Riassunto Storia del Lavoro (Bianchi) PDF

Summary

Questo documento fornisce un riassunto della storia del lavoro, concentrandosi sul tradeunionismo, il socialismo riformista e il marxismo-leninista. Analizza le diverse forme di sindacalismo, le loro caratteristiche e la relazione con la politica. Il testo include esempi storici e le dinamiche dei movimenti sindacali a livello globale.

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**Capitolo 3** **3.1 Il tradeunionismo** Il **tradeunionismo** rappresenta la forma più antica e diffusa di sindacalismo, nata in Gran Bretagna durante la prima rivoluzione industriale (1750-1850). Le *Trade Unions* erano organizzazioni di mestiere o settore che, nel nome stesso, indicavano la lor...

**Capitolo 3** **3.1 Il tradeunionismo** Il **tradeunionismo** rappresenta la forma più antica e diffusa di sindacalismo, nata in Gran Bretagna durante la prima rivoluzione industriale (1750-1850). Le *Trade Unions* erano organizzazioni di mestiere o settore che, nel nome stesso, indicavano la loro natura strettamente associativa. Basate sull'autonomia e il pluralismo, il loro obiettivo iniziale era limitato al controllo dei salari e delle condizioni di lavoro, ottenuto attraverso il monopolio dell'offerta di lavoro. Queste organizzazioni, nonostante fossero pragmatiche e poco politicizzate, operarono inizialmente in clandestinità. Con il tempo, furono gradualmente legalizzate: l'abrogazione dei *Combination Acts* nel 1824 garantì la libertà di organizzazione, mentre la libertà di sciopero fu ottenuta nei primi decenni del Novecento. Oltre a negoziare direttamente con i datori di lavoro, le *Unions* cominciarono a influenzare la politica. Dopo il suffragio universale del 1867, indirizzavano i voti dei propri iscritti verso candidati dei partiti tradizionali favorevoli ai lavoratori. In seguito, alcuni dirigenti sindacali furono eletti in Parlamento, formando un piccolo gruppo parlamentare. Questo percorso culminò nel 1906 con la fondazione del *Labour Party*, un partito del lavoro sostenuto finanziariamente dalle *Unions*, seppur nel rispetto di un accordo di reciproca autonomia che, nel tempo, generò anche tensioni. Le *Unions* non si limitarono al solo ambito lavorativo: si intrecciarono profondamente con il tessuto sociale britannico. Attraverso cooperative di consumo, mutuo soccorso, istituzioni di welfare (sanatori, case di riposo, ecc.), e iniziative culturali e sportive (tra cui la fondazione del Manchester United), le *Trade Unions* costruirono un solido radicamento nella società. Un esempio significativo di questa integrazione è la creazione del *Ruskin College* nel 1899, una scuola di formazione sindacale all'interno dell'Università di Oxford che formò leader politici e sindacali, inclusi due futuri primi ministri. In sintesi, il tradeunionismo si affermò come movimento sindacale autonomo e pluralista, capace di adattarsi ai cambiamenti e di influenzare profondamente la politica, la società e la cultura del suo tempo. **3.2 Il sindacalismo socialista-riformista** Il **sindacalismo socialista democratico**, nato nel XIX secolo nell'ambito del socialismo, si è sviluppato come un movimento che mirava a superare l'economia capitalista e i sistemi politici liberali attraverso riforme graduali e democratiche, rifiutando la violenza e rispettando i principi di libertà. Questo approccio riformista si basava sull'obiettivo di costruire una società incentrata sul lavoro, conciliando il miglioramento delle condizioni dei lavoratori con una partecipazione attiva al sistema economico e politico. Il movimento ha sempre rivendicato una doppia identità: da un lato, un forte radicamento tra i militanti e gli iscritti, protagonisti della vita sindacale, e dall'altro una rappresentanza di classe che promuoveva una nuova coscienza operaia e la formazione di una dirigenza del lavoro. I sindacati socialisti democratici hanno preferito strumenti pacifici come contratti collettivi, scioperi e accordi, puntando anche a coinvolgere i lavoratori nella gestione delle imprese per migliorarne produttività e competitività, come avvenuto in Germania dopo il 1945 con la co-gestione; fin dalle origini, il sindacalismo riformista ha attribuito grande importanza alla dimensione politica della sua azione, intervenendo direttamente come lobby per ottenere riforme a favore dei lavoratori o collaborando con partiti e movimenti politici affini, senza mai rinunciare alla propria autonomia. Tuttavia, questo rapporto ha alternato fasi di alleanza a momenti di conflitto. Parallelamente all'azione sindacale, il movimento ha promosso una rete di istituzioni mutualistiche e cooperative, sostenendo i lavoratori anche al di fuori del contesto professionale. Questo modello si è diffuso su scala globale e, ancora oggi, rimane ben radicato in molte regioni, come l'Europa, l'America Latina, il Giappone e la Corea del Sud. Nonostante le sfide poste dalla globalizzazione, il sindacalismo socialista democratico continua a rappresentare una forza significativa, capace di adattarsi e rispondere alle esigenze dei lavoratori. **3.3 Il sindacalismo marxista-leninista** Il **sindacalismo marxista-leninista** si distingue per il suo stretto legame con la politica, subordinandosi alla strategia del partito comunista. Questa subordinazione riflette la convinzione che la lotta sindacale e quella politica siano inseparabili, poiché solo un cambiamento politico