DIRITTO DELL’IMPRESA E DELL’ECONOMIA PDF

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Il documento tratta del diritto dell'impresa e dell'economia, concentrandosi sul diritto commerciale e sull'evoluzione del suo ruolo nello sviluppo economico. Vengono analizzati gli aspetti storici, gli istituti e i principi chiave. Il testo si addentra nel diritto commerciale antico e moderno, passando dall'economia agraria e marittima alle società commerciali, fino alle codificazioni moderne.

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DIRITTO DELL’IMPRESA E DELL’ECONOMIA CAPITOLO 1: DIRITTO COMMERCIALE Il nostro paese sceglie un modello di sviluppo economico basato sull’economia di mercato, il che presuppone i seguenti elementi: libertà dei privati di dedicarsi alla produzione e alla distribuzione dei beni; libertà...

DIRITTO DELL’IMPRESA E DELL’ECONOMIA CAPITOLO 1: DIRITTO COMMERCIALE Il nostro paese sceglie un modello di sviluppo economico basato sull’economia di mercato, il che presuppone i seguenti elementi: libertà dei privati di dedicarsi alla produzione e alla distribuzione dei beni; libertà di coesistenza di una pluralità di operatori economici (pubblici e privati) libertà di competizione economica tra quanti operano sul mercato. In questo modello il fenomeno imprenditoriale costituisce l’asse portante dello sviluppo economico; per questo esiste una legislazione economica di diritto privato volta a creare un ambiente giuridico propizio allo sviluppo delle imprese. Le norme riguardano sia i singoli atti (obbligazioni e contratti) e rapporti economici in cui si sviluppa l’attività d’impresa sia l’attività di impresa unitariamente considerata (statuto professionale). Dunque, il diritto commerciale è quella parte del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa. È il diritto privato delle imprese, parte centrale del diritto privato dell’economia. I tratti salienti del diritto commerciale sono: a) il carattere di diritto speciale in quanto costituito da norme diverse da quelle generali; b) il carattere di diritto tendente all’uniformità internazionale. 1.1. DIRITTO COMMERCIALE E SVILUPPO ECONOMICO 1.1.1. IL DIRITTO COMMERCIALE ANTICO E MODERNO Il diritto commerciale costituisce il diritto dell’economia e la sua evoluzione è influenzata dalle scelte di politica economica di ogni legislatore. Regola la pratica del commercio e l’attività di ogni tipologia d’impresa, disciplinando sia l’iniziativa economica in sé, sia la protezione dei beni che i beni di cui l’imprenditore si serve e i diritti ad essi riconducibili, e si occupa della proprietà e della circolazione degli strumenti di lavoro oltre che della ricchezza dell’imprenditore. Le prime testimonanze dell’esistenza di istituti commercialistici dotati di una propria autonomia giuridica sono riconducibili alla Grecia classica ed ellenistica ed alla Roma repubblicana e imperiale; un’economia agraria e marittima. I principali strumenti sono stati: societates publicanorum (società di gestione di appalti relativi all’esecuzione di lavori pubblici o alla riscossione di imposte), antenate delle società per azioni ma sprovviste di autonomia patrimoniale e di personaloità giuridica; prassi di exercere negotiationes per servos communes (soluzione tramite la quale il commerciante esercitava i suoi affari a scopo di lucro e in forma organizzata, avvalendosi del lavoro di schiavi al proprio servizio in via continuativa, in modo anche sporadico, frammentato, e perciò non professionale foenus nauticum (contratto di finanziamento di imprese marittime); alcune forme di responsabilizzazione dei naviganti, dei vettori e degli osti (il receptum) e di esercizio di azioni processuali (le actiones esercitoria,institoria o de peculio). Il diritto commerciale nasce nell’Alto Medioevo dove si crea un vero e proprio ius mercatorum, nato da consuetudini e dalla giurisprudenza mercantile; si consolida nei traffici commerciali delle corporazioni delle arti e dei mestieri e a partire dal XII secolo, si consolida nella pratica mercantile (gli scambi commerciali erano ancora limitati). Con l’affermarsi della borghesia la società si evolve. Centro di aggregazione, di contatto e di confronto civile ed economico diventa la città medievale, in cui le corporazioni danno luogo a un’organizzazione di produzione e scambio della ricchezza. L'economia cittadina si basa in misura maggiore, rispetto al passato, sulla partecipazione dei cittadini a un'attività imprenditoriale (non più solo agricola ma anche mercantile e artigianale), sulla reperibilità e sulla più libera disponibilità della forza lavoro (svincolata dallo sfruttamento feudale), sull'autoregolazione delle classi sociali e su un'amministrazione della giustizia gestita autonomamente da queste corporazioni. Lo ius mercatorum, diritto prodotto dalla classe mercantile, viene imposto alle altre classi, sia agiate sia subalterne; era possibile grazie alla regola secondo la quale lo ius mercatorum è il diritto che, in sostituzione del diritto romano, dev'essere necessariamente utilizzato se nella contrattazione anche solo una parte sia un commerciante. Chiunque si fosse rifiutato di sottoporsi allo ius mercatorum avrebbe perso la possibilità di ricorrere al medesimo diritto in occasione di successive contrattazioni; nasce un diritto commerciale che si applica obbligatoriamente a chiunque tratti con un commerciante. Le sue fonti sono costituite dallo statuto, dalle consuetudini e dalla giurisprudenza mercantili. Tra gli istituti commerciali più utilizzati di questo periodo è bene ricordare la societas mercatorum. La compagnia soggetta allo ius mercatorum nasce come unione di natura familiare ed evolve come mezzo per realizzare investimenti e affari comuni. I capitali e la forza lavoro sono conferiti secondo le possibilità dei famigliari mentre i profitti vengono divisi in base a necessità e usi. I soci che la costituiscono assumono però responsabilità illimitata e solidale delle obbligazioni sociali con lo scopo di favorire il massimo sviluppo del commercio. A questa società si applica il regime di amministrazione disgiuntiva, secondo il quale l'obbligazione assunta da un socio vincola tutti i soci quand'anche essa sia assunta a loro insaputa, regime che però, coniugandosi con il principio della responsabilità solidale dei soci verso i terzi, risulta foriero di rischi non indifferenti. La compagnia si rivela come la società più utilizzata per affari da condurre sulla terraferma mentre la commenda si segnala come un contratto funzionale alla regolazione degli impegni reciproci connessi ad attività marittime. La società in accomandita deriva a sua volta dalla commenda. Ruolo differente a seconda che i soci appartengano alla categoria dei finanziatori dell'impresa marittima, quali soci accomandanti, che godono della limitazione della loro responsabilità per le obbligazioni sociali. O, invece, a quella dei gestori della medesima, quali soci accomandatari, che viceversa rispondono illimitatamente. Nel Medioevo assumono rilievo economico anche le società di capitali intese come: a) fondano la propria attività sulla disponibilità di capitali consistenti (il capitale sociale), oltre che sul lavoro di un certo numero di persone partecipanti a un'impresa comune (i soci); b) sono utilizzate per svolgere attività produttive affini a quelle che caratterizzeranno l'economia dell'età moderna. Vengono in seguito creati i primi titoli di credito, in primis la cambiale (XII secolo) nella forma del pagherò cambiario. La cambiale tratta nasce come titolo che accorpa l'originario pagherò con il documento (la lettera di cambio), che si affianca integrandone la funzione, per mezzo del quale il debitore ordina a un terzo di pagare la somma prevista, allorché questa sia cambiata in un momento e in un luogo differenti rispetto a quelli dell'emissione; il mercante potesse utilizzare il proprio denaro a distanza da casa minimizzando i rischi che avrebbe assunto se lo avesse portato con sé. Il Seicento con la comparsa della società per azioni si rivela cruciale per il diritto commerciale. La joint stock corporation ossia società per azioni differisce dalla regulated corporation, con cui condivide lo scopo necessariamente lucrativo della propria attività, per il fatto che quest’ultima presenta un’organizzazione aziendale unitaria alla quale manca però un capitale sociale comune, presente invece nella joint stock. Le novità introdotte dalla società per azioni sono sostanzialmente la limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali che essa garantisce ai soci e il fatto che il suo capitale sociale è costruito da azioni liberamente trasmissibili e con un prezzo di mercato. Esse sono uno strumento di certificazione e di trasmissione della ricchezza imprenditoriale e assicurano una rendita nella forma degli utili distribuibili ai loro titolari, rappresentano un potenziale investimento e, come tali, sono sottoscritte da soggetti motivati da obiettivi lucrativi. Le azioni costituiscono il capitale, e si tratta di capitale di rischio: l'investimento può fallire se fallisce la società che ha emesso le azioni sottoscritte dall'investitore. Al contempo però il conferimento di capitale di rischio rappresenta una forma di finanziamento che non richiede il pagamento di interessi ed eventualmente di penali, o il rispetto di pattuizioni e scadenze. Dal punto di vista economico, invece: a) il significato del principio di limitazione della responsabilità dei soci di una società per azioni risiede nel fatto che è riconosciuta la possibilità di godere di tale beneficio alla classe mercantile, che sino ad allora non aveva potuto avvalersene a condizione, che costoro acconsentano ad assumere, in seno alla società, un ruolo corrispondente a quello dei soci accomandanti; b) il beneficio viene concesso dal sovrano in persona. Il diritto commerciale comincia ad applicarsi agli atti del commercio da chiunque siano compiuti. I principi del diritto commerciale divengono in seguito principi di diritto comune. Il Settecento rappresenta il secolo del consolidamento. Le prime si affermano definitivamente in una doppia forma: di società di persone generali e di società in accomandita (oggi accomandita semplice). Si aggiunge una terza tipologia di società, di origine francese e detta «anonima» (société anonyme) perché il vincolo societario non è reso manifesto e i soci agiscono in nome proprio, rispondendo individualmente nei confronti dei terzi. 