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. Nei primi 40 anni di vita del nuovo Regno il sistema bancario italiano fu colpito da due crisi, che provocarono il calo delle operazioni e il fallimento di numerosi istituti di credito. La prima crisi si ebbe nel 1873 - 74 e la seconda 20 anni dopo. L’euforia che, tra il 1869 il 1873, invase i...

. Nei primi 40 anni di vita del nuovo Regno il sistema bancario italiano fu colpito da due crisi, che provocarono il calo delle operazioni e il fallimento di numerosi istituti di credito. La prima crisi si ebbe nel 1873 - 74 e la seconda 20 anni dopo. L’euforia che, tra il 1869 il 1873, invase il mondo degli affari europei, in particolare la Germania, coinvolse direttamente le banche, che senza controllo investirono gran parte dei risparmi raccolti a breve termine nell’acquisto di azioni di nuove società, come se fossero istituti di credito mobiliare. Quando le società industriali e commerciali, costituite per scopi speculativi, cominciarono a fallire, perché non riuscivano a vendere i loro prodotti, anche le banche finanziatrici furono trascinate nella crisi. Quella del 1893 - 94 fu una crisi più grave della precedente, poiché, coinvolse le banche di emissione e creò lo scompiglio nell’intero sistema bancario, in particolare nel settore creditizio mobiliare. Le ragioni vanno ricercate nelle immobilizzazioni create dalle banche in seguito all’impiego a lunga scadenza di capitali raccolti a breve. Le due maggiori banche di investimento, il Credito Mobiliare la Banca Centrale, si erano impegnate con numerose società, in particolare avevano partecipato alla speculazione edilizia a Roma e a Napoli. Gli investimenti sbagliati, accompagnati dalla crisi dell’economia italiana (dovuta alla caduta dei prezzi del ferro e dei prodotti agricoli, alla guerra commerciale con la Francia) fecero diminuire il prezzo delle azioni possedute dalle due banche e fecero ritirare gran parte dei depositi dei risparmiatori. Gli istituti che si affermarono dando una svolta decisiva alla politica bancaria e sostenendo lo sviluppo economico del periodo 1896-1914, furono la Banca Commerciale Italiana, costituita nel 1894 con la partecipazione di capitali tedeschi e il Credito Italiano, sorto nel 1895 dalle spoglie della Banca di Genova. Le due imprese assunsero la funzione di banche miste del tipo di tedesco, ossia facevano operazioni di credito a breve, medio e lungo termine, e si occupavano delle emissioni di titoli azionari e obbligazionari di società. Con l’inizio, poi, del periodo giolittiano (1903-1914, decennio che prese il nome dai governi guidati da Giovanni Giolitti, esponente liberale, che caratterizzarono la vita politica italiana sino alla vigilia della prima guerra mondiale), la più ampia diffusione delle società per azioni e la presenza di ingenti capitali industriali favorirono lo sviluppo delle borse, specie quella di Milano. Funzione propulsiva, in tal senso, ebbero le banche miste, alle quali giovava un mercato mobiliare dinamico per scongiurare sempre temute crisi di liquidità e per diversificare le forme di finanziamento. Lezione 6 L’economia della Russia, della Cina e del Giappone L’emancipazione dei servi in Russia Nell’ottocento, le innovazioni che furono introdotte nelle tecniche della coltivazione delle terre, nei paesi europei, non arrivarono in Russia. Le terre venivano dissodate ancora con l’aratro di legno e si producevano, principalmente, i cereali, patate e barbabietole da zucchero con bassi rendimenti. Anche in Russia esisteva il servaggio, dove i servi erano spesso vittime di atroci crudeltà commesse dal signore e non avevano alcuna protezione dallo Stato. Soltanto nel 1861, lo Zar Alessandro II emanò una serie di provvedimenti che abolivano, senza riscatto, la schiavitù personale. Tuttavia, per acquisire la proprietà i contadini avrebbero dovuto pagare un indennizzo al signore, poiché il contadino non aveva risparmi, lo Stato gli concesse un prestito con il quale poteva pagare subito il signore. Lo Stato, però, non ritenendo i contadini capaci di restituire i debiti contratti, pensò di non assegnare le terre ai singoli, bensì al mir (Comunità di villaggio e di coltivatori) che divenne responsabile del pagamento delle annualità per tutte le terre del villaggio. Le famiglie dei contadini ricevettero una casa, un piccolo fondo da coltivare in proprio e un diritto d’uso sulle terre indivise del villaggio, per il pascolo e la raccolta della legna. Il provvedimento danneggiò la nobiltà, perché fu privata della manodopera per lavorare le proprie terre e non aveva capitali sufficienti per introdurre innovazioni nelle tecniche colturali. Molti nobili furono costretti a vendere le terre. Nel 1916, circa il 60 % della proprietà Fondiaria della nobiltà era passata nelle mani dei contadini più abbienti chiamati kulaki. Il ritardo nell’industrializzazione L’industrializzazione della Russia si ebbe solo alla fine dell’Ottocento, grazie all’aiuto dello Stato e al contributo di capitali stranieri. Pietro il Grande e Caterina II, sostenendo la costituzione delle fabbriche e la crescita dell’operazione industriale, non erano riusciti a fare della Russia del ‘700 una grande potenza economica. La loro opera fu, in gran parte, distrutta dall’invasione napoleonica. D’altronde, il governo preferiva sostenere lo sviluppo dell’agricoltura, poiché era cresciuta la domanda europea di grano, lino e canapa. Questa politica era appoggiata dagli intellettuali russi che volevano il miglioramento delle condizioni del contadino e mettevano in evidenza i lati negativi della vita che svolgeva nelle fabbriche. Gli slavofili, come venivano definiti questi intellettuali erano contrari al progresso della borghesia. Essi non respingevano completamente l’industrializzazione, ma volevano che fosse realizzata sotto il controllo dei contadini. Avrebbero dovuto essere le associazioni dei lavoratori facenti capo al mir a rendersi parte attiva per lo sviluppo industriale. Pertanto, fino agli anni ‘70 l’economia russa fu basata, principalmente, sull’esportazione dei prodotti agricoli e maggiormente di grano. La situazione mutò negli ultimi decenni del secolo. Il merito dei pochi progressi compiuti dalle industrie va attribuito ai capitali e agli imprenditori stranieri. I primi progressi si ebbero nel settore della produzione dei tessuti di cotone, che ha utilizzato soprattutto i filati inglesi. Tra il 1899 e il 1907 lo sviluppo industriale subì una battuta di arresto, per ragioni interne e internazionali. La crisi si aggravò nel biennio 1904 - 1905 per la guerra russo – giapponese. Subì una nuova battuta di arresto per la crisi mondiale del 1907 -08, che durò fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Per difendersi dalla crisi, gli industriali, soprattutto, quelli stranieri si riunirono in sindacati o cartelli per controllare il mercato; i più conosciuti sono il sindacato Prodamet, per il controllo delle industrie metallurgiche e quello Produgol per l’estrazione del carbone. Superato il periodo di crisi grazie ai sindacati, l’attività industriale continuava a crescere rapidamente per gli investimenti di capitali stranieri nel paese e per la maggiore esperienza acquisita dai tecnici e da operai russi. Lo sviluppo industriale e il commercio nipponico Fino al 1868 l’industria giapponese ebbe, prevalentemente carattere artigianale. Dopo il 1868, con il governo Meiji la politica economica giapponese fu diretta a sviluppare le industrie, perché in esse si vedeva la possibilità di acquistare potenza militare, indipendenza economica e politica dall’estero. Lo stato istituì scuole professionali, richiamò dall’estero insegnanti e tecnici esperti, importò macchine per scoprirne il funzionamento. La maggiore attenzione fu posta alla costruzione di industrie per l’armamento terrestre e navale. Con una legge del 1880 lo stato vendette una parte delle sue imprese ai privati ad un prezzo molto basso per attirare i comparatori e stimolare l’iniziativa privata, in tal modo si favorì la costituzione e lo sviluppo di grandi concentrazioni industriali e finanziarie a carattere familiare chiamate zaibatsu (ossia trust familiare, sotto forma di società in accomandita per azioni). Lo sviluppo industriale fu favorito, non solo dallo stato, ma anche dalla grande disponibilità di manodopera a buon mercato, derivante dalla crescita della popolazione e dai contadini che lasciarono le terre per i salari di fame o per la gravosità delle imposte. Le famiglie contadine non erano più costrette ad uccidere i propri figli, ma li mandavano a lavorare nelle fabbriche. Le crescite più consistenti si ebbero nei settori meccanico, tessile, dei prodotti chimici e della produzione di ceramiche. Nei primi decenni del governo Meiji si ebbe una consistente esportazione di materie prime di prodotti agricoli e furono importate macchine e manufatti dei primi anni del ‘900. La situazione si capovolse, poiché aumentarono le esportazioni di manufatti e si cominciarono ad importare materie prime. La maggiore crescita degli scambi internazionali si ebbe dal 1880 al 1910. A tali risultati si giunse non solo per la politica del governo, che cercò di dare un forte impulso all’esportazione e coprire le importazioni, ma anche per una serie di circostanze che influirono positivamente sullo sviluppo economico del paese: l’attenuazione del protezionismo, in tutto il mondo; l’accentuata svalutazione della moneta sul mercato nazionale, dovuta alla diminuzione del prezzo dell’argento; la crisi della bachicoltura europea per la moria dei bachi da seta; la liberalizzazione del commercio nipponico con basse tariffe doganali. La politica monetaria e bancaria giapponese La politica monetaria bancaria attuata in Giappone, nella seconda metà del XIX secolo, ebbe un ruolo determinante per lo sviluppo industriale del paese. Al riordino della circolazione monetaria contribuirono lo Stato e le banche. Il sistema bancario, dopo i primi anni di incertezza, assumendo le caratteristiche delle banche europee, riuscì a sostenere le iniziative industriali con la concessione di prestiti per il finanziamento di investimenti produttivi. Nel 1868, quando si restaurò il potere imperiale, in Giappone circolava una grande varietà di monete d’oro, d’argento e di rame che differivano per forma, peso e valore nominale. inoltre, circolavano banconote emesse dai daimyo (potenti signori feudali del Giappone premoderno, che governarono vaste regioni del paese durante il periodo feudale, soprattutto tra il XV e il XIX secolo) e dai mercanti. Il nuovo governo dei Meiji, inizialmente, dovendo far fronte ad ingenti spese straordinarie, aggravò il caos della circolazione autorizzando l’emissione di biglietti inconvertibili. Il primo provvedimento governativo, per il riordino del sistema monetario, fu la riconiazione delle monete metalliche esistenti prima del 1868 e la sostituzione dei biglietti dei daimyo con banconote di Stato. Ufficialmente si creò un sistema bimetallico, ma i campi con l’estero si basavano sull’argento. il problema di rendere convertibile la carta moneta fu risolta solo nel 1886, quando furono emesse banconote della Banca del Giappone (costituita nel 1882). In generale, fino alla prima guerra mondiale prevalse il modello delle banche monocellulari, successivamente, cominciarono a diffondersi anche le banche con filiali. Lezione 7 Il nuovo continente nell’Ottocento La conquista delle terre dell’Ovest nell’America del Nord Nei grandi territori dell’America e dell’Australia il problema dell’assetto Fondiario era completamente diverso da quello dei paesi europei: vi era abbondanza di terre poco sfruttate e principalmente mancava il sistema feudale, che costituiva un grosso ostacolo all’introduzione di qualsiasi innovazione tecnica. Nella storia degli Stati Uniti d’America, particolare importanza ebbe l’avanzamento della frontiera dell’est verso l’ovest. I colonizzatori europei, alla fine del ‘700, si erano stabiliti maggiormente lungo la costa atlantica dell’America del nord occupando le terre fino alle Valli degli Apalachi. Durante il XIX secolo, con la crescita naturale della popolazione e la