radicale può risolvere in modo definitivo i problemi del lavoro. Il sindacato non possiede una propria autonomia ideologica, ma funge da strumento per mobilitare le masse e accrescere la coscienza di classe dei lavoratori, sacrificando, se necessario, l\'indipendenza sindacale. Nei regimi a **socialismo reale**, il sindacato evolve da organo di mobilitazione a istituzione statale. Diventa parte integrante dello Stato socialista, con compiti come la gestione del welfare, il dopolavoro, l'organizzazione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro, e la collaborazione con le imprese per migliorare l'efficienza produttiva. In questo contesto, il sindacato opera in regime di monopolio, condizione considerata indispensabile per il mantenimento del sistema. Tuttavia, l\'emergere del sindacato libero **Solidarnosc** in Polonia negli anni \'80 ha messo in crisi questo modello. Nato nelle fabbriche durante grandi scioperi, Solidarnosc ottenne inizialmente il riconoscimento come sindacato indipendente, ma il regime reagì con repressione nel 1981. La lotta di Solidarnosc contribuì al crollo del socialismo reale nell\'Europa orientale e, infine, alla dissoluzione dell\'URSS nel 1991. Oggi, il sindacalismo marxista-leninista sopravvive come istituzione in paesi socialisti come Cina, Vietnam e Cuba e come movimento in diverse economie di mercato, specialmente in Asia, Africa e America Latina. Organizzazioni come la **Federazione Sindacale Mondiale**, erede dei sindacati filosovietici, continuano a rappresentare milioni di lavoratori a livello globale. In Europa occidentale, sindacati come la **CGT** in Francia, la **CGIL** in Italia e le **Comisiones Obreras** in Spagna, pur operando in contesti democratici e di libero mercato, hanno mantenuto un legame con la tradizione marxista-leninista. Dopo il crollo del socialismo reale, questi sindacati hanno intrapreso percorsi di rinnovamento, adattandosi alle nuove realtà sociali ed economiche, senza tuttavia rinnegare le proprie radici ideologiche. In sintesi, il sindacalismo marxista-leninista rappresenta un modello storicamente e politicamente influenzato, che ha attraversato profonde trasformazioni pur mantenendo, in molte sue espressioni, il riferimento alla lotta di classe e alla centralità del partito comunista. **3.4 Il sindacalismo rivoluzionario** Noto anche come anarcosindacalismo, è una corrente sindacale nata alla fine dell'Ottocento, il cui principale teorico è stato Georges Sorel. Questo modello di sindacalismo si distingue per il rifiuto sia del riformismo dei sindacati laburisti, considerato troppo utopistico, sia del marxismo, accusato di essere eccessivamente astratto. Alla base della sua ideologia vi è la convinzione che i sindacati debbano essere strumenti di lotta rivoluzionaria per il rovesciamento della società borghese e capitalista. L'obiettivo ultimo è la creazione di una nuova società dei lavoratori, organizzata in maniera autonoma e collettiva, senza intermediari politici o statali. Il fulcro dell'azione sindacale è lo sciopero generale, concepito come l'arma definitiva per distruggere l'ordine capitalista e avviare una trasformazione radicale. La lotta, tuttavia, non è vista solo come mezzo per ottenere risultati, ma come un valore intrinseco, capace di preparare i lavoratori al cambiamento finale. I sindacati rivoluzionari rivendicano una totale indipendenza dai partiti politici e rigettano qualsiasi forma di subordinazione politica, ponendo al centro il principio dell'autonomia operaia. Questa autonomia si accompagna a una visione inclusiva, in cui tutti i lavoratori, indipendentemente da professione, lingua o provenienza, possono aderire al movimento. I sindacati sono inoltre concepiti come comunità educative, mirate a formare i lavoratori non solo per la lotta, ma anche per la gestione della futura società post-capitalista. Sebbene il loro obiettivo finale sia utopico, i sindacati rivoluzionari hanno spesso adottato un approccio pragmatico nelle vertenze, negoziando con governi e imprenditori per migliorare le condizioni lavorative. Diffusosi dalla Francia di fine Ottocento in vari paesi, il sindacalismo rivoluzionario ha avuto particolare successo in contesti come gli Stati Uniti, dove si sono sviluppati i radicali Industrial Workers of the World (IWW), e in America Latina, specialmente in Argentina e Messico, dove ha influenzato profondamente il movimento operaio. Anche in Italia sono emerse esperienze settoriali o locali che si ispirano a questa tradizione. Il movimento, tuttavia, ha conosciuto un rapido declino tra le due guerre mondiali, pur sopravvivendo in forme minoritarie. Un'evoluzione particolare è stata quella di alcuni sindacati rivoluzionari che, in contesti di crisi, hanno sostenuto regimi nazionalisti o corporativi, come il sindacalismo fascista italiano, il peronismo argentino o il CROM messicano, quest'ultimo subordinato al partito-stato PRI. Nonostante il ridimensionamento, il sindacalismo rivoluzionario ha lasciato un'eredità che si riflette ancora oggi in movimenti locali e in correnti sindacali che promuovono autonomia, azione diretta e indipendenza politica. Questa tradizione continua a rappresentare un punto di riferimento per chi aspira a un cambiamento radicale della società in favore dei lavoratori. **3.5 Il sindacalismo cristiano** **Il sindacalismo confessionale,** o cristiano-personalista, trova le sue fondamenta nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, in particolare nell'Enciclica *Rerum Novarum* di Leone XIII del 1891, che ne ha rappresentato un impulso decisivo. Nato nell'ambito del movimento sociale cattolico, in forte espansione nel XIX secolo, si è sviluppato parallelamente a esperienze analoghe in ambito protestante, come quella della CNV riformata nei Paesi Bassi. La sua diffusione è stata rapida, dalla Francia alla Germania, dall'Italia all'Europa centrale, estendendosi oltreoceano al Canada francese, al Sud America e più recentemente in Asia e Africa, specialmente nelle ex colonie francesi. Questi sindacati, di natura associativa, si fondano sull'idea che l'associazione dei lavoratori sia un diritto naturale e inalienabile, indipendente dall'intervento statale. Lo Stato, al contrario, ha il compito di riconoscerla e valorizzarla senza interferire, in una visione organica della società. Il ruolo educativo dei sindacati è centrale, mirato a formare una nuova classe dirigente del lavoro e a innalzare le condizioni dei lavoratori. L'obiettivo ultimo non è la trasformazione violenta della società, ma una graduale riforma ispirata ai principi del solidarismo cristiano, con la costruzione di una società in cui tutte le componenti, dalle imprese alle comunità locali, siano valorizzate e armonizzate. Questa visione si basa su una prospettiva personalista e comunitaria, distinta tanto dal liberalismo individualista quanto dal collettivismo socialista. A livello internazionale, il movimento trovò un momento di consolidamento con la creazione, nel 1919, della Confederazione Internazionale dei Sindacati Cristiani (CISC), poi ridenominata Confederazione Mondiale del Lavoro (CMT) nel 1968. Durante gli anni Trenta, in un periodo segnato dall'avanzata dei totalitarismi, il sindacalismo cristiano tracciò una netta linea di demarcazione rispetto al corporativismo promosso dal cattolicesimo conservatore, riaffermando la propria indipendenza dai governi e mantenendo una relazione autonoma con i partiti popolari e democristiani. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il movimento si diffuse ulteriormente, con nuove esperienze nei paesi extraeuropei, soprattutto in Asia e America Latina, spesso guidate da attivisti formati in organizzazioni confessionali come la Gioventù Operaia Cattolica (JOC). Negli anni Sessanta, molti sindacati cristiani iniziarono un processo di \"de-confessionalizzazione\", rinunciando ai riferimenti espliciti al Cristianesimo nei loro statuti. Questo portò in alcuni casi a spaccature, come in Francia, dove la storica CFTC si divise tra la maggioritaria CFDT, orientata verso il socialismo autogestionario, e la CFTC *maintenue*, rimasta fedele alla tradizione cristiana. Sebbene questo processo sia stato talvolta controverso, il sindacalismo cristiano continua a rappresentare una realtà significativa, sebbene spesso minoritaria, in molti contesti nazionali e internazionali. **Capitolo 5** **5.1** **Il rapporto tra tradeunionismo e politica** Il rapporto tra il tradeunionismo e la politica ha visto un'evoluzione significativa nel tempo, caratterizzata da fasi di separazione e successiva interazione tra i sindacati e i partiti politici. Nel XIX secolo, le Trade Unions iniziarono il loro percorso chiedendo il riconoscimento della libertà di associazione e della contrattazione collettiva. Con il tempo, e grazie all'abolizione delle leggi restrittive dei Combination Acts e all'organizzazione crescente delle Unions, queste cominciarono a esercitare una pressione politica crescente sui governi, un processo che culminò nel 1906 con la fondazione del Labour Party, un partito strettamente legato ai sindacati, che da quel momento divenne il loro strumento politico. Nonostante la forte connessione tra il Labour Party e i sindacati, in seguito si verificarono tensioni, soprattutto durante la leadership di Margaret Thatcher, che adottò politiche neoliberiste apertamente ostili ai sindacati, e più tardi con Tony Blair, che, con il progetto del \"New Labour\", cercò di distaccarsi dalla tradizionale alleanza con il TUC (Trades Union Congress), suscitando divisioni all'interno del movimento sindacale. Nel contesto degli Stati Uniti, la tradizione sindacale è stata storicamente distante dalla politica partitica. Le prime Unions si concentravano principalmente sul miglioramento delle condizioni di lavoro e sull'educazione democratica dei lavoratori, cercando di orientare la legislazione attraverso azioni di lobbying piuttosto che di intervento diretto. Tuttavia, con la grande crisi del 1929 e l'adozione del New Deal da parte di Roosevelt, i sindacati americani iniziarono a coinvolgersi più direttamente nelle questioni politiche, sostenendo il programma pro-lavoratori del governo e ottenendo importanti conquiste legislative, come il Wagner Act. Nonostante il loro iniziale successo, il movimento sindacale americano cominciò a declinare a partire dagli anni '60, soprattutto a causa di una crescente disconnessione tra i sindacati e la base lavorativa, che in parte li percepiva come troppo lontani dalle reali esigenze dei lavoratori. Negli anni '80 e '90, sotto le presidenze di Reagan e Bush, i sindacati americani subirono un attacco diretto volto a ridurre la loro influenza politica. A fronte di queste difficoltà, emersero nuovi movimenti sindacali, come il CTW (Change to Win), che cercarono di rinnovare il sindacalismo con strategie più orientate alla mobilitazione diretta dei lavoratori sul posto di lavoro. In generale, sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti, il tradeunionismo ha attraversato periodi di grande influenza politica, ma anche momenti di crisi e di separazione dai partiti politici tradizionali. Il legame tra sindacati e politica ha dimostrato una notevole flessibilità, adattandosi alle condizioni economiche e politiche di ogni epoca, e continua a essere un tema di dibattito e trasformazione nei rispettivi contesti**.