1.1.2. DIRITTO COMMERCIALE E CAPITALISMO In Francia tra Ottocento e Novecento si assiste alle prime codificazioni del diritto commerciale. Prima fra tutte, a seguito della rivoluzione industriale, nasce con una doppia codificazione del diritto civile il Code Napoléon (1804) e commerciale (1807). Il code civil esprime il diritto alla borghesia fondiaria, e disciplina la ricchezza immobiliare. Invece il code de commerce esprime il diritto della borghesia commerciale e industriale, e valorizza le esigenze di tutela della ricchezza mobiliare. Pure in Italia nel 1882 viene adottato un nuovo codice di commercio d’ispirazione a quello francese che regola i rapporti unilaterali o misti (dove il commerciante è solo una parte) che sostituiva il codice di commercio del Regno del 1865. Ciò portava a una differenza di trattamento irragionevole nei casi in cui un cittadino intrattenesse lo stesso rapporto economico, stretto in un'altra circostanza con un commerciante, con una parte civile. Si consolidano come principi di diritto comune, perciò applicabili a tutti i cittadini (anche non commercianti), i principi di favore per la conclusione del contratto, di favore per il creditore, e di favore per l'acquirente in buona fede di beni mobili. I titoli diventano gli strumenti ideali per rendere la circolazione della ricchezza intensa e rapida i più possibile, consentendo l'immissione sul mercato della massima quantità dei beni prodotti dalle imprese, Per diversi decenni, prima dell’unificazione realizzata nel 1942, si moltiplicano progetti di riforma del diritto commerciale ispirati ancora a un principio di autonomia del diritto dell’impresa rispetto al diritto privato. Alla fine, però, la duplicazione dei codici è accantonata, e il contenuto del codice di commercio è inserito nel libro V del Codice civile. In questo modo si realizza la commercializzazione» del diritto privato: l’«attività d’impresa» sostituisce gli “atti commerciali» e si evolve il concetto della «professionalità». Dopo l’unificazione si assiste a una abbondante produzione giuscommercialistica postcodista fino al XX secolo che poi è stata abbandonata da poter costituire un nuovo codice di commercio che si sviluppa su tre versanti: affermazione della prassi di contrattazione standardizzata e la diffusione di un approccio regolativo inteso ad arrestare il ricorso a clausole «vessatorie» e a tutelare i soggetti qualificabili come «consumatori». Il contraente forte predispone unilateralmente clausole alle quali il contraente debole aderisca senza poter negoziare. Ma, le clausole standardizzate offrono di limitare comportamenti irrazionali o opportunistici che siano tenuti da parte degli stessi consumatori; ideazione e l’introduzione di una serie di nuovi contratti d’impresa (leasing, factoring, franchising, merchandising, subfornitura, rete); stratificazione della legislazione speciale nell’ambito del diritto dell’economia. Con il passaggio dal XX al XXI secolo si assiste alla «ricommercializzazione» del diritto commerciale dovuto alla tendenza del legislatore a privilegiare altre tecniche regolative diverse dalla codificazione e dai seguenti fenomeni: frammentazione della disciplina dell’attività economica; moltiplicarsi delle fonti, sia nazionali sia comunitarie, del diritto commerciale; indebolimento della componente negoziale dei rapporti produttivi. 1.2. IL DIRITTO COMMERCIALE E TEORIE DELL’IMPRESA Sia giuristi che economisti hanno dato il proprio contributo nella produzione di un insieme di teorie dell’impresa. Le teorie economiche spiegano perché nascono le imprese e descrivono i caratteri delle loro dinamiche produttive mentre quelle giuridiche si concentrano sull’individuazione degli interessi che devono perseguire per rispettare i principi espressi dall’ordinamento. Le principali teorie economiche dell’impresa, che spiegano perché nascono le imprese e descrivono i caratteri delle loro dinamiche produttive, sono: teoria neoclassica che ritiene l’impresa niente più di un «meccanismo tecnologico», ossia uno strumento grazie al quale le risorse vengono combinate tra loro e trasformate in prodotti o servizi, mediante il passaggio materiale da dati input a dati output; teoria dell’impresa che ritiene l’impresa un nesso di contratti, cioè un complesso di accordi che i vari soggetti costituenti l’impresa stringono per formalizzare i propri interessi e omogeneizzare i propri obiettivi; teoria dell’impresa come sistema di relazioni reputa la destinazione delle risorse rimessa alle scelte di un imprenditore, che in prima persona seleziona le relazioni cruciali per l’attività economica, si occupa in prima persona dell'organizzazione aziendale e dirige la produzione; teoria dei diritti di proprietà ritiene che l’identità dell’impresa finisca per coincidere con gli assetti proprietari relativi ai beni che costituiscono il capitale, sulla base della differenza radicale tra chi detiene poteri di controllo sui mezzi di produzione e chi, invece, non ne ha. 1.2.1. LE TEORIE CONTRATTUALISTE E ISTITUZIONALISTE Le principali teorie giuridiche dell’impresa, le quali si concentrano sull’individuazione degli interessi che devono perseguire per rispettare i principi espressi dell’ordinamento, sono: teorie contrattualiste, di derivazione anglosassone, sostengono che l’interesse dell’impresa coincide con quello dei soggetti che si accordano tra loro, stipulando un contratto, e si uniscono per svolgere in comune un’attività economica. L’obiettivo di ogni impresa è fare scelte produttive in grado di realizzare al meglio gli interessi dei propri azionisti, massimizzando il rendimento dell'investimento compiuto dai soci e massimizzando il valore di mercato delle azioni di cui essi sono titolari. Secondo questa concezione chi guida l’impresa ha doveri fiduciari verso gli azionisti ai quali va riconosciuto un rilievo giuridico che, invece, manca alle aspettative ascrivibili a soggetti esterni all’impresa, e sia pure indirettamente coinvolti dalla sua attività economica. Le teorie contrattualiste hanno questo nome perché esprimono una nozione specifica di interesse sociale, e aiutano a spiegare il modo in cui tale interesse influenza la disciplina di una società. Ad esempio, quando si tratta di interpretare le norme che devono applicarsi a quel tipo di società, affinché di tali norme sia fornita un'interpretazione rispettosa dell'ordinamento. teorie istituzionaliste, di derivazione tedesca, sostengono che l’impresa va considerata alla stregua di un’istituzione sociale che, come tale, non può sottrarsi a contribuire allo sviluppo economico e sociale della comunità di riferimento o del Paese di appartenenza (teorie ritenute estranee alla filosofia ispiratrice del Codice civile italiano). L'interesse della società è un interesse non coincidente rispetto a quello dei soci; perciò, dell'interesse sociale i soci non potrebbero disporre in alcun modo, nemmeno sulla base di decisioni da loro assunte all'unanimità. L'attività d'impresa rappresenta tanto l'esercizio di un diritto quanto anche l'adempimento di una funzione. Una funzione da svolgersi non solo a vantaggio dei titolari dell'impresa ma anche degli stakeholders. E questo sia nel caso in cui gli stakeholders siano soggetti che concorrono allo sviluppo dell'impresa (i dipendenti, i fornitori, i creditori, i consumatori e i clienti). Sia gli stakeholders siano rappresentanti della comunità (le istituzioni locali, le associazioni, imprenditoriali, i sindacati dei lavoratori). Le teorie istituzionaliste sono estranee alla filosofia ispiratrice del Codice civile italiano. Gli amministratori di una società devono sempre tutelare l'interesse dei soci e agli stakeholders non possono essere attribuiti diritti di ingerenza nell'amministrazione dell'impresa. 1.2.2. TEORIA DELL’IMPRESA E INTERESSI DELLA SOCIETÀ Il Codice civile italiano menziona espressamente l’interesse sociale in alcune norme di grande rilievo per il diritto societario. Tuttavia, la definizione di interesse sociale è imprescindibile per la disciplina dei principali istituti societari. La teoria contrattualista ha prevalso e dunque gli interessi sociali tipici cioè gli interessi desumibili dalle norme del diritto societario italiano sono da ricondursi a: interesse alla massimizzazione del profitto sociale; interesse alla percezione dei dividendi nel corso dell’attività sociale; interesse a influenzare e a controllare la gestione della società; interesse alla determinazione del grado di rischio dell’attività sociale; interesse alla codeterminazione della durata dell’investimento, secondo le proprie personali esigenze economiche; interesse all’alienabilità della propria partecipazione sociale. Se questi sono gli interessi, il diritto commerciale non è dunque tenuto a riconoscere e tutelare le condizioni socioeconomiche degli stakeholders, perciò, deve dare prevalenza alla protezione degli interessi dei proprietari delle imprese anche se non per forza questo significa negare alcuna forma di attenzione agli altri portatori di interessi. 1.3. DIRITTO COMMERCIALE E DIRITTO D’IMPRESA Il diritto commerciale rappresenta dunque il diritto dell’economia il cui campo applicativo è estremamente ampio. La necessità di regolare il mercato garantisce che esso sia stabile, sicuro ed efficiente. Esso deve dunque funzionare e mantenersi operativo nel corso del tempo (stabilità), in grado di gestire i rischi che si sviluppano al suo interno (sicuro) e che assicuri le condizioni per cui le negoziazioni siano libere, eque e produttive (efficienza). 1.3.1. LIBERTÀ D’INIZIATIVA ECONOMICA E AUTONOMIA D’IMPRESA L’art.41 della Costituzione recita che «L’iniziativa economica privata è libera», tuttavia l’affermazione non specifica a quale genere di attività economica, esattamente, fa riferimento. Al riguardo ci sono principalmente quattro opinioni: a) L’espressione «iniziativa economica» coinciderebbe, in tutto e per tutto, con quella di attività d’impresa. b) L’iniziativa economica identificherebbe anche attività economiche organizzate e sviluppate secondo modalità e non propriamente imprenditoriali. c) L’ «iniziativa economica» va intesa quale sinonimo della scelta di esercitare qualsivoglia attività economica. d) L’iniziativa economica andrebbe ricondotta a tipologie specifiche di investimento caratterizzate dal fatto di destinare al processo produttivo una certa quantità e di beni capitali. La soluzione condivisa è che nella Costituzione è affermato il principio per cui l’attività d’impresa dev’essere tutelata alla stregua di un diritto di libertà di iniziare, svolgere e cessare un’attività imprenditoriale. Ex art. 41, comma 2, della Costituzione, per cui l’attività non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana; sono vincoli posti dall’ordinamento (Codice civile e leggi speciali) al ricorrere di situazioni oggettive o soggettive che richiedano di contenere la libertà di iniziativa economica. Il legislatore può condizionare l’organizzazione dell’attività d’impresa mediante: provvedimenti contenenti incentivi per gli imprenditori che tengano dati comportamenti; provvedimenti che prescrivano il necessario rilascio di un’autorizzazione o una concessione; provvedimenti che contengano l’imposizione di particolari adempimenti tecnici; provvedimenti che impongono all’impresa obblighi di informazione e di comunicazione da dare ai consumatori dei prodotti; provvedimenti relativi alle attività pericolose. 