forte immigrazione dall’Europa, si popolarono gradualmente tutte le terre fino all’Oceano Pacifico. Tale spostamento di uomini e di frontiere non fu facile, poiché si trattava di vivere intere sconosciute, piene di insidie e di pericoli, abitati dagli indiani che cercavano di ostacolare l’avanzata dei nuovi arrivati. Come avvenne lo spostamento della popolazione sulle nuove terre? Secondo la teoria del Turner, si ebbero tappe successive. Arrivarono per primi i pionieri, cioè i cacciatori o i mercanti o i missionari, poi i pastori, poi gli agricoltori e, infine, gli insediamenti urbani. In pratica, non sempre la successione fu così rigorosa, variò secondo le difficoltà che si incontravano. D’altronde, le quattro tappe erano valide per l’occupazione delle terre del nord – ovest, ma non per quelle del Sud – ovest, dove i pionieri furono sostituiti da piantatori di colture estensive di tabacco o cotone, i quali riunivano più apprezzamenti e li sfruttavano rapidamente con colture di rapina; quando i rendimenti cominciavano a scendere i piantatori si spostavano su nuove terre e vendevano le prime ai nuovi coloni, che introducevano colture più razionali. Alla conquista dell’ovest partecipò in modo attivo il governo, con quattro forme di intervento: Acquistando o conquistando le terre che appartenevano ad altre nazioni Cacciando con la forza gli indiani Vendendo o assegnando le terre a coloro che desideravano dissodarle Organizzando i territori in stati e comuni Lo spostamento della popolazione verso l’ovest veniva protetto dall’esercito, che provvedeva a cacciare gli indiani dalle loro terre spingendoli verso le zone montuose più povere. La guerra che si ebbe tra il 1874 e il 1890 fu particolarmente dura e si concluse con la definitiva sconfitta degli indiani e il loro isolamento nelle riserve. Le nuove terre acquistate e quelle non ancora popolate furono distribuite, a titolo di gratificazione, ad ex combattenti delle guerre contro gli indiani o contro il Messico, oppure furono vendute a privati e alle compagnie ferroviarie. La vendita ai privati fu stabilita con un’ordinanza governativa che, tuttavia, prevedeva prezzi troppo alti e apprezzamenti troppo ampi. Altro inconveniente derivava dal fatto che spesso il governo metteva in vendita le terre senza tener conto che erano già posseduti da altri coloni pionieri. Ciò causava violenza tra gli occupanti e gli acquirenti. Per ovviare a tali inconvenienti, nel 1862, fu emanato l’Homestead Act, che riconobbe il diritto di proprietà agli occupanti senza pagamento. Le industrie negli Stati Uniti Dall’ultimo decennio del ‘700 allo scoppio della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti realizzarono grandi progressi in tutti i campi dell’economia e maggiormente nelle attività industriali. La crescita di tali attività fu piuttosto lenta dal 1790 al 1820 e molto rapida dal 1840 al 1860. Tuttavia, l’imprenditore che diede la spinta maggiore all’industrializzazione fu Francis Cabot Lowell, che nel 1815, ricorrendo allo spionaggio industriale, riuscì ad impadronirsi del progetto per la costruzione del telaio meccanico inglese e favorì lo sviluppo dell’industria tessile. Le fabbriche di Lowell introdussero la standardizzazione del settore tessile. Whitney e North, tra il 1800 e il 1808 adottarono la standardizzazione della produzione e l’intercambiabilità dei pezzi in una fabbrica per produrre armi. Si trattava. del sistema di lavorazione conosciuto come sistema Americano, con il quale un oggetto, oppure una macchina si ottenevano con il montaggio a catena. Tra le invenzioni di quel periodo bisogna ricordare la fresa universale, capace di realizzare qualsiasi tipo di fresatura elicoidale e il tornio a torretta, sul quale si potevano montare una serie di utensili da taglio disposti in modo da lavorare consecutivamente sul pezzo. Il sistema Americano fu introdotto in molti settori industriali, in particolare nella produzione di macchine tessili e macchine per cucire. Nella seconda metà del secolo si passò alla linea di assemblaggio, che fu applicato soprattutto nelle costruzioni delle auto della Ford e della Cadillac. Con tale innovazione nelle organizzazioni della produzione si passò dall’abilità degli uomini alla capacità delle macchine. Il sistema monetario e le banche negli Stati Uniti La rivoluzione per l’indipendenza delle colonie inglesi dell’America settentrionale fu finanziata dei prestiti e dall’emissione di banconote. Nel 1790, il segretario del Tesoro Hamilton per mettere ordine nella circolazione monetaria, costituita da biglietti di numerose banche, progettò la creazione di una banca nazionale, sul modello della Banca d’Inghilterra. Così fu costituita la Bank of the United States, con sede a Filadelfia, che faceva tutte le operazioni di una banca commerciale, emetteva banconote garantite da oro e argento ed effettuava il servizio di tesoreria del governo federale. Con lo scoppio della guerra di secessione, 1861, il segretario del Tesoro, oltre a prelevare nuovi tributi ed accrescere l’indebitamento della Federazione emise 9 banconote, le United State Notes, meglio conosciute come greenbacks, perché di colore verde. Appena emesse erano biglietti convertibili in moneta metallica, ma dopo qualche mese, sull’esempio dei biglietti delle banche di Stato, il governo stabilì la loro inconvertibilità. Terminata la guerra di Secessione, nella maggior parte dei paesi europei era stato adottato il monometallismo aureo, per cui dovendo gli Stati Uniti pagare loro le merci acquistate in Europa, si ebbe una notevole fuoriuscita di tale metallo dal paese, viceversa l’argento che era svalutato abbondava sul mercato interno. Per ovviare a tale inconveniente e allinearsi a quanto era stato attuato in Europa, con una legge Gold standard Act del 1900, anche negli Stati Uniti fu introdotto il monometallismo aureo. Dalla fine della guerra di secessione allo scoppio della prima guerra mondiale il sistema monetario della Federazione, oltre ad avere le banche di Stato e le banche nazionali, aveva le Casse Di Risparmio (trust companies) e i banchieri privati. La legge di riforma che abolì le pecche del sistema bancario fu approvata nel 1913 e prese il nome di Federal Reserve Act. Essa creò il sistema delle banche centrali che si contrapponeva al sistema inglese con una sola banca centrale. Il sistema era così strutturato: al vertice si trovava il Federal Reserve Board, ossia il consiglio di amministrazione, poi venivano le 12 Federal Reserve Banks e infine le banche affiliate, ossia le Member Banks. I biglietti delle banche della riserva, chiamati Federal Reserve notes, dovevano essere garantiti da una riserva in oro pari al 40 % del loro valore. Il sistema della riserva federale fu organizzato nell’agosto del 1914. Nei primi anni di vita il sistema riuscì a mettere ordine nelle emissioni di biglietti ed elasticità alla circolazione monetaria e mantenne basso il saggio di sconto. Con il controllo sulle attività delle banche spesso si evitò il loro fallimento. PARTE TERZA LE GUERRE, LE CRISI E IL DECLINO DELL’EGEMONIA EUROPEA NEL MONDO Lezione 1 L’evoluzione demografica, il pensiero economico del XX secolo Lezione 2 Le cause e le conseguenze della prima guerra mondiale Lezione 3 La grande crisi dell’economia occidentale Lezione 4 La politica autarchiche e la seconda guerra mondiale Lezione 5 Le economie europee nella seconda metà del 900 Lezione 1 L’evoluzione demografica, il pensiero economico del XX secolo La crescita della popolazione nel XX secolo Nel XX secolo, nonostante lo scoppio di due guerre mondiali con pesanti perdite di vite umane, la popolazione mondiale è cresciuta a ritmo quasi continuo e vertiginoso. La densità più elevata si ha in Asia e in Europa, nel 1986, rispettivamente con 104 e 100 abitanti per Kmq. La crescita della popolazione registrata nell’ottocento, in Europa e nell’America del nord, fu dovuta alla sensibile riduzione della mortalità, grazie ai miglioramenti economici a quelli igienici e maggiormente per i progressi della medicina. Tale crescita è stata definita prima rivoluzione demografica, per distinguerla dalla seconda rivoluzione demografica che si è avuta nel XX secolo. Essa, però, non interessò i paesi sottosviluppati (America Latina, Africa ed Asia) dove la mortalità nell’ottocento fu elevata a causa delle epidemie, delle guerre e delle carestie. Se nel XX secolo sono scomparse le calamità dovute alle epidemie, vi sono state, però, due guerre mondiali che hanno influito negativamente sull’andamento demografico in Europa e in altri paesi, sconvolgendo i tassi di natalità e mortalità, facendo differire matrimoni e movimenti migratori e sconvolgendo la struttura demografica, per sesso e per età nei paesi maggiormente interessati. Il progresso maggiore per il contenimento della mortalità fu fatto nel settore della mortalità infantile. Minore fu la riduzione nei paesi dell’Europa nord – occidentale, dove la caduta era iniziata durante la prima rivoluzione demografica; più sensibile nei paesi dell’est europeo e del Mediterraneo. Nel XX secolo, oltre alla riduzione della mortalità, vi fu un calo della natalità, il cui tasso mondiale passò al 40 per mille nel primo decennio del 900 al 35 per mille alla metà del secolo e al 27 per mille nel periodo 1986. La riduzione riguardò maggiormente i paesi più progrediti (Europa, America del nord, Giappone e Australia) che erano entrati nella seconda rivoluzione demografica. La conseguenza della caduta delle nascite fu la larga diffusione, nei paesi più sviluppati economicamente e socialmente, delle famiglie con solo due figli o senza figli. Era questo il risultato della politica di controllo nelle nascite voluta dalle coppie, oppure sollecitata dalla politica demografica dei governi. In conclusione, nei paesi sottosviluppati, il problema del controllo delle nascite, negli ultimi decenni del ‘900, non era ancora sentito dalla popolazione, d’altra parte, per la sua diffusione occorreva il superamento di ostacoli religiosi, di tradizione e di cultura, ma era necessario anche il miglioramento delle condizioni economiche. I movimenti migratori I movimenti della popolazione, migrazione e urbanizzazione, che caratterizzano la prima rivoluzione demografica del XIX secolo con la seconda rivoluzione demografica, subirono profondi mutamenti sia per il numero di persone interessate che per gli Stati coinvolti. La prima guerra mondiale, con il richiamo alle armi della maggior parte degli uomini in età lavorativa, bloccò l’emigrazione dall’Europa centrale meridionale, in particolare dall’Italia, dalla Russia e dai Balcani. Mentre, negli ultimi anni dell’immediato dopoguerra, oltre al movimento spontaneo, si ebbe un movimento della popolazione imposto dai governi contro la volontà degli emigranti, che in questo caso prendevano il nome di profughi. Lo scoppio della seconda guerra mondiale fu un’altra ragione che inaridì l’emigrazione spontanea degli europei verso altri continenti e all’interno dell’Europa. Nel primo quinquennio successivo alla II guerra mondiale, diversi paesi dell’Europa centrale e meridionale (Grecia, Italia, Germania occidentale, Olanda) non erano in condizioni economiche tali da poter assicurare il lavoro a tutta la manodopera disponibile. Così, riprese il movimento di spazio verso altri continenti, ma in misura piuttosto contenuta. Le ragioni di tali restrizioni derivavano dal timore di un’eccessiva alterazione dell’equilibrio etnico, dalle difficoltà economiche e dalla mancanza di strutture necessarie a raccogliere gli immigrati. Nel 1957, la costituzione della CEE (Comunità Economica Europea) fra sei paesi dell’Europa occidentale (Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), oltre a facilitare gli scambi commerciali stabilì una più libera circolazione delle persone. Anche la costituzione, nel 1959, del COMECON (Consiglio di Mutua Assistenza Economica) oltre a promuovere e coordinare l’espansione economica dei paesi socialisti dell’est europeo (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Polonia, Romania, Ungheria, URSS, Jugoslavia) favorì anche un certo movimento di persone tra gli stessi Stati. La