno di esprimere idee e opinioni in maniera veemente, e spesso attribuisce al contesto familiare molte delle difficoltà che incontra nella sua esperienza di vita. Benché i giovani a quest'età trascorrano ancora molto tempo in casa, l'autonomia dalle figure di riferimento diventa, quindi, sempre maggiore, parallelamente all'importanza assunta dai rapporti con i coetanei e dalle esperienze di socialità. Per tali motivi, si potrebbe erroneamente pensare che in adolescenza l'attaccamento ai caregiver primari diventi una variabile irrilevante rispetto allo sviluppo e al benessere psico- fisico, se non addirittura un elemento di intralcio all'evoluzione psicologica. Contrariamente a queste evidenze, le ricerche sull'attaccamento e sullo sviluppo delle relazioni familiari e sociali in questa complessa fase della vita hanno messo in luce che un rapporto emotivamente equilibrato e un attaccamento sicuro con i genitori costituiscono elementi fondamentali nel facilitare la transizione verso l'età adulta. La sicurezza dell'attaccamento nell'adolescenza, infatti, esercita sullo sviluppo socio-emotivo esattamente lo stesso effetto che aveva nella prima infanzia. La base sicura fornita dai genitori favorisce l'apertura al mondo esterno e lo sviluppo delle competenze cognitive, sociali ed emotive che permettono un adattamento adeguato alle sempre più complesse richieste che il contesto di vita pone (Allen et al., 2003). In questo periodo, inoltre, la relazione genitori-figli diventa maggiormente simmetrica e, in alcune occasioni, è il figlio stesso a fornire supporto e sostegno ai genitori. Secondo Allen (2010), durante l'adolescenza si consolidan

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