Psicologia Generale Completo PDF
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2024
Chiaraelli Greta
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Questi appunti trattano di psicologia generale, coprendo argomenti quali l'introduzione, le origini storiche, la psicofisica, la cronometria mentale, e la riflessologia. Gli appunti sono adatti a studenti universitari di psicologia.
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PSICOLOGIA GENERALE ANNO ACCADEMICO 2024/2025 CHIARELLI GRETA INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA GENERALE INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA La psicologia generale studia i fenomeni psichici nella popolazione generale; per popolazione generale si intende che non verranno affr...
PSICOLOGIA GENERALE ANNO ACCADEMICO 2024/2025 CHIARELLI GRETA INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA GENERALE INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA La psicologia generale studia i fenomeni psichici nella popolazione generale; per popolazione generale si intende che non verranno affrontati temi riguardanti la popolazione clinica e la popolazione in età evolutiva. Digressione sulla psicologia dello sviluppo dell’età evolutiva e la teoria dell’attaccamento (non verrà affrontata in particolare, ma se ci sarà occasione verrà fatto qualche approfondimento): la professoressa indica come questo argomento faccia parte della psicologia dinamica, la quale studia come un individuo si sviluppa durante le relazioni con altri individui. La teoria dell’attaccamento formulata da Bowlby indica come un individuo di un anno ha già stabilito dentro di sé un'idea di come le sue figure di riferimento si apportano a lui e quindi svilupperà dentro di sé un legame che sarà di tipo sicuro (se viene accudito, ben valutato, incoraggiato) oppure un attaccamento evitante o insicuro quando l’incontro ha caratteristiche di incostanza e trascuratezza. Etimologia della parola Psicologia: (psyché = Spirito, anima) (logos = discorso, studio). Il termine letterale indica quindi lo studio dello spirito o dell’anima. La psicologia scientifica, più applicativa rispetto alla psicologia teorica (la quale riguarda l’ambito filosofico), indaga con metodi sistematici e scientifici i processi psichici e le manifestazioni comportamentali dell’individuo umano. Psicologia scientifica: è lo studio scientifico dell’attività psichica e delle varie forme di espressione del comportamento umano. Si distingue dall’accezione filosofica del termine come ricerca del principio ontologico dell’attività psichica. La psicologia scientifica è applicabile in diversi rami come la psicologia medica, clinica, dinamica, generale, sociale, dell’età evolutiva, del lavoro e delle organizzazioni. ORIGINI STORICHE La psicologia nel corso della storia ha affrontato un cammino lungo e complesso, ha dovuto lottare per poter essere trattata al pari delle scienze dure, proprio perché queste ultime ritenevano che non fosse applicabile un metodo scientifico alle materie di studio della psicologia. Ci fu però un cambio di paradigma che portò alla discussione del modello di scientificità, basato solamente sull’oggettività totale, che coincide con gli studi di Heisenberg ed Einstein, corrispettivamente con il principio di indeterminazione e la teoria della relatività. Successivamente a questi studi, le scienze dure hanno dovuto fare i conti con la complessità della conoscenza e ammettere che, diversamente da un modello positivista, la nostra mente non può svelare completamente tutto, ma si deve accontentare di una conoscenza con un impianto il più possibile sistematico, esplicito, controllato, ma che arriva a conclusioni probabilistiche, quasi mai al cento per cento vere. La psicologia nasce quindi nel panorama delle scienze dell’800, durante la forte espansione dell’illuminismo, che ha portato ad un incremento delle conoscenze e allo sviluppo della tecnologia scientifica, creando un panorama scientifico avanzato in tutte le discipline. Si caratterizza per la ricerca di metodi sistematici che permettano di indagare l’attività psichica e il comportamento in modo confrontabile con le altre discipline scientifiche. Per potersi calare nell’ambito della scientificità, la psicologia deve affrontare due punti chiave: L’oggetto di studio: come è possibile definirlo, essendo così complesso e multi-determinato (l’attività psichica si può vedere? Si può pesare?); Quali metodi introdurre per affrontare questo oggetto di studio, che dovevano essere diversi rispetto a quelli delle scienze fisiche e biologiche. Molto importante è sottolineare che la psicologia scientifica è nata grazie all’area biofisiologica e filosofica: Fisiologia: l’attività psichica è sostenuta da delle funzioni del sistema nervoso, che comportano delle reazioni biologiche, che a loro volta comportano degli aspetti fisiologici. Diventa quindi possibile cercare di dimostrare una funzione psicologica andando a misurare le sottostanti funzioni fisiologiche e biologiche. Questi studi hanno permesso di portare la psicologia ad essere oggetto di studio concreto al pari delle altre scienze dure. Il problema della psicologia consisteva infatti nella complessità del proprio oggetto d’indagine: come si possono definire e misurare processi e funzioni psichiche complesse come la percezione, la memoria…? Filosofia: la riflessione teorica e teoretica, hanno permesso l’incontro tra filosofi e fisiologi che hanno dovuto comprendere come funziona la psiche in modo complesso. Fondamentale è stato il cambio di approccio della filosofia dal modello positivistico, il quale si basava sulla fisica classica, che prevede una netta separazione tra soggetto indagante e oggetto indagato (dualismo di Cartesio) e sosteneva che la mente umana poteva svelare in modo molto oggettivo la natura e l’ambiente, ad una concezione di scienza basata sulla fisica moderna, che ammette una reciproca influenza tra soggetto indagante e oggetto. Di fronte al cambio di paradigma dovuto alle scoperte scientifiche di Heisenberg ed Einstein, si sostiene che, molto spesso, il soggetto che studia, senza rendersene conto, influenza l’oggetto di studio. Questo è il motivo per cui in psicologia e medicina vengono condotti gli esperimenti in cieco semplice e doppio cieco. Cieco: La persona che viene esaminata non sa su che cosa viene esaminata Doppio cieco: anche lo sperimentatore non deve sapere se il soggetto esaminato sta assumendo un determinato farmaco o se non lo sta assumendo Questi esperimenti vengono svolti perché si è scoperto che gli esseri umani si influenzano anche solamente con le parole, modificando i comportamenti e ciò avviene anche quando incontriamo un'altra persona, ci influenziamo a vicenda. Le nuove frontiere della epistemologia, cioè della filosofia della scienza e della conoscenza, ci dicono che la completa oggettività è un’illusione, perché noi siamo sempre influenzati dai fenomeni che studiamo e influenziamo i fenomeni che stiamo studiando. Si passa quindi ad un modello di super scienziato definito “causa ed effetto” ad un modello di scienziato più umile che ha la consapevolezza della finitezza dei suoi metodi, che però sostiene la fondamentale importanza della scientificità come sistematicità delle metodiche di studio e dei processi di indagine. La psiche non è misurabile direttamente: diventa quindi difficile poterla definire o confrontarla così come vien fatto per gli oggetti di studio delle altre scienze; fu quindi compito degli scienziati porre degli indicatori. Facendo riferimento ad un evento storico, Von Helmholtz nel 1850 scoprì la velocità di conduzione dell’impulso nervoso, permettendo quindi di mettere in relazione la parte psichica (in questo caso lo stimolo nervoso) con qualcosa di misurabile matematicamente. La nascita della psicologia scientifica, o meglio, delle varie scuole che poi si riuniranno sotto di essa, si colloca per convenzione nel 1879, quando Wundt fondò a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale. Poco dopo, nel 1883, Stanley Hall creò il primo laboratorio di psicologia sperimentale negli Stati Uniti. Ci sono state moltissime correnti di pensiero e approcci scientifici e teorici che hanno influenzato la nascita della psicologia, portando alla nascita nell’800 in Europa di scuole di psicologia diverse tra loro. Alcune sostenevano che era necessario un approccio biologico, altre ritenevano fosse necessario essere obiettivi e usare solamente metodi oggettivanti. Per esempio: In Francia agli inizi del 900, il governo chiese a Bine di inventare uno strumento per misurare le capacità scolastiche dei bambini per poter distinguere quei bambini che avevano difficoltà oggettive per poterli affidare a scuole speciali. Bine creò delle prove che se risolte a certi livelli, potevano determinare le difficoltà del bambino e misurare quindi lo sviluppo intellettivo. In Germania invece ci si occupava di più della misurazione bio-fisiologica, in Russia ci si occupava della riflessologia, in Inghilterra Dalton studiava invece la personalità e le differenze individuali. PSICOFISICA Dove: In Germania Quando: nella Seconda metà dell’Ottocento (ancora prima che venisse fondato il laboratorio di Wundt a Lipsia) Chi: da Weber e Fechner Approccio biologico: credevano che l’attività della mente potesse essere misurata. Anche la psicofisica è considerata una disciplina che ha sostenuto lo sviluppo della psicologia scientifica, permettendo di classificare la psicologia come scienza che studia fenomeni misurabili. Grazie a Weber e Fechner è stata scoperta l’equazione della sensazione, che sanciva un rapporto tra fenomeni psichici e fisiologici. Loro hanno scoperto che la sensazione, cioè quello che noi proviamo quando uno stimolo colpisce i nostri sensi, in realtà non è misurabile così come lo percepiamo, ma viene integrato con una serie di tante altre funzioni. Equazione della sensazione: Sensazione = K log stimolo + h Altro scienziato che ha fatto parte della scuola della Psicofisica fu Von Helmholtz che scoprì la velocità di conduzione nervosa, pari a 26,4 metri al secondo. Interessante è stato scoprire che le nostre fibre nervose hanno diverse velocità di conduzione a seconda del livello di mielinizzazione, causando una variazione nella conduzione dell’impulso dai 5 ai 120 metri al secondo. CRONOMETRIA MENTALE Quando: attorno al 1870 Chi: F.C. Donders, uno scienziato Approccio biologico: la velocità con cui avvengono i processi psichici dipende da un numero di “passaggi” mentali necessari per elaborare lo stimolo e produrre una risposta, i tempi fisiologici (chiamati tempi di reazione da Exner nel 1871) La cronometria mentale è lo studio dei tempi di reazione. Fu fondamentale per determinare che gli individui rispondono agli stimoli con tempi diversi. RIFLESSOLOGIA Dove: in Russia Quando: tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900. Chi: Sechenov e Pavlov Approccio fisiologico: tutti i processi psichici sono riconducibili a processi fisiologici che soggiacciono alle leggi dell’apprendimento (come base dello sviluppo psichico Si ritiene che Pavlov sia il padre delle neuroscienze, perché per primo ha scoperto un paradigma dell’apprendimento sperimentale, che è quello del riflesso condizionato. La scoperta di questi principi ha rivoluzionato il modo di vedere l’apprendimento e lo sviluppo dell’essere umano, perché da queste conoscenze scaturisce che la nostra mente viene