costituzione della CEE e del COMECON certamente favorirono il movimento migratorio all’interno del continente. Esso, però, dipese principalmente dall’accresciuta domanda di manodopera negli Stati dell’Europa del nord – ovest, accompagnato al miglioramento dei mezzi e delle vie di comunicazione tra il nord e il sud dell’Europa, il controllo molto liberale dei passaporti, la facilità di inviare risparmi alle famiglie rimaste in patria. Intanto, l’Europa cominciò a diventare un continente d’immigrazione di lavoratori da altri continenti. Si trattò di immigrati provenienti dai paesi dell’Africa settentrionale, dal Medio Oriente e dall’india. I mutamenti nel pensiero economico Mentre la grave crisi del 1929 – 33, che colpì il mondo capitalistico si avviava a soluzione, Il pensiero contemporaneo fu rivoluzionato dalla pubblicazione, nel 1936, del libro di John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse della moneta. In esso si dimostra la possibilità di sviluppo dell’economia, facendo coesistere la libertà individuale e l’interesse generale nella nazione. Il volume, per il suo elevato valore scientifico, come La Ricchezza Delle Nazioni di Adam Smith e Il Capitale di Karl Marx, costituisce una tappa fondamentale dell’evoluzione del pensiero economico. Già durante e dopo la prima guerra mondiale i cardini della teoria liberista erano stati seriamente scossi per l’intervento dello Stato nell’economia, necessario per risolvere i problemi della produzione e della distribuzione. Intanto, fu constatato che in un’economia liberale gli interessi generali della nazione e gli interessi individuali dei produttori non coincidevano. Pertanto, il sistema economico non sempre riusciva a produrre spontaneamente la piena occupazione delle risorse a disposizione delle imprese. Per realizzare l’equilibrio tra gli interessi degli imprenditori e gli interessi nazionali occorreva l’intervento dello Stato. Con la grande crisi fu indispensabile l’intervento dei governi nell’economia, per cui gli economisti si adoperarono per formulare nuove teorie dei profitti, dei salari e della funzione svolta dalla moneta. I rimedi per risolvere la crisi furono individuati nell’intervento dello Stato, che poteva dare solo un controllo rigido e totale su tutti i settori produttivi, con particolare riguardo a quello bancario. Molte analisi dell’economia, effettuate nel primo trentennio del ventesimo secolo, servirono ad aprire la strada alla teoria keynesiana. L’economista russo Baranovskij sostenne che le fluttuazioni cicliche dell’economia erano dovute al mancato equilibrio tra il flusso di risparmi e il flusso degli investimenti. L’economista svedese Wicksell rilevò che nei periodi di sviluppo economico, quando gli investimenti erano elevati, i saggi di interesse erano piuttosto bassi. Ciò era contrario alla teoria classica, per cui Wicksell sostenne l’esistenza di un saggio di interesse naturale che si poteva porre in correlazione con l’equilibrio tra risparmio e investimenti e con la piena occupazione della manodopera disponibile. Il saggio di interesse reale esistente sul mercato può differire dal saggio naturale per diverse ragioni. È importante stabilire un equilibrio, non per mezzo delle variazioni del saggio di interesse, ma per effetto della crescita o riduzione della produzione o dell’occupazione. Dopo tanti studi si crearono due correnti di pensiero: ✓ quella che faceva capo i sostenitori dell’intervento massiccio dello Stato dell’economia, ossia i fautori dell’economia marxista. ✓ Quella definita neoliberismo che sosteneva un moderato intervento dello Stato, al fine di correggere gli squilibri che dovessero sorgere tra interessi privati e interessi collettivi. Keynes non era un marxista ma si ispirò all’economia marxista. Importante per Keynes era tener conto della crescita della produzione e non della distribuzione. La disoccupazione derivava dall’insufficienza delle spese di consumo. Egli sostenne che non bisogna preoccuparsi dello squilibrio tra offerte e domande di beni strumentali, poiché vengono prodotti su ordinazione. Bisogna invece, realizzare l’equilibrio tra offerte e domanda nel settore dei beni di consumo, perché esso si rifletterà sull’equilibrio tra domanda e offerta di beni strumentali. Con lo sviluppo dell’industrializzazione, il centro di gravità dell’economia si era spostato dall’imprenditore al consumatore. Secondo Keynes è importante non ridurre la spesa globale, ovvero i consumi, per evitare crisi economiche e disoccupazioni. L’incentivo ad investire deriva da ciò che si spera di ricavare con il nuovo investimento e dal saggio di interesse; diminuendo il saggio di interesse e rimanendo invariati profitti delle industrie crescono gli investimenti e si crea un effetto moltiplicatore sulla spesa globale. Aumentando l’offerta di moneta alle banche diminuisce il saggio di interesse, diminuiscono le spese per investimenti e si crea un aumento moltiplicato nella spesa globale, con vantaggi per la produzione e l’occupazione della manodopera. In pratica, la disoccupazione diminuisce attuando una politica monetaria inflazionistica. In definitiva, la teoria economica di Keynes come rilevò J. Marshall, diede la giustificazione di una politica di intervento, permise di salvare il capitalismo e i profitti dei capitalisti eliminando o contenendo la minaccia della disoccupazione, ma principalmente fu il punto di partenza di tutte le discussioni economiche successive e servì da modello alle politiche economiche attuate dai paesi occidentali nel secondo dopoguerra. Tenuto conto degli avvenimenti economici degli anni 70, per cui si arrivò all’intreccio di inflazione e disoccupazione di massa (per indicare la quale gli economisti hanno coniato il termine di stagflazione), la teoria di Keynes si rivelò inadatta a spiegare questa novità, poiché prevedeva l’inflazione accoppiata alla piena occupazione e non alla disoccupazione. In tali condizioni, la pubblica opinione perse rapidamente fiducia nelle politiche keynesiane e cominciò a prestare ascolto al messaggio degli avversari di Keynes, i monetaristi, che davano grande importanza agli effetti prodotti sull’economia dall’offerta di moneta. Per lungo periodo il leader della scuola fu Milton Friedman, che può considerarsi un discendente del Keynes. I monetaristi affermavano che la stagflazione non era altro che il risultato di un ventennio di politiche monetarie esageratamente espansive e di interventi dello Stato nell’economia che nel lungo periodo, si rivelano inevitabilmente controproducenti, nella misura in cui contribuiscono ad accrescere l’instabilità dei sistemi economici, invece di ridurla. La ricetta dei monetaristi era molto semplice: rinunciare alle politiche di intervento pubblico e lasciar fare al mercato inviando ad esso segnali chiari ed univoci riguardo alle variabili di politiche economiche. Solo in questo modo il mercato può essere libero di esplicitare la propria potenzialità di autoregolamentazione, permettendo al sistema di raggiungere un equilibrio di piena occupazione e di stabilità dei prezzi. Ma, alla politica keynesiana non si opposero solo i monetaristi. Edumund S. Phelps individua altre 5 scuole, oltre alla keynesiana e alla monetarista. Esse sono: ✓ La nuova scuola classica ✓ I nuovi keynesiani ✓ La macroeconomia della supply side ✓ La teoria del ciclo reale ✓ La strutturalista. La teoria della nuova scuola classica affonda le sue radici in due azioni fondamentali: ✓ Le aspettative razionali dei consumatori e degli imprenditori basate sulla concorrenza dei problemi economici ✓ La flessibilità dei prezzi dei salari, per cui in caso di squilibrio si avrebbe un aggiustamento automatico, cioè senza l’intervento delle manovre dello Stato sulla spesa pubblica. La teoria keynesiana è basata sulle variazioni prodotte sul mercato dagli impulsi delle domande dei consumatori. Si tratta di un modello per cui le variazioni dei salari influiscono sui prezzi. La teoria dei nuovi keynesiani è, invece, basata sul nuovo modello dei prezzi salari, per cui sono i primi che influenzeranno i secondi. Con i nuovi studiosi non si rinnegano i dogmi keynesiani, basati sulla domanda, la politica monetaria e la spesa pubblica, ma si prendono in esame gli impulsi provenienti dall’offerta, cioè dalle variazioni dei prezzi. La teoria della supply – side prende in esame la politica macroeconomica basata sulla combinazione di politiche fiscali e monetarie dei governi nazionali. Anche per questa teoria, come per quella keynesiana e quella monetarista, l’obiettivo è la stabilità dell’occupazione e il miglioramento del reddito reale. Le strade da percorrere per raggiungere questi obiettivi, però, sono diverse da quelle proposte dalle prime teorie. Le ultime due teorie, quella del ciclo reale e quella strutturalista, tengono conto delle influenze che hanno sull’andamento dell’economia i fattori di natura non monetaria. La prima, parte dal presupposto che il salario è scaturito da un equilibrio e da domanda ed offerta di lavoro. Offerta, a sua volta, influenzata dalla domanda di lavoro. La scuola strutturalista è basata sull’equilibrio del tasso naturale di disoccupazione, che è un tasso non influenzato da manovre monetarie. L’etichetta di scuola strutturalista serve ad indicare, come scrive Phelps, la visione caratteristica secondo cui i mutamenti nel tasso di disoccupazione sono il risultato di variazioni nei parametri del modello - nelle preferenze temporali, nell’efficienza marginale del capitale, nella tecnologia, nei prezzi esteri, e così via - e quindi nella struttura del sistema economico. Lezione 2 Le cause e le conseguenze della prima guerra mondiale I motivi dello scoppio della prima guerra mondiale La prima guerra mondiale scoppiò nell’estate nel 1914 e vide schierate da un lato l’Austria, la Germania e la Turchia e dall’altro la Francia, la Serbia, la Russia e la Gran Bretagna. Parteciparono, più tardi, altre nazioni tra cui l’Italia nel 1915 e gli Stati Uniti nel 1917 ed ebbe come teatro l’Europa ed altri continenti. L’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando avvenuta a Sarajevo nel giugno del 1914, per mano di uno studente, fu solo il motivo occasionale dello scoppio del conflitto. Vi erano ragioni ben più profonde, politiche ed economiche. Tra le ragioni politiche al primo posto bisogna porre la rivalità franco tedesca per la sconfitta del 1870. La Francia per isolare la Germania si alleò con la Russia e poi con la Gran Bretagna stabilendo un’intesa cordiale (1904) che tre anni dopo si trasformò in triplice intesa. Ad essa si contrappose la triplice alleanza stipulata nel 1884 tra Germania, Austria e Italia. In campo economico, le maggiori rivalità erano quelle anglo – tedesche. La Gran Bretagna, fino al 1870, aveva avuto il primato indiscusso nel commercio internazionale, grazie alla sua potente marina mercantile e militare; dopo quella data tale primato fu minacciato dei rapidi progressi compiuti dalla Germania specie per la decisione presa da Guglielmo II di rafforzare la sua marina militare. La rivalità si aggravò quando la Germania divenne una potenza coloniale e cominciò ad effettuare investimenti all’estero, con l’obiettivo di superare le maggiori potenze economiche del mondo. L’economia di guerra Essendo notevolmente cresciuta la capacità produttiva delle armi, appena scoppiò la prima guerra mondiale, si pensò che avrebbe avuto breve durata. I tedeschi impostarono le operazioni belliche con l’intento di effettuare una guerra lampo. Si combatté per più di quattro anni, durante i quali i tentativi di offensiva che partirono dai due eserciti provocarono ingenti perdite di uomini e di ricchezza. Le perdite maggiori si ebbero dopo che la Gran Bretagna, per impedire i rifornimenti alla Germania, stabilì il blocco per le navi nemiche e quelle neutrali. La Germania per reazione, bloccò i russi nel Baltico e a Costantinopoli. Tali decisioni provocarono numerosi episodi di guerra corsara, per cui incrociatori o sottomarini, specie tedeschi affondavano navi addette al trasporto di merci e persone. Con il blocco marittimo e la guerra dei sottomarini gli Stati europei belligeranti