Regime sanzionatorio licenziamenti (Jobs Act) - Lezione 69

Summary

This document provides a lecture summary focusing on Italian employment law, specifically on the sanctions for wrongful dismissal under the D.lgs. 23/2015. The lecture elaborates on types of protections, reintegration, and compensation related to illegal terminations, and differentiates between full and mitigated protection depending on the circumstances.

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Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #tito...

Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Il regime sanzionatorio per i licenziamenti D.lgs. n. 23/2015 Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Campo di applicazione Il regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti intimati senza giusta causa o giustificato motivo, laddove richiesti, è differenziato a seconda delle dimensioni dell’azienda e della data di assunzione del lavoratore; Il d.lgs. n. 23/2015 si applica ai: lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto; lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ma il cui contratto a tempo determinato o di apprendistato sia stato convertito dopo quella data in contratto a tempo indeterminato; lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ma dipendenti da un datore di lavoro che successivamente a quella data superi, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato, il requisito occupazionale dei 15 dipendenti. Restano esclusi dipendenti pubblici e dirigenti. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutele Il D.lgs. n. 23/2015 conferma l’impianto dell’art. 18, l. n. 300/1970, riformato, prevedendo quattro diverse tipologie di tutela in caso di illegittimità del licenziamento: Tutela reintegratoria piena Tutela reintegratoria attenuata Tutela indennitaria forte Tutela indennitaria ridotta Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela reintegratoria Il dovere di reintegra si adempie mediante invito al lavoratore a riprendere servizio; L’invito costituisce un atto unilaterale recettizio e come tale produce effetto dal momento in cui perviene a conoscenza del lavoratore. Se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivolto dal datore di lavoro, il rapporto di lavoro si intende risolto al termine dei 30 giorni, salvo un giustificato motivo di assenza. Ai fini dell’effettiva reintegrazione, non basta, quindi, che sia stata emessa una sentenza di condanna, occorre piuttosto uno specifico invito del datore di lavoro. La reintegrazione deve avvenire nello stesso posto occupato al momento del licenziamento, anche qualora esso sia stato nel frattempo assegnato ad altri; È possibile adibire, tuttavia, il lavoratore a diverse mansioni, ovvero adottare un provvedimento di trasferimento nel rispetto della previsione dell’art. 2103 cod. civ. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela indennitaria Il d.lgs. n. 23/2015, a differenza dell’art. 18, l. n. 300/1970, individua nell’ultima retribuzione per il calcolo del trattamento di fine rapporto il parametro per calcolare l’indennità risarcitoria prevista, seppur in diverso modo, in tutte le tutele contro il licenziamento illegittimo; Per il calcolo del parametro, quindi, occorre far riferimento alle regole che disciplinano il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., soprattutto con riguardo agli emolumenti retributivi da considerare ai fini del calcolo (si rinvia alla lez. 48). Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela reintegratoria piena È disciplinata dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015; Comporta per il lavoratore: La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; Il risarcimento del danno subito con un’indennità, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, non inferiore a 5 mensilità; Il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. Si applica nelle ipotesi di nullità del licenziamento perché: Discriminatorio ai sensi dell'articolo 15, l. n. 300/1970; Riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge; Sussiste un difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore; Si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela reintegratoria piena Qualora il datore venga condannato alla tutela reintegratoria piena, dovrà invitare il lavoratore a riprendere servizio entro 30 giorni; Se il lavoratore non riprende servizio a seguito dell’invito del datore di lavoro, il rapporto si intende risolto; Il lavoratore può anche chiedere, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contribuzione previdenziale; La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. Tale richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro ed è aggiuntiva rispetto al diritto al risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela reintegratoria attenuata È disciplinata dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015; Comporta per il lavoratore: La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro Il risarcimento del danno subito con un’indennità, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, fino a un massimo di 12 mensilità. Dalle mensilità si sottrae quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro; Il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. Si applica nell’ipotesi nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela indennitaria forte È disciplinata dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015; Si applica nelle altre ipotesi, diverse da quelle di cui all’art. 3, comma 2, in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa; In questi casi il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento; condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti (cfr. Corte cost. 194/2018). Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Tutela indennitaria attenuata È disciplinata dall’art. 4, d.lgs. n. 23/2015 Si applica nelle ipotesi di violazione: del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, l. 604/1966; della procedura di cui all'articolo 7 Stat. lav.; La violazione dell’art. 7, l. n. 604/1966, non rileva in quanto nel sistema del d.lgs. n. 23/2015 non vige il previo tentativo di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo previsto da quella norma. In questi casi il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento; condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR; Qualora la violazione procedurale concorra con un difetto di giustificazione del licenziamento, si applicano le tutele previste per queste ultime ipotesi. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Offerta di conciliazione Al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi c.d. protette, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 3 e non superiore a 27 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 0 Giurisprudenza costituzionale Il sistema del d.lgs. n. 23/2015 prevedeva in origine che l’importo dell’indennità risarcitoria aumentasse proporzionalmente con l’aumentare dell’anzianità di servizio del lavoratore licenziato, fino al massimo stabilito dal decreto. Si parlava per questo motivo di contratto a tutele crescenti; La Corte costituzionale ha, tuttavia, dichiarato questo meccanismo costituzionalmente illegittimo con le sentenze n. 194/2018 e 150/2020, in quanto: la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta - diverse. contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell'inidoneità dell'indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Il regime sanzionatorio per i licenziamenti D.lgs. n. 23/2015 Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Piccole imprese L’art. 9, d.lgs. n. 23/2015, disciplina la tutela per l’illegittimità del licenziamento per i dipendenti delle piccole imprese soggetti al d.lgs. n. 23/2015; La tutela si applica ai lavoratori impiegati nelle imprese che non raggiungano i limiti dimensionali di cui all’art. 18, l. n. 300/1970, ossia con 15 o meno dipendenti all’interno della stessa unità produttiva o nell’ambito del medesimo Comune; A differenza di quanto previsto nel regime di cui all’art. 18, i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto sono assoggettati alla tutela di cui al d.lgs. n. 23/2015 in relazione al numero di dipendenti occupati, non essendo più equiparati alle piccole imprese; La tutela è prevista per tutte le ipotesi in cui non ricorre la giusta causa o il giustificato motivo posti a sostegno del licenziamento. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Piccole imprese Anche per i dipendenti occupati nelle piccole imprese, è prevista la tutela reintegratoria forte per i casi di licenziamento nullo o di licenziamento inefficace perché intimato in forma orale; Il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, non inferiore a 5 mensilità; Il lavoratore può chiedere entro 30 giorni al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Piccole imprese È espressamente esclusa la tutela reintegratoria attenuata; Le uniche due tutele previste dall’art. 9 sono quelle indennitarie, ma l’importo previsto, a differenza del regime stabilito per le grandi imprese, è dimezzato e non può comunque superare il limite delle sei mensilità: Tutela indennitaria forte: risoluzione del rapporto e pagamento di una indennità tra 3 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del TFR qualora non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa Tutela indennitaria ridotta: risoluzione del rapporto e pagamento di una indennità tra 1 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del TFR qualora sussista una violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Piccole imprese: Corte cost. 183/2022 Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, d.lgs. N. 23/2015; Il giudice assumeva che la previsione di un indennizzo così esiguo, non superiore alle sei mensilità e senza neppure l'alternativa della riassunzione, non attui un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. La previsione censurata, difatti, nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo, non garantirebbe un'equilibrata compensazione e un adeguato ristoro del pregiudizio e non svolgerebbe la necessaria funzione deterrente. La disposizione, quindi, si poneva in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea. Corso di Laurea: #corso# Servizi giuridici Insegnamento: #insegnamento# Diritto del lavoro (L-Z) Lezione n°: #lezione# Lezione n. 69 Titolo: #titolo# Regime sanzionatorio d.lgs. 23/15 Attività n°: #attività# 1 Piccole imprese: Corte cost. 183/2022 La Corte costituzionale sottolinea le disarmonie della tutela prevista dal d.lgs. n. 23/2015 per le piccole imprese; Considera, infatti, per un verso, l'esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennità, che vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza per altro verso, il criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati, che non rispecchia di per sé l'effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario; Tuttavia, rigetta la questione di costituzionalità, in quanto a tale disarmonia non può porre rimedio la Corte, ma solo il legislatore. CORTE COSTITUZIONALE Sentenza 194/2018 Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Presidente LATTANZI - Redattore SCIARRA Udienza Pubblica del 25/09/2018 Decisione del 26/09/2018 Deposito del 08/11/2018 Pubblicazione in G. U. 14/11/2018 Norme impugnate: Art. 1, c. 7°, lett. c), della legge 10/12/2014, n. 183; artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 04/03/2015, n. 23. Massime: 40519 40520 40521 40522 40523 40524 40525 40526 40527 40528 40529 40530 40531 Atti decisi: ord. 195/2017 Massima n. 40519 Titolo Contraddittorio davanti alla Corte costituzionale - Intervento nel giudizio incidentale - Soggetto non titolare di un interesse qualificato, direttamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio - Difetto di legittimazione - Inammissibilità dell'intervento. Testo È dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione, l'intervento della CGIL nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015. Oltre a non essere parte del giudizio principale, l'interveniente non è titolare di un interesse qualificato immediatamente inerente al rapporto sostanziale in esso dedotto, in quanto non vanta una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio incidentale, bensì un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari di tutela degli interessi economici e professionali dei propri iscritti. Per costante giurisprudenza, nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale, l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile, ai sensi dell'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Ciò vale anche con riguardo alla richiesta di intervento da parte di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria. (Precedenti citati: sentenze n. 120 del 2018, con relativa ordinanza dibattimentale, n. 77 del 2018 e n. 275 del 2017). Atti oggetto del giudizio legge 10/12/2014 n. 183 art. 1 co. 7 lettera c) decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 2 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 4 Altri parametri e norme interposte norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (7/10/2008) art. 4 co. 3 Massima n. 40520 Titolo Sopravvenienze nel giudizio incidentale - Ius superveniens non modificativo dei termini essenziali della questione posta dal rimettente - Esclusione della necessità di restituzione degli atti. Testo Qualora lo ius superveniens modifichi la disposizione censurata senza che mutino i termini essenziali della sollevata questione di legittimità costituzionale, non occorre restituire gli atti al rimettente perché valuti la permanenza o meno dei dubbi di incostituzionalità espressi nell'ordinanza di rimessione. (Nella specie, la modifica recata dal sopravvenuto art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, riguardando esclusivamente i limiti minimo e massimo - rispettivamente innalzati da quattro a sei mensilità e da ventiquattro a trentasei mensilità - entro i quali è possibile determinare l'indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato, non incide sul contestato meccanismo di computo dell'indennità configurato dal censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015). (Precedenti citati: sentenza n. 125 del 2018, sulla possibilità per la Corte costituzionale di valutare in che misura lo ius superveniens incida sul giudizio incidentale e se si spinga fino a modificare "la norma censurata quanto alla parte oggetto delle censure di legittimità costituzionale"). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 Massima n. 40521 Titolo Thema decidendum - Ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti costituite nel giudizio incidentale - Esorbitanza dal contenuto dell'ordinanza di rimessione - Inammissibilità. Testo È inammissibile - in quanto si traduce in una questione non sollevata dal giudice rimettente - la censura di irragionevolezza dell'art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, formulata dalla parte costituita nel giudizio incidentale, sotto il profilo dell'asserita inidoneità delle disposizioni censurate a conseguire il dichiarato scopo di "rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione". Per costante giurisprudenza, l'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione; pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze. (Precedenti citati: sentenza n. 4 del 2018, n. 251 del 2017, n. 29 del 2017, n. 214 del 2016, n. 231 del 2015 e n. 83 del 2015). Atti oggetto del giudizio legge 10/12/2014 n. 183 art. 1 co. 7 lettera c) decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 2 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 4 Massima n. 40522 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutele del lavoratore nei casi di illegittimo licenziamento - Denunciato contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, con il diritto al lavoro, con la tutela del lavoro e con le garanzie sovranazionali in tema di licenziamenti non giustificati - Insussistenza della rilevanza - Inammissibilità delle questioni. Testo Sono dichiarate inammissibili - per difetto di rilevanza - le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, comma 2, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost., gli ultimi due in relazione all'art. 30 CDFUE, alla Convenzione OIL sul licenziamento n. 158 del 1982 e all'art. 24 della Carta sociale europea. Le disposizioni censurate stabiliscono tutele per fattispecie (casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale; casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore; ipotesi di vizi formali e procedurali del recesso datoriale) diverse da quella della "non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo", identificata dal rimettente come oggetto del giudizio a quo, e dunque sono in esso inapplicabili. Inoltre, la tutela prevista dall'art. 3, comma 2, è completamente diversa da quella - esclusivamente monetaria - applicabile, ai sensi del precedente comma 1, nella fattispecie ravvisata dal rimettente. Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 2 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 2 decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 4 Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Costituzione art. 4 co. 1 Costituzione art. 35 co. 1 Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Carta dei diritti fondamentali U.E. art. 30 Convenzione Oil sul licenziamento n. 158 del 1982 Carta sociale europea art. 24 legge 09/02/1999 n. 30 Massima n. 40523 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutele del lavoratore nei casi di illegittimo licenziamento - Inapplicabilità della procedura preventiva di conciliazione obbligatoria ex art. 7 della legge n. 604 del 1966 - Denunciato contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, con il diritto al lavoro, con la tutela del lavoro e con le garanzie sovranazionali dei lavoratori in tema di licenziamenti non giustificati - Difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza - Inammissibilità delle questioni. Testo Sono dichiarate inammissibili - per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza - le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost., gli ultimi due in relazione all'art. 30 CDFUE, alla Convenzione OIL sul licenziamento n. 158 del 1982 e all'art. 24 della Carta sociale europea. Il rimettente non spiega perché debba fare applicazione della norma censurata né perché ritiene contrastante con i parametri evocati la previsione dell'inapplicabilità della procedura preventiva di conciliazione obbligatoria ex art. 7 della legge n. 604 del 1966 ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 2 3 d e l 2 0 1 5. Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 3 Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Costituzione art. 4 co. 1 Costituzione art. 35 co. 1 Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Carta dei diritti fondamentali U.E. art. 30 Convenzione OIL sul licenziamento n. 158 del 1982 Carta sociale europea art. 24 legge 09/02/1999 n. 30 Massima n. 40524 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge delega n. 183 del 2014 - Denunciato contrasto con parametri costituzionali e sovranazionali solo numericamente indicati - Difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza - Inammissibilità delle questioni. Testo Sono dichiarate inammissibili - per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza - le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183 del 2014, sollevate dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost., gli ultimi due in relazione all'art. 30 CDFUE, alla Convenzione OIL sul licenziamento n. 158 del 1982 e all'art. 24 della Carta sociale europea. L'ordinanza di rimessione non fornisce un'argomentazione sufficiente a sostegno dell'asserita violazione dei parametri evocati e non specifica quali, tra i principi e criteri direttivi stabiliti dalla norma censurata, produrrebbero tale violazione. Atti oggetto del giudizio legge 10/12/2014 n. 183 art. 1 co. 7 lettera c) Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Costituzione art. 4 co. 1 Costituzione art. 35 co. 1 Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Carta dei diritti fondamentali U.E. art. 30 Convenzione OIL sul licenziamento n. 158 del 1982 Carta sociale europea art. 24 legge 09/02/1999 n. 30 Massima n. 40525 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza che ne ricorrano gli estremi - Diritto del lavoratore a un'indennità ragguagliata esclusivamente all'anzianità di servizio - Denunciato contrasto con la Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento - Inidoneità di quest'ultima a fungere da parametro interposto in quanto non ratificata dall'Italia - Inammissibilità della questione. Testo È dichiarata inammissibile - per inidoneità dell'evocato parametro interposto - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento. Tale Convenzione, in quanto non ratificata dall'Italia, non può ritenersi vincolante né può integrare l'art. 117, primo comma, Cost., che fa riferimento al rispetto dei "vincoli" derivanti dagli "obblighi internazionali", e neppure è idonea a integrare il parametro dell'art. 76 Cost., poiché dalla generica dicitura "convenzioni internazionali", utilizzata dall'alinea dell'art. 1, comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014, non può farsi discendere l'obbligo per il legislatore delegato di rispettare convenzioni cui l'Italia, non avendo inteso ratificarle, non è vincolata. Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 Parametri costituzionali Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Convenzione OIl sul licenziamento n. 158 del 1982 art. 10 Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati art. 18 Massima n. 40526 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutela solo risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo - Previsione per i lavoratori a tempo indeterminato assunti dal 7 marzo 2015 - Denunciato deteriore trattamento rispetto ai lavoratori assunti prima di tale data - Asserita violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza - Insussistenza - Non fondatezza della questione. Testo È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, cui si applica, in caso di licenziamento illegittimo, la tutela solo economica prevista dal d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto a quelli assunti anteriormente, cui si applica la più favorevole tutela - specifica (reintegrazione nel posto di lavoro) e per equivalente (risarcimento del danno) - prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Premesso che, denunciando la disparità di trattamento tra nuovi assunti e vecchi assunti, il rimettente non censura la disciplina sostanziale del primo di tali regimi, ma il criterio di applicazione temporale della stessa, costituito dalla data di assunzione del lavoratore a decorrere dall'entrata in vigore del decreto, il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 non risulta irragionevole né, di conseguenza, lede il principio di uguaglianza. Esso trova giustificazione nel dichiarato scopo del legislatore di "rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione" (alinea dell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014). In tema di delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Spetta infatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme. (Precedenti citati: sentenza n. 254 del 2014, ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 del 2008 e n. 77 del 2008; sentenze n. 104 del 2018, n. 273 del 2011 e n. 94 del 2009 ). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Massima n. 40527 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutela solo risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo - Applicabilità ai lavoratori privi di qualifica dirigenziale assunti dal 7 marzo 2015 - Denunciato deteriore trattamento rispetto ai dirigenti assunti dalla medesima data - Asserita violazione del principio di eguaglianza - Non comparabilità delle categorie di lavoratori poste a raffronto - Non fondatezza della questione. Testo È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'ingiustificata deteriore tutela, in caso di illegittimo licenziamento, dei lavoratori privi di qualifica dirigenziale assunti dal 7 marzo 2015 rispetto ai dirigenti assunti dalla medesima data, ai quali ultimi la norma censurata non si applica. La considerazione della diversità del lavoro dei dirigenti ha indotto la Corte costituzionale a più riprese a ribadire che non contrasta con l'art. 3 Cost. l'esclusione degli stessi dall'applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento. Pertanto, la perdurante esclusione dei dirigenti dall'applicazione della citata disciplina conferma che, anche nel sistema vigente, i dirigenti non sono comparabili alle altre categorie dei prestatori di lavoro di cui all'art. 2095, primo comma, cod. civ. ( Precedenti citati: sentenze n. 228 del 2001, ivi richiamo alle "significative diversità dei dirigenti rispetto alle altre figure dei quadri, impiegati ed operai"; sentenza n. 309 del 1992, secondo cui le categorie dei lavoratori subordinati e dei dirigenti "non sono affatto omogenee ed i due rapporti di lavoro sono nettamente differenziati"; sentenza n. 121 del 1972 e ordinanza n. 404 del 1992, sull'inapplicabilità ai dirigenti dell'art. 1 della legge n. 604 del 1966, che richiede l'esistenza di una "giusta causa" o di un "giustificato motivo" di licenziamento). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Massima n. 40528 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Indennità dovuta al lavoratore illegittimamente licenziato senza che ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa - Determinazione automatica in base alla sola anzianità di servizio con esclusione di qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice - Denunciata violazione della garanzia contro i licenziamenti ingiustificati sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea - Non evocabilità di tale garanzia quale parametro interposto - Non fondatezza della questione. Testo È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 30 CDFUE. Deve escludersi che la CDFUE sia applicabile alla fattispecie e che l'art. 30 di essa possa essere invocato, quale parametro interposto, nella sollevata questione di legittimità costituzionale, poiché nella materia dei licenziamenti individuali, disciplinata dalla norma censurata, non vi sono disposizioni del diritto dell'Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri, né in particolare all'Italia, tenuto conto che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e alla situazione specificamente regolata dal denunciato art. 3, comma 1), l'UE non ha in concreto esercitato la competenza nel settore della protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, prevista dall'art. 153, par. 2, lett. d), TFUE; che la direttiva 98/59/CE riguarda i licenziamenti collettivi; e che le raccomandazioni previste dall'art. 144, par. 4, del TFUE rientrano nella discrezionalità del Consiglio e sono prive di forza vincolante. Secondo la giurisprudenza costituzionale, perché la Carta dei diritti fondamentali dell'UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre che la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione - e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto. (Precedenti citati: sentenze n. 111 del 2017, n. 63 del 2016 e n. 80 del 2011; ordinanza n. 138 del 2011). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 Parametri costituzionali Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Carta dei diritti fondamentali U.E. art. 30 Massima n. 40529 Titolo Lavoro e occupazione - Diritto al lavoro - Qualificazione come diritto fondamentale - Diritto del lavoratore a non subire un licenziamento arbitrario - Bilanciamento con la libertà di organizzazione dell'impresa - Discrezionalità del legislatore (purché ragionevolmente esercitata) nella scelta del tipo di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato. Testo Il diritto al lavoro - che, per il forte coinvolgimento della persona umana, va qualificato diritto fondamentale - non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma esige che il legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti. La materia dei licenziamenti individuali è quindi regolata dal principio della necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, i limiti al cui potere correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro, garantendo al lavoratore il diritto di non subire un licenziamento arbitrario ovvero a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente. (Precedenti citati: sentenza n. 45 del 1965; sentenze n. 41 del 2003, n. 541 del 2000, n. 46 del 2000 e n. 60 del 1991, ordinanza n. 56 del 2006). L'attuazione dell'esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell'ampliamento della tutela del lavoratore volta alla conservazione del posto di lavoro, resta affidata alla discrezionalità del legislatore quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto alla situazione economica generale. Il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., su cui non può non esercitarsi tale discrezionalità, non impone un determinato regime di tutela, onde il legislatore può prevedere un meccanismo anche solo risarcitorio-monetario, purché esso si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. (Precedenti citati: sentenze n. 303 del 2011, n. 46 del 2000, n. 2 del 1986, n. 194 del 1970, n. 55 del 1974 e n. 189 del 1975; sentenza n. 268 del 1994, secondo cui il diritto alla stabilità del posto [di lavoro] non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme). Parametri costituzionali Costituzione art. 4 Costituzione art. 41 Massima n. 40530 Titolo Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Indennità dovuta al lavoratore illegittimamente licenziato senza che ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa - Determinazione automatica in base alla sola anzianità di servizio con esclusione di qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice - Violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, del diritto del lavoratore licenziato senza valido motivo ad un adeguato ristoro e della garanzia dell'esercizio di altri diritti fondamentali nei luoghi di lavoro - Illegittimità costituzionale parziale. Testo È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost. (gli ultimi due in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea), l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 - sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018 (conv., con modif., nella legge n. 96 del 2018) - limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,". La disposizione censurata dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, nell'accordare una tutela esclusivamente risarcitoria al lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o per giusta causa senza che ne ricorrano gli estremi, pone a carico del datore di lavoro - entro limiti minimo e massimo di ammontare (rispettivamente ora innalzati da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei mensilità) - un'indennità commisurata unicamente all'anzianità di servizio, non graduabile in relazione ad altri parametri e non incrementabile dal giudice in ragione dell'entità del concreto pregiudizio sofferto dal lavoratore licenziato. Tale meccanismo di quantificazione - che rende l'indennità rigida e uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità e la connota come una liquidazione legale standardizzata - contrasta non solo con il principio di eguaglianza, poiché comporta una ingiustificata omologazione di situazioni che possono essere e sono, nell'esperienza concreta, diverse; ma anche con il principio di ragionevolezza, in quanto l'indennità forfettizzata, tradendo la finalità primaria della tutela risarcitoria, può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento illegittimo, né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente. La misura risarcitoria uniforme non realizza dunque un adeguato componimento degli interessi in gioco (libertà di organizzazione dell'impresa e tutela del lavoratore ingiustamente licenziato), bensì comprime in misura eccessiva l'interesse del lavoratore alla stabilità dell'occupazione; di conseguenza, essa viola anche la garanzia (ex artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.) dell'esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali, nonché il diritto del lavoratore licenziato senza un valido motivo ad un adeguato ristoro del danno, sancito a livello sovranazionale dalla Carta sociale europea (cui fa riferimento, quale convenzione internazionale, anche l'art. 1, comma 7, della legge delega n. 183 del 2014). (Precedenti citati: sentenza n. 163 del 1983, sul particolare valore che gli artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost. attribuiscono al lavoro per realizzare un pieno sviluppo della persona umana; sentenze n. 63 del 1966 e n. 45 del 1965, sul nesso che lega i diritti della persona al timore del licenziamento; sentenza n. 317 del 2009, sulla necessità che il risultato complessivo dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento di derivazione sovranazionale sia di segno positivo). La regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza di essa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale, purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento. Ancorché non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, il risarcimento deve essere necessariamente equilibrato. L'adeguatezza del risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. (Precedenti citati: sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 199 del 2005, n. 482 del 2000, n. 148 del 1999, n. 420 del 1991 e n. 132 del 1985 ). La Carta sociale europea è idonea a integrare il parametro dell'art. 117, primo comma, Cost., e va riconosciuta l'autorevolezza delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali. (Precedente citato: sentenza n. 120 del 2018). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 nel testo originario decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 decreto-legge 12/07/2018 n. 87 art. 3 co. 1 legge 09/08/2018 n. 96 Parametri costituzionali Costituzione art. 3 Costituzione art. 4 co. 1 Costituzione art. 35 co. 1 Costituzione art. 76 Costituzione art. 117 co. 1 Altri parametri e norme interposte Carta sociale europea art. 24 legge 09/02/1999 n. 30 Massima n. 40531 Titolo Pronunce della Corte costituzionale - Ricognizione degli effetti della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 - Diritto del lavoratore ingiustamente licenziato a un'indennità determinata dal giudice (entro le previste soglie minima e massima) in base non soltanto all'anzianità di servizio, ma anche ad altri criteri (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti). Testo In conseguenza della declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 (sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, conv., con modif., nella legge n. 96 del 2018), il giudice - nel rispetto del limite minimo (quattro, elevate a sei, mensilità) e del limite massimo (ventiquattro, elevate a trentasei, mensilità) entro i quali va determinata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato - terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio (quale criterio prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c, della legge delega n. 184 del 2013 e al quale è ispirato il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015) nonché degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti). Atti oggetto del giudizio decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 nel testo originario decreto legislativo 04/03/2015 n. 23 art. 3 co. 1 decreto-legge 12/07/2018 n. 87 art. 3 co. 1 legge 09/08/2018 n. 96 Pronuncia SENTENZA N. 194 ANNO 2018 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, nel procedimento vertente tra Francesca Santoro e Settimo senso s.r.l., con ordinanza del 26 luglio 2017, iscritta al n. 195 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2018. Visti l’atto di costituzione di Francesca Santoro, nonché gli atti di intervento della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra; uditi gli avvocati Amos Andreoni per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), Carlo de Marchis e Amos Andreoni per Francesca Santoro e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 26 luglio 2017 (reg. ord. n. 195 del 2017), il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183). Va precisato che l’ordinanza di rimessione aveva indicato quali disposizioni censurate (in particolare, al secondo rigo del punto 2. e al secondo rigo del dispositivo), oltre all’art. 7, comma 1, lettera c), della legge n. 183 del 2014, gli «artt. 2, 4 e 10» del d.lgs. n. 23 del 2015. Su richiesta della ricorrente nel giudizio a quo, il giudice rimettente, con provvedimento del 2 agosto 2017, rilevato che l’ordinanza di rimessione «indica erroneamente sia a pag. 4 che a pag. 10 gli articoli del D.Lgs. n. 23/2015 sospettati di incostituzionalità, come si evince chiaramente dal resto della parte motiva dell’ordinanza, che invece li riporta con esattezza anche nel contenuto», ha disposto la correzione di questa «nel senso che, nella seconda riga del parg. 2 e nella seconda riga dopo il “P.Q.M.”, in luogo delle parole “artt. 2, 4 e 10” debbano intendersi scritte le parole “artt. 2, 3 e 4”». Il provvedimento di correzione di errore materiale è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 3 del 17 gennaio 2018, insieme con l’ordinanza di rimessione. Va altresì dato atto che, su richiesta della Cancelleria della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 7 del 14 febbraio 2018, è stato pubblicato il seguente avviso di rettifica, relativo all’ordinanza n. 195 del 2017: «Nell’ordinanza citata in epigrafe, emessa dal Tribunale di Roma, pubblicata nella sopraindicata Gazzetta Ufficiale, alla pag. 41 e seguenti, sia nel titolo che nel testo, il nome della parte nel giudizio a quo è Santoro Francesca anziché Santoro Federica». 1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto da Francesca Santoro avverso il licenziamento intimatole dalla Settimo senso s.r.l. il 15 dicembre 2015, dopo pochi mesi dall’assunzione, avvenuta l’11 maggio 2015; che tale licenziamento era basato sulla motivazione che, «a seguito di crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non ci consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro, la Sua attività lavorativa non può più essere proficuamente utilizzata dall’azienda. Rilevato che non è possibile, all’interno dell’azienda, reperire un’altra posizione lavorativa per poterLa collocare, siamo costretti a licenziarLa per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604»; che la società convenuta è rimasta contumace. Il giudice a quo prende atto che quest’ultima, dichiarata contumace, non ha adempiuto l’onere di dimostrare la fondatezza della citata motivazione del licenziamento né ha contestato di possedere i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), implicitamente allegati dalla ricorrente con l’invocazione della tutela prevista dall’art. 3 (e non anche dall’art. 9) del d.lgs. n. 23 del 2015. Ciò premesso, il giudice a quo rappresenta che, poiché la lavoratrice ricorrente è stata assunta dopo il 6 marzo 2015, la tutela a essa applicabile è costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 e, in particolare, dai citati comma 1 dell’art. 3 e comma unico dell’art. 4. Invece, per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015, la tutela avverso i licenziamenti illegittimi è quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), e, in particolare: dal settimo comma dell’art. 18, «per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravità del vizio»; dal sesto comma dell’art. 18, «per il caso di difetto di motivazione». Ciò esposto, il giudice a quo afferma di ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra quelli indicati, vale a dire la “non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”». Lo stesso giudice osserva quindi che la lavoratrice ricorrente: se fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, avrebbe usufruito, applicando il quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, della tutela reintegratoria e di un’indennità commisurata a dodici mensilità e, applicando il quinto comma dello stesso art. 18, della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità; poiché è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro mensilità, e solo in quanto la contumacia del convenuto consente di ritenere presuntivamente dimostrato il requisito dimensionale, altrimenti le mensilità risarcitorie sarebbero state due». Il rimettente soggiunge che, «[a]nche nel caso si ravvisasse un mero vizio della motivazione, la tutela nel vigore dell’art. 18 sarebbe stata molto più consistente (6-12 mensilità risarcitorie a fronte di 2)». 1.2.– Con riguardo alla non manifesta infondatezza, il rimettente, prima di esporre più diffusamente le ragioni della violazione dei singoli parametri costituzionali invocati, afferma, in generale, che i censurati artt. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «priva[no la] ricorrente di gran parte delle tutele tuttora vigenti per coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato prima del 7.3.2015» e «preclud[ono] qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» – in precedenza esercitabile, ancorché nel rispetto dei criteri previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 – «imponendo[gli] un automatismo in base al quale al lavoratore spetta, in caso di […] illegittimità del licenziamento, la piccola somma risarcitoria [da essi] prevista». Lo stesso rimettente anticipa che le successive considerazioni in tema di non manifesta infondatezza saranno incentrate sul contrasto delle disposizioni censurate con: l’art. 3 Cost., perché «l’importo» dell’indennità risarcitoria da esse prevista non ha «carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e perché la totale eliminazione della discrezionalità valutativa del giudice «finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro»; gli artt. 4 e 35 Cost., perché «al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, è attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso»; gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., perché le sanzioni previste per il licenziamento illegittimo sono «inadeguat[e]» rispetto a quanto previsto dagli obblighi discendenti, tra l’altro, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Carta sociale europea. Il giudice a quo precisa ancora, sempre in via preliminare, che il contrasto con la Costituzione non è da lui ravvisato in ragione dell’eliminazione della tutela reintegratoria – tranne che per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato – e, quindi, dell’integrale monetizzazione della garanzia assicurata al lavoratore, ma in ragione della disciplina dell’indennità risarcitoria dettata dagli articoli censurati. Quest’ultima sostituirebbe la reintegrazione quale risarcimento in forma specifica e dunque avrebbe dovuto essere «ben più consistente ed adeguata». Il rimettente afferma che la Corte costituzionale ha più volte statuito che la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale, purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento. Profilo, quest’ultimo, rispetto al quale la normativa censurata non si sottrarrebbe al dubbio di legittimità costituzionale. 1.2.1.