1.3.2. ETEROREGOLAZIONE E AUTOREGOLAZIONE DELL’IMPRESA L’attività d’impresa, quando è oggetto di eteroregolazione, può essere disciplinata dal legislatore in due modi: utilizzando regole o utilizzando standard. Una regola individua a priori tutte le circostanze che il legislatore ritiene rilevanti nella disciplina di un dato ambito o comportamento e detta il comportamento da tenersi in forma di obbligo o di divieto; diversamente lo standard (clausole generali e principi generali di diritto privato) consente di prendere in considerazione circostanze che non sono espressamente elencate nella propria formulazione letterale ma che tuttavia sono state tenute in conto dal legislatore, e che potranno essere esplicitate dal giudice o da chiunque debba assumere il ruolo di interprete dello standard. Quando sono utilizzate le regole, il contenuto normativo che l'agente deve individuare e rispettare è definito ex ante. Quando sono utilizzati gli standard, invece, il contenuto normativo è espresso sotto forma di clausole o di principi generali che ex post il giudice o l'interprete devono identificare e applicare al caso concreto. In linea generale le regole sono più costose da promulgare, ma garantiscono maggiore certezza. Gli standard, invece, sono più costosi da applicare, in quanto richiedono uno sforzo interpretativo (il compito che deve assolvere il giudice). Ne consegue che il ricorso alle regole è preferibile quando i costi di promulgazione siano inferiori ai costi di applicazione e ai costi di acquisizione di pareri legali. Le clausole generali se usate per appianare questioni riguardanti la vita delle imprese possono anche servire a far sì che le regole da applicare al caso concreto siano interpretate tenendo conto non solo delle aspirazioni di tutela dei membri dell’impresa ma anche di altre categorie di portatori di interessi. Dunque, l’uso delle norme riflette una tipologia più individualistica con grande grado di certezza applicativa mentre il ricorrere agli standard può rivelarsi più altruistico e di maggiore flessibilità. Per quanto riguarda l’autoregolazione i codici di corporate governance e i codici etnici ne rappresentano le forme più conosciute e più diffuse ma tuttavia non le uniche. Si può compiere una distinzione: strumenti di autoregolazione imprenditoriale sono costituiti da accordi e contratti plurilaterali che regolano l’organizzazione interna e l’attività esterna di imprese che operano nello stesso luogo (che sia in senso geografico o produttivo). Costituiti solitamente da disposizioni destinate ad incidere direttamente sul contenuto dei contratti stipulati dalle imprese che li adottino; strumenti di autoregolazione societaria servono al contempo come standard organizzativo e come standard informativo. Ciò consente agli investitori di conoscere le soluzioni di governo e di controllo adottate dalla società e quindi valutarne valore e serietà (Codice di autodisciplina delle società quotate). Le società quotate, avvalendosi di strumenti di autoregolazione societaria, adottano al proprio interno regole di corporate governance provate come efficienti e apprezzate dagli investitori, e certificano all'esterno di averle adottate. Dal momento poi che l'adozione del codice di autodisciplina non è obbligatoria, esso assolve l'importante funzione di spingere le società a tenere comportamenti meritevoli attraverso un'autonoma adesione a regole di buona organizzazione e di buona gestione, piuttosto che mediante un'imposizione da parte della normativa primaria. 1.3.3. LA DISCIPLINA DELL’IMPRESA TRA NORME INDEROGABILI E DISPOSITIVE Le norme dispositive, o di default, sono norme cogenti che, come tali, devono essere rispettate in tutto e per tutto, ma ammettono l’adozione da parte dei destinatari di una disciplina alternativa, nei limiti fissati dalle stesse norme dispositive. Le norme dispositive sono ritenute appropriate per la regolazione dell'attività d'impresa dal momento che i costi di transazione rendono inopportuno se non impossibile la definizione in via negoziale di ogni frangente dell'attività d'impresa. Grazie alle norme di default è possibile integrare il contenuto di contratti stipulati dall'impresa Le norme inderogabili sono nome che non ammettono l’adozione da parte dei destinatari di una disciplina alternativa, di cui è opportuno servirsi nei seguenti casi: allorché sia richiesto di tutelare soggetti contrattualmente deboli; quando è plausibile che l’esito di una negoziazione si riveli iniquo per una parte a causa dell’inefficienza del mercato sul quale avviene quella negoziazione; in tutte le contingenze in cui appaia necessario scongiurare episodi di incertezza su quale sia il diritto applicabile; per tutelare beni pubblici, cioè beni il cui consumo non è esclusivo, e sono fruiti simultaneamente da una popolazione tendenzialmente numerosa; nel caso in cui il legislatore reputi necessario equilibrare condizioni di carenza, o anche solo di asimmetria, informativa. L'efficienza delle norme di default va giudicata non solo valutando l'equilibrio tra libertà e vincoli che essa è intesa a garantire, ma anche in relazione ai nuovi costi privati che l'introduzione di una regola dispositiva impone di sopportare. Una norma dispositiva ha molti pregi, ma costa di più, e di questo costo occorre tener conto. CAPITOLO 2: L’IMPRENDITORE 2.1. IL CONCETTO DI IMPRENDITORE 2.1.1. L’IMPRENDITORE SECO NDO GLI ECONOMISTI L’individuazione dei tratti tipici dell’imprenditore risulta difficile in quanto la sua figura nel tempo è variata notevolmente. Secondo Jean-Baptiste Say l’imprenditore costituisce un ingranaggio irrinunciabile del meccanismo produttivo poiché è colui che organizza mezzi, uomini e capitali per produrre, e quindi immettersi sul mercato, rendere utili e valorizzare i prodotti. I capitali, dunque, non devono appartenere per forza all’imprenditore ma possono essere messi a sua disposizione da un soggetto esterno all’impresa chiamato capitalista. Scopo ultimo del lavoro dell’imprenditore è quindi incentivare il consumo inteso a soddisfare i bisogni fisiologici dei componenti della comunità, secondo le dinamiche proprie di un’economia tratteggiata dall’autore come «cooperativa», piuttosto che a concretizzare un sovrappiù del quale i capitalisti ambiscano appropriarsi. L’evoluzione di questa teoria avviene con Alfred Marshall secondo cui l’imprenditore è la mente direttiva del processo produttivo che deve avere un atteggiamento giudizioso e prudente con un’attitudine al rischio. Deve conoscere il mercato in cui investire, deve avere dimestichezza con i propri materiali e macchinari e deve essere un bravo organizzatore dei propri lavoratori. Egli pianifica e dà esecuzione, controllandone gli esiti, del processo produttivo. L’imprenditore è quindi «manager» nel senso che usa intelligenza, competenza e fiuto per gli affari per sfidare la complessità del mercato e decidere cosa offrire in pasto al pubblico, nonché quando e come farlo. L’impresa non è concepibile come entità sola ma essa viene affiancata da tante altre. Per Joseph Alois Schumpeter vi è un’impresa solo se è possibile realizzare qualche forma di innovazione. 2.1.2. L’IMPRENDITORE GIUSNATURALISTA Grazie al contributo degli economisti si consolida la distinzione concettuale tra la figura del capitalista e la figura dell'imprenditore. Il primo paga al secondo gli interessi per i capitali presi in prestito e svolge una funzione di intermediazione all'interno del sistema economico. L'imprenditore giusnaturalista disciplinato dal codice di commercio del 1882 presenta una fisionomia corrispondente a queste fattezze teoriche. È sostanzialmente un commerciante, e come tale compie professionalmente un'attività speculativa basata sullo scambio. Gli atti di commercio costituiscono gli strumenti giuridici funzionali a ricavare un lucro dalle operazioni di intermediazione economica. Commerciante è perciò chi compie speculazioni su merci (il mercante che acquista e rivende merci trattenendo la differenza dei rispettivi prezzi), speculazioni sul credito (il banchiere che guadagna dallo scarto tra interessi passivi e attivi), speculazioni sul rischio (l'assicuratore che lucra sul residuo della differenza tra premi e indennità), speculazioni sul lavoro (l'imprenditore manifatturiero che paga i lavoratori e rientra dalle spese in virtù di quanto guadagnato vendendo i beni prodotti dai lavoratori). Gli elementi dell'intermediazione e della speculazione, propri dell'attività del commerciante, valgono a distinguere quest'ultimo dall'artigiano, ossia da colui il quale si limita a vendere quanto prodotto quotidianamente con le proprie mani. Dalla categoria dei commercianti sono poi esclusi: liberi professionisti e gli artisti, in quanto soggetti lavoratori e non speculatori. 2.1.3. L’IMPRENDITORE NE L CODICE CIVILE Imprenditore (secondo il Codice civile del 1942) è chi svolge un'attività che ottiene come risultato il soddisfacimento di un bisogno piuttosto che la creazione di un oggetto; se l'obiettivo è il soddisfacimento dei bisogni dell'uomo, occorre che l'imprenditore sia in grado di produrre, e di riversare sul mercato, beni di natura anche immateriale. Il legislatore ha introdotto, prima di tutto, uno statuto dell'imprenditore, costituito dall'insieme delle norme che, nel Codice civile, sono dedicate in generale all'attività d'impresa, e al soggetto imprenditore, quando questo non sia qualificato in modo più preciso (come commerciale o non commerciale). L'imprenditore commerciale, così come l'imprenditore agricolo, sono considerate specie del genere imprenditore. 2.2. LA NOZIONE DI IMPRENDITORE È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art. 2082). A ogni imprenditore si applicano alcuni articoli del Libro IV del Codice civile, libro che raccoglie la disciplina delle obbligazioni, e le disposizioni sull'impresa in generale, l'azienda e la tutela della concorrenza, disposizioni contenute nel Libro V, che raccoglie la disciplina del lavoro. Gli elementi connotanti l'identità dell'imprenditore, rimasto indenne da modifiche nel passaggio dal fascismo alla democrazia e sono: economicità, ossia l'esercizio effettivo di un'attività produttiva di beni o servizi, o di intermediazione nella circolazione di beni o di servizi; organizzazione dei fattori produttivi; professionalità, cioè il dato per cui tale esercizio dev'essere non episodico o occasionale, bensì abituale. La definizione di imprenditore coincide con la definizione di impresa, e la disciplina dell'imprenditore è a tutti gli effetti disciplina dell'impresa. 2.2.1. ECONOMICITÀ E LUCRATIVITÀ È imprenditore chi esercita un'attività economica, ossia ogni attività produttiva di beni o servizi o di intermediazione nella circolazione di beni e servizi, che sia praticata rispettando un metodo economico, cioè quel metodo di gestione che consente a un'impresa di essere sufficiente a sé stessa autosostenendo la propria attività. Si parla in questo caso di economicità. L'imprenditore deve pareggiare, con i ricavi della propria impresa, i costi che discendono dallo svolgimento di tale attività, autoalimentando la produzione; non è quindi necessaria la realizzazione di un profitto. Lo scopo di lucro non costituisce un requisito essenziale dell'attività d'impresa. Non è indispensabile che ricorra un lucro oggettivo e che sia per forza realizzato un avanzo di gestione. Né è indispensabile che ricorra un lucro soggettivo, ossia non occorre per forza che l'avanzo di gestione del profitto sia ripartito tra i titolari dell'attività d'impresa, o fatto proprio dall'eventuale unico titolare della medesima. Insomma, la produzione del lucro non va confusa con la sua ripartizione. Svolgono attività d'impresa le imprese pubbliche così come le imprese cooperative. Svolgono un'attività d'impresa tanto le associazioni, quanto gli enti not for profit (Onlus) cioè organizzazioni non lucrative di utilità sociale e le imprese sociali. Invece non svolgono attività d'impresa le aziende di erogazione di pubblici servizi a prezzi politici, nonché le associazioni benefiche o caritatevoli Irrilevanti sono le intenzioni soggettive dell'imprenditore, ossia la mera volontà di dedicarsi a un'attività economica e il movente psicologico delle singole scelte produttive in cui questa si concretizzi. La disciplina civilistica dell'attività d'impresa si basa sulla manifestazione. Sono cioè necessari elementi esteriori e oggettivi che consentano ai terzi di essere consci di avere a che fare, e di negoziare, con un imprenditore, nonché di avvalersi della tutela giuridica che l'ordinamento dispone a vantaggio di coloro i quali, nei confronti di un imprenditore, vantino crediti esigibili. Altrettanto non significativi sono gli esiti dell'attività. L’inammissibilità dell’impresa (per conto proprio) teoricamente può essere rilevata come impresa ma non destinata al mercato. Ai sensi dell'art. 2082, occorre che i beni o i servizi prodotti siano parzialmente o potenzialmente destinati al mercato. Attraverso il concetto di professionalità il corollario che i beni o servizi prodotti siano naturalmente destinati al mercato, cioè divengano oggetto di uno scambio: se non fosse finalizzata alla vendita, o alla prestazione a terzi, dei beni o dei servizi prodotti, l'attività economica non sarebbe professionalmente esercitata, e non sarebbe in grado di pareggiare i costi con i ricavi. 