** **5.2 I sindacati di ispirazione riformista o socialdemocratica** Questi sindacati pur essendo presenti in diverse aree del mondo, sono particolarmente influenti in Europa centrale e settentrionale, dove hanno storicamente mantenuto un legame stretto con i partiti socialdemocratici. Questo legame ha definito i sindacati nel corso del Novecento, in un contesto in cui la prospettiva di un cambiamento radicale della società, verso un modello orientato al \"Lavoro\", è andata attenuandosi, ma non è mai stata completamente abbandonata. Negli ultimi decenni, tuttavia, i rapporti tra i sindacati e i partiti socialdemocratici hanno attraversato periodi di crisi, dovuti principalmente all'attacco delle politiche conservatrici e neoliberiste. A partire dagli anni \'80, molti partiti socialdemocratici hanno messo in discussione le politiche tradizionali, accogliendo in parte le riforme liberali e liberiste, specialmente riguardo al welfare e al ruolo dello Stato nell'economia. Questo ha portato a una crescente autonomia dei sindacati, che, pur rimanendo la principale forza nel movimento operaio, hanno visto una diminuzione degli iscritti e hanno cercato di affermare la propria indipendenza nelle scelte politiche ed economiche, pur continuando a mantenere un legame fondamentale con i partiti di riferimento. Nonostante questi conflitti e le divergenze ideologiche, il legame tra sindacati e partiti socialdemocratici non è mai stato veramente messo in discussione. Sebbene vi siano stati contrasti su temi identitari e ideologici, questo rapporto continua a essere un aspetto centrale del panorama politico ed economico, mostrando come i sindacati, pur adattandosi ai cambiamenti storici e sociali, abbiano mantenuto la loro rilevanza e centralità. **5.3 I sindacati comunisti** L'evoluzione dei sindacati comunisti è stata fortemente influenzata dal loro stretto legame con il partito politico e il governo. Nei paesi del **socialismo reale**, i sindacati operavano come istituzioni statali, senza alcuna autonomia rispetto al partito che guidava la classe operaia al potere. In questo contesto, i sindacati non svolgevano una tradizionale azione di contrattazione e vertenza, ma erano coinvolti direttamente nelle politiche economiche, sociali ed educative dello stato socialista, con i leader sindacali partecipanti a pieno titolo agli organismi governativi che dirigevano l'economia, come nel caso del ministero dell'Economia di piano in URSS. Con la caduta dei regimi socialisti nell'Europa dell\'Est, i sindacati legati a questi sistemi si estinsero, sostituiti da sindacati liberi e democratici, ma con un numero ridotto di aderenti e con una minore influenza politica. Questo processo di declino si verificò in molti paesi dell'ex blocco sovietico, soprattutto nei primi anni successivi al 1989, durante la transizione verso l\'economia di mercato e la democrazia politica. Tuttavia, negli ultimi anni si sono osservati segnali di ripresa di alcuni sindacati che un tempo erano legati ai regimi comunisti. L'evoluzione delle imprese post-socialiste in alcuni paesi dell'Est Europa ha creato nuovi spazi per il ritorno di sindacati ex comunisti, che hanno cercato di riacquisire una parte delle adesioni perse. Un esempio significativo è quello della **Polonia**, dove il sindacato OPZZ, una volta comunista, ha cercato di adattarsi alle pratiche dei sindacati socialdemocratici occidentali, riuscendo a recuperare una parte degli iscritti. Inoltre, la crescente necessità di ridurre il gap sociale tra i paesi dell'Est e quelli dell'Ovest, in particolare grazie alle politiche comunitarie dell\'Unione Europea, ha dato nuova linfa al movimento sindacale, portando a una sorta di "risveglio" sindacale in alcune aree. Sebbene le difficoltà strutturali restino, i sindacati ex comunisti sembrano trovare nuovi spazi per adattarsi ai cambiamenti politici ed economici, cercando di riaffermarsi nel nuovo panorama post-socialista. **5.4 Il sindacalismo rivoluzionario** Il sindacalismo rivoluzionario ha sempre avuto un rapporto distintivo con la politica, caratterizzato dal rifiuto dell\'ordine politico esistente e dall\'aspirazione a sostituirlo con una gestione diretta da parte del sindacato. Il suo obiettivo finale era la creazione di uno \"Stato sindacalista\", in cui il sindacato avrebbe assunto le funzioni politiche, economiche e sociali tradizionalmente svolte dallo Stato. Sebbene questa visione fosse quasi scomparsa negli anni \'50 e \'60, ha ritrovato nuova vitalità durante il periodo di grandi lotte internazionali tra il 1968 e il 1973, quando il sindacalismo rivoluzionario ha visto una rinascita in diverse parti del mondo. Negli anni \'70 e \'80, queste idee sono sopravvissute sotto forme di **pan-sindacalismo** o **antagonismo**, specialmente in paesi come l\'Italia, dove gruppi di lavoratori e sindacati più radicali hanno continuato a opporsi alle tradizionali organizzazioni sindacali. Nonostante