influenzata profondamente da tutto ciò che accade attorno a noi. NEUROPSICOLOGIA Quando: Nella seconda metà dell’800 Chi: Paul Broca, Carl Wernike Oggetto di studio: indaga sulle basi neurali delle funzioni mentali; furono in particolar modo osservati i disturbi del linguaggio a seguito di lesioni cerebrali in specifiche zone, dimostrando come il cervello sia composto di aree che svolgono funzioni diverse. Furono scoperte: l’area di Broca: presiede la motricità e la produzione della parola; se lesionata, il soggetto non riuscirebbe ad articolare i suoni. l’area di Wernike: presiede la comprensione; se lesionata, il soggetto potrebbe essere fluente nella pronuncia, ma non comprenderebbe quello che gli verrebbe detto o ciò che potrebbe dire. Mente e cervello sono due cose differenti: Mente: complesso di raccolta delle nostre esperienze e conoscenze Cervello: componente anatomica Ognuno di noi nel corso della vita ha sviluppato un modo differente di memorizzare le informazioni nella mente, influenzando lo sviluppo psichico e la psicodinamica dei processi mentali. Osservando i lobi del cervello, interessante è evidenziare che il lobo frontale occupa il maggiore spazio, ma è anche il lobo che matura più tardi che presiede l’intelligenza, il giudizio e la capacità di riflessione. Il cervello è diviso in due emisferi, c’è un dominio controlaterale, l’emisfero sinistro è legato al pensiero, al linguaggio e alla riflessione mentre l’emisfero destro è più legato alle emozioni e alla visione globale (sono argomenti che verranno approfonditi a neuroanatomia). PSICOANALISI Chi: Freud Quando: verso la fine dell’800, Concetti fondamentali: inconscio, transfert; nei sogni, nei sintomi, nella psicopatologia risiedono, mascherati, i conflitti dell’inconscio; ha dato importanza alla relazione interpersonale nello sviluppo psichico e alla psicodinamica dei processi mentali È difficile poter definire la Psicoanalisi, Freud, il quale ha coniato e introdotto il termine, la definisce come: Un metodo di indagine, che permette di esplorare i processi psichici. Freud sosteneva di lasciare nella completa neutralità del terapeuta che la persona parli, poiché prima o poi saranno rilevabili delle manifestazioni dell’inconscio. Un approccio terapeutico: permette di curare la psicopatologia Una teoria: permette di inquadrare il funzionamento psichico normale e patologico; oggi è un complesso di teorie diverse La psicanalisi non fa parte delle scuole della psicologia, ma è stata una scuola di pensiero e anche una scuola di psicoterapia molto importante. La psicanalisi ha influenzato l’area della psicologia che viene chiamata la psicologia relazionale. Grazie allo studio della psicanalisi moderna, ci si è interrogati sul perché determinati soggetti sviluppino un disagio o una personalità problematica. Indagando le interazioni nei primissimi mesi di vita tra genitori che hanno problematiche come depressione, o problematiche caratteriali come insensibilità o poco interesse, queste interazioni hanno dimostrato che anche i bambini ne vengono influenzati, essendo suscettibili alle emozioni già da piccolissimi. EVOLUZIONISMO Chi: Charles Darwin Quando: 1859, pubblicazione dell’opera di Darwin, “L’origine delle specie per selezione naturale”; Concetto fondamentale: adattamento; centrale anche nel benessere psicologico. Specialmente i cognitivisti, ma qualsiasi scuola di psicologia, riconosce che il benessere dell’individuo sta nelle sue capacità di adattarsi alle situazioni che vive. Non si intende l’adattamento come rassegna alle situazioni che accadono, ma una capacità di affacciarsi al cambiamento. Molto spesso il disagio psicologico si verifica quando c’è un cambiamento o una rottura inaccettabile per la psiche. “Non è la specie più forte che sopravvive ma è quella più capace di adattarsi” di Charles Darwin La professoressa ribadisce questo concetto Darwiniano spiegando un ulteriore esempio di Freud. Freud diceva che il diamante è il minerale più duro per la struttura che possiede, ma appunto per la sua specifica struttura basta che venga urtato in un punto preciso che si polverizza facilmente in mille pezzi, risultava quindi “più duro ma allo stesso tempo più fragile”. Invece quello che non si polverizza è il corpo flessibile; infatti, quando c’è flessibilità il corpo non si rompe. Il concetto di adattamento esprime pertanto la capacità di interagire con il cambiamento essendo talvolta “flessibili” e rispondendo positivamente alle novità. SCUOLE DI PSICOLOGIA GESTALT - Dove: in Germania - Quando: a inizio ‘900 - Chi: ricercatori tra cui Köhler (interessato anche al pensiero e al funzionamento cognitivo degli scimpanzé), Koffka, Lewin e Wertheimer (i quali si sono occupati della percezione visiva). - Approccio: fenomenologico, si occuparono di comprendere quale è la forma che la nostra mente dà alla realtà quando la conosce e la vede. La scuola della Gestalt analizza la forma che la mente dà all'esperienza attraverso l'organizzazione percettiva. Noi non conosciamo l’essenza cose, il noumeno (rifacendoci alla dicotomia kantiana), perché nel momento in cui vediamo qualcosa la riorganizziamo nella nostra mente. Il nome della scuola richiama proprio questo concetto, la Gestalt è la ‘’forma organizzata’’, infatti il loro motto era ‘’Il tutto è diverso ed è di più della semplice somma delle singole parti’’. I gestaltisti ritengono infatti che in gruppo si crea un’identità e un pensiero di gruppo, dovuti alle relazioni tra le persone e non alla natura stessa delle persone; dunque, il gruppo non è riconducibile alla semplice somma delle individualità. A questo pensiero si oppone quello delle scuole che invece sostengono che la realtà deve essere studiata andando a sommare le singole parti che la compongono. La professoressa anticipa la figura 1 (che analizzeremo meglio quando approfondiremo il tema della percezione) per spiegare il concetto di “forma organizzata” e domanda alla classe cosa vede guardando questa immagine. Quello che ingenuamente chiunque crede di vedere è un triangolo bianco appoggiato su un triangolo con il profilo nero e su tre dischi ai vertici. In realtà i gestaltisti affermano che l’immagine rappresenta solo tre cerchi a cui manca una fettina (Pac man) e tre gruppi di segmenti che convergono formando angoli acuti. Questo fenomeno accade perché ciò che la nostra mente vede non è ciò che c’è disegnato sul foglio. La nostra mente Figura 1 riorganizza ed elabora ciò che vede attraverso una serie di processi veloci (detti inferenze), i quali fanno sì che quando guardiamo qualcosa, prima di cogliere tutti i particolari, interpretiamo l’insieme, perché abbiamo bisogno di un’economia mentale che ci faccia funzionare in fretta. Questo fenomeno riguarda anche la lettura, spesso infatti ci capita di leggere una frase giusta che invece è sbagliata perché la lettura è un processo automatizzato, un’inferenza velocissima dell’aspetto più probabile che può avere una frase. Riassumendo la scuola della Gestalt ha studiato soprattutto la percezione visiva. COMPORTAMENTISMO - Dove: negli USA - Quando: intorno agli anni ’20 - Chi: Watson, Skinner e Pavlov (russo) - Concetto fondamentale: l’unica fonte d’informazione scientifica è il comportamento osservabile. Apparentemente contraddice il discorso precedente sulla psicologia e la complessità di trovare il proprio paradigma e metodi specifici. Studia i processi psichici dell’uomo osservandone i comportamenti in setting sperimentali stimolo/risposta. Ha avuto una grandissima fortuna perché basata sullo studio del comportamento e dell’apprendimento; sono del comportamentismo tutti gli studi sul modo in cui si può indurre qualcuno a comportarsi in un certo modo (in poche parole la pubblicità e il marketing nella loro fase più precoce si sono basati su tali principi). Il comportamentismo presenta però dei limiti: l’osservazione del comportamento non prende in considerazione i fattori interni. Ad esempio, se studiamo un animale che viene sottoposto a determinati stimoli e risponde in un certo modo, guardando solo il comportamento, dimentichiamo di considerare se ha già avuto un apprendimento di questo genere o se ha un’aspettativa rispetto a questo stimolo. Questi aspetti sono stati infatti criticati da altre scuole (in particolare la scuola cognitivista) a tal punto che il comportamentismo puro non esiste più, proprio per questo oggi si parla di scuole cognitivo- comportamentali. Nonostante questo, sono stati “tenuti buoni” gli aspetti meritevoli di tale scuola di pensiero, tra essi soprattutto le ottime tecniche di laboratorio (ad esempio i sistemi di videoregistrazione per verificare come gli animali modificavano il proprio comportamento in seguito a stimoli) COGNITIVISMO - Quando: negli anni ‘50 - Chi: Kelly - Assunto fondamentale: nasce come critica del comportamentismo, il suo obbiettivo è lo studio sperimentale dei processi mentali attraverso i quali le informazioni sono acquisite dal sistema cognitivo. Ipotizza delle semplici operazioni che il nostro sistema cognitivo svolge quando risolve un problema e crea dei piccoli test per verificare se la mente svolge effettivamente quei processi. Da qui nasce lo studio della neuropsicologia cognitiva, che oggi si avvale di una serie di test definiti ‘’carta e matita’’. Questi permettono di studiare le funzioni cognitive, come ad esempio l’attenzione delle persone (nei bambini è frequente il test che chiede di verificare quante campanelle sono viste in un determinato momento). In sostanza, l’obbiettivo di questi test è di ipotizzare delle funzioni cognitive e poi misurarle. Questo movimento è importantissimo poiché si è proposto di studiare in modo sperimentali le funzioni cognitive, tra cui la memoria, l’attenzione e il pensiero. La metafora di questa scuola è ‘’la mente come lavoratore incessante di informazione’’. Ciò che è straordinario nella nostra mente è che funziona incessantemente in una continua e complessa elaborazione di tutto quello che ci accade. Percepiamo, selezioniamo, elaboriamo stimoli di cui spesso non siamo consapevoli e li rappresentiamo. Infine, queste rappresentazioni, che sono il frutto dell’apprendimento, guidano la nostra condotta. Quindi il cognitivismo studia la mente come elemento intermedio tra comportamento e attività cerebrale neurofisiologica. Le funzioni cognitive sono la dimostrazione del funzionamento della nostra attività cerebrale. PSICOLOGIA UMANISTICA - Quando: anni ‘40 - Chi: Carl Rogers - Assunto fondamentale: psicoterapia e approccio incentrati sulla persona La sua idea era di mettere la persona al centro, con la sua esperienza soggettiva e i suoi bisogni fondamentali, tra cui i bisogni sociali e di autoaffermazione. Vi sono tre condizioni essenziali del medico che consentono alle persone di affrontare i problemi. Nello specifico: l’empatia è la capacità di sentire e cogliere le emozioni dell’altro; Il rispetto è la capacità di mettere da parte i pregiudizi, che non possono di base essere cancellati, in quanto la nostra mente continua a catalogare. Nonostante questo, quando dobbiamo curare le persone dobbiamo conoscere i nostri pregiudizi e aprirci con rispetto, perché il rispetto dell’altro è la possibilità di guardarlo così come è; Infine, l’autenticità che sta nel fatto di sentirsi bene con sé stessi, conoscere i propri limiti e sapere cosa possiamo fare e cosa no, non cadendo nell’onnipotenza. Le persone percepiscono quando abbiamo