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artrite reumatoide malattie autoimmuni fisiopatologia medicina

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Il documento approfondisce l'artrite reumatoide, una malattia autoimmune cronica che colpisce prevalentemente le articolazioni sinoviali. Si descrivono fattori fisiopatologici e genetici di predisposizione alla malattia, come l'ipotesi mucosale e il ruolo del complesso maggiore di istocompatibilità (HLA).

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Argomento: artrite reumatoide Data: 25/11/2024 Sbobinatore: Emma Rossetto, Rodolfo Rigosi...

Argomento: artrite reumatoide Data: 25/11/2024 Sbobinatore: Emma Rossetto, Rodolfo Rigosi Revisore: Chiara Besana Professore: Francesco Ursini ARTRITE REUMATOIDE L’artrite reumatoide si può considerare come la regina delle malattie reumatiche propriamente dette, sia per epidemiologia, sia per importanza, sia per capacità terapeutiche. L’artrite reumatoide per definizione è una malattia autoimmune cronica che colpisce prevalentemente le articolazioni sinoviali. Per quanto la sua espressività sia considerata principalmente a livello dell’apparato muscolo-scheletrico, quindi come una malattia puramente artritica, in realtà è una malattia sistemica che può coinvolgere ogni organo e apparato. È una malattia abbastanza comune con prevalenza dello 0,5-1% e una dominanza del sesso femminile (rapporto 4:1); questa differenza tra uomo e donna con l’avanzare dell’età si riduce, ma sempre prediligendo le donne. L’età d’incidenza può essere molto variegata, dall’età pediatrica a quella senile. Il picco di incidenza è tra i 40 e 60 anni e perciò non si può definire come malattia degli anziani. Fisiopatologia La comprensione dei meccanismi fisiopatologici è utile per capire alcuni degli strumenti diagnostici ad oggi a disposizione. La fisiopatologia è estremamente complessa e se ne conosce soltanto una parte. In linea di massima si basa sull’ipotesi mucosale, la quale è alla base della fisiopatologia di molte malattie reumatiche e autoimmuni e presuppone che queste patologie originino dall’ambiente mucosale. Le mucose sono superfici molto vaste costituite da tessuti altamente immunoreattivi presidiati da cellule immunitarie residenti e rappresentano la principale interfaccia tra il sistema immunitario e l’ambiente esterno. Quindi le mucose sono le regioni in cui i trigger ambientali, che possono essere di varia natura, vengono in contatto con il sistema immunitario. Come nella maggior parte delle patologie autoimmuni, anche nell’AR la fisiopatologia si basa sulla presenza di una suscettibilità genetica e di contemporanei trigger ambientali. Quest’ultimi nell’AR sono il fumo, l’infezione della mucosa orale da Porphyromonas gingivalis e una determinata composizione del microbiota intestinale. Tutto questo converge su dei meccanismi che portano a un’alterazione della regolazione post-trascrizionale delle proteine. Le proteine quando vengono sintetizzate sono uno scheletro base al quale vengono aggiunti alcuni gruppi, come quelli glucidici, oppure in cui vengono sostituiti alcuni residui amminoacidi, al fine di passare dalla forma grezza alla conformazione tridimensionale finale che svolge una determinata funzione. Queste modifiche si chiamano post-trascrizionali, ovvero avvengono dopo che la catena amminoacidica è stata sintetizzata. Una tra queste modifiche post-trascrizionali è la citrullinazione, la quale consiste nella conversione di alcuni residui di arginina in citrullina. Questo meccanismo avviene fisiologicamente in basse quantità e viene regolato dagli enzimi PAD. In determinate condizioni, però, può essere esaltato portando a un ipercitrullinazione delle proteine. Queste piccole modifiche alle proteine che le rendono ipercitrullinate, portano in individui geneticamente suscettibili, allo sviluppo di una reazione autoimmune contro di esse. Tra i fattori genetici che predispongono il paziente c’è la presenza di specifiche sequenze dell’HLA-DR che qualificano per il “share epitope”. Ci sono degli alleli del gene HLA-DRB1 che condividono una sequenza di 5 amminoacidi che costituisce il “share epitope”. Il paziente che porta uno di questi alleli nel suo corredo HLA ha un rischio maggiore