– Il rimettente espone, in primo luogo, le ragioni del contrasto di tale normativa con l’art. 3 Cost. Egli asserisce anzitutto che la previsione di un’indennità «così modesta, fissa e crescente solo in base alla anzianità di servizio» non costituisce un adeguato ristoro per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e illegittimamente licenziati. Tale «regresso di tutela per come irragionevole e sproporzionato viola l’art. 3 Cost. differenziando tra vecchi e nuovi assunti, pertanto non soddisfa il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza». La mancanza di «carattere compensativo» dell’indennità si evincerebbe da due circostanze. Anzitutto, dal fatto che l’assunzione della lavoratrice ricorrente ha consentito al datore di lavoro «la fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi», previsto dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», di importo molto più consistente di quello della condanna che egli potrà ricevere nel giudizio a quo. In secondo luogo, dal fatto che la «misura fissa» dell’indennità non consente al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto dalla lavoratrice – tenuto conto che la motivazione del licenziamento «è tautologica e generica al massimo» – e comporta di «apprestare identica tutela a situazioni molto dissimili nella sostanza». Le stesse circostanze sarebbero sintomatiche della mancanza anche di «carattere dissuasivo» della prevista indennità, dato che, come detto, il licenziamento illegittimo dopo pochi mesi dall’assunzione per la quale è riconosciuto lo sgravio contributivo costituisce un «affare» per il datore di lavoro. Il rimettente ribadisce quindi l’inadeguatezza, sul piano dissuasivo e sanzionatorio, dell’indennità prevista, il cui importo «contenuto, scisso dall’effettivo pregiudizio provocato, sottratto, nella sua quantificazione, alla valutazione del giudice […] e addirittura inferiore al correlato beneficio contributivo» non induce le imprese a condotte virtuose ma si risolve, al contrario, in un incentivo all’inadempimento dell’impegno da esse assunto con la stipulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il rimettente deduce ancora che un tale sistema risulta discriminatorio nei confronti dei lavoratori assunti, anche nella stessa azienda, successivamente al 6 marzo 2015, essendo evidente che, a fronte di un medesimo contratto di lavoro, in caso di necessità di ridurre il personale, l’azienda privilegerà sempre il meno costoso e problematico licenziamento dei lavoratori cui si applica il regime di tutela previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015. Il giudice a quo precisa di conoscere l’orientamento della Corte costituzionale secondo cui «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» (sentenza n. 254 del 2014), ma ritiene che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale». Il giudice a quo afferma poi che l’XI Commissione lavoro «del Parlamento», nella seduta del 17 febbraio 2015, aveva approvato lo schema di decreto legislativo, poi divenuto il d.lgs. n. 23 del 2015, ritenendo tuttavia che, «per i licenziamenti ingiustificati ai quali non si applica la sanzione conservativa, occorra incrementare la misura minima e la misura massima dell’indennizzo economico dovuto al lavoratore»; invito disatteso, però, dal Governo. L’irragionevole disparità di trattamento determinata dalle disposizioni impugnate emergerebbe dal confronto, oltre che tra lavoratori assunti prima o a decorrere dal 7 marzo 2015 e tra «lavoratori licenziati con provvedimenti affetti da illegittimità macroscopiche ovvero da vizi meramente formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi, con un indennizzo del medesimo importo», anche, «quanto agli assunti dopo il 7.3.2015, fra dirigenti e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che i primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente». 1.2.2.– Il giudice a quo espone, in secondo luogo, le ragioni del contrasto della normativa denunciata con gli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. e asserisce che tali parametri non possono ritenersi rispettati da una normativa come quella denunciata, che «sostanzialmente “valuta” il diritto al lavoro, […] strumento di realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico, con una quantificazione tanto modesta ed evanescente, in comparazione con la normativa ex lege 92/2012 ancora vigente, ed oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità». Il rimettente sottolinea come la tutela contro i licenziamenti illegittimi trascenda la vicenda del recesso e la tutela della stabilità dell’occupazione e del reddito, giacché sostiene la forza contrattuale del lavoratore nelle relazioni quotidiane sul luogo di lavoro e ne protegge le libertà fondamentali in tale luogo. Il giudice a quo conclude sul punto affermando di ritenere che la quantificazione dell’indennità operata dalle disposizioni censurate sia costruita «su una consapevole rottura del principio di uguaglianza e solidarietà nei luoghi di lavoro»; rottura che ha effetto anche sugli altri diritti costituzionali dei lavoratori, quali la libertà di espressione e sindacale. 1.2.3.– Il rimettente espone infine le ragioni del contrasto della normativa denunciata con gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost. Dopo avere richiamato il contenuto dell’art. 35, terzo comma, Cost., e avere rammentato che l’art. 7, comma 1, della legge di delegazione n. 183 del 2014 detta il criterio direttivo della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», il giudice a quo asserisce che gli invocati parametri costituzionali sarebbero violati in relazione: all’art. 30 CDFUE, che «impone […] di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato»; alla Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento (è citato, in particolare, il testo dell’art. 10 di tale Convenzione); all’art. 24 della Carta sociale europea, secondo cui, «[p]er assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo comma). Il giudice a quo rappresenta che la congruità e l’adeguatezza del ristoro da garantire ai lavoratori licenziati senza valido motivo ai sensi di quest’ultima disposizione sono stati oggetto di diverse decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali che, pur dando atto che la tutela può essere anche solo indennitaria, ha affermato che il suddetto ristoro deve essere adeguato (dal punto di vista del lavoratore) e dissuasivo (dal punto di vista del datore di lavoro). Ciò che confermerebbe, sul piano internazionale, quanto in precedenza argomentato. Il rimettente cita, in particolare, le decisioni del 31 gennaio 2017 emesse su due reclami collettivi proposti dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia (reclami n. 106/2014 e n. 107/2014) e relativi alla lamentata violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea da parte delle disposizioni della legge finlandese che disciplinano, rispettivamente, la responsabilità datoriale nel caso di licenziamento illegittimo e le condizioni per intimare un licenziamento economico. Il rimettente deduce che il Comitato, dopo avere affermato che, ai sensi del citato art. 24 della Carta, ai lavoratori licenziati senza un valido motivo deve essere attribuito un adeguato indennizzo o altro adeguato rimedio, ha specificato che deve ritenersi adeguata compensazione quella che include, tra le altre, la compensazione a un livello sufficientemente elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il danno subito dal dipendente. Da tali decisioni deriverebbe che, in linea di principio, qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensazione commisurata alla perdita subita dal lavoratore e sufficientemente dissuasiva per il datore di lavoro sarebbe in contrasto con la Carta. Lo stesso Comitato avrebbe rilevato – sempre secondo il giudice a quo – che la previsione di un limite massimo dell’indennizzo può condurre a situazioni in cui il risarcimento attribuito al lavoratore non è commisurato alla perdita da lui subita; sicché il «plafonnement dell’indennità» integrerebbe una violazione dell’art. 24 della Carta. Il rimettente rappresenta ancora che lo stesso Comitato europeo dei diritti sociali, nelle conclusioni del 2016 relative alla legislazione italiana vigente nel 2014 (e, quindi, alla legge n. 92 del 2012), ha rammentato il divieto di qualunque tetto alle indennità riconoscibili al lavoratore tale da determinare che esse non siano in rapporto con il pregiudizio da lui subito e sufficientemente dissuasive per il datore di lavoro. 1.3.– Con riguardo alla rilevanza, il rimettente, oltre a rinviare a quanto esposto in ordine ai fatti di causa, alle ragioni dell’illegittimità del licenziamento della ricorrente e alle tutele a essa spettanti, afferma che l’accoglimento delle questioni sollevate «consentirebbe […] di riconoscere alla ricorrente una tutela compensativa del reale pregiudizio subito, che sarebbe in tal caso costituita dalla tutela di cui all’art. 18, commi 4 e 7 (in subordine, comma 5) della legge n. 300/1970 come modificata dalla legge n. 92/2012». Il giudice a quo afferma altresì l’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni denunciate, in particolare, di quell’interpretazione consistente nell’ampliare l’ambito applicativo della tutela reintegratoria stabilita per gli «altri casi di nullità previsti dalla legge». Tale opzione costituirebbe, però, una «forzatura interpretativa (consentita solo se la Corte costituzionale adita dovesse indicare tale via con una pronuncia interpretativa di rigetto del quesito)» e, «[i]n assenza di riscontro nelle conclusioni del ricorso», contrasterebbe con il principio che la causa petendi dell’azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità dedotto nel ricorso introduttivo. 