questa qualità e sono più disposte ad aprirsi e a collaborare. Secondo Rogers, la persona che incontra qualcuno che è disposto ad ascoltare senza pregiudizi, si trova nella condizione più favorevole al cambiamento, e, nell’ambito medico, alla guarigione. I limiti vanno prima di tutto accettati e solo dopo si può agire verso un cambiamento, graduale e non netto. Rogers ci espone oltretutto un paradosso molto interessante secondo il quale: quando io riesco ad accettarmi sono già nella condizione di poter cambiare. (figura 2) A volte facciamo fatica a cambiare perché cerchiamo di Figura 2 combattere i nostri difetti quando invece dovremmo accettarli, con la sofferenza che questo implica. Molto importante è quindi Il momento dell’ascolto rispetto all’altro, definito “Counseling”. Ascoltare vuol dire capire anche ciò che l’altro non dice, quindi ascoltare anche con gli occhi. PSICHE E RELAZIONI Un aspetto importante dell’idea della teoria dinamica è che la persona si costruisca in un incessante interazione dinamica con il contesto relazionale e con l'ambiente. La relazione interpersonale è ciò che ci fa diventare una persona: noi siamo l’esito di tutte le relazioni e di tutti gli incontri che abbiamo fatto, molto importante è quindi anche lo sviluppo. La psicologia psicoanalitica, si rifà alle teorie di Freud, poi sviluppatesi in diverse scuole nel periodo post- freudiano. - L’errore di Cartesio (A. Damasio, 1995) ——> secondo Damasio, Cartesio (autore della locuzione ‘’cogito ergo sum’’) dava eccessiva rilevanza al raziocinio. A differenza sua Damasio, come nella psicanalisi moderna, dà molta più importanza alle emozioni. Ci ricorda che noi entriamo nel mondo come esseri emotivi prima ancora che razionali: il bambino, infatti, funziona secondo la sensorialità. Per questo suggerisce ‘’ mi emoziono e quindi sono’’. Secondo Damasio dobbiamo dunque partire dalla capacità di rielaborare e provare emozioni per comprendere una persona, perché queste stanno alla base della creazione del pensiero e di quello che siamo. IL METODO IN PSICOLOGIA Si definisce metodo l’insieme delle prescrizioni atte a svolgere un’attività in modo ottimale. I protagonisti della storia del metodo sono Cartesio con ‘’il discorso sul metodo’’ e Bacon ovvero il primo scienziato a mettere in atto il metodo sperimentale. Già Socrate evidenziava che ogni attività rivolta al conoscere deve sottostare a delle regole: c'è un rapporto tra la validità di una conoscenza e il metodo con cui è stata raggiunta. Quando apprendiamo qualcosa attraverso un articolo dobbiamo vedere come questa conoscenza è stata ottenuta e se i metodi sono stati spiegati in modo chiaro permettendoci di capire esattamente cosa è stato misurato e come si è arrivati a determinate conclusioni. In filosofia distinguiamo due metodi di base per la conoscenza: metodo induttivo, dal particolare al generale; metodo ipotetico/deduttivo, da ipotesi a priori al particolare; Caratteristiche del metodo scientifico e passaggi da tenere a mente: DEFINIZIONE DELL'OGGETTO DI INDAGINE DEFINIZIONE COERENTE DI TUTTE LE COMPONENTI DEL PROCESSO DI CONOSCENZA; DEFINIZIONE DEI METODI E STRUMENTI ATTI A STUDIARE QUEL DATO FENOMENO; METODOLOGIE DI CONFRONTO E RIPETIBILITA’ METODI E RISULTATI. I metodi usati in psicologia sono: Metodo sperimentale, soprattutto in psicologia generale; Metodo clinico, usato in psicologia clinica e nel rapporto con paziente; Metodo comparativo, legato all’etologia, ovvero comparazione tra comportamento umano e animale. METODO SPERIMENTALE Si tratta del metodo che più spesso viene associato al metodo scientifico (figura 3), anche se sappiamo che con il termine metodo scientifico non riguarda solo lo studio di laboratorio, ma anche dei metodi sistematici che sono svolti sul campo. Quando si studia scientificamente un fenomeno si passa attraverso queste fasi: Osservazione, osservo il fenomeno che voglio studiare; Formulazione delle ipotesi, mi domando cosa voglio verificare; le ipotesi possono essere: - Ipotesi indotte: ovvero quelle che si formulano dopo l'osservazione dei fatti e dei fenomeni - Ipotesi dedotte: si formulano da conoscenze/leggi già note Verifica delle ipotesi, implementando il vero e proprio disegno sperimentale, un procedimento molto complesso: - La definizione operativa delle variabili ci dice quale variabile studiare per indagare il fenomeno generale: o variabili indipendenti (VI), ovvero quelle che influenzano il fenomeno; possono essere manipolate direttamente dallo sperimentatore o già esistenti in natura (come il sesso, la scolarità…) o variabili dipendenti (VD), ovvero quelle che noi osserviamo; indicatori del fenomeno al variare delle v. indipendenti e vengono misurate dello sperimentatore - Scelta del campione che può essere casuale (l’assegnazione casuale dei soggetti è scelta migliore) o selezionato: per avere una tesi il più generale possibile, deve essere il più omogeneo possibile (sesso ed età); se voglio verificare qualcosa di più specifico cercherò invece un campione più selezionato (esempio del grado di soddisfazione dei giovani universitari, il campione saranno solo i giovani che frequentano l’università e sarà differente dal risultato che potrebbero dare i giovani lavoratori) - Scelta di procedure e strumenti, come questionario o metodo di video osservazione - Definizione di analisi statistiche Elaborazione dei dati (tramite procedure matematiche e statistiche) e infine la discussione e generalizzazione dei risultati (di natura probabilistica) ponendo particolare attenzione alle conclusioni a cui si arriva per evitare: o Errore del I° tipo = credere vera un’ipotesi falsa; si incorre in questo errore se non si controllano alcune variabili, i risultati ottenuti non sono accurati perché altre variabili che non ho preso in considerazione hanno influenzato il risultato. o Errore del 2° tipo= credere falsa un’ipotesi vera, è il meccanismo contrario, io faccio l’esperimento e l’analisi statistica infine scopro che l’ipotesi è errata. In realtà potrebbe non essere così, in alcuni casi la mia ipotesi avrebbe potuto essere corretta ma non avendo usato gli strumenti giusti il risultato ottenuto non ha confermato l’ipotesi. Questo non significa che l’ipotesi presa in analisi fosse sbagliata. Esempio in passato per molti anni le ricerche affermavano che il fumo non era dannoso, in realtà quando si è analizzato questo fenomeno con gli strumenti adeguati si è scoperto che era così. I risultati non sono cristallini ma possono essere ingannevoli, proprio per questo dobbiamo innanzitutto essere attenti che non ci siano state altre variabili che influenzano il fenomeno (questo aspetto riguarda questione falsificabilità, ovvero dobbiamo metterci nella posizione di verificare tutte le condizioni in cui la nostra ipotesi non è vera), ma non dobbiamo nemmeno perderci d’animo se crediamo in un’ipotesi non confermata dall’esperimento perché potrebbe esserci un altro modo per studiare lo stesso tipo di fenomeno che mi dimostri che la nostra ipotesi non era sbagliata. ESPERIMENTO Si è chiesto agli studiosi di valutare l’azione del farmaco contro la depressione: In un primo esperimento, gli studiosi hanno preso un campione di persone alle quali è stato sottoposto al tempo 1 un questionario sull’umore per verificare se avessero dei sintomi di depressione. Dopodiché, al tempo 2, viene loro somministrato un farmaco senza spiegare l’effetto di quest’ultimo, e al tempo 3 viene fatto compilare di nuovo il questionario sull’umore. Se il farmaco funziona, a T3 il punteggio dovrebbe essere migliore. Risultati: È un modo adeguato per valutare l’efficienza del farmaco? No, non è sufficiente. Questo (figura 5) è il classico esempio di errore di primo tipo, credo che sia vera un’ipotesi che invece è falsa. Infatti, se rifaccio l’esperimento prendendo non soltanto un gruppo sperimentale, ma anche un gruppo di controllo, (figura 6) posso valutare se i risultati positivi sono dati dal farmaco o sono solo un effetto placebo (seguendo il metodo della falsificazione delle ipotesi se voglio essere sicuro che un aspetto sia dovuto all’effetto di una certa variabile devo controllare anche la procedura identica senza quella variabile). A T1 viene somministrato un questionario sull’umore, a T2, in modo casuale, a un gruppo viene dato il farmaco e all’altro il placebo, senza che le persone sappiano cosa hanno preso e infine si ridà il questionario. Questo esperimento è detto cieco, perché i pazienti non sanno cosa hanno assunto. Ancora meglio sarebbe l’esperimenti con doppio cieco, dove solo delle persone esterne sanno a chi viene somministrato il farmaco mentre sia chi lo assume che chi lo somministra non ne è a conoscenza. Questo perché anche chi lo somministra può essere influenzato nelle sue espressioni e nei suoi gesti dal fatto che sa cosa sta somministrando. Si scopre che entrambi i gruppi danno la stessa differenza tra il prima e il dopo. Questo significa che il farmaco non funzionava e che le persone, solo per il fatto di aver preso un farmaco, sono state influenzate. L’esperimento dimostra come senza una condizione di controllo, non si può essere certi che la variabile indipendente influenzi o non influenzi la variabile dipendente. Questo esperimento ci ricorda di fare attenzione perché il metodo sperimentale è un metodo di grande rigore scientifico solo se lo si applica in modo molto preciso, e quindi se non abbiamo un gruppo di controllo non possiamo essere certi che quel farmaco abbia davvero influenzato l’umore. METODO CLINICO Si focalizza sul soggetto; è il metodo che si usa quando c’è il ‘’report del caso singolo’’, formulando ipotesi e poi generalizzazioni sul gaso singolo. Fornisce tante informazioni sulla base delle quali vengono progettati degli studi sperimentali. Ha una minore sistematicità ma dà informazioni preziose non ricavabili in altro modo, utilizzando colloqui, interviste e questionari (autodescrizione). Esempio di uno dei casi più famosi di utilizzo del metodo clinico è il caso di Phineas Gage: nel 1948 questo signore ha avuto un incidente che gli ha causato una lesione focale (un’asta gli ha trapassato il cranio). Fortunatamente è sopravvissuto, ma si scoprì che la sua personalità cambi completamente. La lesione focale aveva infatti leso il lobo focale, responsabile della capacità di riflessione, di giudizio, della morale, della coscienza e della capacità di inibire gli impulsi. Questo è stato il primo caso in cui si è dimostrato che c’è un’area del cervello che presiede all’inibizione degli impulsi. Da qui si è iniziato a studiare il lobo frontale e il suo funzionamento. Figura 3 METODO COMPARATIVO Confronta i comportamenti di specie animali diverse relazionandole all’uomo: - In laboratorio (studi sull'apprendimento, sul linguaggio, ecc.) - Nel contesto naturale (etologia) i comportamenti sono dettati dall'apprendimento o selezionati dall'evoluzione. MODELLI E IMPLICAZIONI PER LA CURA La psicologia è importante per gli operatori sociosanitari per capire come relazionarsi al paziente. Questo perché ‘’curare’’ non è solo curare l’organo malato ma significa occuparsi della persona nella sua totalità, compreso quindi anche l’aspetto psicologico. Possiamo distinguere due modelli concettuali della cura contrapposti: 1. Biomedico, retaggio di una medicina di stampo paternalistico, basata su un approccio di tipo «disease centred» e «doctor centred» che dovrebbe essere superato al giorno d’oggi. Si