di ammalarsi di AR. Questo allele è presente fino al 90% dei pazienti con AR, mentre nella popolazione generale è presente nel 20- 30%. (Non avere questo allele non significa non poter avere AR perché ci sono degli altri meccanismi di predisposizione genetica minori o che al momento non si conoscono.) Digressione sull’HLA HLA: complesso maggiore di istocompatibilità, può essere di classe 1 o di classe 2. Il tipo 1 è presente su tutte le cellule e permette all’organismo di riconoscere ciò che è self dal non self; mentre l’HLA di tipo 2 serve per la presentazione degli antigeni da parte delle APC. L’HLA va immaginato come se fosse l’asta di una bandiera di una nave che può montare bandiere diverse. Quindi se l’APC non ha fagocitato batteri o virus, quindi è “indenne”, presenterà sull’asta della bandiera la bandiera dell’Italia, quindi questo non scatenerà una risposta immunologica. Inoltre, quest’asta può essere più o meno conformata per accogliere alcuni peptidi che derivano da alcune sorgenti particolari. Quindi, in sostanza, avere un HLA di un certo tipo porta ad essere più “bravo” a presentare determinati antigeni rispetto ad altri ed è il motivo per cui c’è variabilità personale nel rispondere all’infezioni. Nel caso dell’AR, questo HLA predispone a presentare meglio i peptidi citrullinati e perciò diventa un favore favorente la risposta autoimmune nei confronti dei peptidi citrullinati là dove vengono prodotti in maniera eccessiva. Una volta che viene innescata una risposta anticorpale fisiologicamente avviene il fenomeno dell’epitope spreading. Questo meccanismo consiste nel fatto che la prima generazione di anticorpi che viene prodotta contro un antigene è più grossolana mentre nelle generazioni successive il sistema immunitario produce anticorpi sempre più specifici attraverso di cicli di ricombinazione casuale dei recettori. Questi cicli nella risposta contro un patogeno portano a produzione di anticorpi che non funzionano bene e che vengono scartati portando alla sopravvivenza solo di quelli molto specifici. Invece, in una risposta autoimmune, la diversificazione del repertorio anticorpale intorno al tema primario della prima generazione, porta ad un allargamento della risposta autoimmune nei confronti di altri antigeni, tra cui le stesse proteine non citrullinate. Ricapitolando, quando si innesca la risposta immunitaria c’è una prima generazione di anticorpi, che è il tema principale, attorno alla quale vengono creati degli altri anticorpi che possono essere o molto somiglianti a quelli originali e che quindi sono molto focalizzati sull’antigene rendendo più specifica la risposta anticorpale, oppure possono allargare la risposta andando ad attaccare altre proteine, aumentando l’autoimmunità rispetto a prima. Il processo appena descritto è l’innesco della malattia. In alcune persone questi fenomeni immunologici si possono verificare senza che poi si sviluppi realmente la malattia. Sono pazienti che hanno una positività innocente agli autoanticorpi. Per arrivare dal trigger immunologico fino alla malattia ci voglio tanti step che sono governati dalle citochine infiammatorie, tra le quali le più importanti per l’artrite reumatoide sono il TNF, IL-1 e IL-6. In seguito a questi processi la malattia si sviluppa all’interno delle articolazioni sinoviali. La sinovia è un tessuto connettivo che riveste l’interno della cavità delle articolazioni, l’interno delle guaine tendinee e l’interno delle borse. I tendini si possono distinguere in tendini di scorrimento e in tendini di ancoraggio. I tendini di scorrimento passano in delle nicchie ricavate all’interno di docce ossee. Un tendine se scorresse sempre all’interno di una nicchia ossea si danneggerebbe; perciò, questi tendini sono rivestiti da “involucri” che li proteggono dall’usura dello scorrimento, i quali si definiscono guaine tendinee. Non tutti i tendini sono dotati di guaine, infatti i tendini di ancoraggio che hanno una funzione antigravitaria e che esercitano una forza, come il tendine di Achille, non sono rivestiti dalla guaina tendinea ma da un tessuto connettivo un po’ amorfo che si chiama paratenonio. Il tendine è avascolarizzato, quindi dire tendinite anatomicamente non è corretto. Quando si dice tendinite si intende