la marginalizzazione del sindacalismo rivoluzionario, piccoli gruppi di lavoratori continuano a rivendicare con orgoglio queste pratiche, contestando apertamente i sindacati più tradizionali. Negli ultimi anni, si è osservata una crescente polarizzazione politica tra alcuni settori del mondo del lavoro, con gruppi che si orientano verso posizioni estreme. Da un lato, alcuni lavoratori sostengono gruppi anarchici e rivoluzionari, mentre dall\'altro lato, c\'è un crescente appoggio per partiti di estrema destra populista. Questo fenomeno di radicalizzazione politica tra la classe lavoratrice, anche in paesi con democrazie consolidate, segnala una frammentazione del panorama politico e sindacale, che riflette un\'esperienza complessa e in evoluzione delle relazioni tra lavoro e politica. **5.5 Il sindacalismo corporativo-nazionalista** Ha avuto una grande diffusione negli anni '20 e '30 del Novecento, specialmente sotto regimi autoritari come il fascismo in Italia, il franchismo in Spagna e il salazarismo in Portogallo. In questi paesi, il sindacato non aveva autonomia, ma operava come **un'organizzazione pubblica e obbligatoria**, funzionale al regime e strettamente legata allo Stato. Questo tipo di sindacato rappresentava specifici interessi settoriali e professionali, ma la sua principale funzione era quella di **strumento di controllo sociale e politico**, utilizzato per mantenere l'ordine e promuovere la crescita economica, sempre sotto il **\"superiore interesse nazionale\"**. I dirigenti sindacali non venivano eletti, ma nominati direttamente dal partito al potere, come accadeva nel caso del partito fascista in Italia. Il sindacato corporativo svolgeva anche funzioni vitali per il benessere dei lavoratori, come il collocamento, la gestione del dopolavoro, l'assegnazione delle case popolari e la gestione di altri servizi sociali. Inoltre, il sindacato gestiva la contrattazione collettiva su vari livelli, come quello **nazionale**, **interconfederale** e **provinciale**, stipulando contratti con le controparti padronali fasciste che avevano forza di legge. Gli scioperi erano proibiti, ma in caso di conflitti il regime aveva istituito una magistratura del lavoro che decideva sulle controversie. In Spagna, il **sindacato unico** sotto Franco, l\'**OSE (Organización Sindical Española)**, noto anche come \"Sindicato Vertical\", funzionava in modo simile, e dopo la fine del regime nel 1977, alcuni dei suoi ex dirigenti si unirono alle **Comisiones Obreras (CCOO)**, un sindacato che oggi è di orientamento comunista. Anche in Portogallo, durante il regime di Salazar, il sindacato unico aveva un ruolo simile, operando sotto il controllo diretto dello Stato fino alla rivoluzione dei garofani del 1974. Esperienze analoghe si sono verificate anche in vari paesi latino-americani governati da regimi autoritari e nazionalisti, come in **Argentina**, dove i sindacati sono strettamente legati al partito **peronista**, e in **Messico**, dove il sindacato principale ha mantenuto un forte legame con il partito al potere, il **PRI**. In sintesi, il sindacalismo corporativo-nazionalista rappresenta un fenomeno in cui il sindacato è completamente subordinato allo Stato e al partito al potere, utilizzato non solo come strumento per gestire i lavoratori, ma anche per consolidare il potere politico e sociale del regime. La sua funzione era quella di mantenere l'ordine, favorire la crescita economica e assicurare il controllo sociale, con il sindacato che diventava parte integrante dell'apparato statale. **5.6 I sindacalismi cristiani** Il rapporto tra i sindacati cristiani e i partiti politici di ispirazione cristiana è stato sempre caratterizzato da una cooperazione che, pur essendo stretta, ha mantenuto una **netta separazione** tra i due. Nei paesi con una forte tradizione del movimento sociale cattolico, come la Germania, la Francia, l'Italia, il Belgio, i Paesi Bassi e la Svizzera, i sindacati cristiani e i partiti cristiani si sono alleati, ma hanno sempre operato su un piano di parità. Questo significa che, pur condividendo numerosi leader e militanti, come nel caso della **CFTC** in Francia, il legame non ha mai comportato una subordinazione tra le due realtà. La cooperazione tra sindacato e partito ha avuto un forte impatto sulle riforme sociali e del lavoro, con i sindacalisti cristiani giocando un ruolo centrale nelle trasformazioni sociali della Francia del dopoguerra. Nonostante questa collaborazione, la **sottolineatura dell'autonomia** del sindacato è sempre stata una caratteristica fondamentale, tanto che gli **statuti sindacali cristiani**, sia cattolici che protestanti, includevano principi di indipendenza dalle forze politiche. Tuttavia, tra gli anni \'50 e \'60, è emerso un **dibattito interno** nei sindacati cristiani riguardo la necessità di introdurre il principio di incompatibilità tra **cariche sindacali** e **cariche politiche**. Questo dibattito in Francia ha influenzato anche i sindacati italiani, portando nel 1969 a un cambiamento nelle **linee guida delle ACLI**, con l'abbandono della tradizione dei deputati-sindacalisti. Nonostante ciò, il dibattito su questo cambiamento è ancora oggi oggetto di discussione, con posizioni divergenti riguardo al suo impatto e successo. Nel frattempo, molti sindacati cristiani hanno intrapreso un processo di **de-confessionalizzazione**, che ha comportato il cambiamento delle loro sigle e