2.2.2. ORGANIZZAZIONE E PROFESSIONALITÀ L'organizzazione di un'attività economica si realizza nel coordinamento dei fattori produttivi di cui l'impresa si serva. Sicché un imprenditore organizza la propria impresa creando un apparato produttivo stabile, del quale si pone al vertice, e coordinando le mansioni del personale dipendente e dei collaboratori occasionali, l'adeguatezza dei locali di lavoro e di deposito, l'uso delle materie prime e delle merci, il corretto funzionamento di impianti, macchinari e strumenti, la destinazione delle risorse finanziarie. Deve ricorrere un minimo di etero-organizzazione affinché, giuridicamente, possa riconoscersi l'esistenza di un'impresa, posto che la proporzione e la misura dei fattori produttivi impiegati, dipendendo dall'oggetto e dalle dimensioni dell'attività, di fatto si atteggiano variamente. Quel “di più” ricavato dal coordinamento dei fattori produttivi rappresenta il portato in termini di redditività che vale a distinguerlo dal lavoro autonomo. È professionale l'esercizio abituale dell'attività economica, ossia sistematico e ripetuto nel tempo. Un esercizio, quindi, non occasionale o saltuario. Con questo non s'intende che l'attività, per essere qualificabile come professionale, debba essere svolta senza interruzioni di sorta; ad esempio, un'attività stagionale, o comunque ciclica. Affinché si possa riscontrare il requisito della professionalità, l'attività di cui si tratta non dev'essere necessariamente l'unica svolta dall'imprenditore, né dev'essere la sua attività prevalente, cioè non deve necessariamente occupare la maggior parte del tempo o dei mezzi a disposizione dell'imprenditore; è sufficiente che l'esercizio di quell'attività sia abituale, Anche lo svolgimento di un singolo affare, a certe condizioni, consente di parlare di un'attività professionalmente esercitata, e, dunque, di un'attività d'impresa. Bisogna però che gli atti d'impresa siano numerosi e consistenti, tanto che al singolo affare possa ascriversi una rilevanza economica. Rilevanza che a sua volta, per il tempo e i mezzi richiesti, escluda di trovarsi innanzi a un'attività meramente occasionale. Lo stesso legislatore farà valutazioni più circostanziate e le esprimerà caso per caso. Si dovrà quindi giudicare in concreto quali affari, singolarmente considerati, conseguano al compimento, in via coordinata e continuativa, di atti d'impresa che possano dirsi molteplici e complessi. 2.3. L'ATTIVITÀ DELL'IMPRENDITORE Il Codice civile usa a questo proposito forme espressive differenti, che serve richiamare per iniziare il percorso di avvicinamento ai loro contenuti. Ricorrono le seguenti locuzioni: a) «atti pertinenti all'esercizio dell'impresa»; b) «atti relativi all'esercizio dell'impresa»; c) «contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda». In tutti i casi, l'atto d'impresa è considerato alla stregua di una singola manifestazione del comportamento dell'imprenditore. Manifestazione che si aggiunge ad altre della medesima natura, unitamente alle quali forma un complesso omogeneo: la categoria degli atti d'impresa. La disciplina degli atti d'impresa è importante perché costituisce parte dello statuto generale dell'impresa gli atti d'impresa sono fonte di diritti, di obblighi e di responsabilità per i soggetti a cui siano formalmente imputati: in primis l'imprenditore. Tali diritti, obblighi e responsabilità costituiscono l'oggetto delle regole dell'impresa; la categoria comprende atti di ogni tipo: liberi o vincolati, negoziali e non negoziali, leciti e non leciti; tutti rientranti nell'attività d'impresa e disciplinati dal Codice civile e dalle leggi speciali italiane. È indubbio che in termini assoluti assumono particolare importanza gli atti negoziali, e tra questi un posto di primo piano è occupato dai contratti d'impresa; tutti gli atti posseggono una propria e specifica durata temporale, così come una propria e specifica complessità. La durata dell’atto non può essere superiore a quella dell'attività d'impresa alla quale appartenga. 2.3.1. INIZIO E FINE DELL'ATTIVITÀ Per individuare l’iniziale dell’attività d’impresa da parte dell’imprenditore individuale si applica il principio di effettività. Il principio di effettività afferma che si acquista lo status di imprenditore solo al momento e in virtù dell'effettivo inizio dell'attività, e si smette di possedere tale status, evento al quale consegue che un soggetto non può più dirsi imprenditore, solo al momento e in virtù dell’effettiva cessazione della medesima attività; formalmente si acquista e si perde la qualità di imprenditore solo con l'iscrizione e la cancellazione nel Registro delle imprese. I termini dell'applicazione del principio di effettività, o all'opposto del principio formalista, non sono uguali se l'imprenditore sia una persona fisica o una persona giuridica (imprenditore collettivo). Il principio di effettività si applica senz'altro quando si tratti di focalizzare il momento iniziale dell'attività d'impresa da parte dell'imprenditore individuale. In questo caso l'aspirante imprenditore diviene tale quando può ritenersi effettivamente cominciata la sua attività. Non è perciò rilevante la mera intenzione: occorre che siano materialmente compiuti atti d'impresa. Allo stesso modo risultano irrilevanti i moventi dell'imprenditore; potrà riconoscersi la presenza dei requisiti di economicità e di professionalità anche se l'imprenditore non nutra l'intento di realizzare un'attività economica o di protrarla nei termini previsti dal requisito di professionalità. Gli atti di organizzazione riguardano la fase preliminare dell'attività d'impresa, hanno carattere preimprenditoriale e sono realizzati antecedentemente al momento in cui l'imprenditore compia il primo atto di gestione. Gli atti dell'organizzazione sono atti di esercizio di un'impresa già organizzata, hanno carattere di produzione o di scambio di beni o servizi e sono realizzati in modo tale che all'attività d'impresa possano riconoscersi i caratteri di economicità e di professionalità. Anche gli atti meramente preparatori possono assumere carattere imprenditoriale, purché non siano atti isolati. Deve trattarsi di atti coordinati di organizzazione quali il reperimento dei locali, l'assunzione del personale, l'acquisto di macchinari e di prodotti. E occorre che tale fase preparatoria sia in grado di rassicurarli sul fatto che l'attività così organizzata sarà destinata alla produzione o allo scambio di beni o servizi in modo professionale. Per quanto concerne l'inizio dell'attività dell'imprenditore non individuale, bensì collettivo (società o ente pubblico economico), si utilizzano gli stessi canoni interpretativi. Una società nasce al momento della sua costituzione (con la conclusione del contratto per le società di persone, o con l'iscrizione nel Registro delle imprese per le società di capitali), si ritiene che anche in tale circostanza debba applicarsi il principio di effettività (e non il principio formalistico che valorizza il momento della costituzione). Anche quando si tratti d'impresa collettiva occorrerà valutare, per giudicare se una società sostanzialmente esista già, la consistenza degli atti preparatori rispetto all'attività, atti che ben possono compiersi anteriormente o contestualmente alla formale costituzione della società. L'applicazione del principio di effettività ha rilevanti conseguenze anche in corrispondenza del momento finale dell'attività dell'imprenditore individuale. La fine dell'impresa individuale coincide con il momento della disgregazione dell'azienda o con la scomparsa del fine produttivo o di scambio (secondo altri autori). Il comma 1 dell'art. 10 prescrive che «gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro 1 anno dalla cancellazione dal Registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo». La prospettiva adottata nel 2006, allorché l'art. 10 è stato modificato; in prima battuta è formalista e non già sostanzialista come il principio di effettività richiederebbe: la perdita dello status di imprenditore si verifica come conseguenza di un atto formale, cioè la cancellazione dell'impresa dal Registro. Ma il comma 1 non può essere letto disgiuntamente dal comma 2, ai sensi del quale “in caso di impresa individuale o di cancellazione d'ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del comma 1”. La cancellazione dal Registro delle imprese vale come presunzione di avvenuta cessazione dell'attività, ma non impedisce ai creditori di dimostrare che l'attività d'impresa è proseguita anche dopo la cancellazione. Dovrebbe ritenersi consentito, allo stesso imprenditore, di fornire la prova che l'attività sia cessata prima della cancellazione, così da anticipare il decorso dell'anno entro il quale può essere chiesto il fallimento. L'art. 101, fall. menziona l'impresa collettiva applicando anche a essa la regola che fa coincidere il decorso del termine annuale per la dichiarazione del fallimento «dalla cancellazione dal Registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo». In questo caso non viene riconosciuta la possibilità dei creditori di provare la continuazione dell'attività (salvo si proceda a una cancellazione d'ufficio). L'attività d'impresa di una società si estingue con la società medesima con la sua cancellazione dal Registro delle imprese. 2.3.2. INCAPACITÀ ALL'ESERCIZIO DELL'IMPRESA Nel nostro ordinamento chiunque è legittimato ad assumere la titolarità di un'impresa, secondo il canone di riferimento ancora più generale in base al quale di fronte alla legge tutti i cittadini sono uguali. La capacità giuridica si acquista al momento della nascita, mentre la capacità all'esercizio e capacità all'esercizio dell'attività d'impresa si acquista al compimento del diciottesimo anno di età. Gli interessi commerciali di chi sia sprovvisto di capacità di agire quale titolare di un'impresa sono curati da un legale rappresentante, al fine di garantire l'integrità del patrimonio dell'incapace. Gli atti d'impresa sono tipicamente rischiosi, sicché l'ordinamento prescrive che in taluni casi il rappresentante o il curatore possano compiere solo atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di rilievo straordinario sono autorizzati dall'autorità giudiziaria solo in caso di necessità o di utilità evidente da accertarsi caso per caso. Il carattere di urgenza riscontrabile usualmente in molte fasi dell'attività d'impresa impone di premiare le esigenze di rapidità ed elasticità decisionale. L'autorizzazione del tribunale alla continuazione dell'impresa da parte dell'incapace, o l'autorizzazione a iniziare l'attività d'impresa rilasciata al minore emancipato, assume una valenza generale che accresce i poteri del rappresentante; l'autorizzazione consente al rappresentante di compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, siano essi di ordinaria ovvero di straordinaria amministrazione. il profilo dell'incapacità riguarda, per scelta legislativa, solo l'impresa commerciale, rectius l'imprenditore commerciale individuale e i soci illimitatamente responsabili di una società di persone che