l’infiammazione dei tessuti tendinei che possono essere o la guaina andando a determinare una tenosinovite oppure il paratenonio determinando la paratenonite. Tornando alla sinovia, l’unica cosa che qualifica il tessuto connettivo come sinovia è la sua particolare organizzazione. Porzione lining: costituita da sinoviociti di tipo A (macrofagi) e i sinoviociti di tipo B (fibroblasti). Porzione sublining: non ha nessuna caratteristica particolare. È molto eterogenea sia nella composizione che nella cellularità e a questo livello si trovano i vasi. (Non si riesce a riconoscere la sinovia soltanto dal sublining.) Nell’artrite reumatoide si verifica la sinovite, ovvero l’infiammazione della sinovia. Dal punto di vista anatomo-patologico si manifesta con: Aumento di spessore del lining: normalmente è uno strato molto sottile. Nell’infiammazione c’è un iperplasia e aumento di spessore dello strato. Questo è il tratto più rappresentativo della sinovite. Aumento dell’angiogenesi nel sublining. Attraverso l’ipervascolarizzazione fluiscono nel sito dell’infiammazione altre cellule immunitarie aumentando l’ipercellularità con T-cells, B-cells o con la proliferazione dei macrofagi. Quindi si crea una ipertrofia e iperplasia sinoviale. Questo rappresenta il substrato della clinica del paziente e il substrato anatomo patologico del danno. Infatti, nell’AR si ha un danno erosivo dell’articolazione a causa dei mediatori che vengono prodotti durante l’infiammazione, i quali determinano l’attivazione degli osteoclasti. Il punto di inizio di erosione è caratteristico, ovvero avviene a livello delle aree nude in cui c’è la sinovia a diretto contatto con l’osso senza l’interposizione della cartilagine che inizialmente ha una funzione protettiva. Clinica La presentazione più tipica della malattia è quella di una sinovite poliarticolare (> 4 articolazioni), simmetrica ad esordio insidioso (non acuto) con dolore, tumefazione e rigidità. Per lo più si localizza livello delle piccole articolazioni delle mani e dei piedi ovvero coinvolge le metacarpo-falangee, interfalangee prossimali e metatarso-falangee più i polsi e le caviglie. Il decorso tende ad essere progressivo, additivo ed erosivo. Esistono anche delle altre presentazioni cliniche, più rare. Ci può essere: Un esordio acuto Un esordio mono articolare Un esordio palindromico: artrite molto evanescente che viene in una localizzazione poi scompare, poi si presenta in un’altra regione. È molto difficile da diagnosticare. Tipologia PMR-like Sindrome di Felty: caratterizzata da AR più neutropenia a causa della presenza di anticorpi anti G-CSF e splenomegalia. Comunque, è importante tenere a mente la principale modalità di presentazione clinica poiché è quella che si utilizza anche per fare diagnosi differenziale. Ad oggi, la diagnosi si fa in pazienti che ancora hanno un’infiammazione modesta che non determina artriti drammatiche. L’infiammazione è rappresentata dalla tumefazione che può essere valutata all’ispezione oppure può essere riscontrata attraverso la palpazione alternata percependo il movimento dei liquidi (come nel ballottamento della rotula). Per capire quando un’articolazione è tumefatta si possono anche valutare le pieghe cutanee in corrispondenza di essa; infatti, in caso di infiammazione queste tendono a perdersi e la superficie cutanea diventa liscia. Ormai non si vede quasi più, ma si può presentare un paziente con veri e propri danni strutturali. Un danno erosivo protratto nel tempo comporta delle deformità progressive che fanno assumere alla mano l’aspetto della “mano a colpo di vento”. Consiste nella deviazione ulnare delle metacarpo-falangee, nella sublussazione dorsale delle teste metacarpali e nel rientro palmare della base della falange prossimale determinando un forte deficit funzionale. L’obiettivo è che i pazienti non arrivino mai a questa condizione. Ci sono, invece, delle deformità che si continuano a vedere: Deformità a collo di cigno Deformità bottoniera Si parte dal presupposto che le piccole articolazioni della mano sono strutture molto delicate sulle quali corrono i tendini. Una tumefazione artritica, per quanto transitoria e quindi reversibile, può lateralizzare un tendine. Una volta che questo si disloca funzionalmente, cambiano