furono messi in grandi difficoltà per il rifornimento di merci, tanto che i governi furono costretti ad operare seri interventi nell’economia. Si costituì quella che è stata definita l’economia di guerra. Questa economia fu organizzata prima in Germania da Rathenau che, nel 1914, fece approvare dal governo un piano di mobilitazioni industriale. Anche in Italia non si poté fare a meno di organizzare l’economia bellica controllata e diretta dallo stato. Fin dal 1915, subito dopo l’entrata in guerra, fu creato il ministero delle armi e munizioni, con il compito di distribuire le materie prime e la manodopera alle imprese. Per far fronte alle spese di guerra, i governi reperirono mezzi finanziari aumentando i tributi, chiedendo prestiti all’interno e all’estero ed emettendo carta moneta. L’economia bellica fu organizzata anche negli Stati extraeuropei che parteciparono alla guerra. Gli Stati Uniti, fin dall’ottobre del 1916, quando si cominciò a capire che sarebbero stati coinvolti nel conflitto, crearono un consiglio di difesa nazionale, che si avvalse della collaborazione di una commissione consultiva di esperti, per l’acquisto e la ripartizione delle materie prime e di uffici specializzati, in particolare settori dell’economia. Si occupò della valutazione di ciò che occorreva per la guerra e della trasformazione delle industrie di pace in industrie belliche. Anche il governo giapponese dovette organizzare la propria economia in relazione alla guerra. La sospensione delle esportazioni francesi e inglesi in Asia aprì, ai nipponici, l’immenso mercato cinese per la collocazione dei loro prodotti. La Russia fece larghi acquisti di materiale bellico giapponese. I mercati dell’America Latina, ma anche quelli della California e dell’Oregon furono invasi da merci giapponesi. In Giappone gli uomini gli affari si arricchirono, aumentò il numero degli operai nelle fabbriche, si migliorarono i salari, furono concessi prestiti a breve termine ai paesi alleati. I rivolgimenti economici prodotti dalla guerra nel breve e nel medio termine Le conseguenze economiche e sociali della guerra possono distinguersi in base alla loro durata, dal momento in cui si manifestarono al momento in cui si esaurirono, in effetti di breve, di medio e di lungo periodo. Appartengono agli effetti di breve periodo gli sconvolgimenti dell’economia di molti paesi che si ebbero appena si diffuse la notizia del conflitto, la successiva organizzazione dell’economia bellica, la perdita di vite umane, la distribuzione di ingenti quantità di ricchezze. Appena si seppe dello scoppio della guerra, tra le popolazioni degli Stati belligeranti si diffuse rapidamente una sensazione di incertezza nelle attività economiche e finanziarie, precipitarono le quotazioni di titoli e furono chiuse le borse. I depositanti corsero a ritirare i risparmi mettendo le banche in gravi difficoltà, diminuì la circolazione monetaria, perché si tesaurizzò l’oro e la carta moneta. Le conseguenze a medio termine sono la crisi economica nel 1920 - 21 e l’inflazione monetaria, che causò il crollo del marchio tedesco. Tale crisi si manifestò in Europa e negli Stati Uniti, ma con caratteristiche differenti. In Europa si trattò di crisi di assestamento o di riconversione, per il passaggio dall’economia di guerra all’economia di pace. Fu necessario ricostruire le zone industriali della Francia e del Belgio più provate dalla guerra, ma soprattutto fu necessario trasformare le fabbriche di armi ed altro materiale bellico in fabbrica che producevano beni per il fabbisogno dei civili. Con questo passaggio fu necessario effettuare nuovi investimenti. La crisi si manifestò anche in Italia, dove alla fine del 1920, nonostante la guerra fosse finita da circa due anni, perdurava la disorganizzazione degli affari e, poiché scarseggiavano i capitali disponibili per nuovi investimenti, l’economia si basava principalmente sulla speculazione e inflazione monetaria del credito. Fra il 1920 e il 1921 vi fu incertezza negli affari per diverse ragioni: difficoltà di reperire materie prime, agitazioni degli operai e malcontento generale, dovuto al mancato soddisfacimento di alcune richieste italiane nel trattato di pace. La crisi colpì principalmente le industrie metalmeccaniche, in gravi difficoltà furono l’Ilva e l’Ansaldo che non fallirono solo grazie agli aiuti finanziari dello Stato. Esse, però, causarono il fallimento di una delle maggiori banche dell’epoca, la Banca Italiana di Sconto, che aveva concesso larghi finanziamenti all’Ansaldo. Nei paesi extraeuropei, maggiormente negli Stati Uniti, nel 1920 e nel 1921 si ebbe una profonda crisi di sovrapproduzione. Appena finita la guerra in Europa, per soddisfare il crescente fabbisogno di prodotti, gli europei si rivolsero agli Stati Uniti, al Giappone, al Canada, al Brasile e all’Argentina. All’aumento della domanda, in questi paesi, corrispose la liquidazione dei prezzi, creando così un ulteriore incentivo ad aumentare la produzione, nella speranza che la ricostruzione delle industrie europee si fosse realizzata più tardi possibile. Tale speranza, però, venne meno poiché le Nazioni europee colpite dalla guerra, avendo ricevuto un’abbondante offerta di materie prime e prodotti finiti, riuscirono a soddisfare rapidamente i loro bisogni più urgenti e alla fine del 1920 avevano rimarginato le ferite in tutti i settori dell’economia. La seconda conseguenza della guerra, con effetti a medio termine fu, appunto, l’inflazione monetaria. La Gran Bretagna, nel 1925 rivalutò la sterlina e stabilì la convertibilità in verghe d’oro. Tale provvedimento aveva lo scopo di restituire a Londra la sua funzione di centro commerciale e finanziario del mondo, che aveva perso con la guerra. La rivalutazione della sterlina, tuttavia, provocò gravi danni all’economia del paese, poiché fece diminuire le esportazioni e influì negativamente sulla bilancia commerciale del paese. Anche in Francia fu necessario stabilizzare la moneta. Subito dopo la guerra, per ricostruire le zone danneggiate furono sostenute ingenti spese, sperando di utilizzare le riparazioni di guerra che avrebbe dovuto pagare la Germania. tali riparazioni ritardarono e poi necessario emettere carta moneta che fece lievitare rapidamente i prezzi. Ma, con la nomina di Raymond Poincarè, a capo del governo, furono presi diversi provvedimenti per portare in pareggio il bilancio dello Stato e frenare la fuga dei franchi all’estero. Anche in Italia fu necessario stabilizzare la lira, l’operazione fu annunciata da Mussolini nel famoso discorso di Pesaro dell’agosto 1926. Disse che 1 sterlina doveva cambiarsi con 90 lire, dal chè la voce che bisognava raggiungere quota 90. Quando, però, nel dicembre del 1927 la sterlina si fissò a 92,45 lire e il dollaro a 19 lire, la convertibilità non fu stabilita in moneta ma in lingotti; il contenuto di oro della lira fu fissato in 79 milligrammi. Pertanto, si partì con l’intento di stabilizzare, ma si arrivò alla rivalutazione, ciò perché si diede alla lira un valore legale superiore all’effettivo potere d’acquisto favorendo in tal modo la deflazione. Nelle relazioni commerciali con l’estero vennero incoraggiate le importazioni e scoraggiate le esportazioni. Molto più grave delle altre crisi monetarie fu il crollo del Marco tedesco. Esso fu legato, in gran parte, alle riparazioni di guerre che avrebbe dovuto pagare la Germania agli Stati vincitori. Appena saputo dell’entità delle riparazioni, il governo tedesco, per provvedere alle spese dello Stato, ordinò la stampa di una grande quantità di biglietti. Inoltre, l’aumento dei prezzi diede una spinta alla produzione industriale del paese tanto da incrementare le esportazioni all’estero. L’accresciuto flusso di turisti nel paese attratti dall’inflazione, avrebbe dovuto frenare la svalutazione della moneta, ma il governo continuò l’emissione a ritmo sempre più vertiginoso, annullando tale vantaggio. La soluzione fu trovata dal banchiere Schacht, il quale suggerì l’emissione del rentenmark, ossia una moneta agganciata al reddito nazionale alla ricchezza Fondiaria industriale della nazione e venne poi creato il reichsmark, una nuova moneta garantita da riserve d’oro, emesse dalla Reichhsbank, la cui costituzione fu sostenuta dal banchiere Americano Dawes, il quale lanciò un prestito di 800 milioni di nuovi marchi, per sovvenzionare l’industria e le amministrazioni locali. Il piano Dawes funzionò dal 1924 al 1929, allorché la Germania fu nuovamente in difficoltà per il pagamento delle riparazioni. Fu, così, nominato una nuova commissione presieduta dall’Americano Young, che operò una riduzione della somma complessiva da pagare e un’ulteriore dilazione delle scadenze delle rate annuali. I versamenti andavano effettuati alla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) Istituita per questo scopo. In pratica, il piano Young consenti ai tedeschi di ridurre il loro debito rispetto al piano Dawes. Infine, nel 1932, fu firmato a Losanna un accordo con il quale la Germania estinse definitivamente il suo debito versando alla BRI tre miliardi di rentenmark in titoli di Stato, al saggio del 5 %. Anche in Giappone, tra il 1919 e il 1921, si innescò una spirale inflazionistica come effetto della guerra europea. Nel successivo biennio lo yen si stava avviando verso la stabilizzazione, quando il terremoto di Tokyo Yokohama del 1 settembre 1923, oltre alle distruzioni, provocò un aumento delle emissioni di biglietti di banca, per far fronte all’aumento delle spese pubbliche. Solo nel 1930 si riuscì a riportare lo yen al cambio in oro. La politica economica del fascismo in Italia (1922-1928) La crisi della democrazia che si ebbe con la fine della guerra nella maggior parte dei paesi occidentali – dovuta al desiderio di pace reclamato dalle popolazioni e al timore, causato dalla rivoluzione in Russia per l’eventuale conquista del potere politico da parte delle classi operaie- In Italia, contribuì a portare al governo la dittatura fascista. Ma vi erano anche altre ragioni. Con la crisi economica del dopoguerra, all’inizio del 1922 erano stati posti dei freni all’emigrazione verso l’estero; gli scioperi degli operai e dei contadini, sfociati nell’occupazione delle fabbriche e delle terre avevano fatto sorgere preoccupazioni tra la borghesia industriale e i grandi latifondisti. Da queste delusioni e dal disordine generale del dopoguerra nacque il movimento fascista, capeggiato da Benito Mussolini. Egli conquistò il potere dopo aver messo a tacere le deboli forze democratiche, costituite dai sindacati dei socialisti, dei cattolici popolari e dai liberali. Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922) fu chiamato dal re a formare il governo. Il movimento fascista, all’inizio, ebbe l’avallo di alcuni grandi personaggi della politica e della cultura dell’epoca, come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce, che a sua volta venne meno quando il fascismo da movimento politico si trasformò in dittatura, che abolì la libertà di stampa di parola e di riunione. Il fascismo, con il ministro delle finanze del Tesoro Alberto de Stefani, attuò una politica economica liberista. Così fu restituita all’industria privata la rete telefonica; si abolì il monopolio che aveva L’istituto Nazionale Assicurazioni, consentendo ai privati di operare nel settore assicurativo; si riuscì a diminuire il disavanzo del bilancio dello Stato aumentando le entrate e riducendo le spese, maggiormente quelle militari. Questi provvedimenti ed altri servirono a dare un notevole impulso alle attività produttive. L’industria elettrica subì un accelerato progresso grazie all’elettrificazione di molte fabbriche; l’industria siderurgica, specie quelle che utilizzava rottami, si riprese dalla gravissima crisi del dopoguerra; con l’avvio della produzione di seta artificiale da parte dell’industria chimico – tessile si ebbe una vera e propria rivoluzione nel settore della tessitura. Un significativo contributo allo sviluppo delle attività industriali fu dato, in questi anni, anche dalla Borsa. Il numero delle società quotate ritornò ai livelli durante la guerra, con nuovi importanti immissioni come l’Ilva la Banca Italiana di Sconto, la Rinascente, Pirelli, Generali, Fiat, SME, ecc.. Nelle relazioni con l’estero fu instaurato un moderato liberismo mediante trattati di commercio con diverse nazioni, che ridussero i dazi protezionisti introdotti dalla tariffa doganale approvata nel 1921. In generale, favorita dalla buona congiuntura economica internazionale, la politica liberistica fascista diede risultati soddisfacenti, tanto che nel 1926 l’Italia riconquistò i livelli produttivi pre – bellici. Tutti questi indici favorevoli servirono a Mussolini per rafforzare il suo potere politico e mutare radicalmente la sua politica economica. Numerosi interventi dello Stato sull’economia furono attuati nel 1926. Il debito pubblico, a breve termine, fu ridotto convertendolo in titoli consolidati a lunga scadenza, del Prestito Littorio. Ulteriori pesanti interventi dello status l’economia si ebbero con la battaglia del grano, la bonifica integrale, la politica protezionistica, i lavori pubblici e, soprattutto, l’organizzazione dello Stato corporativo. La battaglia del grano, che inaugurò la politica autarchica dopo la crisi del 1929, aveva l’obiettivo di ridurre le importazioni di grano all’estero e aumentare la produzione interna, mettendo a coltura nuove terre, facendo ampio uso di fertilizzanti e migliorando la qualità dei terreni. I risultati furono soddisfacenti, poiché aumentò la produzione media annua per ettaro del frumento e crebbe quella complessiva. Contemporaneamente, fu incrementata la produzione di mais, segale, barbabietole da zucchero; prodotti che bisognava in larga parte imbarcare all’estero. Per ridurre tali importazioni furono stabiliti alti dazi protettivi. Con la bonifica integrale furono prosciugate alcune paludi lungo il mare – come quella dell’Agro Pontino – con l’intento di eliminare la malaria e mettere a coltura nuove terre. Successivamente, tale bonifica servì a dare lavoro a numerosi operai. A favore delle industrie, nel biennio 1926-1927 furono stabiliti dazi doganali alle importazioni di manufatti e furono soppressi gli esoneri parziali, concessi in precedenza con i trattati bilaterali (politica protezionistica). Fu anche attuato un vasto programma di lavori pubblici - ricostruzione di diversi quartieri della capitale; costruzioni di strade, ponti, gallerie, elettrificazione delle ferrovie, ecc. - con evidenti vantaggi per le industrie. Un ultimo intervento dello Stato nell’economia si ebbe con l’organizzazione delle corporazioni. Essa si ispirava all’enciclica di Papa Leone XIII, Rerum Novarum, del 1891 e prevedeva la collaborazione delle classi sociali. Non potendo la dittatura fascista ammettere lo sciopero e le serrate, si arrivò ad un sempre maggiore controllo dei lavoratori e degli imprenditori. Era questo l’obiettivo dello Stato corporativo, con il quale gli operai e i datori di lavoro furono organizzati in sindacati oppure corporazioni, come si chiamavano le associazioni dei lavoratori nel medioevo. Dopo l’accordo stabilito con gli imprenditori, noto come Patto Di Palazzo Vidoni del 1925, fu emanata la legge Rocco, dal nome dell’estensore. Essa costituì le corporazioni dando l’avvio alla costituzione dello Stato sindacale. Con il patto si decretò la fine di tutte le organizzazioni operaie libere e la loro sostituzione con i sindacati fascisti. La legge prevedeva sei sindacati per gli imprenditori, uno per ogni settore produttivo: agricoltura, industria, commercio, trasporti marittimi e aerei, i trasporti terrestri e banche e uno per i professionisti e gli intellettuali. Fu creato anche il ministero delle corporazioni che prendeva tutte le decisioni relative alla produzione e al lavoro. Furono proibiti scioperi e serrate agricole, furono imposti contratti collettivi di lavoro. Nel 1927, Edmondo Rossini preparò la Carta del Lavoro, in cui si condannava il socialismo e si esaltava l’iniziativa privata. L’intervento dello Stato era ritenuto necessario nei settori in cui erano carenti o venivano meno le iniziative private. i datori di lavoro e i lavoratori si dovevano adoperare per aumentare la produzione, mentre lo stato doveva mantenere la pace tra imprenditori e lavoratori. La carta fissava anche i principi generali che bisognava seguire quando venivano stipulati i contratti collettivi del lavoro. Gli organismi previsti dalla legge Rocco si andarono gradualmente costituendo ed accentrando. Nel 1930 fu costituito per la prima volta il Consiglio Nazionale Delle Corporazioni; nel 1939 la Camera dei deputati fu sostituita con la Camera del Consiglio Nazionale delle Corporazioni e dal Gran Consiglio del Fascismo. Attraverso questa struttura, sempre più accentrata, Mussolini poté meglio attuare il governo dittatoriale. Governo che andò assumendo, gradualmente, scopi militari e imperialistici che portarono l’Italia alla conquista dell’Etiopia, alla guerra civile in Spagna e alla seconda guerra mondiale. Lezione 3 La grande crisi dell’economia occidentale Le cause e le caratteristiche della grande crisi (1929-1932) Il rapido sviluppo dell’economia che interessò il mondo occidentale con la prima rivoluzione industriale, fu più volte rallentato da momenti di crisi, che il più delle volte furono facilmente superati. Tuttavia, tra il 1929 e il 1933, Il mondo capitalistico fu colpito da una crisi di sovrapproduzione e del credito. La crisi partì dagli Stati, nell’autunno del 1929 e coinvolse rapidamente l’Europa, l’America Latina, il Giappone e i paesi colonizzati. Furono travolti tutti i settori produttivi e tutte le classi sociali. Le ragioni della crisi sono complesse ed ebbero origine locale e internazionale. La prima va ricercata nel rapido sviluppo degli impianti industriali, che iniziò durante la guerra e proseguì nell’immediato dopoguerra riuscendo a superare facilmente la crisi di riconversione del 1920-21. In tale sviluppo vi erano le premesse della crisi, poiché i lavoratori chiedevano aumenti salariali e gli imprenditori si rifacevano del conseguente minor profitto aumentando i prezzi (prezzi e salari), interessò quasi tutti i paesi occidentali e maggiormente gli Stati Uniti. Contemporaneamente. non riuscendo il mercato interno ad assorbire l’intera produzione industriale, furono concessi a coloro che facevano acquisti specie di beni durevoli, ampie dilazioni nei pagamenti, così per la vendita delle automobili Henry Ford inaugurò il pagamento a rate. Quasi tutte le industrie ebbero una crescita di produzione. Tuttavia, nonostante la riduzione dei prezzi e la concessione di dilazione nei pagamenti, gran parte della produzione rimaneva invenduta. Per accrescere le vendite, gli imprenditori esportarono il più possibile i loro prodotti all’estero. In queste operazioni, però, furono ostacolati dalla politica doganale protezionistica attuata da molte nazioni. Per superare questi ostacoli, le industrie americane diedero facilmente le merci a credito e le banche concessero prestiti ad industriali stranieri, finanziando così le importazioni che gli europei non potevano pagare. Gli Stati Uniti, in questo modo, divennero quasi una banca mondiale. Secondo Schumpeter (primo economista che ha esaminato in modo approfondito il ruolo dell'innovazione nelle moderne economie industriali) molti prestiti statunitensi servirono solo a pagare le riparazioni o i debiti di guerra, anziché a finanziare nuovi investimenti. Un altro elemento che contribuì alla maturazione della crisi fu lo squilibrio che si venne a creare sui mercati finanziari internazionali, per i debiti di guerra e per le riparazioni. Infatti, tali debiti non furono mai completamente liquidati. Anche l’inflazione e la stabilizzazione delle monete influirono negativamente sugli scambi Internazionali. In particolare, la sopravvalutazione della sterlina e la svalutazione del Franco crearono uno squilibrio nelle finanze internazionali, perché favorirono l’accumulo di crediti francesi verso la Gran Bretagna. Un altro evento che favorì la crisi fu il boom borsistico che si ebbe negli Stati Uniti, in seguito alla vasta speculazione effettuata sui titoli azionari. L’indice di quotazione, dal 1926 al 1929, fu più che raddoppiato e furono emesse nuove azioni, che subito trovarono collocazione perché travolte dalla frenesia speculativa. Tutti questi elementi crearono un notevole squilibrio nell’economia degli Stati Uniti e nelle finanze internazionali. I primi segni premonitori della crisi si ebbero all’inizio del mese di ottobre, quando cominciarono a scendere le quotazioni dei titoli. I primi segni premonitori della crisi si ebbero all’inizio del mese di ottobre, quando cominciarono a scendere le quotazioni dei titoli. Il caos, però, scoppiò il giorno 24 dello stesso mese, ricordato come il giovedì nero, allorché, Wall Street furono offerti in vendita ben 13 milioni di titoli e la domanda fu quasi assente. Dal crollo delle quotazioni di borsa si passò al crollo dei prezzi dei prodotti di ogni genere, al fallimento delle imprese industriali e commerciali, al dilagare della disoccupazione e poiché gli Stati Uniti mantenevano relazioni economiche e finanziarie con tutto il mondo, la crisi valicò subito i confini americani. La crisi in agricoltura fu meno violenta, i più colpiti furono i paesi esportatori di grano, cotone e prodotti coloniali. Fu particolarmente danneggiata l’agricoltura degli Stati Uniti, che esportava cereali e cotone In Australia e in Nuova Zelanda, si dimezzò il valore delle esportazioni di lana, grano e carni. Il Brasile fu colpito dalla sovrapproduzione del caffè, l’Argentina fu costretta a diminuire le esportazioni di grano e carne e a svalutare la moneta. Anche diversi paesi europei furono colpiti dalla caduta dei prezzi agricoli. Tra i più danneggiati troviamo la Polonia, l’Ungheria, la Romania e l’Inghilterra. Il commercio internazionale subì una battuta di arresto, soprattutto, per il calo dei prezzi, mentre il settore monetario fu caratterizzato dalla svalutazione del dollaro e di quasi tutte le monete europee. Le conseguenze della crisi dell’agricoltura, della crisi industriale e del fallimento delle banche fu il dilagare della disoccupazione. I rimedi adottati negli Stati Uniti per combattere la crisi Il marasma economico provocato dalla crisi non poteva lasciare indifferente i governanti. Nell’ambito dei paesi occidentali vanno distinti i provvedimenti adottati dai governi demografici, come quelli degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia, ecc., dai provvedimenti adottati dai governi autoritari, come quelli dell’Italia e della Germania. Nei primi anni si affrontò la crisi senza cambiamenti strutturali. Lo stato intervenne offrendo aiuti alle imprese private, con sgravi fiscali ecc. Nei secondi, furono posti gli interessi dello Stato davanti a quelli degli individui, le organizzazioni sindacali furono soppresse e sostituite dalle corporazioni o dal fronte del lavoro, ossia organismi che aiutarono i dittatori ad attuare una politica economica autarchica diretta ad accrescere il potere militare delle loro nazioni, senza sopprimere l’istituto della proprietà privata. I primi provvedimenti presi dai governi, tra la fine del 1929 e il 1932, non aiutarono a risolvere la crisi, anzi in molti Stati contribuirono ad aggravare il caos esistente nell’economia. La mancata ripresa dell’economia portò alla caduta del presidente degli Stati Uniti Hoover che fu sostituito nel 1933 dal democratico Franklin D. Roosevelt. I primi provvedimenti adottati dal nuovo presidente furono diretti ad aiutare le banche in crisi, dettati di volta in volta dalle necessità del momento. Tali provvedimenti diedero vita alla politica del New Deal. Era la politica delle grandi spese dello Stato dirette a rimettere in moto la pompa dell’economia americana. Essa prevedeva la riformazione di un mercato di consumo attraverso la spesa pubblica. Per risollevare le sorti dell’agricoltura fu concesso un’indennità ai contadini che avrebbero ridotto la superficie coltivata a grano, con lo scopo di coltivare leguminose. Questa politica attuata grazie all’ A.A.A. (Agricultural Adjustment Act) Consentì di aumentare la produttività dell’operaio agricolo. Per le