fonda sull’idea che il medico è a conoscenza di tutto e il paziente non è altro che il soggetto passivo, il quale deve seguire esclusivamente ciò che il medico dice. Si fonda sull’assunto ‘’Medico dice, paziente fa’’, ovvero un rapporto di cura basato sul vincere la malattia e non sul prendersi cura della persona. Il modello biomedico si basa sulle seguenti premesse: - Riduzionismo biologico: la malattia è ricondotta esclusivamente alla biologia - Salute come assenza di malattia= persona non considerata. - la cura si rivolge solo alla parte malata non alla persona nella sua globalità - Schema eziologico classico dei disturbi: lesione d'organo —> difetto funzionale —> malattia 2. Modello bio-psico-sociale, proposto per la prima volta da Hengel in un articolo pubblicato su ‘’Science’’ nel ’77. Egli non fece altro che riprendere ciò che trent’anni prima era stato detto dall’OMS ma che fondamentalmente non era applicato. Ovvero basarsi su un approccio centrato sul paziente visto come persona non sulla malattia. Bisogna spiegare al paziente non solo ciò che deve fare ma anche informarlo sulla sua condizione sul suo percorso terapeutico. Secondo il modello multidimensionale proposto dall'OMS (1947) nel suo atto di costituzione, la persona deve essere considerata nella sua globalità. Questo modello ci dice che la salute è condeterminata da: 1) benessere biologico 2) benessere psicologico 3) benessere sociale Questo aspetto sottolinea come la salute sia relativa a uno stato di completo benessere che riguarda tutte queste tre aree fondamentali. Inoltre, bisogna tenere a mente che il benessere è influenzato e condeterminato anche dall’interazione dei diversi sistemi in cui la persona è inserita. Un altro concetto centrale del modello bio-psico-sociale è quello di ‘’Empowerment’, attraverso il quale si considera il paziente come una persona, un collaboratore attivo per la sua salute, e non un soggetto passivo; per questo è necessario coinvolgerlo, informarlo e cercare di creare un rapporto di collaborazione in modo che il paziente diventi protagonista del proprio percorso di cura. La salute non significa semplice assenza di malattia. Questo in un’ottica paternalistica sembra togliere potere a medico, ma in realtà è la base che permette al medico di poter vivere una vita serena. Quindi la medicina moderna sottolinea l’importanza di comunicare con il paziente e di coinvolgerlo nel processo di cura. Il primo studio che aveva dimostrato che l’aspetto della comunicazione medico-paziente è importante è andato ad analizzare i resoconti delle mamme che si recavano dai pediatri. Da questa analisi emerse che le mamme che sentivano che il pediatra le aveva coinvolte, e informate sui processi di cura dei propri figli, avevano bambini perfettamente aderenti alla terapia, mentre le mamme che avevamo parlato con dottori molto professionali ma freddi, distaccati e non interessati a collaborare con loro, avevano bambini che non erano aderenti alla terapia. Da qui si è dunque cominciato a studiare come l’aderenza dei pazienti alla terapia possa essere legata alla buona relazione con il medico e si è scoperto che è effettivamente così. Negli Usa si è invece scoperto che le cause di ‘’malpractice’’, ovvero le cause per cui il paziente fa causa al medico, calano molto nelle situazioni di pazienti con un buon rapporto comunicativo con il medico. Un altro concetto base del modello bio-psico-sociale è che la cura deve puntare ad una qualità della vita più elevata possibile. Questo modello rimarca l’importanza non soltanto della prevenzione ma anche della promozione della salute. Concludiamo con la frase dell’OMS che è il cuore del modello bio-psico sociale “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente un'assenza di malattia o infermità". 3. modello ecologico-globale - Bronfenbrenner, sostiene che supportare le famiglie è una delle chiavi per supportare il benessere di tutta la società, perché la famiglia è il sistema chiave di tutta la società. Noi stiamo ‘’bene‘’ o ‘’male’’ a seconda di come funziona il nostro microsistema, ovvero la famiglia, il nostro mesosistema, dove siamo educati e andiamo a scuola, il nostro esosistema ovvero la nostra rete sociale, e infine il nostro macrosistema ovvero il periodo storico nel quale ci troviamo, che ci influenza. Il benessere dell'individuo si determina nell'interazione dei diversi sistemi di cui fa parte. LA PERCEZIONE PERCEZIONE E SENSAZIONE La sensazione è l’unità di base della percezione e contiene informazioni da stimoli provenienti dal mondo esterno, dal nostro corpo e dal nostro cervello La percezione è il processo psichico che ci permette di essere in contatto col mondo fisico, sia esterno ma anche interno: la propriocezione, mediata da una serie di recettori interni che ci consentono di sentire il nostro posizionamento e il nostro stato interiore. Le rappresentazioni percettive sono unità di informazione più complesse, che comportano un processo di organizzazione. La scuola della Gestalt è quella che si è occupata maggiormente della percezione, essa afferma che “il tutto è più della sola somma delle singole parti”. Studiarono come la nostra mente organizza la mole di stimoli che giungono a noi e come li trasforma in ciò che vediamo (le nostre rappresentazioni). All’inizio si trovano a combattere contro un’idea di percezione ingenua, ossia la convinzione che i recettori siano in grado di fornire una rappresentazione precisa del mondo esterno. Questa convinzione è radicata anche in noi, ma in realtà è un’idea ingenua di un rapporto diretto con la realtà esterna. Il nostro modo di recepire la realtà però non è una semplice riproduzione degli stimoli ma è un atto molto più complesso, che si avvicina molto al pensiero di Kant, il quale afferma che ciò che vediamo è il fenomeno, nonché una rielaborazione personale degli stimoli. Gli organismi animali possono relazionarsi con il mondo esterno graie alla capacità di captare ed interpretare in modo corretto le informazioni provenienti dall’ambiente esterno e dal suo ambiente interno. Queste informazioni, gli stimoli, sono captate dai recettori e codificate in segnali che possono essere elaborate dal SNC. I recettori sensoriali sono i canali di comunicazione con il mondo esterno, e si dividono in due categorie: Esterocettori: 5 sensi Enterocettori: propriocezione (equilibrio, stato interiore, percezione del proprio corpo) I recettori trasducono gli stimoli in ingresso in quanto convertono l’energia contenuta negli stimoli in impulsi nervosi. Uno stimolo, se ha sufficiente intensità ed è adeguato al recettore, viene trasmesso attraverso le terminazioni nervose e arriva fino all’area sottocorticale di integrazione dei fasci nervosi, che, per i fasci sensoriali, è il talamo, tranne per quanto riguarda la sensazione olfattiva (l’olfatto ha una sorta di cervello unico. In questo caso lo stimolo passa attraverso un’area di pre- integrazione per poi essere proiettato all’area corticale. Le sensazioni interne vengono registrate e integrate nelle aree sensoriali corticali, soprattutto nell’emisfero destro. SOGLIE PERCETTIVE Percepiamo tutto ciò che ci circonda? Crediamo di avere la capacità di elaborare tutti gli stimoli che ci circondano, ma in realtà i nostri recettori hanno dei limiti ben definiti che ci consentono di percepire solo quegli stimoli per cui il nostro sistema nervoso è predisposto. Ad esempio, per quanto riguarda la luce, i nostri recettori sono in grado di percepire solo alcune lunghezze d’onda; oppure, se fossimo attraversati dai raggi X non ce ne accorgeremo. Noi percepiamo in base a due fattori fondamentali: ciò per cui il sistema nervoso è predisposto e la natura dello stimolo. Lo stimolo, affinché sia percepito, deve avere una certa intensità o frequenza. Nella predisposizione di queste caratteristiche è stata d’aiuto la scoperta delle soglie percettive assolute e differenziali. Soglia percettiva assoluta: è l’intensità minima che lo stimolo deve avere perché possa essere percepito. Ad esempio, più del 50% della popolazione si accorge di uno stimolo sonoro solo quando arriva a un minimo di 20 Hertz, e smette di sentirlo quando supera i 20.000 Hertz, abbiamo dunque una soglia minima e una soglia massima. Soglia percettiva differenziale: è l’incremento o il decremento minimo che fa sì che mi accorga della variazione di uno stimolo. Per capire meglio cosa si intende: in passato è stato svolto un esperimento in cui a delle persone girate di spalle era stato sottoposto un aumento della luminosità, aumentando le candele ci si accorse che la variazione di luminosità nella stanza veniva percepita dopo un incremento consistente, e non all’aumento delle singole candele. Altri esempi di soglie percettive assolute per ognuno dei cinque sensi: Visione: la luce emanata da una candela vista a 50 km in una notte buia e limpida. Udito: il ticchettio di un orologio a 6 metri dall’orecchio in condizioni di assoluto silenzio. Tatto: l’ala di una mosca che cade sulla nostra guancia. Gusto: un cucchiaino di zucchero in 3 litri di acqua. Olfatto: una goccia di profumo diffusa nell’intero volume di tre stanze. La percezione è una funzione complessa di organizzazione degli eventi sensoriali, ciò che percepiamo rappresenta il vissuto fenomenico (le cose come ci appaiono) dell’organizzazione sensoriale. Gli studi sulla percezione dimostrano che essa è il risultato di un insieme di fattori che intervengono tra la stimolazione sensoriale e la consapevolezza PERCEZIONE VISIVA Come facciamo a vedere le cose così come le vediamo? (Koffha, 1930) Crediamo di percepire in maniera molto coerente ciò che risiede nel nostro campo visivo. In realtà, esiste un punto nella retina chiamato macula cieca: è considerato un punto cieco perché è esattamente dove il nervo ottico si innesca e dove mancano dei neuroni. Avendo due occhi possediamo due macule cieche, di conseguenza abbiamo due piccolissimi punti vuoti. Il cervello compensa queste piccole mancanze attraverso un sistema che gli permette di trarre delle conclusioni coerenti a partire da una serie di elementi. Questa funzione del nostro cervello prende il nome di economia cognitiva: la nostra mente attua delle strategie per funzionare nel modo migliore e con il maggior vantaggio. Un esempio di economia cognitiva è quello della camera oscura, se noi dovessimo vedere solo ciò che ci rimandano i nostri recettori dovremmo vedere tutto ribaltato, ma c’è un processo automatico che riporta le immagini nel loro orientamento normale. ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA GESTALT L’organizzazione percettiva è l’insieme dei principi che regolano il modo in cui vediamo e interpretiamo gli elementi. Questi principi sono: Leggi della forma o Fattori strutturali e funzionali o Costanza percettiva o Contrasto ed eguagliamento o Articolazione figura-sfondo o Campo percettivo LEGGI DELLA FORMA (Werheimer) 1. Legge della vicinanza: quando i nostri occhi elaborano degli stimoli tendono ad inglobare e considerare come unità gli elementi vicini tra loro (figura 1) 2. Legge della somiglianza: gli elementi simili tra loro tendono ad essere percepiti unitariamente (figura 2) 3. Legge della direzione o buona continuazione: gli elementi che sono in una direzione di continuità sono percepiti unitariamente (figura 3) 4. Legge della chiusura: gli stimoli delimitati o parzialmente delimitati da un contorno vengono visti come delle unità a sé stanti (figura 4) 5. Legge della buona forma: gli elementi che producono forme più semplici, simmetriche e regolari tendono ad essere percepiti unitariamente. Il principio è lo di quando guardiamo le nuvole: il nostro cervello ci rimanda a delle immagini a noi note, allo stesso modo tutto ciò che vediamo viene reinterpretato in immagini e forme a noi note (figura 5) 6. Legge dell’esperienza passata: elementi che danno origine a figure conosciute tendono ad essere percepiti unitariamente (figura 6) Questa legge in particolare è molto importante perché è stata traslata dai gestaltisti nella dinamica della relazione umana. Quando ci relazioniamo, tendiamo ad avere delle aspettative sull’altro, che sono frutto di ciò che la nostra mente si aspetta, presume o immagina che ci sia nell’altra persona. Noi crediamo di vedere chi ci circonda per così com’è, ma in realtà non ci accorgiamo di applicare noi stessi dei pregiudizi. Infatti, la definizione di pregiudizio non è altro che un giudizio che deriva da una conoscenza precedente (ciò di cui abbiamo già fatto esperienza). FUNZIONI STRUTTURALI E FUNZIONALI Altri fattori che influenzano la percezione sono: Fattori strutturali: sono legati alla natura e alla distribuzione spazio-temporale degli stimoli o all’anatomia e fisiologia delle strutture nervose. Essi sono insiti nel modo in cui è strutturato il nostro sistema nervoso (per cui se non sono presenti i recettori per un certo stimolo non lo posso vedere, se ho recettori lenti percepirò in modo diverso rispetto a coloro che hanno recettori veloci) e il modo in cui funzionano i nostri recettori. Fattori funzionali: riguardano il modo psichico e soggettivo in cui funzioniamo, sono correlati a bisogni, interessi e stati d’animo. Si distinguono in fattori di: o Selezione: in un ambiente percepiamo solo una parte di ciò che è presente perché tendiamo a selezionare ciò che vogliamo percepire sulla base di interessi, affetti e preferenze; o Sensibilizzazione: la percezione può essere modificata da come ho già interagito con lo stimolo (condizioni contingenti, spontanee o indotte) o dalle mie condizioni di base, ad esempio la fame, la tristezza o gli stati d’animo in generale; o Difesa: tendiamo a non vedere/evitare qualcosa se ci risulta angosciante o se ci provoca preoccupazione. Ad esempio, se una persona adotta un atteggiamento che a noi inconsciamente risulta ostile talvolta lo evitiamo per una sorta di meccanismo di difesa. COSTANZA PERCETTIVA Le costanze percettive sono un altro escamotage della nostra mente per cercare di mettere ordine nel mondo complesso in cui viviamo. Gli oggetti, le persone, i colori si presentano ai nostri occhi con delle caratteristiche di illuminazione, di movimento, di posizione per cui non sono sempre uguali a sé stessi, anche se a noi non sembra. La nostra mente calibra la percezione in modo da farci vedere in un oggetto in modo costante, anche se è in condizioni insolite. Quindi, la costanza percettiva permette di mantenere le caratteristiche fenomeniche degli oggetti stabili pur nel variare le condizioni obiettive di stimolazione ed è ciò che ci permette di riconoscere gli oggetti nelle più svariate condizioni di presentazione. La costanza di chiarezza Nella figura 1.1 vediamo un cilindro che fa ombra su una scacchiera che è fatta di scacchi grigio scuro e grigio chiaro. Noi vediamo chiaramente il quadratino A, che ci sembra di un grigio molto scuro e il quadratino B, che fa parte dei quadretti chiari della scacchiera e che noi vediamo in ombra per la presenza del cilindro. Per rompere la nostra percezione, applichiamo sulla figura 1.1 due barre grigie (come vedete nella fig. 1.2) In questo modo, ci accorgeremo che il vero colore del cubetto B è uguale a quello del quadratino A. Però, la nostra mente fa sì che noi continuiamo a vedere il quadratino B, anche se in ombra, bianco come tutti gli altri. Quindi, la costanza di chiarezza è il mantenersi della chiarezza di un oggetto costante, nonostante si modifichi l'intensità della luce che lo illumina. La costanza di colore Se si ha un maglione rosso e lo si mette in una stanza semibuia con altri maglioni, si riesce a distinguere quello rosso, anche se il suo colore non è il rosso che si vede normalmente. Questo perché il nostro sistema cognitivo è in grado di tarare la variazione della lunghezza d'onda che ci restituisce l'oggetto con la variazione del contesto. In questo modo, riusciamo a percepire l’oggetto in modo costante. Nella figura 2 la lunghezza d'onda che ci rimandano le fragole è grigia, però il nostro cervello le vede con il loro colore che conosciamo, cioè il rosso. La costanza di colore, quindi, è la tendenza a percepire il colore di un oggetto costante nonostante vari la composizione spettrale della luce che lo illumina. La costanza di forma Quando vediamo una porta aperta, non ci sembra un oggetto diverso da una porta chiusa, questo perché nella nostra mente applichiamo la costanza di forma. Tendiamo a percepire la forma di un oggetto costante nonostante cambi la sua modalità di presentazione. Se noi dovessimo vedere l'immagine che viene proiettata sulla retina sarebbe un'immagine completamente diversa da quella che percepiamo, però la nostra mente vede tutto uguale. In sintesi, le costanze sono le modalità della nostra mente di aiutarci a vivere in un mondo prevedibile, dove un colore resta rosso anche se c'è un po' di penombra. un corpo mantiene la sua forma anche se cambia la sua posizione/la sua rotazione/la sua posizione nello spazio. come nella figura 3. IL CONTRASTO E L’EGUAGLIAMENTO Il contrasto Se togliessimo il quadratino a destra e lo mettessimo vicino all’altro, ci accorgemmo che sono dello stesso rosso (figura 4). Questo ci dice la potenza del fenomeno del contrasto e, soprattutto, ci dice che la nostra mente non percepisce stimoli, la nostra mente percepisce rapporti tra stimoli. I due rossi dei quadratini, come stimolo, sono identici, ma il cervello non coglie lo stimolo, ma fa un'analisi del rapporto tra il colore che c'è tra i quadratini. In verità, non vedo questo rosso, perché se lo sposto in un altro contesto, lo vedo ancora diverso. Questo è proprio il cuore dell'aspetto fenomenologico: non vedo semplicemente l'oggetto in sé, ma vedo qualcosa che si crea. Il contrasto è quel fenomeno per cui si esalta la differenza tra colori di due superfici adiacenti. È il principio che usiamo quando ci vestiamo: sappiamo che alcuni colori ci fanno risaltare l’incarnato; o quando dobbiamo arredare una stanza: l'accostamento dei colori fa sì che la stanza possa sembrare più grande o più piccola. L’effetto del contrasto fa sì che due colori uguali, appaiono diversi tra loro. E allo stesso modo, due colori diversi possono apparire uguali. Questo è quello che succede con i denti: un dentista posiziona nella bocca del paziente il colore dei denti che vuole realizzare, perché il colore, se non è messo vicino agli altri denti nel contesto della bocca, può dare un'impressione sbagliata. L'eguagliamento o assimilazione Eguagliamento è il fenomeno opposto al contrasto. Nelle figure 5.1 e 5.2 si nota che il verde sembra più scuro quando è vicino al nero e sembra più chiaro quando è accostato a righe chiare, nonostante sia lo stesso verde. Quindi l’eguagliamento è il fenomeno in cui due superfici tra lodo adiacenti appaiono diverse, una tende ad assorbire la chiarezza o il colore dell’altra Esempi: Contrasto di chiarezza: i due quadratini interni sono dello stesso grigio nella fig. 6.1. Bande di Mach: dimostrano come percepiamo solo i rapporti tra gli stimoli, più che gli stimoli singolarmente; se proviamo a coprire la riga che separa i grigi nella fig. 6.2. Finché c'è una riga tra i due colori, ci sembrano diversi e quando questa riga viene tolta non riusciamo più a distinguere tra i due colori. Nel momento in cui rompiamo le caratteristiche di presentazione degli stimoli e la loro adiacenza ecco che risultano molto diversi. l'Effetto White Si ha un fenomeno di assimilazione. Lo stesso grigio accostato al nero sembra molto più scuro che se accostato al bianco. (fig.7) L'ARTICOLAZIONE FIGURA-SFONDO Abbiamo un classico modo di rapportarci alla visione: quando osserviamo una scena noi tendiamo sempre a segregare una parte che focalizziamo in modo privilegiato. Significa che c'è una tendenza a trovare delle figure degli elementi che si stagliano sullo sfondo. Lo facciamo non soltanto dal punto di vista visivo-spaziale ma lo facciamo anche dal punto di vista uditivo. Per esempio, dal punto di vista uditivo, in una situazione di grande brusio si tende a selezionare alcuni aspetti della conversazione che si stagliano sullo sfondo. È un modo che abbiamo di selezionare, questo perché il nostro sistema cognitivo così complesso, così capace dal punto di vista dell'elaborazione consapevole degli stimoli e ha una capacità limitata (economia cognitiva). Non riusciamo a concentrarci e a focalizzarci su tanti stimoli contemporaneamente, tendiamo a privilegiare degli aspetti. È una modalità che si presenta sin dai primi giorni di vita, quindi anche il neonato, se gli si mette davanti una scena complessa, tende a focalizzare una figura rispetto a uno sfondo. Caratteristiche che fanno sì che distinguiamo una figura da uno sfondo: La figura di solito ha una forma, mentre lo sfondo è informe. I margini devono appartenere alla figura (funzione unilaterale dei margini) perché se la figura non ha i margini, non è distinta dallo sfondo. La figura generalmente attira l'attenzione più dello sfondo. La figura appare più vicina all'osservatore. La figura ha un colore di superficie, quindi un colore denso, mentre lo sfondo ha un colore più soffuso. La figura, in genere, si ricorda meglio perché è proprio quella su cui noi andiamo a focalizzarci. Si è scoperto che ci sono delle leggi attraverso le quali il nostro sistema cognitivo segrega le figure dallo sfondo. Cosa è più facile che diventi figura rispetto allo sfondo? Una figura che ha la caratteristica di essere - Simmetrica - Convessa - Piccola - Inclusa, cioè dentro qualche cosa d'altro - Orientata verticalmente o orizzontalmente, quindi non con un orientamento in diagonale I gestaltisti hanno analizzato tutte queste leggi che si mettono tutte insieme per far sì che noi vediamo le cose nel modo in cui le vediamo. Esempi: Effetto grandezza Vediamo la parte bianca come figura 8. C'è la possibilità anche di vedere la parte nera come delle pale, ma non ci viene spontaneo farlo. quali sono le caratteristiche? La figura bianca è piccola, inclusa, è orientata in modo verticale o orizzontale, non in diagonale come le altre. Effetto convessità Degli ovali bianchi e degli ovali neri (come vedete nella fig. 9) immediatamente si stagliano ai nostri occhi. Potrebbe essere un colonnato, ma non ci viene. perché l'effetto convessità fa diventare figura un oggetto convesso piuttosto che un oggetto concavo. Le figure reversibili Nell’immagine della figura 10 (figura reversibile di Rubin), la maggior parte vede prima i profili. Gli psicologi hanno chiamato questo fenomeno “impostazione soggettiva”: soggettivamente quando ci sono due alternative noi siamo più portati a vedere una piuttosto che l'altra. Vedere i due volti potrebbe essere più immediato per la maggioranza di un gruppo di giovani, perché per loro è importante incontrarsi. Un vaso è invece più statico. In questa fig.10 si vede molto bene anche la funzione unilaterale dei margini: quando il margine