gli assi di tiraggio. Quindi invece di avere il tiraggio come estensore, si ha come flessore dell’interfalangea prossimale ed estensore dell’interfalangea distale. Questo concetto è importante perché sottolinea che la deformità non sempre è dovuta a un danno strutturale dell’articolazione ma può anche essere dovuta a una piccola modifica anatomica. Queste deformità appena descritte sono correggibili sia a livello chirurgico che a livello farmacologico. Tenosinovite La tenosinovite è l’infiammazione della sinovia peritendinea, non è una malattia del tendine, però la presenza di una grossa infiammazione attorno al tendine può causare anche una sua lesione, come una rottura. Si localizza in prossimità di dove si ha la sinovite, quindi in corrispondenza dei tendini estensori della mano a livello del carpo e del polso, oppure alla caviglia a livello dei tendini tibiali posteriori o dei tendini peronei. Clinicamente appare come una tumefazione analoga a quella di una sinovite con la differenza che se il paziente non ha contemporaneamente una grossa sinovite si riesce a vedere un decorso fusiforme (la sinovite è una tumefazione più generalizzata e pastosa) e in più si muove con il movimento del tendine. Borsite Le borse sono strutture virtuali, in condizioni di normalità non sono visibili nemmeno all’imaging. Sono fatte di sinovia e si trovano localizzate in zone dove anatomicamente servono ad ammortizzare i traumi. L’espressione clinica della borsite è una tumefazione a livello di ginocchio e gomito; non è frequente nell’AR ma è assolutamente possibile. Coinvolgimento del rachide cervicale L’artrite reumatoide non colpisce la colonna vertebrale. Se un paziente si presenta con mal di schiena e ha gli anticorpi dell’AR positivi si può essere comunque sicuri che questo paziente non ha l’artrite reumatoide. Quindi l’AR non coinvolge la colonna vertebrale ad eccezione di un’articolazione: l’articolazione atlo- assiale. È una piccola articolazione sinoviale che sorregge la testa e ha un’importante prossimità anatomica con il tronco encefalico. Essendo sinoviale si può ammalare di AR; una modesta tumefazione di questa articolazione può determinare la compressione del midollo causando dei quadri molto gravi. Questa articolazione è dotata di un robusto apparato di contenimento capsulo-legamentoso per mantenere il dente dell’epistrofeo unito all’atlante. Se l’articolazione si gonfia e si sgonfia a causa delle susseguirsi di infiammazioni dovuti all’AR si indebolisce la capacità contenitiva di questo apparato capsulo-legamentoso e il capo non è più saldamente attaccato al collo. Il soggetto ha quindi un’instabilità atlo-assiale ovvero l’apparato di contenimento in flessione non riesce a mantenere la testa, per cui il paziente percepisce una sensazione di testa che cade del collo e a livello radiologico si vede un aumento in flessione della distanza tra l’atlante e il dente dell’epistrofeo. In condizioni di normalità la distanza tra il dente dell’epistrofeo e l’arco anteriore dell’atlante è più o meno uguale sia che si tenga il collo in estensione che si tenga il collo in flessione. Più è marcata questa instabilità, più si possono verificare dei quadri gravi di invaginazione basilare, ovvero in flessione il dente dell’epistrofeo si infila nel forame magno. I quadri clinici caratteristici di questa condizione sono: mal di testa, che è il sintomo più frequente nei pazienti e quello meno minaccioso, mielopatia interessamento dei nervi cranici interessamento del tronco con la sindrome locked-in quadri vascolari di insufficienza vertebro-basilare. Manifestazioni extra-articolari L’artrite reumatoide è una malattia sistemica quindi oltre a manifestazioni articolari si hanno manifestazioni extra-articolari. Noduli reumatoidi È una manifestazione cutanea che subentra nella malattia tardiva e scarsamente controllata. Sono noduli che si localizzano principalmente sulle superfici estensorie sottoposte a microtraumi ripetuti. Possono raggiungere dimensioni considerevoli, sono di consistenza dura, generalmente non fanno male e sono mobili. Dal punto di vista anatomo-patologico sono dei granulomi. Questi noduli possono diventare un grosso problema estetico, ma la cosa più importante è che si possono localizzare