1.4.– Il rimettente dichiara quindi rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, e degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 «per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117, comma 1, della Costituzione, letti autonomamente ed anche in correlazione tra loro». 2.– Si è costituita nel giudizio Francesca Santoro, ricorrente nel processo principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate. La parte costituita indica e argomenta quattro profili di contrasto con la Costituzione delle disposizioni impugnate. 2.1.– In primo luogo, queste determinerebbero un’ingiustificata disparità di trattamento tra i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015 – per i quali l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e «gli articoli attuativi contenuti nella delega» prevedono «una sostanziale modifica peggiorativa delle condizioni di tutela» – e i lavoratori assunti con identico contratto, anche nella stessa azienda, prima del 7 marzo 2015. Secondo la parte costituita, l’affievolimento della tutela apprestata dalle disposizioni denunciate rispetto a quella concorrente prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 sarebbe evidente ove si consideri che, per il licenziamento economico, dette disposizioni, da un lato, escludono la reintegrazione e, dall’altro, stabiliscono che «l’indennizzo nella misura massima si ottiene decorsi 12 anni di lavoro»; il menzionato art. 18, invece, non esclude a priori la reintegrazione, mentre «la tutela massima può essere immediatamente accordata in ragione di vari fattori che concorrono a determinare la misura, permettendo quella “elasticità” applicativa che costituisce la regula iuris nel caso concreto tipica della funzione del magistrato, vanificata dalla riforma». Operato il raffronto tra le concorrenti e differenti tutele apprestate, rispettivamente, dalle disposizioni denunciate e dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la parte afferma la mancanza di una ragionevole giustificazione dell’evidenziata disparità di trattamento. A tale proposito, essa sottolinea che il denunciato nuovo sistema di tutela non introduce un diverso modello di contratto di lavoro subordinato ma si limita a disciplinare diversamente le conseguenze sanzionatorie del recesso illegittimo da tale contratto di lavoro, sicché le due fattispecie poste a raffronto «sono […] identiche e diversificate solo dal distinto e sostanzialmente difforme grado di tutela». Il fattore di differenziazione del medesimo rapporto di lavoro «sul quale insistono i due diversi regimi sanzionatori» è dunque costituito «dal decorso del tempo che separa i due interventi normativi». Tale fattore, tuttavia, «non assume […] rilevanza ai fini della disparità normativa», atteso che «non ha generato alcun elemento di valida “novità” nel rapporto di lavoro». La parte ritiene dunque che il tempo, «ove non abbia concretamente determinato una modifica delle condizioni di applicazione della normativa modificata, non rappresenta, quindi, una valida ragione per giustificare un trattamento differenziato che diviene, pertanto, irragionevole con riferimento a identici rapporti contestuali ma assoggettati a diverse sanzioni». 2.2.– In secondo luogo, le disposizioni censurate sarebbero in sé irragionevoli «rispetto alla finalità dichiarata e agli effetti prodotti», atteso che, costituendo una tutela del tutto inadeguata, inidonea a dissuadere il datore di lavoro dall’intimare licenziamenti non conformi al paradigma normativo, lo stesso datore di lavoro eserciterà il potere di recesso «sulla base di una valutazione soggettiva di convenienza e non oggettiva dell’esigenza». Risulterebbe allora evidente l’intrinseca irragionevolezza della normativa denunciata rispetto al fine di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro». Essa, infatti, lungi dal favorire l’ingresso in una realtà aziendale, «incentiva, viceversa, l’estromissione» del lavoratore assunto dopo il 6 marzo 2015, non bilanciando adeguatamente gli effetti dell’insufficiente garanzia del posto di lavoro sugli altri diritti fondamentali della persona coinvolti in un rapporto di durata connotato in senso fortemente gerarchico e verticistico; i quali vengono, così, del tutto sacrificati. L’intrinseca irrazionalità della normativa censurata rispetto al suo obiettivo dichiarato sarebbe evidente, atteso che il legislatore avrebbe depotenziato la sanzione posta a presidio della legittimità del recesso datoriale «in una prospettiva a favore dell’iniziativa privata, non controbilanciata da concreti risultati occupazionali, con sacrifici abnormi di pari e contrapposti diritti sociali». 2.3.– In terzo luogo, le disposizioni censurate sarebbero in sé irragionevoli «rispetto all’omesso bilanciamento di valori costituzionali coinvolti». Premesso che la giustificazione del licenziamento corrisponde a un valore costituzionale, la parte afferma che la previsione di un risarcimento tanto modesto e inadeguato, limitando la tutela efficace a fattispecie marginali o a rapporti di lunga durata, non costituisce un corretto bilanciamento dei diritti costituzionali che spettano al lavoratore a prescindere dalla sua anzianità lavorativa, per il solo fatto di vantare la titolarità di un diritto sociale in virtù del rapporto in essere. Infatti, la radicale assenza di protezione contro il licenziamento ingiustificato, che rende vano il principio della causalità del recesso, specie per i neo assunti, comporta che il diritto al lavoro, nella sua connotazione di garanzia di stabilità, venga sottoposto a un sacrificio sproporzionato. La sanzione contro il licenziamento ingiustificato, che assicura un ristoro inadeguato, costituirebbe, in effetti, «una misura repressiva irragionevole rispetto al bene protetto perché priva la norma a presidio del diritto del carattere di proporzionalità e di concreta efficacia dissuasiva alla violazione»; irragionevolezza che riguarderebbe sia «l’entità che […] la rigidità intrinseca del modello». Ne consegue – sempre ad avviso della parte costituita – che «[l]’unico interesse effettivamente “protetto” finisce per essere quello del datore di lavoro (e quindi dell’iniziativa privata)»; in specie, l’interesse «a vedere consolidati gli effetti della sua iniziativa organizzativa e prescindendo dalle condizioni di legittimità sulla base di una sanzione inadeguata che rende discrezionale un potere, viceversa, vincolato». Sarebbe, infatti, incontestabile che la prevista misura indennitaria, «nel suo automatismo, svincolata dagli effetti concretamente verificatisi dalla condotta e dalle caratteristiche che connotano il licenziamento», vanifica il contrapposto interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, tutelato dagli artt. 1, 4 e 35 Cost. La degradazione della tutela del lavoro operata dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, basati su un «meccanismo “anonimo” di monetizzazione», si porrebbe, pertanto, in evidente collisione con la promozione del lavoro e la garanzia di stabilità del relativo rapporto imposte dagli artt. 4 e 35 Cost. L’assenza di gradazione della tutela, assicurata mediante automatismi legislativi che privano l’ordinamento di un’effettiva capacità di reazione alle violazioni, e la misura inadeguata dell’indennizzo violerebbero «il principio di uguaglianza che esige […] che la sanzione sia proporzionata al disvalore e alle conseguenze del fatto illecito commesso». La sanzione prevista, «improntata su un sistema di tetti progressivi legati a un fattore neutro, quale l’anzianità lavorativa», da un lato, impedirebbe ogni valutazione e gradazione rispetto all’effettiva lesione causata, al disvalore dell’atto e alle circostanze del caso concreto, dando luogo a un sistema connotato da irragionevolezza intrinseca, dall’altro, renderebbe «pressoché privo di una adeguata causalità il potere di recesso che, non adeguatamente sanzionato, non trova di fatto limiti al suo esercizio». 2.4.