appartiene al bianco si vede il vaso, quando il margine appartiene al nero si vedono i profili. Quindi, la funzione unilaterale del margine ci dice che è proprio il margine che fa sì che una cosa sia figura e una cosa diventi sfondo. La cosa interessante delle figure ambigue (completamente reversibili) è che noi non riusciamo a mantenere le due rappresentazioni contemporaneamente senza sforzarci. Di solito oscilliamo tra le due. CAMPO PERCETTIVO La percezione dello spazio Noi percepiamo la profondità e la tridimensionalità. In realtà, le nostre strutture anatomiche nervose non sono fatte esattamente per la tridimensionalità. La tridimensionalità è costruita attraverso una serie di indizi e di processi. Il carattere di tridimensionalità dello spazio percepito viene quindi costruito attraverso degli indizi: Indizi fisiologici: o Accomodazione del cristallino; o Convergenza dei due occhi, la cosa particolare della visione è che è binoculare o Disparazione retinica, il fatto che sulla retina cadono due immagini in un modo lievemente diverso Questo è un esempio di visione tridimensionale ma è anche un esempio di movimento apparente. È un effetto ottico che sfrutta le caratteristiche dei nostri recettori visivi: abbiamo tutta una serie di cellule che reagiscono in diverso modo agli stimoli (i recettori ON-OFF, l'effetto dell'inibizione laterale…) e influiscono quindi sul modo in cui li elaboriamo. Una delle spiegazioni dei movimenti apparenti dipende anche dal fatto che mentre noi stiamo osservando una certa configurazione le nostre pupille fanno dei movimenti saccadici continui e involontari e, in generale, tutta una serie di altri movimenti all'interno dell’occhio che interagiscono con lo stimolo e che creano l'illusione del movimento. Indizi pittorici, ovvero le caratteristiche di figure rappresentate bidimensionalmente: o Interposizione o Grandezza o Ombreggiatura o Prospettiva Questi tre uomini nella fig.12.1 non sembrano alti uguali, ma se verranno ritagliati e messi su campo bianco, noteremo che sono identici. Ma cos'è che inganna il nostro cervello? La densità di elementi (in questo caso le linee) del contesto. Dove questi elementi sono meno fitti la figura sembra piccola, perché sembra piccola rispetto al contesto. La nostra mente ragiona pensando che se gli uomini più a destra superano le linee, allora loro saranno più grandi (sempre rapporto tra stimoli). Un altro esempio è la cosiddetta “camera di Ames”: Indizi dinamici o parallasse di movimento: gli oggetti lontani sembrano muoversi più piano di quelli vicini. Ad esempio, una macchina a 100 km/h non sembra così veloce quando è lontana da noi. La nostra mente ha, infatti, difficoltà nel misurare la velocità di un oggetto in movimento che si trova lontano da noi e lo percepisce più lento di quanto sia nella realtà. La percezione del movimento Per dire che un corpo si sta muovendo, è necessario un punto di riferimento fisso. Quando perdiamo un punto di riferimento statico, non sappiamo se un corpo si sta muovendo o se ci stiamo muovendo noi. movimento reale: si tratta di un processo attivo che elabora l’insieme delle informazioni presenti nel sistema di riferimento in cui l’oggetto si muove; ad esempio, in treno, per capire se ci stiamo muovendo noi o l’altro, senza altri sistemi di riferimento, cerchiamo segnali di movimento nel corpo. movimento autocinetico: è un movimento apparente di un punto luminoso, in realtà fisso, in una situazione di perfetta staticità. Questo è dovuto al fatto che alcuni movimenti propri del corpo (spasmi, movimenti saccadici e delle palpebre) vengono codificati dai recettori come movimenti esterni e vengono quindi, erroneamente, attribuiti all'oggetto che stiamo osservando. È stato studiato attraverso esperimenti che facevano osservare un singolo punto luminoso fisso nella notte; dopo un po’ non si è sicuri se esso si stia muovendo o no. movimento stroboscopico o fenomeno phi: consiste nella percezione di movimento a seguito della presentazione a intervalli temporali di stimoli statici o accensione in sequenza di luce, con un’intermittenza particolare. Questo è la base del funzionamento del cinematografo: lo stesso oggetto veniva disegnato con variazioni di posizione minime e facendole scorrere velocemente si aveva la percezione che l’oggetto si muovesse. La percezione subliminale Possiamo percepire stimoli sottosoglia di consapevolezza. Ne è un esempio l'idea che inserendo tra i fotogrammi di un film degli stimoli, come una bottiglia di Coca Cola, essi non venissero percepiti consapevolmente, ma indussero a sete o preferenza di quella bevanda. Per essere subliminale, uno stimolo deve essere presentato ai nostri organi di senso per un intervallo temporale minore di mezzo secondo. La consapevolezza ha bisogno di tempo (la coscienza è una funzione lenta): almeno dai 300 millisecondi ai 500 millisecondi è il tempo necessario perché uno stimolo venga elaborato dagli organi di senso e perché la mente se ne rende conto. Quando gli stimoli sono proiettati ai nostri organi di senso per tempi brevi (50 ms o 200ms) noi non ce ne accorgiamo, ma probabilmente c’è comunque un’elaborazione di questi stimoli. Gli studiosi sono riusciti a dimostrare che questa elaborazione esiste, perché dà conseguenze sulle azioni successive delle persone. Il primo studio fu fatto dallo psicanalista statunitense Eagle, nel 1956, che sospettava appunto ci fosse una percezione di cui non siamo consapevoli, ma che influisce sul nostro comportamento: - A un gruppo (a) veniva mostrato un filmato con immagini subliminali di un soggetto che si comportava in modo aggressivo; - all’altro gruppo (b) veniva mostrato lo stesso filmato, ma conteneva in modo subliminale le immagini dello stesso soggetto che si comportava in modo mite. Alla fine, a tutti quanti, sono state mostrate immagini sopraliminali neutre (cioè non così veloci, quindi la persona riusciva a vederle) dello stesso soggetto. Le persone del gruppo a esprimevano giudizi tendenzialmente negativi su di lui rispetto a coloro che l’avevano visto comportarsi in modo mite (gruppo b). Questo ha fatto comprendere che i nostri atteggiamenti potrebbero essere influenzati da una serie di stimoli di cui non ci rendiamo conto precisamente. Questo ci fa capire anche perché parliamo di “sesto senso”. La nostra mente impara a mettere insieme indizi, anche molto veloci, che ci danno immediatamente un’idea delle persone o delle situazioni che incontriamo. Solo che non è un’idea chiara e definita. Quindi, questo cosiddetto “sesto senso” non è altro che la capacità del nostro cervello di elaborare tanti stimoli veloci, che possono darci delle impressioni LE ILLUSIONI OTTICHE Le illusioni ottiche sono la dimostrazione della non perfetta corrispondenza tra l’oggetto (un dato fisico) e la nostra percezione di esso (dato fenomenico). Infatti, il nostro sistema percettivo mette in atto una elaborazione complessa degli elementi che si presentano ai nostri organi di senso. Le illusioni ottiche devono però essere distinte dalle allucinazioni e dalle illusioni psichiche: - Le allucinazioni, che sono un aspetto patologico, sono una percezione in assenza di oggetto. - Le illusioni psichiche sono delle percezioni distorte o deformate da uno stato d’animo. Ad esempio, una persona depressa, passando velocemente per una stanza e vedendo un cappotto su un divano, potrebbe dire di aver visto una persona che non stava bene sdraiata su un divano. È una proiezione della sua tristezza. Non si tratta quindi di un’allucinazione, ma di una deformazione di quello che si è visto. Esempi di illusioni ottiche: Questo è il cubo impossibile di Escher(fig.13) un importantissimo autore che si è dedicato a disegnare figure che ingannano la nostra percezione. Quante zampe ha l’elefante? In realtà ha il numero di zampe giusto, ma la nostra percezione è ingannata. Se si coprono i piedi è un po' più facile vedere qual è il principio e il trucchetto che è stato inserito. Come nel triangolo bianco che si costruiva ai nostri occhi (il triangolo di Kanizsa fig.14), quest’immagine segue la legge della buona forma e la legge della chiusura: uno spazio chiuso viene considerato figura della nostra mente. Qua, quello che inganna la nostra mente è che le parti di sfondo, siccome sono incluse, diventano figure. Noi le vediamo chiuse, quindi il contorno appartiene sia alla zampa vera che alla parte di spazio inclusa. Se non rompiamo questo effetto coprendo i piedi, continuiamo a vedere una moltitudine di zampe. L’illusione di Ponzo. Qui vale la stessa legge che abbiamo visto nella figura degli uomini, dove uno sembrava più grande. Perché il cervello utilizza il contesto, come già detto il cervello non percepisce stimoli, ma relazioni tra stimoli. Nella fig.15 vedete che la grandezza del segmento giallo ci sembra variare a seconda del contesto: dove le righe diventano fitte, il segmento sembra più grande. Questo è lo stesso modo in cui noi vediamo le rotaie: sappiamo che la rotaia è fatta di due parti parallele intervallate regolarmente da parti perpendicolari; tuttavia, con la distanza, abbiamo l’impressione che le linee laterali si avvicinano tra loro e quelle perpendicolari si facciano sempre più fitte. Quale pallino arancione è più grande? Sembra più grande quello a destra. Il cervello utilizza il contesto per giudicare la grandezza, quindi il pallino a sinistra sembra piccolo, perché è contornato da cose grosse, mentre l’altro sembra grande perché è contornato da cose piccole. In realtà, le dimensioni dei due pallini sono identiche. L’illusione di Jastrow. Le due figure A e B non sembrano uguali in nessun modo. In realtà sono identiche. Quando la parte più corta viene messa vicino a quella più lunga dell'altra, sembrano diversissime. Eppure, guardandole, il problema sembra insolubile. L'unica soluzione è di prenderle e metterle una sopra l'altra, perché in questo modo rompiamo gli inganni della percezione. La griglia di Hermann sfrutta un fenomeno che è invece legato alla nostra struttura neurale. I recettori sono molto complessi e ci sono dei recettori che vengono chiamati on-off, cioè l'attivazione di alcuni di questi recettori provoca la disattivazione di altri. Il fenomeno è quello dell'inibizione laterale: la capacità del neurone eccitato di ridurre l'attività di quelli adiacenti. Quello che succede è che queste strisce più chiare eccitano fortemente dei recettori, in particolare per il bianco e il nero i nostri recettori sono i bastoncelli, che sono gli stessi che ci permettono di adattarci al chiaro e allo scuro. Questo fenomeno è simile alla cecità bianca e alla cecità nera: - La cecità bianca sopravviene, ad esempio, quando usciamo da una galleria senza gli occhiali e la luce ci abbaglia e vediamo tutto bianco, perché i nostri recettori non riescono a elaborare velocemente lo stimolo: i bastoncelli sono lenti e fanno fatica a adattarsi. - Mentre quando entriamo in una galleria senza gli occhiali possiamo avere un momento di cecità nera: vediamo completamente nero e piano piano l’occhio si adatta. Quindi, il costituirsi di puntini nella figura 17 è dovuto proprio al fenomeno di attivazione e disattivazione dei nostri recettori on-off. Queste righe rosse sono delle corde molli o sono delle righe ben tracciate? Sembrano molli. Però se si riesce a isolare solo un cerchio, ci si accorge che le righe sono perfettamente rette. È un fenomeno di contaminazione tra le figure curve, che sono i