a livello degli organi e in particolar modo si localizzano a livello del parenchima polmonare. Nel parenchima polmonare i noduli reumatoidi hanno un aspetto all’imaging analogo a quello di una neoplasia, inoltre il paziente affetto da AR ha un maggior rischio di tumore polmonare. Quindi, la diagnosi differenziale può essere fatta solo tramite biopsia. I noduli si possono localizzare anche in altri siti, per esempio, a livello laringeo dove causa una sintomatologia disfonica, ma anche a livello della pleura, del pericardio, della sclera, della dura madre o a livello encefalico. Vasculite reumatoide Per vasculite si intende un processo infiammatorio della parete del vaso. Nell’artrite reumatoide, quando presente, vengono coinvolti vasi sanguigni di piccole e medie dimensioni. Siccome questi vasi sono pressoché dappertutto, la presentazione clinica di una vasculite di piccoli e medi vasi può essere molto eterogenea. Quindi è una complicanza poco frequente ma prognosticamente molto sfavorevole e molto difficile da diagnosticare poiché si possono avere moltissime manifestazioni diverse. Sicuramente la cosa più frequente in un paziente con vasculite reumatoide è l’interessamento cutaneo sottoforma di ulcere o di porpora palpabile e quindi distinguibile dalla porpora piana da piastrinopenia. Ci sono anche alcune manifestazioni meno frequenti come l’eritema elevatum diutinum o l’infarto periungueale. Coinvolgimento polmonare Può colpire la pleura, dando generalmente pleurite. La complicanza più frequente ed importante è l’interstiziopatia polmonare (da un punto di vista funzionale il paziente non respira perché si ha per prima cosa un aumento della distanza di penetrazione dell’ossigeno alveolo-capillare, per cui si ha una ridotta diffusibilità dell’ossigeno che tendenzialmente è meno diffusibile del CO, poi in seguito si ha anche riduzione della compliance polmonare). L’interstiziopatia è molto importante perché, se si sottopone alla TAC 100 pazienti con artrite reumatoide, il 50% di essi ha alterazioni di tipo interstiziale, ma solo nel 10% dei casi è clinicamente significativa con insufficienza respiratoria (il che imprime un aumento di mortalità molto marcata). Coinvolgimento oculare Per quanto riguarda il coinvolgimento oculare si può avere la Sindrome di Sjogren (malattia reumatica autoimmune che colpisce le ghiandole esocrine, caratterizzata da secchezza oculare, sensazione di sabbia negli occhi e xerostomia. Ciò che la differenzia da una secchezza benigna è la cheratocongiuntivite secca, ovvero il paziente ha un occhio talmente secco che la congiuntiva palpebrale inizia a scavare contro la cornea creando un danno epiteliale corneale che potenzialmente può portare anche ad un calo del visus scarsamente correggibile ed episclerite, che si manifesta come un rossore oculare generalmente molto importante, senza dolore o alterazione del visus, cosa che invece c’è nell’uveite). Malattie cardiovascolari La complicanza sistemica più importante è la morbilità cardiovascolare. Nonostante oggi si riescano a curare i pazienti molto bene rimane aperto un gap di mortalità cardiovascolare con la popolazione generale. Il paziente con artrite reumatoide, quindi, ha un maggior rischio di mortalità dovuto a un maggiore rischio di infarto e ictus. Per dare una misura di questo problema, alcuni studi hanno comparato il rischio cardiovascolare di pazienti con artrite reumatoide con quello di pazienti con diabete (prototipo del rischio cardiovascolare): il rischio è risultato simile, con la differenza che i pazienti diabetici sono trattati intensivamente, mentre i pazienti con artrite reumatoide paradossalmente sono sottotrattati. Confrontando poi un paziente con artrite reumatoide con un paziente dislipidemico (che non ha un fenotipo di rischio molto elevato come il diabete), si nota come statisticamente sia meno probabile che il paziente con artrite reumatoide riceva un trattamento adeguato, nonostante abbia un rischio maggiore. Strumenti diagnostici Esami di laboratorio Come quasi tutte le malattie reumatiche infiammatorie si valutano esami altamente aspecifici come gli indici di flogosi (VES e PCR) che non sono uno strumento di diagnosi in senso stretto ma aiutano nel definire la presenza di uno stato