svolga attività commerciale, mentre la disciplina dell'esercizio dell'impresa agricola è lasciata al diritto privato; sono considerati soggetti incapaci, in quanto sprovvisti della capacità d'agire propria del titolare di un'impresa, i minori, gli interdetti, gli inabilitati, i minori emancipati, i beneficiari di amministrazione di sostegno (minori e interdetti sono soggetti incapaci in senso proprio, mentre inabilitati, minori emancipati e beneficiari di amministrazione di sostegno sono soggetti limitatamente capaci di agire); i minori e gli interdetti sono assistiti da un rappresentante legale, laddove gli inabilitati, i minori emancipati e i beneficiari di amministrazione di sostegno sono affiancati da un curatore. Tra i rappresentanti legali del minore rientrano il genitore o i genitori, che esercitano la potestà familiare sul minore, e, se questi manchino o siano impossibilitati, il tutore, che in quanto tale tutela il minore. Esaminiamo ora le singole ipotesi di incapacità cominciando dalla figura del minore (uguale è la disciplina che riguarda la figura dell'interdetto, cioè chi sia affetto da un’infermità mentale che gli/le impedisca di provvedere ai propri interessi, talché per effetto di un procedimento di interdizione costui venga giudizialmente privato della capacità di agire e sia affidato a un tutore). Chi non abbia compiuto il diciottesimo anno di età non può essere imprenditore, se non intervenga l'autorizzazione. La capacità di agire costituisce un presupposto per acquisire tale status, l'eventuale esercizio contra legem dell'impresa da parte del minore, cioè quando ancora non sia maggiorenne, non fa di lui un imprenditore. Nemmeno il suo rappresentante legale può in alcun modo iniziare l'attività di una nuova impresa commerciale. L'impresa può però essere ricevuta in eredità dal minore, o al minore donata. L'acquisto dell'impresa da parte del minore come conseguenza di una successione ereditaria o di una donazione richiede necessariamente l'intervento del rappresentante legale, il quale, per poter prendersi cura dell'azienda commerciale trasferita al minore, dev'essere autorizzato dal tribunale a continuare l'esercizio dell'impresa (nel caso dell'interdetto l'autorizzazione alla continuazione può riguardare anche l'impresa che era esercitata dal soggetto prima di essere interdetto). È questa l'ipotesi in cui l'autorizzazione del tribunale legittima genitore o tutore a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa: ordinari e straordinari; autorizzazione che assume valore costitutivo della qualità imprenditoriale del rappresentato (il soggetto incapace) che così diviene egli stesso, a tutti gli effetti, imprenditore. Inabilitato è chi si trova in condizione di ridotta capacità di agire (un infermo di mente in misura non grave, oppure chi abusi di stupefacenti). Non può iniziare un’attività d’impresa nuova, ma può proseguire la gestione di un’impresa. Se ottiene l'autorizzazione dal tribunale (può essere subordinata alla nomina di un institore, cioè di un direttore generale, la cui persona sarà scelta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore), l'inabilitato potrà continuarne lo svolgimento gestendo l'impresa. Non si trova però in una condizione di completa capacità, bensì in condizione di compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione. Il curatore si limita ad assistere nell'attività ordinaria, e presta il suo consenso quando si tratti di prendere atti di straordinaria amministrazione. Il minore emancipato, cioè il minore che abbia compiuto almeno 16 anni e sia autorizzato dal tribunale dei minorenni a contrarre matrimonio può iniziare una nuova impresa commerciale senza l'assistenza del curatore, s'intende se sia in tal senso autorizzato. Peculiare della disciplina del minore emancipato è che per effetto dell'autorizzazione costui acquista una capacità di agire piena, e può perciò compiere atti di amministrazione ordinaria, straordinaria e persino estranei all'esercizio dell'impresa (anche atti che non abbiano un rapporto da mezzo a fine con l'attività d'impresa). Infine, il beneficiario dell'amministrazione di sostegno, cioè un soggetto maggiorenne considerato debole per via di una malattia mentale, di patologie dell'invecchiamento o per condizioni defatiganti fisiche o psichiche anche occasionali che gli/le impediscano di prendersi cura dei propri interessi, è soggetto al quale è riconosciuta piena capacità di agire per tutti gli atti che non richiedano la rappresentanza esclusiva o l'assistenza di un amministratore di sostegno. Può iniziare, così come può proseguire, un'attività d'impresa, non dovendo avvalersi di alcuna figura deputata alla sua assistenza, a meno che sia diversamente deciso dal giudice tutelare. Se può acquistare la qualità di imprenditore, l'incapace venga sottoposto altresì alle verifiche di carattere anche personale legate a questa qualità. Verifiche che in caso d'insolvenza conseguente a debiti legittimamente contratti dal rappresentante possono condurre al fallimento. Il fallimento riguarda il patrimonio dell'incapace, non certo quello del rappresentante, purché l'insolvenza sia riferibile a obbligazioni imputabili al patrimonio dell'incapace e l'esercizio sia stato regolarmente autorizzato. Si ritiene però che sia il legale rappresentante a essere passibile di imputazione per i reati fallimentari, cioè per quanto riguarda l'irrogazione delle sanzioni penali a carico del fallito, in quanto si tratta di sanzioni conseguenti a reati commessi da altri (la responsabilità penale è personale) che l'incapace non ha voluto e non avrebbe potuto impedire. 2.3.3. ATTIVITÀ ILLECITA, APPARENTE, OCCULTA Illegale è l'impresa la cui illiceità dipende dalla violazione di norme che subordinano l'esercizio a concessione o ad autorizzazione amministrativa (banca di fatto, ossia l'ente che eserciti l'attività bancaria senza avere ottenuto l'autorizzazione dalla Banca d'Italia, ovvero al commerciante che gestisca la propria attività pur essendo privo della licenza). Illecita è l'impresa che faccia dell'illecito l'oggetto stesso della propria attività (produzione e spaccio di stupefacenti, di sfruttamento della prostituzione, di contrabbando). Chi svolga il primo tipo di attività è imprenditore a tutti gli effetti e destinato a subire le sanzioni prescritte dalla legge per le citate violazioni, e senz'altro può incorrere nel fallimento. Chi svolga il secondo tipo di attività non è invece qualificato come imprenditore, proprio per evitare che possa avvalersi delle tutele che l'ordinamento mette a disposizione dell'imprenditore contro comportamenti lesivi del suo status e del suo lavoro (in specie delle tutele garantite dalla disciplina dell'azienda, dei segni distintivi e della concorrenza sleale). Nella pratica l'impresa illecita è spesso un'impresa collettiva; si tratta di attività illecite esercitate dall'imprenditore unitamente ad altre persone, in forma societaria pluripersonale. L'imprenditore apparente, così come l'imprenditore occulto, è un soggetto che rileva non singolarmente preso ma in aggiunta ad altri soggetti, suoi soci (apparenti, occulti). La società occulta è una società reale che non esteriorizza il vincolo societario che lega i propri soci. Reciprocamente, la società apparente è il fenomeno tale per cui esteriormente viene rappresentato un vincolo societario che non sussiste. La società apparente è una simulazione di società, che copre un'attività svolta da due o più soggetti che agiscono come se fossero soci. Il ricorso a una società apparente induce nei terzi il convincimento che la società esista, e dunque che sia ragionevole contrattare con essa. L'esigenza di proteggere i terzi che senza colpa si affidino a una società apparente ha condotto a riconoscere giuridicamente una manifestazione societaria siffatta; l'apparenza assume un'efficacia costitutiva di una realtà imprenditoriale individuabile solo nella sua manifestazione soggettiva, quindi reale sotto ogni profilo. Si dice «occulto» l'imprenditore che si nasconde dietro un soggetto che funge da prestanome. Il prestanome appare come titolare dell'impresa ma non lo è, giacché titolare dell'impresa, ossia chi immette capitali e mezzi, gestisce l'attività e si appropria dei risultati è appunto l'imprenditore occulto. Le ragioni per le quali un imprenditore si fa scudo di un'altra persona, usualmente nullatenente, sono perlopiù illecite: nascondere le proprie ricchezze al fisco, sottrarsi creditori, esercitare un'attività che diversamente gli/le sarebbe vietata. Si è reso necessario andare oltre il vigente criterio della spendita del nome, ossia il criterio secondo il quale un atto è imputato al soggetto in nome del quale è compiuto (unitamente ai diritti e agli obblighi che da tale atto discendono). Ascrivere formalmente l'attività al dominus procurerebbe vantaggi evidenti nelle ipotesi di insolvenza dell'impresa, dal momento che, se fosse ammesso un criterio d'imputazione diverso rispetto a quello della spendita del nome, sarebbe possibile ottenere il fallimento dell'imprenditore occulto (del nullatenente prestanome). Sono state formulate alcune teorie, la teoria dell'imprenditore occulto (Walter Bigiavi), teoria che, se fosse stata pienamente accolta dal diritto positivo, o fatta propria in toto dalla giurisprudenza, avrebbe consentito di dichiarare fallibile non solo il socio occulto di una società palese, ma anche una società eventualmente occulta (nel caso cioè in cui un apparente imprenditore individuale in realtà agisca per conto di una società occulta di cui sia socio); è stata rigettata per evitare di intaccare il dogma della responsabilità limitata. Principio che assolve alla funzione di incentivare la destinazione di risorse a vantaggio delle società che, se di capitali, consentono al socio di svolgere attività d'impresa rischiando quanto in società conferisca (e non anche il proprio patrimonio personale), con ciò incentivandosi lo sviluppo economico complessivamente inteso. Per sanzionare il dominus di un'impresa che si celi dietro un prestanome e contestualmente proteggere i creditori della medesima impresa, si annovera la teoria dell'impresa fiancheggiatrice. Grazie a questa tecnica si imputano gli estremi propri dell'esercizio di un'autonoma attività d'impresa in capo al soggetto che stia dietro, anzi a fianco di un'impresa principale, costituita in forma societaria, avvalendosi per i propri scopi (sovente) illeciti di un'altra impresa (fiancheggiatrice). Questo soggetto viene considerato come un socio tiranno dell'impresa principale ed è così riconosciuto quale imprenditore individuale o socio di società pluripersonale (avrà veste di società di fatto). Di conseguenza, se ricorra l'insolvenza dell'impresa palese, deriva la possibilità di chiedere il fallimento del suo titolare occulto, S'intende, purché si riesca provare che costui tiranneggi la società principale con comportamenti. Non sempre, ove vi sia un soggetto tiranno, è facile ravvisare anche un'impresa al suo fianco e soprattutto con una simile tecnica si riescono a proteggere i creditori dell'impresa fiancheggiatrice, ma non anche i creditori dell'impresa principale. Risultano favoriti i soli creditori forti ed economicamente si possano permettere, di agire contro il tiranno (dai quali si siano fatti rilasciare una fideiussione). Per quanto residuale e insufficiente in termini assoluti). CAPITOLO 3: L’IMPRESA 3.1. IMPRESA AGRICOLA E COMMERCIALE La disciplina dell'imprenditore è costituita dall'insieme delle norme dedicate all'attività d'impresa: alcuni articoli del Libro IV del Codice civile e soprattutto delle disposizioni relative all'impresa in generale, all'azienda e alla tutela della concorrenza, contenute nel Libro V che raccoglie la disciplina del lavoro. Nell'ordinamento del diritto commerciale non trova riconoscimento giuridico una tipologia d'impresa che possa definirsi civile, ossia terza e sostanzialmente diversa rispetto alle tipologie dell'impresa agricola e dell'impresa commerciale. Il solo esempio è quello dell'ente pubblico che eserciti, in via solo accessoria, un'attività commerciale. La nozione di impresa commerciale è ricavabile in negativo: lo è rispetto a quella di impresa agricola. L'impresa agricola è positivamente individuata dalla definizione espressa dall'art. 2135. Dunque, l'impresa commerciale non è definita in forma autonoma; la sua identità si evince dall’elenco delle attività ai sensi dell'art. 2195. Riassumendo: il Codice civile predispone una disciplina dedicata all'imprenditore (art. 2082 presenta la nozione di imprenditore). A tale disciplina si aggiungono gli statuti speciali dell'imprenditore agricolo e commerciale, a partire dalle norme che rispettivamente definiscono l'imprenditore agricolo (art. 2135) ed elencano le cinque categorie di attività qualificate come attività commerciali (art. 2195). Dall'art. 2135 in poi è collocato lo statuto speciale dell'imprenditore agricolo (artt. 2135-2139). Lo statuto speciale dell’imprenditore è esteso e variegato e si colloca all’art. 2195. 