industrie, nel 1933, fu emanato il N.I.R.A. (National Industrial Recovery Act) per rilanciare l’attività produttiva, aumentare i salari, fissare i prezzi minimi e stabilire determinate quantità di prodotti per ogni settore, al fine di contenere la concorrenza, ma nel 1935 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò N.I.R.A. incostituzionale e si ritornò alla politica antitrust. Nel settore delle opere pubbliche realizzate dal governo, per riattivare il mercato del lavoro furono aperti grandi cantieri per la costruzione di strade, autostrade, dighe, ecc. Va ricordato come modello la Tennessee Valley Administration, ossia un consiglio di tre persone incaricate di valorizzare il bacino del Tennesse, tramite lo sfruttamento idroelettrico, l’irrigazione e la bonifica agraria. Nel settore monetario, alla politica deflazionistica attuata da Hoover, Roosevelt contrappose la politica inflazionistica. Un provvedimento importante, preso a sostegno dell’inflazione, fu la svalutazione della moneta attuata in due tappe. Con la prima, nel 1933, fu abbandonato il tipo aureo, ossia fu sganciato il dollaro dalla sua parità aurea e si stabilì l’inconvertibilità della carta-moneta in oro. Con la seconda tappa, nel 1934, fu emanato il Gold Reserve Act che svalutò il dollaro e di conseguenza aumentarono i prezzi di molti prodotti dell’agricoltura e delle industrie. Nel settore del credito, il presidente Roosevelt emanò il Banking Act al fine di distinguere le banche commerciali, autorizzate a concedere solo crediti a breve termine, dalle banche di investimento, autorizzate ad elargire anche i crediti a lungo termine. Furono, poi, stabilite le condizioni per la concessione dei prestiti e le riserve che le banche dovevano avere obbligatoriamente. Inoltre, lo Stato fu autorizzato ad acquistare le azioni delle banche e creare istituti di credito per finanziare i settori economici che bisognava sviluppare. Sorsero così le Banche Federali per l’agricoltura, per la concessione di prestiti ipotecari, per i finanziamenti destinati alla costruzione di alloggi e per finanziare il commercio estero. Sempre nel 1933, Il Congresso votò il Securities Act, che mise le operazioni di borsa sotto il controllo della Securities and Exchange Commission (S.E.C.), che nel 1934 ebbe il controllo delle borse e, successivamente, il potere di sciogliere le holdings che riteneva contrarie agli interessi generali del paese. I risultati di questa politica di intervento dello Stato nell’economia cominciarono ad aversi nella seconda metà del 1935, difatti crebbe l’indice della produzione industriale e il numero dei disoccupati scese. I provvedimenti anticrisi adottati negli altri paesi In Gran Bretagna la crisi fu meno gravi che in altri paesi. Le manifestazioni di maggior rilievo furono la diminuzione sensibile dei prezzi all’ingrosso e la disastrosa situazione della bilancia dei pagamenti, tanto che la banca d’Inghilterra fu costretta più volte a chiedere il sostegno finanziario alla banca di Francia e della riserva federale degli Stati Uniti. Le banche inglesi, non essendo molto impegnate nei prestiti di lungo termine, non risentirono eccessivamente della crisi; le più colpite dai mutamenti del mercato monetario internazionali furono le merchant Banks. I risultati della politica adottata in Gran Bretagna dopo il 1932, portarono ad un aumento delle esportazioni, in particolare delle industrie siderurgiche e meccaniche. Ma, alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna non ancora aveva liquidato completamente la crisi, le industrie che esportavano prodotti all’estero non si erano tutte riprese, persisteva la disoccupazione e la bilancia commerciale era in disavanzo. In Francia, la crisi mondiale comincia ad avvertirsi nel 1931, allorché i prezzi all’ingrosso scesero. Nonostante tale caduta, furono sempre più elevati di quelli praticati in altri paesi, il che significò la diminuzione delle esportazioni all’estero. Fatto molto grave, poiché le esportazioni rappresentavano 1 / 3 del prodotto razionale lordo francese. Ad aggravare la situazione contribuì la politica di dura deflazione attuata dal governo Laval. Il disagio causato da tale politica che aveva aggravato anche la disoccupazione, favorì la vittoria della sinistra alle elezioni con a capo Leon Blum, che dovette dare precedenza alla soluzione dei problemi sociali. Furono stabiliti gli accordi di Matignon, che stabilivano aumenti salariali in base alle categorie di lavoratori, le ferie pagate, contratti collettivi di lavoro e riduzione del lavoro settimanale. Blum, cercò di modificare le strutture economiche e di formare il sistema monetario. Nel settore agricolo l’innovazione più significativa fu la costituzione dell’Office Nationale Interprofessionnel du Blé (O.N.I.B.), Con diversi compiti: ✓ Riorganizzare il mercato agricolo ✓ Stabilire il prezzo di vendita del grano ✓ Accettare i cereali che gli agricoltori versavano all’ammasso ✓ Costituire la riserva di sicurezza, pari a 600.000 tonnellate di grano ✓ Vendere all’estero la parte di grano eccedente ad un prezzo piuttosto basso, praticando una specie di dumping I provvedimenti adottati dal governo Blum non diedero i risultati sperati e, nel 193, il governo venne affidato al radicale Chautemps, che attuò una politica di inflazione, chiese i prestiti alla Banca di Francia per sostenere le spese dello Stato e svalutò il nuovo Franco. Nel 1938, il governo fu affidato al radicale Daladier. Il provvedimento più importante che fu adottato riguardò la terza svalutazione della moneta. Con la nuova svalutazione, la moneta francese perse la sua autonomia e oscillò assieme alla moneta inglese. Tuttavia, neanche i provvedimenti del governo Daladier riuscirono a produrre gli effetti sperati. La ripresa dell’economia si ebbe solo nel 1939 con lo sviluppo dell’industria bellica. Lezione 4 La politica autarchica e la seconda guerra mondiale La politica autarchica in Germania Con la fine della prima guerra mondiale e la caduta di Guglielmo II, nel 1919, fu convocato a Weimar la costituente che istituì in Germania una Repubblica democratica parlamentare e federale. La nuova Repubblica, tuttavia, ebbe una vita breve, duro fine al 1933, perché dilaniata dei contrasti esistenti tra i partiti. Nonostante l’instabilità politica, nel 1924, fu superata la crisi provocata dal crollo del Marco, con l’aiuto dei prestiti americani si riuscì a pagare una parte delle riparazioni di guerra, reclamate specie dalla Francia, e il paese si avviò rapidamente verso lo sviluppo dell’economia. Tale sviluppo fu improvvisamente interrotto dalla crisi mondiale del 1929. Prima furono colpite le industrie e poi le banche. Il crollo dei prezzi mondiali fu più disastroso in Germania che in altre nazioni, perché esse aveva investimenti all’estero, sovrabbondanza di impianti industriali e stretti legami fra sistema bancario e industria. La crisi colpì particolarmente le banche, perché avevano concesso ingenti finanziamenti alle industrie. Le prime difficoltà cominciarono nel biennio 1929-30, allorché furono costrette a chiudere circa 300 tra piccole banche e casse di risparmio. la violenza della crisi, tuttavia, si fece sentire quando in Austria fallì la Kredit- Anstalt (Credito Austriaco). Il fallimento fu dovuto al fatto che il governo obbligò la banca a rilevare la Baden Kredit-Anstalt, che versava in grandi difficoltà. I depositanti, in un’atmosfera di panico, si precipitarono a ritirare i loro risparmi dalla banca. La notizia della crisi della banca si diffuse rapidamente in Europa, per cui furono ritirati i capitali non solo dalle banche austriache, ma anche da quelle tedesche. Nella seconda metà di giugno del 1931 la crisi si aggravò per le difficoltà finanziarie dell’industria tessile Nordwolle, che aveva compiuto forti speculazioni sulla lana, con finanziamenti ricevuti da altre banche tedesche. Altre imprese in difficoltà che misero in crisi le banche erano le catene di grandi magazzini Karstad e l’assicurazione Nordstern. Intanto, alla crisi economica si sovrappose la crisi politica. Le elezioni non riuscivano a dare una solida maggioranza parlamentare e nessun partito, così il presidente della Repubblica Paul Hinderburg, fu costretto a nominare i governi privi di autorità, perché senza l’appoggio parlamentare. Furono questi i governi di Brüning, Papen e Schleicher, che ressero le sorti del paese, tra il 1930 e il 1932, e aprirono la strada alla dittatura di Hitler, il quale dopo la morte di Hinderburg, nell’agosto del 1934, divenne anche presidente della Repubblica e assunse il titolo di führer (Duce) della Germania. Da questo momento furono annullati tutti i diritti fondamentali della costituzione di Weimar, poiché il führer accentrò nelle sue mani i poteri amministrativi, legislativi e giudiziari. Per l’agricoltura furono emanate leggi dirette a rafforzare la piccola proprietà, legando il contadino alla terra per mezzo di l’Erbhof, proprietà familiare indivisibile e insequestrabile, che poteva essere ereditata da un solo figlio ed essere alienata solo se il proprietario era un vero contadino, ossia appartenente alla razza Ariana. Per assicurare il rifornimento annuale al paese fu costituito un Reichsnarstand, che riunì tutti gli imprenditori del settore alimentare. Tali organismi stabilivano la quantità, la qualità e il prezzo dei prodotti da coltivare e i miglioramenti da apportare con nuove tecniche colturali. Il governo, per indirizzare l’attività dell’industria delle aziende commerciali alle proprie direttive si servì delle camere economiche, che dipendevano dal ministero dell’economia nazionale. I diversi settori dell’industria e del commercio furono divisi in sei gruppi, ognuno dei quali aveva un capo che prendeva le direttive dal ministero dell’economia. Tali direttive furono ispirate al fatto che l’impresa privata doveva agire nell’interesse delle comunità e, quindi, lo stato erogò i seguenti diritti: ridurre i dividendi che venivano distribuiti agli azionisti; fissare gli stipendi degli amministratori e i salari degli operai; revocare le decisioni delle assemblee dei soci, stabilire la politica produttiva, rinnovare i dirigenti delle aziende e sostituirli con persone di propria fiducia. Si trattava, in realtà, dell’organizzazione di una vera e propria economia di guerra. Nel settore bancario, il governo nazista, nel 1934, stabilì con una legge un rigido controllo dell’attività delle banche, che fu attuato da un comitato di sorveglianza che stabiliva l’ammontare delle riserve delle banche e doveva essere informato di tutti i finanziamenti superiori a un milione di marchi che le banche concedevano. Il commercio estero fu notevolmente ridotto, ma non annullato come prevedeva la politica autarchica. Infatti, furono triplicati gli scambi con i paesi della penisola balcanica, dove la Germania acquistava i prodotti agricoli, veicoli, minerali e legname. Con il nazismo le condizioni economiche degli operai non migliorarono, i sindacati furono distrutti e i loro rappresentanti inquadrati nel Fronte Del Lavoro, al quale dovevo appartenere obbligatoriamente sia i lavoratori che i datori di lavoro. Il Fronte aveva il compito di regolare i rapporti tra capitale e lavoro in conformità con l’interesse collettivo. Fu oppresso e diritto di sciopero e perseguita ogni azione di difesa dei diritti dei lavoratori. Il maggiore responsabile della politica economica del nazismo fu il dottor H. Schacht. Egli affrontò la crisi economica attuando una moderata inflazione creditizia, ideata in modo che l’aumento della circolazione venisse assorbita dai risparmi e dai tributi. Tale politica, però, si riuscì ad attuare grazie alla stabilità dei prezzi e dei salari; stabilità che fu mantenuta con un rigido controllo tipico dell’economia bellica. In più, fu sostenuta dagli investimenti pubblici che triplicarono e dai finanziamenti concessi al commercio. La politica autarchica del fascismo in Italia (1928 - 1939) Una volta avviata l’organizzazione dello Stato corporativo, Mussolini se ne servì per instaurare la politica autarchica, che era stata attuata dal fascismo fin dal 1925 con la battaglia del grano. Essa