dei loro statuti, allontanandosi dall'identità confessionale e cercando di adeguarsi alle nuove dinamiche politiche e sociali. Questo fenomeno ha segnato una trasformazione nelle pratiche sindacali cristiane, pur mantenendo viva l'influenza dei valori cristiani nel loro approccio al lavoro e alla giustizia sociale. **5.7 Nuovi impegni e nuovi compiti** Il rapporto tra sindacati e politica, negli ultimi decenni, ha superato la semplice relazione con i partiti e i governi, ampliandosi a nuovi ruoli di impegno politico che non sono legati a una specifica appartenenza partitica. I sindacati, infatti, sono sempre più coinvolti nelle politiche di welfare, nella gestione del mercato del lavoro e nelle politiche di sviluppo economico, partecipando attivamente a queste aree non solo per tutelare gli interessi dei lavoratori, ma anche delle loro famiglie e delle comunità locali. Questo ruolo politico si concretizza attraverso la progettazione e l'implementazione di politiche di sviluppo, la formazione professionale, la gestione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro e la partecipazione alle politiche di assistenza e welfare. Un esempio importante di questa evoluzione è rappresentato dai **programmi europei di sviluppo locale**, dove i sindacati sono chiamati a svolgere non solo un ruolo tradizionale di difesa dei diritti contrattuali, ma anche a essere attori principali, e talvolta promotori, delle politiche di sviluppo a livello locale. Si tratta di un sindacalismo che si radica nel territorio, impegnandosi in prima persona nella costruzione di politiche locali, in un dialogo sociale che può essere formale o informale. Questo fenomeno è in espansione in molte democrazie di mercato e coinvolge non solo i sindacati dei lavoratori, ma anche le associazioni imprenditoriali e altri soggetti, rispecchiando la crescente complessità delle società moderne e l'organizzazione sempre più pluralistica degli Stati democratici. Gli Stati democratici, infatti, devono confrontarsi con i \"corpi intermedi\", ovvero con gli interessi organizzati presenti nella società, in modo da poter gestire adeguatamente i temi sociali ed economici. I sindacati, in questo contesto, sono diventati partecipanti attivi di consultazioni informali e di lobby, che a volte si formalizzano in istituzioni. Un esempio di questa formalizzazione è il **Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE)**, che dal 1950 fornisce pareri obbligatori ma non vincolanti sulle decisioni politiche della Comunità Europea. Un organo simile è il **CNEL** (Consiglio Nazionale dell\'Economia e del Lavoro) in Italia, che svolge funzioni simili, ma con modalità specifiche. Nonostante le critiche e i dubbi sull'efficacia di questi organi, l\'influenza dei sindacati nelle politiche sociali ed economiche rimane significativa, attraverso il loro coinvolgimento diretto nelle decisioni che riguardano i lavoratori e le loro condizioni di vita. Questo cambiamento riflette un'evoluzione del ruolo dei sindacati, che da un tradizionale interlocutore dei governi si sta trasformando in un soggetto politico attivo e decisivo, capace di partecipare alla costruzione di politiche pubbliche in un contesto sociale e economico sempre più complesso. **Capitolo 6** **6.1 Le obiezioni storiche** Nel XIX secolo, il sindacato era percepito come un\'entità priva di razionalità economica e le sue rivendicazioni venivano considerate illogiche e pericolose per la stabilità del sistema. Tre teorie principali sostenevano questa visione negativa. La prima era la \"teoria del fondo stipendio\", secondo cui l\'aumento salariale ottenuto da alcuni lavoratori avrebbe inevitabilmente ridotto le opportunità di guadagno per altri, generando una competizione interna tra i lavoratori stessi. La seconda era la \"teoria della formazione di capitali e degli investimenti\", che sosteneva che gli aumenti salariali riducevano i profitti delle imprese, incoraggiando gli investimenti e provocando crisi settoriali o generali. La terza teoria, di matrice malthusiana, riteneva che salari elevati avrebbero stimolato un aumento della popolazione operaia, portando nel tempo a un eccesso di offerta di lavoro. Queste idee, molto diffuse tra le classi medie e gli imprenditori, contribuirono a creare un clima antisindacale, rendendo accettabile e \"razionale\" il rifiuto degli aumenti salariali e delle riforme sociali, poiché si temeva che tali provvedimenti avrebbero compromesso la crescita economica e la stabilità del sistema. Questa visione portò a una netta ostilità nei confronti di qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di lavoro, non solo in singoli settori ma anche a livello generale, per il timore di bloccare gli investimenti e generare squilibri economici pericolosi. Con il passare del tempo, tuttavia, queste teorie persero forza sia sul piano teorico che pratico. Da un punto di vista teorico, si riconobbe che il cosiddetto \"monopolio sindacale\" sull\'offerta di lavoro non era così dannoso come si temeva, poiché gli aumenti salariali risultavano legati ai rendimenti marginali delle imprese. Inoltre, la contrattazione collettiva venne vista sotto una nuova luce, in quanto garantisce maggiore stabilità e certezza per le imprese rispetto ai meccanismi spontanei del mercato. Sul piano pratico, il sindacalismo si affermò come una realtà consolidata in molti paesi, nonostante l\'opposizione dei governi e l\'intervento dei