3.1.1. L’IMPRESA AGRICOLA L'impresa agricola tratteggiata dal codice civile viene modellata dalla riforma del 2001 (dIgs. n. 228/2001), che ha modificato l'art. 2135, titolato «Imprenditore agricolo». è stato sostituito il termine «bestiame», contenuto nel comma 1 dell'art. 2135, con il termine «animali». «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse»; l'ampliamento dell'ambito applicativo della norma è stato perseguito riformulando il comma 2 dell'art. 2135, al fine di annullare il legame che in precedenza doveva ricorrere necessariamente tra lo sfruttamento del fondo agrario e il concetto di attività agricola. Legame per cui giuridicamente si riconosceva l'esistenza di un'attività agricola, e quindi si applicava la disciplina dell'imprenditore agricolo, solo se l'imprenditore agricolo ricavasse i frutti della propria attività dal lavoro materiale svolto sul fondo (terra, bosco o acque). Secondo la nuova formula del comma 2 dell'art. 2135 «per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine»; «Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano a oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e ospitalità come definite dalla legge». Il Codice civile contempla due categorie di attività agricola: a) l'attività agricola essenziale (o essenzialmente agricola), la cui fisionomia è ricavabile dal testo dei commi 1 e 2 dell'art. 2135; b) l'attività agricola connessa (o per connessione), menzionata nel testo dei commi 1 e 3 del medesimo articolo. L'attività agricola essenziale è incentrata sul concetto di ciclo biologico. Quella connessa è incentrata sul legame che questa seconda attività, che può essere anche di natura commerciale, abbia con l'attività di cura e di sviluppo di un ciclo biologico. A questa duplicazione non è stata fatta seguire una divaricazione della disciplina giuridica dell'attività agricola. All'imprenditore agricolo, quale che sia la categoria di appartenenza della propria attività, essenziale o connessa, l'ordinamento riserva una manciata di disposizioni codicistiche (a partire artt. 2135-2139) e una serie maggiore di disposizioni contenute nelle leggi speciali. Si tratta di una disciplina indubbiamente privilegiata, poiché l'imprenditore agricolo non è assoggettabile alle procedure concorsuali (art. 2221), non deve tenere le scritture contabili (art. 2214), e gode di agevolazioni finanziarie e fiscali (in base alla normativa regionale). L'imprenditore agricolo è però tenuto a iscriversi nel Registro delle imprese, a scopi di pubblicità legale. La nozione di impresa agricola espressa dalla riforma del 2001 introduce il concetto di ciclo biologico, con riferimento a ogni processo produttivo vegetale o animale, riconducibile all'ambiente naturale, che si concretizzi nelle attività elencate dal comma 1 dell'art. 2135. Il complesso delle attività finalizzate alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico, o di una sua fase necessaria, costituisce un alveo giuridico a sé stante che ricomprende la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l'allevamento di animali; queste sono le attività agricole che secondo tradizione chiamiamo essenziali. Costituiscono attività agricole essenziali anche coltivazioni artificiali o fortemente industrializzate. Così come attività comunque svolte secondo modalità, sia organizzative sia esecutive, alternative rispetto a quelle tradizionalmente praticate. Nonostante gli intenti chiarificatori della riforma del 2001 anche di recente la dottrina giuridica ha proposto letture della nozione di attività agricola essenziale che nel loro complesso lasciano qualche incertezza interpretativa. Quali sarebbero le attività che possono utilizzare il fondo, e sulla base di quali criteri dovrebbero essere ascritte alla categoria delle attività agricole essenziali? a) con un'interpretazione più estensiva, e forse più sbrigativa, si afferma che la produzione di carattere vegetale o animale costituirebbe un’attività agricola essenziale anche quando sia realizzata in forme che prescindono dallo sfruttamento di un fondo (dal momento che tale attività può, ma non dovrebbe necessariamente, utilizzare il fondo, il bosco o le acque); b) con un'interpretazione più restrittiva, si fa presente che se un imprenditore non utilizza concretamente il fondo, ma voglia dirsi agricolo, bisogna che ricorrano due condizioni: che il fondo faccia parte della sua azienda agricola e che lo stesso sia quantomeno minimamente utilizzabile per curare e sviluppare un ciclo biologico. Diversamente risulterebbe imprenditore agricolo anche chi si servisse di un fondo per costruirvi un capannone adibito ad attività solo astrattamente agricole (mentre costui dev'essere considerato imprenditore commerciale). Secondo questa parte della dottrina, allora, è inevitabile valutare caso per caso se l'utilizzazione di un fondo, che non sia direttamente lavorato, possa costituire comunque la base di un'attività agricola essenziale. Le certezze invece sono: a) la coltivazione del fondo, così come la coltivazione del bosco (selvicoltura), sono attività che non possono ridursi alla mera estrazione e raccolta, rispettivamente, dei prodotti del suolo o del legname. Occorre invece che dall'imprenditore agricolo, affinché possa dirsi tale, sia prestata un'attenzione globale per la cura del terreno o del bosco; b) l'industrializzazione di tali attività, solitamente realizzata impiegando strumentazioni tecniche e macchinari di vario tipo, o investendo capitali anche consistenti nella coltivazione, non ne impedisce la riconduzione ai tratti tipici di un imprenditore agricolo (e non commerciale). Sono qualificabili come agricole attività quali l'orticoltura, la floricoltura, le coltivazioni realizzate in serra e in vivaio, nonché le diverse forme di coltivazione fuori terra di frutta e ortaggi. Nell'attività agricola di allevamento di animali rientrano l'allevamento in batteria, l'allevamento di cavalli da corsa e di animali da pelliccia, l'allevamento e l'addestramento di cani e gatti, l'allevamento di animali da cortile (polli, conigli) e da pascolo (bovini, ovini, caprini, equini e suini), l'apicoltura e la bachicoltura, e vi è compresa l'acquacoltura, ossia l'attività di allevamento di pesci e mitili. L'imprenditore ittico è parificato a tutti gli effetti all'imprenditore che svolga un'attività agricola essenziale. La specificità della connessione risiede nell'esistenza di un legame con l'attività di cura di un ciclo agrobiologico svolta ordinariamente dall'imprenditore agricolo. Al verificarsi della coesistenza in capo al medesimo imprenditore di un'attività agricola essenziale, da un lato, e di altre oggettivamente commerciali che possano dirsi connesse alla prima, dall'altro, la legge fa discendere una conseguenza peculiare sotto il profilo concettuale e sistematico. Tutte queste attività, commerciali ma connesse, possono essere svolte dall'imprenditore senza che costui perda per questo la propria qualità agricola; considerando agricole, sia pure per connessione, le attività commerciali collegate a quella agricola principale, la legge evita che l'imprenditore agricolo muti la propria identità, diventando perciò un imprenditore commerciale, o si veda costretto ad assommare due qualità imprenditoriali differenti (agricola e commerciale). Il vantaggio per l’imprenditore agricolo dipende dai maggiori costi che la legge impone di sopportare a chi sia qualificabile come imprenditore commerciale anziché come imprenditore agricolo (il quale può giovarsi di una disciplina favorevole, oltre che di altre agevolazioni). Esempio: non è costretto ad assumere la più onerosa veste di imprenditore commerciale il viticoltore che dalla propria uva tragga vino e che sul mercato immetta questo prodotto anziché l'uva. Tuttavia, affinché tale conseguenza si produca legittimamente è richiesto che siano rispettate due condizioni; condizioni relative alle caratteristiche soggettive e oggettive della connessione tra attività principale e connessa e si tratta di condizioni che devono sussistere contemporaneamente. 1. occorre che la connessione sia di carattere soggettivo, nel senso che l'attività agricola connessa dev'essere esercitata dal medesimo soggetto che svolge l'attività agricola essenziale. Non contrasta con questa condizione il fatto che l'attività connessa sia svolta collettivamente, da imprenditori agricoli organizzati in forma di società cooperativa o di consorzio; 2. occorre che la connessione sia (anche) di carattere oggettivo, nel senso che i prodotti devono essere realizzati in misura prevalente tramite l'attività agricola essenziale, e i beni e servizi forniti grazie all'uso prevalente di attrezzature, o di risorse, appartenenti all'azienda dell'imprenditore che esercita l'attività agricola essenziale; l'attività connessa non deve soverchiare economicamente quella essenziale. Ai sensi dell'art. 2135, comma 3, per attività comunque connesse si intendono: le attività dirette alla manipolazione, alla conservazione, alla trasformazione, alla commercializzazione e alla valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale; le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o di risorse normalmente impiegate nell'attività agricola essenziale, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, e le attività di ricezione e di ospitalità (attività «agrituristiche», includendovi l'organizzazione di attività ricreative, culturali, didattiche, di pratica sportiva, escursionistiche e di ippoturismo, anche se svolte all'esterno degli immobili dell'impresa). L’elenco non menziona l'alienazione dei prodotti che fruttino dal lavoro dell'imprenditore agricolo perché l'alienazione di tali prodotti non può essere distinta dalla loro produzione, costituendone una componente necessaria e contribuendo a connotare come imprenditoriale, nel suo complesso, l'attività dell'imprenditore agricolo; il lavoratore che sfrutti il fondo (terra, bosco o acque) non può definirsi imprenditore agricolo. 