cerchi, e l’elaborazione delle rette. Anche qua, per rompere l'effetto bisogna provare ad isolare un angolo (come dicevano i gestaltisti, il tutto è di più della somma delle singole parti) e ci si accorge che le righe sono rette e perfettamente parallele. Tutto l'effetto viene dato dal fenomeno del contrasto e dalla particolarità della nostra reazione al bianco e al nero, cioè l’effetto optical. Fissate il puntino nero per 10-15 secondi e poi, stando con gli occhi puntati sul puntino nero, andate avanti e indietro con il capo. Si vedono i due cerchi che si muovono in direzioni opposte. Quest’illusione agisce sui nostri neurotrasmettitori, in particolare sfruttando l'aspetto della mobilità del nostro occhio (movimenti saccadici, spasmi e movimenti delle palpebre) e creando un'illusione di movimento, per cui abbiamo l'illusione che queste girandole ruotino. Questo è chiaramente un movimento illusorio, un movimento autocinetico. Questo è un altro effetto optical. Fissate per 30 secondi l'immagine e poi guardate una superficie bianca. Anche qui si sfrutta l'effetto dell'inibizione laterale e della simulazione del bianco e del nero. Sembra di vedere un disco che ruota. Anche il test di Rorschach, come alcune illusioni ottiche, sfrutta la tendenza che noi abbiamo a guardare delle macchie senza senso e cercare in esse delle figure. Infatti, noi attribuiamo spontaneamente delle configurazioni, anche ad immagini che non ne hanno. La base psicoanalitica del test di Rorschach afferma che ognuno di noi proietta qualcosa di personale. Agli psicologi è interessato usare questo test per cercare di avvicinare gli aspetti più profondi e inconsci delle persone. Ad esempio, se qualcuno vede nelle macchie qualcosa di idealizzato è perché ha bisogno di idealizzare. Un esempio di questa tendenza a cercare figure nelle immagini sta nell’illusione di rana e cavallo. La figura che ha orientamento perpendicolare (il cavallo) è quella che viene vista più facilmente; l’altra (la rana) è nascosta. Quindi, un modo di nascondere le figure è anche quello di orientare in modo non canonico. L'illusione anatra-coniglio. Le illusioni ottiche sono cicliche, vanno e tornano, e quella dell’anatra-coniglio è una delle più famose al mondo. La figura è composta da un’unica immagine che può essere interpretata sia come la testa di un’anatra (che guarda verso sinistra) sia come quella di un coniglio (che guarda verso destra). L’ATTENZIONE L’attenzione è quel tipo di attività che ci permette di selezionare una parte dell’informazione, una parte dell’ambiente o una parte dello spazio, che diventa il luogo privilegiato in cui noi attiviamo le nostre risorse cognitive. È perciò un’attività che ci consente di convogliare le nostre risorse cognitive su una serie di stimoli o eventi escludendone altri. L’attenzione, insieme alla percezione, ci permette di decodificare in modo preciso e funzionale ai nostri processi cognitivi le informazioni che provengono dalla realtà esterna. L’attenzione è stata definita anche come la porta principale della coscienza intesa come consapevolezza; infatti, per essere consapevoli di uno stimolo o di una sensazione è fondamentale aver dislocato le risorse attentive su quell’aspetto. Sono stati identificati diversi tipi di attenzione: Attenzione selettiva: è l’attenzione che solitamente ci è più familiare, ovvero quella capacità di suddividere gli stimoli e le informazioni in stimoli che sono rilevanti in un determinato momento, e informazioni che sono irrilevanti e sulle quali non si va a focalizzare le risorse cognitive. Ha la funzione di focalizzare tra i molteplici stimoli quelli pertinenti al compito e alla situazione. Per fare questo utilizziamo due tipi di elaborazione, a seconda delle caratteristiche degli stimoli (vedi sotto): - In serie - In parallelo Attenzione spaziale: Un caso particolare di attenzione selettiva è l’attenzione spaziale. Consiste in quel tipo di attenzione che noi applichiamo allo spazio. L’uomo generalmente va a suddividere le informazioni in una sorta di focus che potrebbe essere immaginato come uno spot del teatro (il cono di luce in un teatro buio che va ad illuminare alcuni punti della scena). Le informazioni sono selezionate attraverso una sorta di fascio dell’attenzione e si lascia sullo sfondo l’area restante. Attenzione sostenuta: L’attenzione può essere anche quella che viene definita attenzione sostenuta (che costa fatica), ovvero quella che viene direzionata su un compito e mantenuta su esso. L’attenzione ha una sua curva per cui inizialmente si hanno a disposizione molte risorse, grazie alle quali si riesce a rimanere attenti, e poi a mano a mano l’attenzione cala, perché vengono utilizzate energie e risorse cognitive. L’attenzione sostenuta è perciò quella che noi orientiamo volontariamente su un compito e la manteniamo. Attenzione spontanea: L’attenzione spontanea è invece quella che orientiamo in modo involontario, se sentiamo un rumore alle nostre spalle ad esempio. Quando non si ha un obiettivo particolare, si può osservare che l’attenzione spontanea diventa fluttuante, si muove e viene attirata da diversi stimoli e situazioni. Attenzione divisa: Gli psicologi sperimentali hanno scoperto che l’attenzione può essere divisa: noi siamo in grado di orientare parte della nostra attenzione su un compito e parte su un altro compito. Questo aspetto è stato molto studiato e gli strumenti utilizzati sono quelli che usano il doppio compito, si chiede infatti ai soggetti di svolgere un’operazione e contemporaneamente farne un’altra. Spesso quando si svolge un’unica azione, essa può essere composta da diverse sotto azioni che vanno controllate. L’attenzione in questi casi deve saltare da un aspetto all’altro mantenendo tutto monitorato. Inoltre, quando si svolge un doppio compito, se uno dei è automatizzato, cioè lo si fa in modo automatico (come andare in bicicletta), l’esecuzione contemporanea dell’altro compito avviene in maniera semplice senza particolari disturbi, posta come condizione fondamentale che i distretti corporei e del sistema nervoso e cerebrali siano diversi; ad esempio non si può leggere e guardare un film contemporaneamente perché i due distretti che sono la decodifica delle parole e degli elementi verbali si sovrappongono e c’è un’interferenza. In alcuni casi, c’è anche la possibilità che si crei una sorta di associazione per cui l’assenza di uno stimolo può diventare disturbante dopo un lungo periodo in cui quello stimolo è stato presente. ELABORAZIONE IN PARALLELO: quanti cerchi hanno il pallino? Nel primo caso avviene un processo in parallelo, in un colpo solo si è in grado di fornire una risposta. L’elaborazione in parallelo ci fa vivere un processo definito pre- attentivo. È un processo che: - È preattentivo; - Non è influenzato dal numero di elementi (se si aumentasse il numero di cerchiolini senza trattino si riuscirebbe ad individuare subito quello diverso, vedi fig.1); - avviene in un colpo solo, in modo velocissimo, automatico; ELABORAZIONE IN SERIE: quanti cerchi non hanno il pallino? In questo processo sono richieste delle operazioni di confronto che devono arrivare ad esaurimento degli stimoli. Infatti, non si può essere sicuri della risposta fino a che non si è fatto un confronto con il pallino senza trattino e tutti gli altri che sono nella configurazione (autoterminante). È un processo che: - richiede attenzione: bisogna focalizzare l’attenzione (in questo caso spaziale) per andare a confrontare il nostro target (obiettivo) con tutti gli altri; - è influenzato dal numero degli elementi: se si aumentassero i cerchiolini con la stanghetta, la persona che avrebbe dovuto rispondere alla domanda iniziale sarebbe obbligata a fare tanti confronti tanti quanti sono necessari per esaurire tutti i pallini con la stanghetta; - viene svolto necessariamente passo dopo passo; L’elaborazione in serie è quel tipo di elaborazione che utilizziamo ogni volta che s’incontra un compito nuovo e che dobbiamo padroneggiare e impararlo bene. Nella vita quotidiana, invece di parlare di processi in serie e in parallelo (sono termini che vengono utilizzati nell’ambito neuroscientifico), si parla di processi automatizzati e processi controllati: i primi vanno in parallelo mentre quelli controllati vanno in serie. PROCESSI AUTOMATICI: I processi automatici sono processi che si svolgono in parallelo: sono rapidi, non coinvolgono la memoria, non richiedono risorse attentive, si svolgono in un colpo solo, compaiono con l’esercizio, ma hanno un problema: è difficile bloccarli volontariamente. Alcuni esempi: guardare una parola senza leggerla (lettura automatizzata); imboccare una strada che si è soliti a fare, anche se non si voleva andare in quella direzione… Questi esempi sottolineano una caratteristica del processo automatico: esso si innesca da solo perché ci sono degli stimoli compatibili con la sua presenza. L’automatismo è una di quelle caratteristiche della nostra mente che coincide con quella che viene definita economia mentale o cognitiva: automatizzare dei processi ci permette di risparmiare molte energie mentali. PROCESSI CONTROLLATI: Il processo controllato si può svolgere solo in serie: è lento, coinvolge la memoria, richiede risorse attentive: quando si impara a fare qualcosa si dedicano risorse ad ogni minimo dettaglio. Può essere interrotto volontariamente e con l’esercizio prolungato può trasformarsi in un processo automatico: guidare oppure le attività sportive. Lo sport è infatti per definizione l’esempio di passaggio da processi controllati a quelli automatizzati, questo riguarda ogni fascia d’età. Nel bambino è evidente lo sforzo che egli deve fare per coordinare le varie parti, siccome l’attenzione deve maturare. Il bambino deve imparare ad orientare l’attenzione sull’azione e deve imparare ad armonizzare tutte quelle componenti che vengono definite funzioni esecutive, le quali consentono all’attenzione di svolgere il suo ruolo. Quando svolgiamo un processo controllato, siamo in grado di monitorare ogni piccolo step e questo ci permette di fermarci appena ci si accorge che qualcosa non sta andando nel verso giusto. La maggior parte delle cose noi apprendiamo avviene inizialmente tramite un processo controllato, lento e puntiglioso, per poi trasformarlo in automatico. La nostra mente ha quindi la capacità di padroneggiare i processi cognitivi e il rapporto con la realtà per gestirlo nel modo più economico, più veloce e allo stesso tempo più efficace possibile. Si tratta perciò di utilizzare i processi controllati per apprendere e far diventare poi questi apprendimenti un qualcosa di automatico che è a nostra disposizione. Anche imparare una nuova lingua è un esempio molto valido, si percepisce la differenza di un processo passo dopo passo di chi sta imparando e un processo automatico invece di chi è fluente e si vede che qui il processo diventa in parallelo, senza bisogno dell’attenzione. Il problema dei processi automatici è molto importante anche per i clinici: si potrebbe smettere di ragionare e fare errori durante il processo; ciò viene definito il rischio del grande esperto. Il rischio del grande esperto è il fatto che quando noi usiamo dei processi automatizzati, abbiamo meno attenzione dedicata. Il processo automatico, infatti, proprio per definizione, non richiede attenzione. L’esperto può non accorgersi, sottovalutare, non monitorare un processo perché lo conosce alla perfezione. Diventare