fu attuata per far fronte alla crisi mondiale del 1929 che aveva coinvolto anche l’Italia. La prima manifestazione della crisi del 1929 fu la caduta dei prezzi, con riduzioni particolari per il settore agricolo, già gravemente colpito dalle avverse condizioni atmosferiche. Il commercio estero si assottigliò a quasi 1 / 3 e crebbe il deficit della bilancia dei pagamenti. Il crollo delle quotazioni di borsa colpì, particolarmente, gli istituti di credito che possedevano larghe fette dei capitali industriali. Anzi, molte banche per evitare la caduta delle quotazioni, acquistavano nuove azioni, con il risultato di recarsi maggiormente alle sorti dell’industria. Le banche da sole non avrebbero potuto superare la crisi; fu necessario prima l’intervento della Banca d’Italia e poi la completa ristrutturazione del sistema creditizio. La Banca d’Italia intervenne per sanare il sistema per mezzo dell’Istituto di Liquidazione che si accollò tutte le attività e le passività delle banche e poi cercò di eliminare le loro immobilizzazioni cedendo le partecipazioni che avevano nelle industrie private. Per le grosse immobilizzazioni della Banca Commerciale del Credito Italiano, fu necessario creare due società: la Sofindit (Società Finanziaria Industriale Italiana), e la SFI (Società Finanziaria Italiana). Queste si fecero carico di tutte le partecipazioni industriali delle due banche. Con queste operazioni, però, le banche trovarono grandi difficoltà a concedere i finanziamenti alle industrie. Così, con un decreto del 1931 fu istituito l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), con il compito di integrare l’opera delle banche nella concessione di crediti all’industria. Nonostante la creazione di nuovo istituto, le quotazioni dei titoli azionari continuarono a scendere. Occorreva un vero e proprio istituto di smobilizzo. Nel gennaio del 1933 fu creato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), con un capitale versato dallo stato e da altri enti pubblici. Esso fu diviso in due sezioni: una per i finanziamenti, con la possibilità di assumere partecipazioni industriali e l’altra destinati agli smobilizzi che, come prima operazione, assorbì l’Istituto di Liquidazioni della Banca d’Italia. Fu ridata liquidità al sistema bancario e l’istituto centrale si liberò delle cambiali immobilizzate. L’IRI arrivò a controllare altri settori produttivi del paese e per tale controllo si servì di apposite società finanziarie. Per esempio i cantieri navali e le società di navigazione venivano controllate dalla società Finmare e il settore siderurgico dalla Finisider. Nel 1936, gran parte dei settori industriali era risanato e nel 1937 l’IRI da istituto provvisorio divenne ente permanente, per cui fu ridotta l’attività di smobilizzo e fu allargata quella di amministratore di un vasto impero industriale, che comprendeva i settori: siderurgico, meccanico, cantieristico e armatoriale. L’opera di risanamento del settore creditizio fu completata con la legge bancaria nel 1936, che separò le banche di credito ordinario, non autorizzate ad effettuare investimenti a lungo termine, dalle banche che potevano effettuare tali operazioni. Più precisamente, le banche che operavano in più di 30 province furono dichiarate banche di interesse nazionale (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e potevano concedere solo finanziamenti a breve termine. Furono confermati istituti di credito di debito pubblico: Il banco di Napoli, il banco di Sicilia, la Banca Nazionale del Lavoro, l’Istituto San Paolo di Torino e il Monte dei Paschi di Siena. La nuova legge bancaria creò anche l’ispettorato del credito, con il compito di controllare le attività delle banche. Le relazioni internazionali dell’Italia vennero, a sua volta, seriamente compromesse dalla decisione di Mussolini, nel 1935, di conquistare l’Etiopia. Operazione ritenuta opportuna per dare prestigio all’Italia e benessere la sua economia. Contrari alla conquista erano, invece, i suoi consiglieri militari per gli imprenditori che non ritenevano il paese preparato militarmente ed economicamente a sostenere la guerra. La conquista dell’Etiopia fu condannata dalla società delle Nazioni e ben 50 paesi decisero severe sanzioni economiche nei confronti dell’Italia, rifiutando di tenere con essa relazioni commerciali. In pratica, però, le sanzioni non furono rigorosamente applicate e addirittura alcuni grandi stati, come la Germania, il Giappone e gli Stati Uniti, non aderirono alla decisione della società. Durante il periodo delle sanzioni furono intensificati gli scambi commerciali con la Germania che non aveva aderito alla decisione della società delle Nazioni, con la conseguenza di rafforzare anche i rapporti politici tra i due paesi fino alla stipula, nel 1939, del Patto d’Acciaio che coinvolse l’Italia nella seconda guerra mondiale. Dopo le sanzioni crebbero le ambizioni di Mussolini in campo economico, per cui fu rafforzato ulteriormente la politica autarchica che subordinò sempre più l’economia allo Stato. In campo agricolo, si cercò di diffondere nuove colture, come il cotone, i semi oleosi, ecc. che avrebbero dovuto far ridurre le importazioni dall’estero. Nel settore industriale, si intensificarono le ricerche per trovare in Italia petrolio, carbone ed altri minerali. Qualche risultato si ottenne, ma non tale da rendere il paese indipendente dall’importazione di combustibili e materie prime dall’estero. Comunque la guerra di Etiopia, la partecipazione dell’Italia alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale stimolarono la produzione bellica. Tra il 1937 e il 1939 aumentò la produzione della ghisa, quella dell’acciaio e la costruzione delle navi. La bilancia commerciale per la prima volta dall’inizio del secolo registrò un’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, il reddito nazionale pro capite aumentò. Il Giappone tra le due guerre: la politica di espansione territoriale e i mutamenti dell’economia Con lo scoppio della prima guerra mondiale, in Europa, il Giappone colse l’occasione per avanzare rivendicazioni sui territori cinesi. Nel 1915, nonostante le recriminazioni della Cina, ottenne l’annessione della maggior parte di quelle terre e l’avallo al suo operato dai paesi alleati. Un freno alla politica di espansione territoriale si ebbe nel 1922, quando il Giappone fu costretto a restituire il territorio dello Shantung ai cinesi e si impegnò a rispettare l’indipendenza territoriale della Cina. Nel 1930 il potere politico fu dominato dai militari che volevano la ripresa delle espansioni territoriali. L’espansione cominciò nel 1931, con l’occupazione della Manciuria; nel 1937-39 furono occupate le coste del territorio centrale della Cina assieme all’Indocina settentrionale. Nel 1941 fu occupato il Pacifico centrale e l’Asia sud – orientale. Nel 1942, sulla base del motto Asia gli asiatici, il Giappone si accingeva a dare un nuovo ordine ai territori occupati, attuando quella che fu chiamata la Sfera di co-prosperità della più grande Asia orientale. A contrastare tale politica furono la Russia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Nel 1943 i giapponesi furono respinti nel loro arcipelago e due anni dopo il governo nipponico fu costretto alla resa, dopo lo sgancio di due bombe atomiche su Hiroshima e su Nagasaki. Così, alla fine della guerra, il Giappone occupato dall’esercito Americano era prostrato economicamente e moralmente. Dal 1947 al 1951 gli Stati Uniti diedero un notevole contributo alla rigida economica del paese, imponendo diverse riforme, al fine di estirpare le radici del feudalesimo e del militarismo. Nel 1947 in Giappone entrò in vigore una nuova costituzione che diede vita ad una politica democratica, basata sulla sovranità popolare e sulla rinuncia alla guerra. Nel 1951, dopo la firma del trattato di pace tra il Giappone e gli Stati Uniti, terminò il regime di occupazione. Da quel momento, tra le due nazioni, si instaurò una stretta collaborazione economica, politica e militare. Durante gli anni della prima guerra mondiale, in Giappone, si ebbe un rapido sviluppo della produzione industriale. Il settore che maggiormente crebbe fu quello tessile. Buoni progressi furono realizzati dalle industrie siderurgiche, meccaniche e chimiche. Nello stesso tempo continuò il dualismo esistente nel primo decennio del secolo. Coesistevano una miriade di piccole imprese e poche grandi aziende, che concentrando grossi capitali dominavano uno o più settori della grande industria (zaibatsu). La grande depressione statunitense nel 1929 32 coinvolse anche le industrie nipponiche. Nel 1931 fu nominato ministro delle finanze Takahashi, seguace della politica keynesiana, disposta ad assicurare il pieno impiego con una politica inflazionistica. Favorevole a tale politica furono i militari che fecero salire le spese dell’armamento. Con tali provvedimenti il ministro riuscì a risolvere la crisi, ma poiché non volle seguire i militari nella politica imperialistica dopo quattro anni di governo fu assassinato. Nel 1936-1941 si passò da una politica keynesiana ad una politica molto vicina al nazionalsocialismo tedesco, che significa aumento delle spese belliche dello Stato e crescita delle industrie chimiche, metallurgiche e meccaniche. Lo sviluppo di queste industrie favorì le conquiste dei territori cinesi e la partecipazione del Giappone alla seconda guerra mondiale. Gli aspetti economici della seconda guerra mondiale L’elenco delle cause che portarono allo scoppio della seconda guerra mondiale fu piuttosto lungo, ma la principale fu l’imperialismo di Hitler. Nel suo famoso libro Mein Kampf (La Mia Lotta), sostenne che essendo i tedeschi una razza superiore, con una larga preparazione scientifica e tecnica, aveva il diritto di conquistare nuove terre e governare i popoli che li abitavano, perché appartenevano a razze inferiori. Secondo Hitler e i suoi seguaci vi è una piramide ideale della razza, dove la cima era occupata dai tedeschi di razza Ariana, poi venivano i latini, ad un gradino più in basso stavano i francesi, gli olandesi gli ungheresi, i danesi e i fiamminghi, ancora in basso venivano i popoli orientali, compresi i russi e polacchi, l’ultimo gradino era occupato dagli ebrei, una razza da sterminare3. Sulla base della piramide, Hitler iniziò la seconda guerra mondiale con l’intento di creare un grosso impero, che comprendesse tutti gli Stati dell’Europa orientale e gran parte dell’Asia. Nell’ambito di questa immensa area si sarebbero dovute creare delle zone vitali, costituite dai grandi spazi politicamente ed economicamente autonomi, ma legati a una comunità economica diretta dai tedeschi. La Germania avrebbe dovuto accentrare sul suo territorio la produzione industriale, mentre gli Stati dell’Europa occidentale e quelli orientali avrebbero dovuto indirizzare la loro economia esclusivamente all’agricoltura. Le conquiste tedesche cominciarono nel 1938 con l’annessione della Repubblica austriaca. Seguirono, nel 1939, l’invasione della Boemia e della Moravia e la pretesa di passare con le truppe sul territorio polacco attraverso il cosiddetto corridoio di Danzica. Quest’ultima pretesa causò la dichiarazione di guerra della Francia e della Gran Bretagna alla Germania. Nel giro di un anno e mezzo, con l’appoggio dell’Italia legata alla Germania dal Patto d’Acciaio (1939), l’esercito tedesco riuscì a conquistare quasi tutta l’Europa continentale. La guerra ebbe una svolta decisiva quando la Germania, nel 1941, commise l’errore di attaccare la Russia. Tale guerra ridusse notevolmente la disponibilità di materiale bellico e di uomini della Germania, mentre gli Stati Uniti fornirono ai paesi alleati una tale quantità di uomini e mezzi tali da consentire la vittoria finale sulle potenze dell’Asse (Germania, Italia, Giappone). Questa guerra può ritenersi veramente mondiale, poiché coinvolse il 90 % dei popoli della terra. Mentre la prima guerra mondiale interessò maggiormente i paesi europei e marginalmente il Giappone e gli Stati Uniti, la seconda fu una guerra dichiarata totale per la mobilitazione, non solo di tutti gli uomini capaci di combattere, ma anche di