infiammatorio e per monitorare l’andamento della malattia. Vi sono 2 esami più specifici: - fattore reumatoide (RF): anticorpo generalmente IgM diretto contro la porzione stabile delle Ig umane, con una sensibilità attorno al 70% e specificità dell’85%, per cui il 15% delle persone positive possono avere altre patologie o non avere nulla. - anticorpi anti-proteine citrullinate: si ha maggiore guadagno in termini di specificità rispetto alla sensibilità; questi sono presenti per lo più in pazienti con artrite reumatoide e quando sono presenti in un altro individuo che non ha criteri di diagnosi per l’artrite reumatoide definiscono un rischio aumentato di svilupparla. Esami strumentali - radiologia convenzionale: consente di valutare solamente le alterazioni morfologiche dell’osso e non dei tessuti molli; consente però di valutare due lesioni importanti: erosioni marginali nelle aree nude (patognomonica), ovvero mancanza di pezzi di osso in queste aree, e riduzione della rima articolare, che non è specifico per l’artrite reumatoide perché è presente anche nell’artrosi, ma è importante dal punto di vista funzionale perché se c’è una riduzione marcata della rima, quindi dello spazio tra i due capi dell’articolazione, la mobilità dell’articolazione è probabilmente compromessa. - ecografia: strumento che ha numerosi vantaggi, primo fra tutti il fatto di poter essere eseguita nell’ambulatorio di reumatologia (il radiologo ha meno skills nella valutazione delle piccole articolazioni rispetto al reumatologo), inoltre è utile nella diagnosi precoce, può essere eseguite moltissime volte, serve per monitorare l’andamento della malattia, costa poco, consente di fare prelievi di liquido sinoviale, di fare infiltrazioni di farmaci in siti specifici e di fare biopsie. L’infiammazione come appare all’ecografia? Si vedono i due capi articolari, e normalmente lo spazio fra essi è occupato da tessuto connettivo sottile che non deforma e non sospinge la linea di confine tra i due capi; mentre nell’ipertrofia sinoviale artritica a partire dallo spazio in cui si ha un’espansione del tessuto molle si crea un’area di ipoecogenicità che è espressione sia dell’ipertrofia sinoviale che dell’aumento del versamento. Una cosa molto utile che permette di fare l’ecografia è di valutare la presenza di vascolarizzazione tramite uno strumento chiamato power doppler, ovvero un adattamento dell’immagine doppler per i flussi lenti, quindi per i vasi di piccolo calibro (dà una misura della microvascolarizzazione della sinovia infiammata). Più c’è power doppler, quindi più ci sono spot di segnale doppler, e più è misura di infiammazione attiva, calda e reversibile con il trattamento. Al contrario, si possono anche avere casi di sinovite senza power doppler, che rappresenta una sinovite ormai fredda e non intercettata dalla terapia. Stesso discorso vale per la tenosinovite, in trasversale si vede una struttura tendinea ovoidale circondata da un sottilissimo alone ipoecogeno (guaina normale): questo è quello che si ha in caso di tenosinovite, con un manicotto ipoecogeno che è assolutamente iper- rappresentato rispetto a prima, e la stessa cosa in visione longitudinale. C’è sia un aumento del tessuto sinoviale sia un’iperproduzione di liquido. Anche nella tenosinovite si può avere segnale power Doppler, segno di infiammazione attiva che ci permette di distinguere tra le porzioni fluide e quelle tissutali. L’eco consente anche di vedere le erosioni, chiaramente non è panoramico, bisogna guardare una per una le articolazioni, in alcuni siti è limitata dall’accessibilità ecografica delle articolazioni, perché l’osso sbarra gli ultrasuoni: se davanti a ciò che si vuole ecografare è presente un osso, quella struttura non sarà visibile. Per cui ecograficamente si è in grado di vedere gran parte (girandoci attorno) della seconda articolazione metacarpofalangea e della quinta ma della terza e quarta vediamo molto poco, solo il versante dorsale e palmare. Nelle aree in cui è possibile accedere, si è anche in grado di vedere le erosioni in modo anche superiore rispetto alla radiografia convenzionale: è presente una discontinuità della corticale, con echi di riverbero anche sotto la corticale (significa che la invulnerabilità agli ultrasuoni