tribunali. I leader sindacali, spesso accusati di radicalismo, si dimostrano interlocutori affidabili e capaci di negoziare soluzioni equilibrate con le controparti datoriali, favorendo una regolazione più stabile del mercato del lavoro. All\'inizio del XX secolo, la situazione cambiò ulteriormente con l\'emergere di due attori centrali nelle relazioni industriali: i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro. Nonostante i frequenti contrasti tra le due parti, entrambi si sono dimostrati in grado di produrre accordi di varia forma e durata, dando origine alla moderna contrattazione collettiva. Tuttavia, questa evoluzione sollevò nuove preoccupazioni in ambito economico. Alcuni studiosi hanno paventato la nascita di un \"monopolio bilaterale\", ovvero una situazione in cui sia i sindacati che le imprese avrebbero potuto distorcere i salari e le condizioni del mercato del lavoro, con il rischio di generare aumento e di allocare in modo inefficiente la forza lavoro. A tali preoccupazioni replicarono altri economisti, i quali sostenevano che il rischio di un monopolio bilaterale era più teorico che reale. Essi evidenziarono come le dinamiche di negoziazione fossero condizionate da comportamenti pragmatici e realistici sia da parte dei sindacalisti che dei manager. Tra gli effetti positivi della presenza sindacale, vennero riconosciuti la spinta all\'innovazione tecnologica e organizzativa delle imprese, la possibilità di costruire un rapporto virtuoso tra l\'aumento dei salari e la crescita della produttività e il ruolo delle politiche monetarie statali, che contribuivano a autonomia a stimolare lo sviluppo economico. I negoziatori, sia sindacalisti che dirigenti aziendali, si dimostrano abili nel trovare soluzioni per accrescere la competitività e l\'efficienza delle imprese. Un\'altra critica trasversale, presente in ogni epoca e tipologia di management, riguardava il presunto indebolimento del potere imprenditoriale. La presenza dei sindacati in azienda veniva percepita come una minaccia alla tradizionale \"autocrazia\" dell\'imprenditore, il quale, fino a quel momento, aveva il controllo esclusivo su temi cruciali come la determinazione dei salari, degli orari di lavoro e delle condizioni lavorative. Tuttavia, con la diffusione della contrattazione collettiva, queste prerogative imprenditoriali vennero gradualmente ridimensionate. A questa trasformazione si aggiunge il tema della "partecipazione" dei lavoratori, che divenne una realtà in molte imprese. Con il tempo, in diversi contesti nazionali e settoriali, si avviò un processo che portò i lavoratori ei loro rappresentanti sindacali a partecipare su questioni rilevanti della gestione economica dell\'impresa. **6.2 Sindacalismo ed economia mista** La crisi del 1929 e la Seconda guerra mondiale portarono a una profonda revisione del rapporto tra economia, società e politica. L\'idea di un capitalismo fondato sulla "mano invisibile" venne abbandonata a favore di un modello di \"economia mista\", in cui coesistevano il libero scambio e l\'intervento statale. Organizzazioni internazionali come il FMI, la Banca Mondiale e il GATT (oggi WTO) si pongono l\'obiettivo di garantire la stabilità monetaria e la libera circolazione di merci, persone e capitali, mentre i governi assumono un ruolo attivo nel promuovere uno sviluppo economico e sociale equilibrato. In questo contesto, anche i sindacati cambiarono funzione, passando dall\'essere semplici soggetti rivendicativi a diventare attori centrali nelle politiche economiche. Attraverso la cooperazione con governi e imprese, i sindacati contribuiranno alla realizzazione del Piano Marshall e si impegnarono a promuovere la crescita economica e la competitività delle imprese. Questo cambiamento portò alla nascita di un nuovo approccio, noto come "new unionism", con cui i sindacati abbandonarono la tradizionale logica puramente rivendicativa per contribuire alla creazione di valore economico. Non si limitarono a chiedere aumento salariali, ma parteciparono alla definizione di obiettivi di produttività, efficienza e competitività, con l\'obiettivo di migliorare il tenore di vita dei lavoratori e rafforzare l\'economia nazionale. La contrattazione collettiva si ampliò, includendo temi come la distribuzione della produttività e la crescita del reddito. In questo processo, il conflitto industriale venne gradualmente regolato in modo pattizio, riducendo il ricorso agli scioperi. La partecipazione dei lavoratori alla vita economica divenne una pratica sempre più diffusa. Iniziative come la cogestione tedesca, i comitati di settore britannici e gli accordi quadro nei paesi nordici offrirono ai lavoratori la possibilità di influenzare le decisioni strategiche delle imprese. Durante il "glorioso trentennio" (1945-1974), questa partecipazione sembrò garantire un ruolo stabile e riconosciuto al sindacato, considerato ormai un attore essenziale per l\'integrazione del lavoro e la crescita complessiva dell\'economia e della società. Questa fase positiva subì un arresto negli anni \'70, a causa delle crisi petrolifere e del successivo consolidarsi delle politiche neoliberiste. Le imprese ei governi cominciarono a ridimensionare il ruolo del sindacato, cercando di ridurre la regolamentazione del mercato del lavoro e il potere contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori. Nonostante le difficoltà, l\'idea della partecipazione sindacale alla