3.1.2. L'IMPRESA COMMERCIALE Lo statuto speciale dell'imprenditore commerciale si incardina sull'art. 2195. Il comma 1 identifica le attività che, se esercitate da un imprenditore, impongono l'iscrizione nel Registro delle imprese; il comma 2 stabilisce che «le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano». Il comma 1 dell'art. 2195 individua cinque tipologie di attività commerciali, e recita così: «Sono soggetti all'obbligo di iscrizione nel Registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; un'attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie delle precedenti». L'attività è commerciale in tanto in quanto non coincida con un'attività agricola, desumibile come tale dall'art. 2135. In altre parole, non serve interrogarsi oltremodo sui contenuti della commercialità: se l'attività svolta da un imprenditore non è agricola, allora si tratta di un imprenditore commerciale; l’elencazione ha una valenza esemplificativa e non tassativa ed esaustiva. L’impresa civile non trova riconoscimento giuridico una tipologia d’impresa terza e sostanzialmente diversa rispetto alle tipologie dell’impresa agricola e dell’impresa commerciale. 3.2. PICCOLA IMPRESA, IMPRESA ARTIGIANA E FAMILIARE Ai sensi dell'art. 2083 «sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia». La disciplina del piccolo imprenditore del 1942, si trattasse di coltivatori diretti, piccoli commercianti o artigiani, fu modellata su una figura imprenditoriale arretrata, nella prospettiva di alleviare gli oneri normativi a suo carico, per incentivarne la crescita economica. Più recentemente il piccolo imprenditore è evoluto: costui svolge un'attività non solo manuale, si avvale di strutture produttive e tecnologiche anche complesse e coordina il lavoro di propri dipendenti. Nell'immediato dopoguerra del secolo non è stato assoggettato al fallimento (ex art. 2221), data l'indiscutibilmente minore pericolosità del piccolo imprenditore verso il mercato rispetto ai titolari di attività produttive più ampie. Il legislatore ha anche esentato il piccolo imprenditore dall'obbligo di tenuta delle scritture contabili (ex art. 2214) e dall'iscrizione nel Registro delle imprese (ex art. 2202, anche se poi la I, n. 580/1993). In parallelo all'evoluzione della figura del piccolo imprenditore- tipo, l'originario assetto regolativo ha fronteggiato integrazioni e modifiche, a cominciare dal regime di esenzione concorsuale. Infatti, la legge fallimentare (r.d. n. 267/1942, recante la «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa»), aggiornata nel 2007, nel suo primo articolo individua gli imprenditori esonerati dall'applicazione delle procedure concorsuali, prevendendo che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali, i quali dimostrano il possesso congiunto di: aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000; aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 250.000; avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000». 3.2.1. PRINCIPI GENERALI Affinché un imprenditore, commerciale o non commerciale, sia qualificabile come piccolo imprenditore ai sensi del Codice civile (art. 2083), e per questo possa sottrarsi alla tenuta delle scritture contabili e sia tenuto a iscriversi nella sezione speciale del Registro delle imprese, bisogna che contemporaneamente si verifichino le due condizioni: l'imprenditore deve prestare il proprio lavoro nell'impresa; il suo lavoro e quello dei familiari devono prevalere sia su quello altrui, sia sul capitale, proprio o altrui, investito nell'impresa. Affinché invece un imprenditore, in questo caso necessariamente commerciale, sia sottratto alle procedure concorsuali, occorre che rientri nei parametri fissati dall'art. 1, comma 2, 1, fall. che definiscono una dimensione contenuta dell'imprenditore, dal triplice punto di vista dell'attivo patrimoniale, dei ricavi lordi e dei debiti prodotti dall'attività d'impresa, e al solo scopo di chiarire quando l'imprenditore sia non fallibile. 3.2.2. LA PICCOLA IMPRESA Alla nozione codicistica di piccolo imprenditore si è progressivamente affiancata una serie di fattispecie d'impresa piccola e media. Tra le principali dobbiamo ricordare la raccomandazione 2003/361/CE, che ha partorito la nozione di microimpresa, ossia l'impresa con un organico inferiore a 10 persone e il cui fatturato, o il totale di bilancio annuale, non superi 2 milioni di euro. Fornisce i parametri di misurazione dell'impresa piccola (organico massimo di 50 persone, fatturato massimo di 10 milioni di euro) e dell'impresa media (organico massimo di 250 persone, fatturato massimo di 50 milioni di euro o totale di bilancio annuale non superiore a 43 milioni di euro). La legge sull'artigianato, ossia la l. n.443/1985, prevede soglie differenziate, e la legge in materia di interventi per l'innovazione e lo sviluppo (L n.317/1991), secondo la quale è piccola l'impresa che impieghi sino a 250 dipendenti e che fatturi annualmente sino a 20 milioni di euro, ovvero disponga di un patrimonio netto di bilancio sino a 10 milioni di euro. Il piccolo imprenditore può svolgere la propria attività anche in forma societaria; ai sensi dell'art. 3, comma 2, 1. n. 443/1985, «è artigiana l'impresa [...] costituita ed esercitata in forma di società, anche cooperativa, escluse le società per azioni e in accomandita per azioni, a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale». Tra le cause che spiegano la crescita modesta delle imprese italiane primeggiano le difficoltà di reperimento di capitali: sia di debito sia di rischio. Per favorire la patrimonializzazione della piccola impresa si è cercato di scardinare la dimensione eminentemente bancocentrica dominante nelle prassi di finanziamento (leggi: dipendenza passiva delle PMI dal credito e dall'assistenza delle banche locali, condizione rischiosa in tempi di credit crunch), incentivando il ricorso diretto al mercato del capitale di rischio (leggi: acquisizione di partecipazioni al capitale delle imprese da parte, ad esempio di società di private equity) e riducendo il ruolo preponderante assunto dalle garanzie che, tradizionalmente, sono richieste alle imprese per ottenere credito. Si è cercato di ricorrere prevalentemente a meccanismi di concessione delle agevolazioni finanziarie di carattere automatico, e perciò di rapida erogazione, anziché di carattere discrezionale, forse oculate ma senz'altro più lente, talora al punto tale da arrivare quando ormai è troppo tardi. Non si è realizzata appieno anche se, bisogna dire, le piccole delle PMI e medie imprese rappresentano, oltre a un punto debole, un elemento di forza dell'economia nazionale. Inoltre, in tempi più recenti e recessivi, le piccole e medie imprese mostrano di avere pregi di natura anticiclica; infatti, contestualmente a un'elevata mortalità, manifestano un’altrettanta elevata natalità, nonché la propensione al consolidamento delle attività produttive intraprese. 3.2.3. L'IMPRESA ARTIGIANA E L'IMPRESA FAMILIARE L’attività artigiana è un'attività che gode del riconoscimento di rango costituzionale (art. 45, comma 2, Cost.): «La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato». E la legge ordinaria dello Stato, prima nel 1956 e poi nel 1985, ha provveduto a disciplinare l'artigianato introducendo una nozione di imprenditore artigiano. L'art. 3, comma 1, 1. n. 443/1985 esplica: «è artigiana l'impresa che, esercitata dall'imprenditore artigiano nei limiti dimensionali di cui alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazione di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie all'esercizio dell'impresa». Imprenditore artigiano, ai sensi dell'art. 2, comma 1, è «colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo»; la materia è riservata alla competenza delle Regioni. La nozione di imprenditore artigiano si ricava dalla sintesi di due elementi: a) il contenuto dell'attività artigiana, che può assumere, salve le esclusioni espresse, ogni forma nella produzione di beni o di servizi; b) il ruolo dell'imprenditore artigiano, il cui lavoro deve prevalere nel processo produttivo ma che non deve necessariamente prevalere sugli altri fattori produttivi. Funzione della legge quadro è definire l'artigiano a fini eminentemente agevolativi: se un imprenditore dimostri di essere artigiano ai sensi della l. n. 443/1985, è titolato a fare richiesta per concorrere alla fruizione degli incentivi finanziari che le Regioni rendono disponibili a favore di questa categoria. Ma per essere escluso dal novero dei soggetti cui si applica lo statuto dell'imprenditore commerciale l'artigiano deve essere tale nel rispetto del criterio espresso dall'art. 2083. E per poter evitare di essere sottoposto alle procedure concorsuali occorre che rientri nei parametri previsti dall'art. 11. fall. L'artigiano può esercitare la propria impresa in forma anche collettiva, costituendo una società artigiana, con esclusione della società per azioni e in accomandita per azioni; in questi casi la qualifica artigiana è riconosciuta a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale anche manuale nel processo produttivo, e che il lavoro di soci, collaboratori, dipendenti prevalga sul capitale. Sulla base della legge quadro sono ammessi: sino a 18 dipendenti, che divengono 22 se si aggiungano apprendisti, per l'imprenditore che non lavora in serie; sino a 9, 12 con apprendisti, per l'impresa che lavora in serie; sino a 22, 40 con apprendisti, per l'impresa che svolge la propria attività nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell'abbigliamento su misura; sino a 8 per l'impresa di trasporto; sino a 10, che divengono 14 se si aggiungono apprendisti, per l'impresa di costruzioni edili, L'impresa familiare è stata inventata perché si riteneva imprescindibile offrire una disciplina giuridica specifica ai casi in cui un imprenditore si avvalga della collaborazione lavorativa del coniuge, di propri parenti o affini, allorché a tale prassi non si accompagni spontaneamente il riconoscimento, in capo ai medesimi soggetti, di una serie di diritti il cui rispetto è dalla legge ritenuto doveroso (art. 230-bis c.c.). S'intende che, a maggior ragione, una tutela del genere risulta necessaria quando il lavoro sia non offerto, ma imposto, e vi sia il rischio che ricorrano condizioni di sfruttamento. L'impresa familiare, per quanto pluripartecipata, non è un'impresa collettiva, ma conserva la propria natura di impresa individuale. Inoltre, non è necessariamente una piccola impresa: la piccola impresa è spesso familiare, è vero, ma può non essere tale; viceversa può avere natura familiare anche un'impresa non piccola. È familiare l'impresa alla quale collaborino il coniuge dell'imprenditore, i suoi parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado. I familiari dell'imprenditore hanno diritto: a) a essere mantenuti sulla base delle condizioni patrimoniali della famiglia; b) a partecipare a utili, beni acquistati e incrementi aziendali in proporzione a quantità e qualità del lavoro prestato; c) a partecipare alle decisioni sull'impiego di utili e incrementi, alla gestione straordinaria e alle decisioni sugli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa. Più complessa è la scelta operata dalla legge Cirinnà nel disciplinare con un'autonoma previsione, inserita nel neo introdotto art. 230-ter, l'impresa familiare dei conviventi di fatto. Nel nuovo testo dell'art. 230-ter la stabilità della convivenza è posta quale pietra angolare dell'istituto, in quanto solo il convivente unito stabilmente da legami affettivi di coppia, che presti stabilmente («continuativamente») la propria opera all'interno dell'impresa del convivente, matura diritti patrimoniali. Il convivente di fatto si vede garantita «una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato», ma è escluso il diritto di prelazione sull'azienda e il diritto al mantenimento, che però assume un minor rilievo, dal momento che la legge pone a carico dei conviventi gli obblighi di reciproca assistenza materiale. 