data dall’osso è stata violata) che normalmente non dovrebbero esserci. A testimonianza della stretta relazione tra ipertrofia sinoviale ed erosione, se si va a vedere nell’immagine con il power doppler nelle erosioni c’è segnale vascolare quindi si capisce che quel buco è colmato da sinovia vascolarizzata (è come un fronte: più avanza la sinovia e più l’osso si ritrae dando l’erosione). -RM: nell’artrite reumatoide viene utilizzata relativamente poco perché è un’indagine pesante, è una macchina complessa con un tempo di esecuzione lungo, le cui immagini sono dipendenti dalla tecnologia. Le immagini sono formate dal fatto che l’uomo è formato per lo più da acqua. Questa, essendo ricca di protoni, sottoponendola ad un campo magnetico ci permette di polarizzare tali protoni e l’energia rilasciata la si va a ricaptare quando ritorna nella posizione di partenza. Nell’artrite reumatoide può essere utile ma è sovradosata essendo che con la radiologia convenzionale possiamo vedere gran parte dello spettro di patologie. L’unico vantaggio che ha è di veder l’infiammazione all’interno dell’osso: l’edema osseo. Questa lesione non è in grado di essere vista con la radiologia convenzionale. Criteri classificativi ACR/EULAR 2010 (non vanno memorizzati tutti) La differenza di diagnosi fra i vari operatori può anche essere molto marcata quindi, è una disciplina molto operatore dipendente. Questo problema è molto sentito, dal punto di vista soprattutto dei trial clinici che portano all’approvazione di nuovi farmaci. Quindi bisogna essere relativamente confidenti che anche i colleghi dall’altra parte del mondo stiano reclutando dei pazienti che con buona probabilità esprimono più o meno la stessa patologia. Si utilizza un set di criteri classificativi che ricapitolano gli elementi salienti della diagnosi clinica in modo più rigido, cioè tramite un sistema di scoring che permetterà di fare entrare nel trial solo quei pazienti che presentano artrite reumatoide. Sono criteri classificativi che non servono per la diagnosi (che invece è clinica) ma che danno però la misura di quali sono i fattori che pesano di più in una diagnosi di artrite reumatoide: tante piccole articolazioni infiammate che non 1 o 2 articolazioni entrambi gli anticorpi positivi PCR elevata la cronicità: es. avere dolore per 10 giorni alle mani è frequente e indica un’artrite transitoria (Non serve memorizzarli ma servono per i trial clinici e quindi per uniformare la ricerca, oltre a focalizzare quali sono gli elementi diagnostici già pesanti nel paziente medio). Trattamento È la malattia che oggi si è in grado di curare meglio perché si sono compresi i processi fisiopatologici che la dominano. Prima si usavano o farmaci molto generici come antinfiammatori corticosteroidi e quindi non impattanti sul decorso nella malattia, o farmaci poco efficaci e molto tossici come i sali d’oro, che portavano a scarso controllo dei sintomi e progressione della malattia. La rivoluzione coincide con il metotrexate e con l’introduzione con una miriade di farmaci biologici e successivamente anche di farmaci post-biologici. Quindi in generale questi farmaci che utilizziamo per trattare pazienti vengono chiamati DMARs (disease modifying anti reumathic drugs) per sottolineare il fatto che non soltanto riducono i sintomi, ma modificano anche il decorso naturale della malattia, rallentandolo o arrestandolo. Primo fra tutti il capostipite è ancora oggi il matotrexate, un farmaco citato anche in ematologia, perché è un farmaco antiproliferativo ad ampio spettro, un immunosoppressore utilizzato anche per alcune neoplasie, in grado di abbassare globalmente questa iperreattività patologica alla base delle malattie autoimmuni sistemiche. Si utilizza infatti in gran parte delle malattie reumatologiche. Ha una latenza dell’effetto di diverse settimane, circa 8-12 settimane nella maggior parte dei pazienti; quindi, quasi sempre viene affiancato da corticosteroidi come bridge (hanno problemi di sicurezza importanti se utilizzati per terapie continuative ma agiscono molto rapidamente, quindi il loro utilizzo come ponte è ragionevole). La cosa che ha rivoluzionato è l’introduzione dei farmaci biologici: sono o anticorpi monoclonali o delle molecole ricombinanti che