vita economica rimase viva e continuò ad essere promossa in vari contesti, anche se con modalità e intensità differenti. Il ruolo dei sindacati comunisti seguì una traiettoria diversa. Nei paesi democratici a economia di mercato, questi sindacati si inserirono nel sistema delle relazioni industriali come strumenti di mobilitazione e lotta sociale, ma si oppongono alle esperienze di cogestione e agli accordi legati alla produttività, in contrapposizione ai sindacati riformisti e cristiani. Nei paesi a economia pianificata, come quelli del blocco sovietico, i sindacati erano strumenti di cooperazione con il potere statale e le imprese pubbliche, con un ruolo essenzialmente funzionale al controllo sociale. La contrattazione collettiva libera e lo sciopero erano assenti, poiché il sistema si basava su obiettivi di pianificazione centrale. Dopo il 1989, con la caduta del comunismo in Europa dell\'Est, questo modello entrò in crisi, ma continuò a persistere in paesi a economia di Stato come Cina, Vietnam e Cuba. Negli anni \'90, le multinazionali iniziarono a stabilire impianti produttivi in ​​questi paesi, attratti dai bassi salari e dall\'assenza di conflitto industriale. I sindacati locali, spesso sotto il controllo governativo, garantiscono l\'ordine nelle fabbriche, generando una situazione contraddittoria e paradossale. Mentre le multinazionali sfruttavano la manodopera a basso costo, i sindacati globali denunciano questo sistema come una forma di \"sfruttamento improprio del lavoro\". Le condizioni di lavoro in paesi come Cina e Vietnam suscitarono proteste e scioperi, nonostante le forti repressioni da parte delle autorità. **6.3 Il sindacato dei nuovi scenari economici** Negli anni \'70, la lunga fase di crescita economica seguita alla Seconda guerra mondiale si concluse a causa di una serie di eventi di portata globale. La fine della convertibilità fissa del dollaro nel 1971 e le crisi petrolifere del 1973 e del 1979 causarono un forte aumento dell\'inflazione e una grave instabilità monetaria, interrompendo il periodo noto come i \"gloriosi trent\'anni\". Questa crisi mise in discussione il modello di economia mista che aveva caratterizzato il dopoguerra, ridimensionando il ruolo dello Stato nell\'economia e aprendo la strada verso un nuovo approccio economico incentrato sulla lotta all\'inflazione, la riduzione delle tasse e la flessibilità del mercato del lavoro. In questo contesto, il ruolo dei sindacati è stato fortemente criticato. Governi come quelli di Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Stati Uniti portarono avanti politiche antisindacali, limitando il diritto di sciopero e promuovendo la deregolamentazione del mercato del lavoro. I sindacati vennero accusati di comportamenti monopolistici e di ostacolare la competitività dei mercati. Negli anni \'80 e \'90, l\'organizzazione del lavoro subì un\'importante trasformazione. L\'abbandono del modello tayloristico e l\'introduzione di nuove tecnologie e metodi di produzione portarono a una maggiore autonomia e flessibilità per i lavoratori, accompagnata dall\'affermazione del modello di \"Industria 4.0\". Le imprese hanno adottato un sistema di \"gestione delle risorse umane\", instaurando relazioni dirette con i dipendenti e riducendo il ricorso alla mediazione sindacale. Parallelamente, la delocalizzazione della produzione verso paesi a basso costo del lavoro, come la Cina e l\'India, e la terziarizzazione delle economie occidentali provocano una riduzione degli iscritti sindacali, in particolare nel settore manifatturiero, e resero più difficile sindacalizzare i lavoratori nei paesi emergenti. In questo nuovo scenario, un rapporto della Banca Mondiale del 1995 sottolineò l\'importanza della contrattazione collettiva decentrata, soprattutto a livello di impresa, considerandola uno strumento chiave per migliorare la produttività e l\'efficienza economica. Pur riconoscendo la crisi di rappresentanza dei sindacati rispetto agli anni \'70, il rapporto evidenzia la necessità di un loro cambiamento. I sindacati avrebbero dovuto abbandonare comportamenti monopolistici e atteggiamenti oppositivi, favorendo la competitività e la produttività attraverso la contrattazione d\'impresa e il legame tra salario e produttività. Questo approccio era visto come essenziale per il loro rinnovamento e per la loro partecipazione ai processi di crescita economica. Nonostante la riduzione del loro potere, i sindacati continuarono a svolgere un ruolo importante nelle relazioni industriali. A livello teorico, si sviluppò un dibattito tra chi riteneva indispensabile la partecipazione attiva dei lavoratori per aumentare la produttività e chi, al contrario, considerava l\'azione sindacale un ostacolo all\'efficienza economica. Tale dibattito rimane ancora oggi aperto. L\'inizio degli anni Duemila segnò un ritorno della \"questione del lavoro\" come tema centrale del dibattito globale, soprattutto in seguito a una serie di crisi internazionali. La crisi finanziaria del 2008, la crisi economico-sanitaria del 2019-2020 e l\'esplosione di una nuova \"guerra fredda\" nel 2022 evidenziarono i limiti del neoliberismo e rilanciarono la necessità di una maggiore presenza dello Stato nell\'economia. Queste crisi offrirono l\'opportunità per un rinnovato ruolo economico del sindacato, soprattutto in termini di partecipazione ai processi decisionali.

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