3.3. IMPRESA PUBBLICA E SOCIALE Nel caso dell'impresa pubblica, infatti, il fine dell'attività d'impresa è pur sempre quello della produzione o dello scambio di beni e di servizi, e il fine di interesse generale tipico dell'impresa pubblica svolge una funzione analoga a quella rappresentata dal profitto per l'imprenditore privato. Nel caso dell'impresa sociale invece va ricordato che, forse per fretta legislativa, varie disposizioni fanno tuttora salva l'applicazione della disciplina propria di ciascuna delle forme organizzative che un'impresa sociale può adottare. 3.3.1. PRINCIPI GENERALI Lo Stato e Pubblico e gli enti pubblici italiani possono partecipare alla vita economica del paese svolgendo attività d'impresa, in tre modi diversi: a) assumendo una partecipazione nel capitale di una società di diritto privato; b) costituendo un ente di diritto pubblico; c) utilizzando proprie strutture organizzative. Nella prima ipotesi l'intervento pubblico nell'economia si realizza per tramite di una società a partecipazione pubblica che ha tutti i caratteri di una società privata, le cui azioni sono però, per la totalità, nella loro maggioranza o in una percentuale di minoranza di proprietà dello Stato o di un altro ente pubblico. Nella seconda ipotesi l'intervento si realizza invece con un ente pubblico economico, dotato di personalità giuridica, il cui scopo esclusivo o principale sia l'esercizio di un'attività economica specifica e predeterminata. La terza ipotesi è quella di un'impresa-organo, ossia un ente privo di personalità giuridica dotato, in quanto apparato dello Stato o di un ente pubblico, di semplice autonomia gestionale. 3.3.3. L'IMPRESA SOCIALE Con l'espressione «impresa sociale» si fa riferimento alle imprese private che hanno a oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale. L'ente che eserciti un'impresa sociale deve costituirsi per atto pubblico e, se sia dotato di un patrimonio netto di almeno 20.000 euro, dal momento dell'iscrizione nel Registro delle imprese risponde, con il patrimonio di cui disponga, delle proprie obbligazioni. Qualora però il patrimonio scenda di oltre un terzo al di sotto della soglia citata sono responsabili, personalmente e solidalmente, anche coloro i quali abbiano agito in nome e per conto dell'impresa; questo regime vale indipendentemente dalla forma giuridica adottata dall'impresa. L'impresa sociale può dotarsi della struttura di una qualsiasi tra le forme di organizzazione privata, ciò significa che essa può organizzarsi al proprio interno secondo le regole che disciplinano qualunque tipo societario, anche se si tratti di un tipo che secondo l'ordinamento italiano è inteso a perseguire uno scopo lucrativo. È per questa ragione che è importante capire perché l'impresa sociale italiana non costituisce un nuovo tipo di ente rispetto a quelli già previsti e regolati dalla legge. L'impresa sociale è sottoposta ad alcune disposizioni di carattere speciale che si applicano sia nel caso in cui essa svolga un'attività commerciale, sia nel caso in cui l'attività sia agricola. L'impresa sociale: a) si iscrive nella sezione speciale del Registro delle imprese; b) deve redigere le scritture contabili; c) è sottoposta a liquidazione coatta amministrativa e non a fallimento, ove insolvente; d) è soggetta alla vigilanza del ministero del Lavoro. Ministero che può disporre la perdita della qualifica di impresa sociale, se rilevi l'assenza delle condizioni per il suo riconoscimento, ovvero se riscontri violazioni e l’impresa non faccia cessare i comportamenti illegittimi. Il comma 1 dell’art. 8 prevede che i soggetti esterni all'organizzazione che esercita l'impresa sociale, ossia gli stakeholders, possano contribuire alla nomina dei componenti delle cariche sociali purché si limitino a esprimere una minoranza di tali membri. La norma rende possibile adottare, avvalendosi dei poteri di autonomia statutaria, un sistema di amministrazione tale per cui a soggetti esterni all'impresa è consentito, si, di partecipare al rapporto associativo, ma in una misura necessariamente non maggioritaria. Il comma 2 del'art. 12 spiega cosa si debba intendere per «forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività» dell'impresa sociale, e cioè qualsiasi meccanismo, ivi comprese l'informazione, la consultazione o la partecipazione, grazie al quale lavoratori e destinatari delle attività possano esercitare un'influenza sulle decisioni dell'impresa. Almeno sulle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro offerte, e sulla qualità dei beni e dei servizi prodotti o scambiati. Non si può definire chi sia il soggetto destinatario dell'attività; questo soggetto infatti può mutare di volta in volta, e risulta più o meno facilmente identificabile a seconda che l'erogazione dei beni o dei servizi di pubblica utilità sia a fruizione individuale o diffusa. Le imprese sociali che esercitino un’attività di assistenza sociale o sanitaria: destinatario è il soggetto assistito. Nel secondo caso, con riguardo ad esempio alle organizzazioni che tutelano l'ambiente, o che svolgono attività di ricerca, il destinatario non può che essere inteso nel senso generico di soggetto beneficiario, diretto o (come più spesso accade) indiretto, dell'attività dell'impresa. Il citato d.lgs. n. 155/2006 e le disposizioni in esso contenute disciplinano l'impresa sociale. La legge delega individua i principi fondamentali che siano trasposti nei decreti legislativi che il governo deve adottare entro il mese di luglio 2017, decreti destinati a regolare la costituzione e l'organizzazione: a) degli enti privati, fondazioni, associazioni, riconosciute o non riconosciute come persone giuridiche, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale o che promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di produzione e scambio di beni e servizi; b) dell'impresa sociale; c) del servizio civile. La legge si pone dunque l'obiettivo di sostenere l'autonoma iniziativa dei privati che variamente concorrano in forma associata a perseguire il bene e l'utilità sociale, favorendo il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle attività attraverso cui tale iniziativa si realizzi. L'art. 6 della legge delega è dedicato all'impresa sociale. Quest'ultima viene ricondotta a pieno titolo tra gli enti del Terzo settore ed è definita quale organizzazione privata che svolge attività d'impresa per le finalità di cui all'art. 1, comma i, destina i propri utili prioritariamente al conseguimento dell'oggetto sociale, adotta modalità di gestione responsabili e trasparenti, favorisce il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività e quindi rientra nel complesso degli enti del Terzo settore. Tra le novità introdotte dalla legge delegava segnalata la richiesta di introdurre forme di remunerazione del capitale conferito, l'obbligo di redigere il bilancio sociale ex art. 2423, la previsione di specifici obblighi di trasparenza nonché di limiti in materia di remunerazione delle cariche sociali e di retribuzione dei titolari degli organismi dirigenti, il coordinamento della disciplina dell'impresa sociale con il regime delle attività d'impresa svolte dalle organizzazioni non lucrative di utilità sociale e, infine, la nomina di uno o più sindaci che devono monitorare e vigilare sull'osservanza della legge e dello statuto da parte dell'impresa sociale, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione. Dall'impresa sociale va distinta la società benefit. La «benefit corporation italiana», o società con scopo di beneficio comune, oggetto del d.d.l. n. 1882/2015 («Disposizioni per la diffusione di società che perseguono il duplice scopo di lucro e di beneficio comune»), è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016). Essa rappresenta un modello per l'esercizio di attività d'impresa che si è affermato negli Stati Uniti nei primi anni Duemila, e l'Italia è a oggi tra i primi ordinamenti europei ad averlo introdotto. Il riferimento è a società che svolgono un'attività allo scopo di dividere gli utili (rientra quindi tra le società for profit) ma perseguendo una o più attività di beneficio comune nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e ogni altro portatore di interesse. In esse si sintetizza il perseguimento di un duplice scopo: all'interno della loro attività principale, che è quella economica, devono (e possono) perseguire uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più delle categorie: persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse). Si tratta di enti che esercitino un'attività economica e che, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguano una o più finalità di beneficio comune e operino «in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse». La valutazione dell'impatto comprende le seguenti aree di analisi: il governo dell'impresa, per valutare il grado di trasparenza e di responsabilità della società nel perseguimento delle finalità di beneficio comune, con attenzione allo scopo della società, al livello di coinvolgimento dei portatori d'interesse e al grado di trasparenza delle politiche e delle pratiche adottate dalla società; i lavoratori, per valutare le relazioni con i dipendenti e i collaboratori in termini di retribuzioni e benefit, formazione e opportunità di crescita personale, qualità dell'ambiente di lavoro, comunicazione interna, flessibilità e sicurezza del lavoro; gli altri portatori d'interesse, per valutare le relazioni della società con i propri fornitori, con il territorio e con le comunità locali in cui la società operi, con le azioni di volontariato, con le donazioni, con le attività culturali e sociali e ogni azione di supporto allo sviluppo locale e della propria catena di fornitura; l'ambiente, per valutare gli impatti della società, con una prospettiva di ciclo di vita dei prodotti e dei servizi, in termini di utilizzo di risorse, energia, materie prime, processi produttivi, processi logistici e di distribuzione, uso e consumo e fine vita. CAPITOLO 4: LE REGOLE DELL’IMPRESA 4.1. PUBBLICITÀ Lo statuto generale dell’imprenditore, il complesso di regole, è costituito dalle seguenti norme: a) le norme costituzionali riguardanti l'attività d'impresa, e le disposizioni contenute negli artt. 41 («1. L'iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»), 43 («1. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale») e 46 («Ai fini dell'elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende»); b) una larga parte delle norme contenute nel Libro V del Codice civile italiano, tra le quali alcune disposizioni della sezione «Dell'imprenditore», consecutive all’art. 2082 («imprenditore»), come sono gli art. 2084 («Condizioni per l'esercizio dell'impresa»), 2086 («Direzione e gerarchia nell'impresa) e 2087 («Tutela delle condizioni di lavoro»), nonché svariate disposizioni delle sezioni «Dei collaboratori dell'imprenditore», «Del rapporto di lavoro», «Dell'azienda» e «Disciplina della concorrenza e dei consorzi»; c) una serie più limitata di norme contenute nel Libro IV del Codice civile, tra le quali l'art. 1368, il cui comma 2 prevede che «nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell'impresa»; d) il complesso delle norme previste dalla l

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