lo simulano, formate da un recettore ricombinante per una determinata citochina (TNF, quindi recettore TNF solubilizzato con una porzione Fc di un’immunoglobulina). quindi farmaci che vengono prodotti con delle tecnologie che vedono l’utilizzo di bioreattori, Oggi grazie alla comprensione dei processi fisiopatologici abbiamo diversi farmaci biologici: alcuni sono anticitochinici puri, che intercettano le 3 citochine chiave IL-1, IL-6 e TNF), dopodiché c’è un farmaco chiamato Abatacept che inibisce l’attivazione delle cellule T. Le cellule T hanno bisogno di almeno 2 segnali: sia dell’interazione tra TCR e il complesso MHC presente sulla cellula APC, sia di un secondo segnale, dato dall’ interazione di CD28 con il CD80/CD86 espresso sull’ APC. Il farmaco Abatacept inibisce questo secondo segnale post-stimolatori inibendo l’attivazione dei linfociti T. Un altro farmaco che è il Rituximab (un anti-CD20) che porta alla deplezione di cellule B e quindi ad una ridotta produzione di auto-anticorpi. Farmaci Post-biologici Nuovi farmaci approvati negli ultimi anni, uno degli svantaggi dei biologici è che devono essere somministrati o per via endovenosa o per via sottocutanea (essendo proteine verrebbero degradate nello stomaco in caso di somministrazione orale). I farmaci post-biologici sono piccole molecole che si comportano come i biologici ma di sintesi chimica. Sono JAK-inibitori: il recettore quasi sempre non ha un’attività catalitica intrinseca, di suo non agisce (se non viene legata la citochina) e non innesca una trasduzione del segnale con le usuali sequenze di fosforilazioni nella cellula che danno l’effetto biologico. Una serie infinita di citochine e fattori di crescita, utilizza questo pathway di trasduzione del segnale mediato da JAK-STAT. Sono presenti diverse isoforme di JAK e anche di STAT ma la combinazione di questi 2 fattori determina l’effetto biologico del legame citochina-recettore. I farmaci, quindi, non bloccano più la citochina all’ esterno della cellula, bensì entrano nella cellula inibendo più o meno selettivamente le varie isoforme di Jak. Vi possono essere farmaci Jak 1 selettivi (Jak 1 è principalmente coinvolta nel signaling di IL-6) o inibitori non selettivi: i Pan-jak. Questi farmaci riproducono l’azione dei biologici ma hanno effetto su varie citochine (con possibilità di inibizione anche di citochine utili e benefiche, con aumento quindi degli effetti avversi) ma con i vantaggi di una netta rapidità di azione (perché si inibisce subito l’effetto terminale della citochina) e della possibilità della somministrazione orale (che consente di migliorare la compliance almeno in un certo numero di pazienti). Linee guida (da non imparare) Il paziente riceve la diagnosi e comincia con metotrexate (e corticosteroidi per via sistemica). Dopodiché il paziente segue un progetto di follow-up, perché è un paziente cronico che non guarirà mai. Valutazione dell’attività della malattia. Avendo detto che non ci sono strumenti specifici al 100% chiaramente non c’è un parametro unico con cui si può seguire il paziente e capire come sta andando la malattia, quindi bisogna affidarsi a degli indici/equazioni che integrano una serie di informazioni, alcune indicate dal medico (es: articolazioni dolorabili all’esame obiettivo), poi un valore oggettivo (VES o PCR) e un valore soggettivo centrato sul paziente (es: malessere del paziente), generalmente indicata con una scala numerica e si ottiene un risultato che ci dice se il paziente è in remissione, se ha un’attività bassa, moderata o alta. In base a questo valore si applica un approccio “treat to target”, per cui ci si pone dei target come, ad esempio, la remissione o la scomparsa di segni e sintomi o la normalizzazione della PCR e si adatta la terapia con escalations continue ed ad intervalli stretti (ogni 1-3 mesi). Se il paziente non è in remissione, per esempio, aggiungiamo un anti-TNF e lo si rivede dopo 3 mesi. Se invece non è in remissione: o si cambia l’anti-TNF o si prova ad agire su un altro target, come anti IL-6. La remissione fino a 20 anni fa non era raggiungibile, mentre oggi la si può ottenere nella maggioranza dei pazienti (dopo almeno 2/3 tentativi farmacologici).

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