esperti è importante perché offre un vantaggio significativo per la nostra mente, poiché si risparmiano enormi quantità di energia mentale e risorse metaboliche. Bisogna però stare attenti e pensare che, anche quando i nostri processi sono automatizzati, è importante attuare dei monitoraggi; essere esperti può esporre involontariamente al fatto di trascurare e non porre attenzione su alcuni dettagli. TEORIE E MODELLI DELL’ATTENZIONE: Filtro attentivo precoce o filtro di Broadbent Il primo modello dell’attenzione nasce intorno agli anni 50’ con un autore molto conosciuto di origini britanniche, Jim Broadbent, che si proponeva un interrogativo: “Se una persona focalizza la sua attenzione su una parte dell’informazione (target) tutto il resto dell’informazione e i vari dettagli vengono elaborati o non lo sono?” La sua teoria muove dal presupposto che il sistema cognitivo ha una capacità limitata, cioè può elaborare solo pochi stimoli alla volta. La sua prima idea riguarda l’esistenza di una sorta di filtro dei nostri processi cognitivi, che blocca quelle informazioni che non sono rilevanti per il compito. Quindi secondo Broadbent doveva esistere una sorta di filtro da lui chiamato collo di bottiglia che permette di filtrare quelle informazioni che non sono importanti per il compito intrapreso. Secondo le sue idee, le informazioni non rilevanti venivano perse. Questa parte non selezionata delle informazioni non arriva ad elaborazione di significato alla memoria. L’altro stimolo che è stato selezionato attentamente perché importante per l’attività svolte e segue un percorso diverso: è captato dai sensi, non è fermato dal filtro e prosegue nella short-term memory (memoria a breve termine) affinché lo stimolo possa essere elaborato. Broadbent usava come esempio per spiegare la sua teoria quello del cocktail party: secondo lui, se una persona è ad un cocktail party e qualcuno gli parla nelle orecchie, la persona ascolta quello che gli viene detto e tutto quello di cui le persone intorno parlano è filtrato via. Questa affermazione è stata vista in modo critico dagli studiosi. Infatti, anche se si è ad un cocktail party e si ascolta quello che viene detto in un determinato momento da una persona, se si sente un rumore improvviso o qualcuno bisbiglia il nome della persona interessata in quell’istante, la persona coinvolta sente e si accorge. Esiste quindi una sorta di monitoraggio per gli altri stimoli. Questo modello è stato superato nel corso degli anni superato. Filtro attentivo attenuante o elaborazione preattentiva Treisman (1964) suggeriva che gli stimoli non rilevanti potessero essere elaborati in modo primitivo, fino al livello delle caratteristiche percettive sottosoglia di consapevolezza, invece che essere elaborati fino ad un livello semantico. L’elaborazione a livello semantico significa che in un suono si riconosce il suo significato simbolico. Per esempio, se si sente una persona dire la parola rosa e si riconosce la parola rosa, significa che si sta elaborando a livello del significato semantico l’informazione. Se si elabora la parola rosa solo con il suono e non con decodifica il nome, significa che si sta elaborando lo stimolo solo a livello sensoriale. L’elaborazione sensoriale mi fa riconoscere che quello è un suono, mentre l’elaborazione semantica permette di riconoscere che quel suono veicola un nome, ed è perciò un’elaborazione più elevata. Il filtro, quindi, non blocca gli stimoli, ma li attenua ad un livello preattentivo. Tuttavia, alcuni stimoli particolarmente potenti possono eludere questo filtro. In questa illustrazione c’è un input (parte rossa) del sistema uditivo; lo stimolo selezionato passa i filtri e arriva alla memoria a breve termine in modo diretto. Lo stimolo attenuato non è bloccato, ma arriva nella memoria in modo diverso, come se fosse meno vivido, ma comunque rintracciabile. Modello del filtro attentivo tardivo Deutsch & Deutsch, 1963, e Norman, 1968, sono riusciti ad approfondire il discorso e hanno dimostrato che l’elaborazione delle informazioni, anche quelle non rilevanti, avviene a livello sofisticato. Secondo questa visione, le caratteristiche dello stimolo che noi non riusciamo ad elaborare per via della velocità dello stesso e che eludono la nostra percezione, sono elaborate oltre al livello percettivo. Questo è stato chiamato il filtro attentivo tardivo, opposto a quello di Broadbent. Il filtro tardivo opera dopo che la nostra mente ha svolto una velocissima elaborazione inconsapevole di tutti gli stimoli che sono intorno al soggetto, permettendo di stabilirne la rilevanza. Questa elaborazione, che potrebbe essere definita automatica e preconscia, supera il livello sensoriale e percettivo e arriva fino al livello di codifica semantica, anche se noi non ce ne accorgiamo. Successivamente all’elaborazione c’è una capacità del sistema cognitivo di ritagliare quegli stimoli che hanno quelle caratteristiche (analisi stimolo fatta prima in modo veloce e automatico) rilevanti per il compito, a tal proposito si parla di analisi della pertinenza. Il nostro sistema cognitivo tende ad analizzare in modo molto veloce e sommario gli stimoli e poi ritaglia quelli che sono rilevanti per il nostro compito. In questo modello l’elaborazione dell’informazione non rilevante supera il livello sensoriale e percettivo, arrivando a quello semantico. La dimostrazione di questo modello risiede in alcuni esperimenti, come l’effetto Stroop (usato anche come sorta di gioco test) e l’effetto Navon. In questo grafico c’è un riassunto di quello che è stato detto precedentemente. Nella prima riga si può osservare la selezione precoce secondo Broadbent, dove il filtro impedisce il passaggio nella memoria delle informazioni non selezionate. Poi quello di Treisman che fa sì che in modo attenuato le informazioni non selezionate entrino nella memoria; e quello finale della selezione tardiva di Deutsch e Deutsch Norman che afferma che anche gli stimoli non selezionati sono elaborati fino al riconoscimento di tipo semantico; a quel punto si inserisce il filtro per cui alcuni di questi stimoli non vengono resi consapevoli ed utilizzati e gli altri, che sono resi consapevoli son usati per svolgere l’azione o il compito che viene proposto. La selezione dell’informazione: C’è il livello della registrazione (gli stimoli che colpiscono i sistemi nervosi), poi avviene un’analisi percettiva, semantica e successivamente, a seconda che si è in un modello di selezione precoce, ci si ferma fino a questo punto, oppure, in un modello di selezione tardiva, ci fermeremo più avanti. Nella selezione tardiva tutti gli input che sono stati analizzati vanno ad influenzare le nostre funzioni esecutive, le decisioni e la memoria. Se l’attenzione selettiva opera sull’informazione rilevante, quella non rilevante dove va a finire? Effetto Stroop: Stroop ha ideato una particolare situazione sperimentale in cui si chiede alle persone di dire il colore dello stimolo presentato. Vengono mostrati velocemente degli stimoli in sequenza e la persona non deve badare al tipo di stimolo proposto, alla sua forma o al suo significato, ma solo al colore. Vengono poi valutati i tempi di reazione e gli errori nelle risposte. Il rallentamento nella risposta in caso di incongruenza rende evidente che nella mente del soggetto si attivano contemporaneamente due rappresentazioni semanticamente legate. La parte di nostro interesse è quella in cui noi dobbiamo dire il colore e, se le informazioni non rilevanti potessero essere non elaborate, non si avrebbe nessun disturbo. Quando i due stimoli coincidono si ha una facilitazione, mentre quando non coincidono, lo stimolo irrilevante deve essere inibito e questo allunga i tempi di risposta, generando errori. Questo esperimento dimostra che noi non possiamo prestare attenzione solo allo stimolo rilevante, anche le altre dimensioni dello stimolo, tutto ciò che arriva ai nostri sensi, senza che ce ne accorgiamo. L’esperimento ha dimostrato che l’informazione irrilevante non va persa ma anzi viene elaborata fino al livello semantico. Per questo motivo crea interferenza. Noi spesso abbiamo l’impressione di elaborare solo gli stimoli a cui diamo attenzione e a non elaborare il resto, perché noi il resto lo stiamo elaborando, ma non crea interferenza, non ha un’associazione particolare con il materiale che stiamo elaborando e quindi non crea disturbo. Nel nostro cervello la memoria semantica ha una strutturazione molto complessa, ma anche una caratteristica (homunculus motorio): c’è una struttura somatotopica. Nella nostra memoria semantica, le categorie dei concetti che abbiamo appreso sono sedimentate in modo preciso, per cui la categoria dei colori ha depositato le tracce mnestiche dei concetti e dei nomi dei colori una vicina all’altra, in una sorta di classe discreta che è in un certo luogo nel sistema nervoso. Anche le categorie concettuali delle parole sono sedimentate in una classe discreta e associata alle classi simili. Per questo motivo, il nome del colore è automaticamente in grado di attivare per associazione diretta la parola che si riferisce a quel colore. Se si deve dire il colore, ma la parola con cui è scritto il colore è un colore stesso, si tratta dello stesso distretto (stesso campo semantico) che si attiva: se sono uguali non si ha nessun problema (se ad esempio si deve dire rosso e la parola scritta è rosso, si ha un vantaggio) in quanto le due dimensioni, quella rilevante e non rilevante, coincidono e quindi l’elaborazione della dimensione rilevante non crea disturbo; nel terzo caso (grafico precedente) la risposta era più complicata; se l’elaborazione della dimensione non rilevante è sempre un nome di colore, ma il nome di colore diverso dal nome che si deve pronunciare è come se in parallelo ci fossero due risposte, una che viene dall’aver visto il colore e una che viene dalla lettura automatica del nome del colore( se ad esempio il colore è nero e il nome del colore è rosso). Una risposta è quella che bisognava dare e quindi si è preparati per darla, l’altra è automaticamente innescata dall’associazione tra il colore e il suo nome dalla lettura. Se ci venissero presentate delle opzioni in modo veloce saremmo più propensi a fare degli errori, a leggere la parola invece di dire il colore che vediamo. In poche parole, l’effetto Stroop ci parla di diverse cose: di come l’attenzione lavora, di come monitora le operazioni cognitive, essendo capace di bloccare una risposta quando non è quella adeguata (questa è una funzione molto importante dell’attenzione). L’attenzione non è, quindi, solo selezionare gli stimoli che ci interessano, ma anche monitorare l’andamento dell’azione e saper inibire le informazioni o azioni che non sono utili o che sono dannose. Esiste anche uno Stroop differente, lo Stroop numerico. L’informazione rilevante in questo compito è dire quanti stimoli ci sono in ogni cartellina, la risposta che deve essere data interferisce in campo semantico (la categoria del numero e il nome del numero) con gli stimoli che si possono leggere. S e ad esempio io vedessi tre stimoli la risposta è tre, però se questi stimoli venissero presentati in maniera veloce, sarebbe molto alta la probabilità di sbagliare L’attenzione viene messa in crisi da due compiti che sono competitivi, in questo caso infatti le due informazioni competono e si attivano molto velocemente, ma bisogna sceglierne una. Effetto Navon: Un altro