– Infine, le disposizioni denunciate violerebbero i «parametri della legge delega rappresentati dal rispetto della regolazione dell’Unione europea e delle convenzioni internazionali nonché degli art. 10 e 117 Cost.». La parte afferma anzitutto che l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge di delegazione n. 183 del 2014, nello stabilire, come parametro per l’esercizio della delega, «per le nuove assunzioni», un modello sanzionatorio «crescente con l’anzianità di servizio» e «certo» nell’ammontare del «plafond», con esclusione, per i licenziamenti economici, della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, fornirebbe al legislatore delegato criteri direttivi in contrasto con i principi di effettività, adeguatezza e dissuasività della misura sanzionatoria stabiliti dalle norme dell’Unione europea e dai trattati internazionali, che pure la stessa legge di delegazione, contraddittoriamente, richiama. Ne consegue che tale legge presenta «in sé» i vizi di costituzionalità evidenziati dal rimettente, perché impone principi e criteri direttivi in contrasto con i parametri dallo stesso invocati. I censurati artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nell’attuare una delega illegittima, in quanto in contrasto con le norme internazionali pur da essa stessa richiamate, si pongono necessariamente in conflitto con tali norme internazionali interposte, che sono tenuti a rispettare. Sulla base di tali considerazioni, la parte afferma di condividere la scelta, operata dal giudice a quo, di censurare sia la legge di delegazione che il decreto delegato. Quanto al merito di tali censure, la parte afferma che i «principi di effettività, deterrenza e adeguatezza della sanzione», violati dalla normativa denunciata, costituiscono i parametri che, a livello sia interno sia internazionale, connotano le norme a tutela del posto di lavoro; principi che risulterebbero dall’art. 24 della Carta sociale europea, le cui previsioni «assumono diretta efficacia nell’ordinamento interno quale norma interposta». Le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali avrebbero individuato, quali requisiti che devono caratterizzare la misura sanzionatoria, quelli di adeguatezza, effettività e dissuasività (nei confronti del datore di lavoro). Il carattere universale del diritto sociale affermato dal Comitato europeo dei diritti sociali sarebbe alla base della valutazione dello stesso che, ai fini della tutela, non rilevano le dimensioni dell’azienda (la parte cita, in proposito, le Conclusioni 2003 del Comitato, riguardanti l’art. 24 della Carta sociale europea in riferimento alla Bulgaria). A maggior ragione, si dovrebbe ritenere che «il “valore” del diritto universale fondamentale non può […] variare, sulla base di tetti prestabiliti, in ragione dell’anzianità lavorativa», dovendo, invece, la tutela assicurata a un tale diritto «garantire un valore in sé che nella sua assolutezza non può essere limitata da aspetti estranei al suo riconoscimento». In tale prospettiva, un sistema caratterizzato da un «plafond» progressivo legato all’anzianità di servizio, come quello imposto dalla legge di delegazione e attuato dal d.lgs. n. 23 del 2015, sarebbe incompatibile con la Carta sociale europea atteso che il Comitato europeo dei diritti sociali avrebbe ritenuto che «ogni risarcimento per licenziamento illegittimo deve essere proporzionale alla perdita subita dal danneggiato e sufficientemente dissuasivo per il datore di lavoro. È vietato qualunque tetto nella misura della compensazione che precluda la valutazione di danni e renda non dissuasiva la sanzione si ponga come ostacolo alla valutazione del danno». È infine citata la decisione del 31 gennaio 2017, emessa sul reclamo collettivo proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia (reclamo n. 106/2014), nella quale il Comitato avrebbe affermato l’incompatibilità con la Carta sociale europea di una normativa che preveda la reintegrazione nel posto di lavoro solo nel caso di licenziamenti discriminatori e che – come quella censurata – introduca un meccanismo sanzionatorio indennitario caratterizzato da un tetto e dall’esclusione dell’azione contrattuale generale civilistica. Secondo la parte costituita, i rapporti del Comitato europeo dei diritti sociali – sia quelli sui rapporti periodici presentati dagli Stati contraenti sull’applicazione della Carta, sia quelli sui reclami collettivi – costituirebbero atti interpretativi del contenuto materiale, vivente e dinamico, della Carta, vincolanti per gli stessi Stati con riguardo all’ampiezza e ai contenuti dei diritti sociali previsti dalla Carta. La parte ricorda ancora che, ai sensi dell’art. 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), i diritti definiti nella Carta sociale europea sono «tenuti presenti» dall’Unione europea e dagli Stati membri nell’ambito della politica sociale dell’Unione. La stessa parte rappresenta poi che il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015, in particolare, quello stabilito dalle disposizioni censurate dal giudice a quo, è stato oggetto di un reclamo collettivo – presentato ai sensi del Protocollo addizionale alla Carta sociale europea che prevede un sistema di reclami collettivi, fatto a Strasburgo il 9 novembre 1995, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 298 – ai fini della verifica della sua compatibilità con la Carta. Il principio di adeguatezza della tutela avverso il licenziamento illegittimo sarebbe poi sancito, nell’ordinamento dell’Unione europea, dall’art. 30 CDFUE. Né si potrebbe negare la sussistenza, nelle disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», atteso che esse costituiscono l’attuazione del modello di flexsecurity promosso dall’Unione europea e oggetto di numerose raccomandazioni e «trovano applicazione anche con riferimento ai licenziamenti economici comprensivi di quelli collettivi, attuativi della direttiva comunitaria 98/59/CE». Infine, anche la Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, come interpretata dal Consiglio di amministrazione dell’Organizzazione, nel privilegiare la reintegrazione nel posto di lavoro, stabilisce il principio di effettività della misura risarcitoria, in quanto idonea a garantire un ristoro effettivo e adeguato del danno subito dal lavoratore in conseguenza della lesione del suo diritto fondamentale. La necessaria adeguatezza della sanzione assumerebbe «diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle more della ratifica [della Convenzione], una legislazione in contrasto con l’obbligazione assunta a livello internazionale». La parte afferma quindi che il «combinato disposto degli art. 3 e 4 [del d.lgs. n. 23 del 2015] letti autonomamente anche in concorso con la legge delega» introduce un sistema di tutela inadeguato, che contrasta con l’obbligo internazionale, sancito dalle tre fonti invocate, di «assicurare la piena tutela satisfattiva di un diritto sociale fondamentale assicurando al contempo una adeguata funzione deterrente». 3.– È intervenuta la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate fondate. 3.1.– La CGIL afferma anzitutto la rilevanza e l’idoneità del petitum delle questioni sollevate. 3.2.– La stessa Confederazione argomenta poi la propria legittimazione a intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale, ancorché non sia stata parte del giudizio a quo. Essa asserisce, in particolare, che l’interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, idoneo a legittimare tale intervento, ben può consistere in un interesse che si distingue da quelli di cui sono titolari le parti del giudizio a quo, per il suo carattere collettivo o comunque sopra individuale, di rilievo pubblicistico e costituzionale; interesse che, come tale, viene a essere direttamente inciso dall’esito del giudizio davanti alla Corte costituzionale. Tanto premesso, la CGIL riporta il contenuto dagli artt. 4 e 13 del proprio statuto, approvato l’8 maggio 2014, nonché la delibera 10, attuativa dello stesso. In aggiunta, l’interveniente sottolinea che una disciplina vincolistica dei licenziamenti e un’efficace sanzione dei recessi illegittimi, oltre a garantire l’effettività dei diritti individuali afferenti al rapporto di lavoro, consente il libero dispiegarsi dell’azione sindacale senza i severi condizionamenti datoriali che sono propri dei rapporti resolubili ad nutum. Il tema posto all’attenzione della Corte costituzionale dall’ordinanza di rimessione presenterebbe dunque un «indissolubile intreccio tra diritti individuali e diritti collettivi». La CGIL rappresenta ancora come lo Stato sociale riconosca ai gruppi non solo la dignità di formazioni sociali, ai sensi dell’art. 2 Cost., ma anche il «diritto alla autotutela come il potere di agire non solo per la promozione degli interessi del gruppo (collettivi) ma, attraverso la contrapposizione e la composizione degli interessi delle collettività professionali, anche per la modificazione dei rapporti di organizzazione economica e sociale interne allo stato-comunità». Ciò costituirebbe una ragione in pi?

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