tutte le risorse dei partecipanti. In quasi tutti gli Stati che parteciparono al conflitto crebbe la produzione industriale bellica. In Giappone e in Germania non si ebbe la crescita perché furono fatti preparativi prima dello scoppio della guerra. La Germania, però, oltre ad usufruire della produzione propria sfruttò ampiamente quella dell’industria dei paesi occupati. Anche la manodopera dei pesi occupati fu utilizzata in base alle esigenze dell’esercito tedesco. Il trattamento variava in base alla razza di appartenenza degli operai: si obbligarono con la forza agli ebrei i quali dovevano ritenersi fortunati se venivano lasciati in vita. Lo sfruttamento finanziario dei pesi occupati fu attuato con mezzi che avevano una legalità apparente: vendita forzata di divise e di oro, immissione illimitata di carta-moneta tedesca, sottrazione delle riserve di ore alle banche di emissione, pagamento di spese per il mantenimento delle truppe di occupazione tedesca. In generale, le finanze dei paesi occupati furono messe in crisi e i governanti per far fronte alle spese furono costrette ad emettere biglietti, con il conseguente aumento dei prezzi. Tra gli alleati vi fu una notevole collaborazione, infatti, nel 1942, fu creato il Comando Supremo Congiunto Anglo-Americano, che stabilì le azioni militari da compiere, il materiale bellico da approntare. Gli alleati furono riforniti dagli Stati Uniti, dai paesi del Commonwealth e da tutti gli altri paesi liberi. Si trattò di una quantità di materiale molto superiore a quella che riuscì a procurarsi la Germania. Dopo il 1941 la schiacciante superiorità aerea degli alleati, rispetto alle potenze dell’Asse, si rivelò decisiva per la vittoria finale. I bombardamenti contro il Giappone iniziarono nella primavera del 1945, quando gli Stati Uniti dopo aver conquistato l’isola di Okinawa, ne fecero la loro base per attaccare l’intero arcipelago. Gli attacchi statunitensi si conclusero con il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, i cui effetti furono cosi disastrosi (100.000 morti e altrettanti feriti) che costrinsero il governo nipponico ad accettare la resa senza condizioni. Le conseguenze economiche della guerra Le conseguenze della guerra furono gravi, non solo per le perdite di vite umane e per la distruzione di materiali, ma per il profondo squilibrio politico ed economico prodotto. Agghiacciante fu la frase pronunciata da Hitler per giustificare tale massacro: “Se posso mandare il fiore del popolo tedesco nell’inferno della guerra, senza alcuna pietà per lo spargimento del prezioso sangue germanico all’ora, senza dubbio o anche il diritto di sopprimere milioni di esseri di una razza inferiore, che prolificano come cimici” Le perdite in agricoltura riguardarono la distruzione di macchine, la decimazione del patrimonio zootecnico e lo sfruttamento irrazionale della terra. Nel settore industriale, in Europa, l’aumento della produzione bellica corrispose un taglio notevole della produzione necessaria alla popolazione civile. Ciò non accadde, però, negli Stati Uniti e in Canada, che pur partecipando alla guerra, riuscirono ad aumentare notevolmente la produzione complessiva. Anche nelle relazioni commerciali e nei finanziamenti internazionali la guerra portò notevoli mutamenti. All’aumento degli acquisti europei negli Stati Uniti non corrispose un pagamento degli acquisti statunitensi. In Europa ciò comportò il disavanzo della bilancia commerciale e della bilancia dei pagamenti e una penuria di dollari in Europa. A complicare le relazioni finanziarie internazionali contribuì la legge Johnson, introdotta negli Stati Uniti nel 1934. Per evitare forti indebitamenti che si erano avuti durante la prima guerra mondiale, la legge proibì la concessione di crediti ai paesi in ritardo con il pagamento delle rate relative ai debiti precedenti. A questa legge, nel 1935 se ne aggiunge un’altra detta della Neutralità, che autorizzò il rifornimento di materiali bellico, ma consentì la concessione di prestiti agli Stati di guerra. All’inizio della guerra, gli alleati, per effettuare acquisti negli Stati Uniti furono costretti a sottostare al cosiddetto sistema Cash and carry, ossia paga e trasporta. Con tale sistema la Gran Bretagna, che maggiormente si rifornì negli Stati Uniti, all’inizio del 1941 aveva esaurito le sue disponibilità di dollari e non riuscì più a pagare le importazioni americane. Il presidente Roosevelt, preoccupato da tali situazioni e temendo la vittoria dei paesi dell’Asse, fece approvare dal Congresso la legge Lend Lease (prestiti e affitti) che consentì la concessione di lunghe dilazioni dei pagamenti per forniture di materiale bellico a quei paesi che egli riteneva di aiutare, per la difesa degli interessi americani. Altre conseguenze della guerra furono la nuova definizione dei confini degli Stati e la successiva creazione delle sfere di influenza politica ed economica. Si ebbe la divisione del mondo in due grandi zone d’influenza che avevano come confine il mare Adriatico e il fiume Elba. Ad Oriente di questo confine vi era la zona di influenza dell’Unione Sovietica, che andava dalla Polonia fino al Pacifico, con una superficie superiore al doppio dell’Europa e ricca di miniere da sfruttare e terre da coltivare. Ad Occidente del confine Elba- Adriatico si creò la zona d’influenza degli Stati Uniti. Anche in questa zona gli Stati sancirono accordi militari politici ed economici. Lezione 5 Le economie europee nella seconda metà del 900 La restaurazione economica nell’Europa occidentale La ricostruzione dell’economia europea si realizzò in tempi più brevi di quelli impiegati dopo la prima guerra mondiale. Questa fu facilitata dal fatto che prima della guerra, molte industrie producevano meno della capacità degli impianti disponibili. Fu come se la guerra avesse distrutto la parte inattiva di quelle industrie. Tuttavia, l’aiuto maggiore per la ricostruzione dell’economia e per la ripresa delle relazioni economiche internazionali arrivò dagli Stati Uniti e dal Canada, dagli accordi che furono presi a Bretton Woods e dal Piano Marshall, predisposto dal governo Americano nel 1948. Nel 1943, quando ancora la guerra non era finita, gli Stati Uniti assieme ad altri 43 Stati per provvedere ai bisogni urgenti dei paesi più poveri e più colpiti dalla guerra costituirono l’U.N.R.R.A. (United Nations Relief and Rehabilitation Administration, Ente per il soccorso e la ricostruzione delle Nazioni Unite) che distribuì principalmente prodotti alimentari e manufatti. Questi aiuti però non servirono a rimettere in moto l’apparato produttivo e, infatti, per questo scopo furono dati larghi aiuti finanziari. Tra i prestiti concessi dagli Stati Uniti all’Europa bisogna ricordare quello di 3,7 miliardi di dollari elargito alla Gran Bretagna nel 1946. Per mettere ordine nel caos monetario e per favorire la ricostruzione, nel 1944, a Bretton Woods tennero una conferenza di rappresentanti di 44 paesi. Alla riunione fu inviato Keynes, per conto del governo inglese, con il mandato di sostenere che Londra avrebbe dovuto riacquistare la funzione di centro finanziario mondiale. Per realizzare tale obiettivo bisognava rinunciare al Gold standard e creare un sistema di compensazione clearing per i pagamenti internazionali. I rappresentanti del governo degli Stati Uniti, invece, volevano il ritorno alla convertibilità della moneta e all’accettazione da parte degli altri paesi del Gold Exchange standard con il dollaro come moneta chiave. Dopo ampie discussioni fu accettata la tesi americana, così si crearono due nuove istituzioni: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS). Il fondo fu costituito con lo scopo di incoraggiare la cooperazione monetaria internazionale, sostenere l’espansione del commercio mondiale, favorire la formazione di un sistema multilaterale dei pagamenti e realizzare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e la stabilità dei cambi. Siccome tale fondo fu di scarso aiuto per la ricostruzione dell’economia europea fu creata la BIRS, con lo scopo di promuovere investimenti dei capitali a scopo produttivo. La maggior parte dei prestiti concessi dalla BIRS, nel primo lustro di attività, servì per riparare i danni di guerra nei paesi europei. Ma, nonostante questi prestiti e gli altri finanziamenti degli Stati Uniti all’inizio del 1947, l’economia europea ancora non si era risollevata dalla crisi. Per risollevarsi l’Europa aveva bisogno di altri aiuti. Sulla base di tali considerazioni, nel 1948 fu varato il piano ERP (Programma Di Ricostruzione Europea), meglio conosciuto come piano Marshall, dal nome del segretario di Stato generale Georges C. Marshall che lo sostenne. Gli obiettivi principali del piano erano tre: Aiutare la ricostruzione economica nei paesi europei Eliminare la disoccupazione Attuare una maggiore solidarietà economica tra gli Stati del vecchio continente Il primo punto fu realizzato facilmente, così come anche il secondo obiettivo. La piena occupazione si realizzò completamente in Francia e in Belgio, ma solo in Italia, soprattutto nelle regioni meridionali, l’obiettivo non si realizzò. Per realizzare il terzo obiettivo, prima 16 e poi 18 paesi europei, nel 1948, crearono l’OECE, (Organization Of Economics Cooperation For Europe). Ad una maggiore solidarietà politica ed economica europea avevano cominciato a pensare i maggiori esponenti politici dell’epoca, come Alcide De Gasperi per l’Italia. I vari politici formarono un partito europeo, al quale aderivano imprenditori industriali e finanziari, il cui scopo era quello di opporre al blocco sovietico, che si stava formando in Europa orientale, un’Europa occidentale, politicamente unita ed economicamente forte. Nel 1961, in base ad una convenzione stipulata a Parigi, l’anno precedente, l’OECE fu sostituita dall’OCSE (Organizzazione Di Cooperazione e Di Sviluppo Economico) con lo scopo di promuovere lo sviluppo economico fra gli Stati membri e, soprattutto, intensificare gli scambi commerciali. Alla nuova organizzazione aderirono molti Stati europei e di altri continenti. L’integrazione europea Alla fine della seconda guerra mondiale si era formata un vasto movimento di idee per l’integrazione politica ed economica dell’Europa e per creare una terza forza che fosse indipendente dall’unione sovietica e dagli Stati Uniti. A tale movimento o partito europeo si oppose la Gran Bretagna, che voleva rimanere legata al dominions. Quindi i sostenitori di questo movimento pensarono di cominciare a formare un clima favorevole nel movimento, attuando prima l’integrazione economica e più tardi quella politica. Ma, per evitare di trasformare un’unione spontanea delle Nazioni in un’unione imperiale, con il predominio delle Nazioni più forti sulle più deboli, si pensò ad unioni doganali limitate geograficamente (il Benelux) o limitati a determinati settori produttivi (la CECA). Il Benelux, l’unione economica tra il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, cominciò a funzionare nel 1948. Sorse come semplice Unione doganale con l’obiettivo di arrivare anche all’integrazione politica. Tale obiettivo, tuttavia, non si riuscì a realizzare perché non si creò un vero e proprio libero mercato tra gli Stati aderenti. Un fallimento si rivelarono l’Uniscan (1947) e l’Unione doganale franco - italiana (1948). La prima fu un tentativo di unificazione della Gran Bretagna con i paesi scandinavi, la seconda prevedeva l’unione doganale tra Francia, Italia e Benelux, ma non andò in porto per l’eccedenza della manodopera esistente in Italia. Maggiore successo ebbe invece il Consiglio d’Europa che fu costituito nel 1949 dai seguenti paesi: Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. Gli organi del consiglio, con sede a Strasburgo, erano il Comitato Dei Ministri Degli Esteri, l’Assemblea Consultiva e il Segretario Generale. Il Consiglio aveva compiti prevalentemente politici, sicché per i problemi economici fu creata la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), alla quale aderirono sei Nazioni: i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il B

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