Psicologia dell'adolescenza PDF
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Carlotta Riccioni
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Summary
This document, Psicologia dell'adolescenza, provides a summary of classic and evolutionary approaches to adolescence. The text analyzes concepts presented by Stanley Hall, Freud and leading figures in the field, highlighting various perspectives like psychoanalytic interpretations; and considering cultural influences on the experience of adolescence. This summary aims to provide a foundational understanding of adolescent development.
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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE – L24 DISPENSA DI PSICOLOGIA DELL’ADOLESCENZA “PSICOLOGIA DELL’ADOLESCENZA” A CURA DI AUGUSTO PALMONARI Il Mulino, Bologna 2011 CARLOTTA RICCIONI L’ADOLESCENZA SEC...
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE – L24 DISPENSA DI PSICOLOGIA DELL’ADOLESCENZA “PSICOLOGIA DELL’ADOLESCENZA” A CURA DI AUGUSTO PALMONARI Il Mulino, Bologna 2011 CARLOTTA RICCIONI L’ADOLESCENZA SECONDO GLI APPROCCI CLASSICI Capitolo 1 1. I primi passi della psicologia dell’adolescenza: il contributo di Stanley Hall La nozione di “adolescenza” come età di transizione fra età e vita adulta era stata usata sporadicamente anche nei periodi precedenti, ma soltanto a cavallo del XX secolo, a partire dal 1900, sia in Europa, che negli Stati Uniti, fu percepita come l’esistenza di questa “nuova categoria di vita umana”. Per quanto riguarda la psicologia, questo periodo è caratterizzato dall’impostazione concettuale e metodologica di Stanley Hall, che con la tecnica dei questionari raccolse una quantità sterminata di dati sull’adolescenza (1904) e sulla senescenza (1922). Hall fu il primo a cogliere un cambiamento rilevante nella natura dello sviluppo umano, provocato da un fattore socioeconomico negli Stati Uniti: le working families in cui i bambini lavorano con i genitori nei campi e nelle fabbriche iniziano a sparire, gli Stati Uniti passano da società agricola a una società industriale e urbana, ciò richiedeva perciò competenze che solo l’educazione secondaria poteva garantire. Il concetto di adolescenza, espresso da Hall, riflette un cambiamento reale della rappresentazione sociale della vita umana, l’adolescenza infatti è vista come una “nuova nascita” in quanto si verifica un rinnovamento totale di tutti gli aspetti della personalità. Questa affermazione è sostenuta sulla base di un confronto tra il mondo del bambino e quello dell’adolescente: Il mondo del bambino: è interessato al mondo esterno ed è interessato ai fenomeni del mondo fisico, alle modalità del loro verificarsi. Per il bambino la realtà ha una delimitazione spaziale-temporale prossima. Il mondo dell’adolescente: è interessato alla sua vita interiore, ha un’elaborata capacità di introspezione, i fenomeni del mondo non sono nient’altro che un simbolo e una manifestazione degli stati d’animo e dei sentimenti. Per l’adolescente, le delimitazioni spazio-temporali si allargano sino ad essere, in alcuni momenti e in corrispondenza di alcuni sentimenti, aperte sull’infinito. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza avviene in modo drammatico, l’epoca adolescenziale è piena di sentimenti contrastanti, secondo Hall è una fase di storm and stress, è l’età delle tempeste emozionali, degli innamoramenti irrazionali, degli odi ciechi, dell’autodistruzione, dei conflitti con i genitori... La visione di Hall, influenzato dalla teoria evolutiva di Ernst Haeckel, attribuisce all’adolescenza caratteristiche psicologiche e biologiche che si sviluppano indipendentemente dal contesto culturale e sociale. Questa interpretazione si basa sulla teoria della “ricapitolazione”: secondo Haeckel, lo sviluppo di un individuo (ontogenesi) ripercorre le fasi evolutive della specie (filogenesi). Hall applica questa teoria allo sviluppo psicologico, sostenendo che l’adolescente attraversa fasi evolutive che riflettono il passaggio dall’essere primitivo all’uomo civilizzato. In questo senso, i comportamenti e i conflitti tipici dell’adolescenza non sarebbero altro che una “revisione” del percorso evolutivo dell’umanità. L’adolescente rivivrebbe, dunque, le tensioni e i contrasti dell’umanità primitiva, cercando un equilibrio tra l’istinto e la ragione. Questo passaggio include anche conflitti con l’autorità, esplorazione di nuove emozioni, spinta all’indipendenza e oscillazioni emotive, simili al passaggio evolutivo da una fase “selvaggia” alla civiltà. Per Hall, il periodo adolescenziale è cruciale per l’evoluzione dell’intelligenza e della vita affettiva, poiché segna il momento in cui si passa a una condizione superiore di controllo e di equilibrio. Hall assume come riferimento costante due principi dell’antropologia a lui contemporanea, quello secondo cui le caratteristiche acquisite possono essere ereditate, l’altro secondo cui l’acquisizione dei tratti ereditari si verifica presumibilmente nell’adolescenza. Vedeva l’adolescenza non solo come una fase di crescita ma anche come il punto di partenza verso una fase “superantropoide”, in cui l’essere umano avrebbe continuato a evolvere. Questa visione di Hall si inseriva in un contesto intellettuale influenzato da teorie di evoluzione e sviluppo umano ispirate a Darwin, Nietzsche, Spencer, e altri. Nella visione di Hall, l’adolescenza costituiva una fase in cui la “devianza” (come la promiscuità sessuale o l’abbandono delle tradizioni familiari) poteva influenzare il destino umano, non migliorandolo ma portando al suo declino. A suo avviso, era necessario stabilire norme sicure attraverso istituzioni come la famiglia, la scuola e la chiesa per canalizzare l’energia degli adolescenti in un percorso di maturazione positivo. Le idee di Hall trovarono ampia risonanza in diversi paesi, ispirando numerosi studiosi, come Mendousse, Slaudecker, Bühler e Spranger, che contribuirono con lavori sul comportamento adolescenziale. Molti di questi autori condivisero e svilupparono le preoccupazioni di Hall, come la necessità di guidare l’adolescenza attraverso regole e norme sicure. Quasi un secolo dopo, Arnett (1999) ha rivisitato queste idee, cercando di stabilire quanto la teoria dello “storm e stress” sia universale. Dalle sue ricerche, Arnett ha concluso che questo fenomeno non è uniforme a livello globale e che varia a seconda delle caratteristiche individuali e culturali. I fattori che determinano l’intensità delle esperienze adolescenziali possono includere aspetti biologici, come l’età e il genere, ma anche aspetti relazionali e culturali, come il sostegno sociale e le aspettative della società. 2. La psicoanalisi L’approccio psicoanalitico all’adolescenza è un orientamento che ha acquisito rilevanza a partire dagli anni ’30, con l’imporsi della psicoanalisi come strumento per interpretare le dinamiche psicologiche dell’adolescenza. Questo orientamento approfondisce e amplia il contributo originario di Hall, sottolineando che non è possibile discutere l’adolescenza senza includere concetti psicoanalitici. Il primo riferimento psicoanalitico importante sull’adolescenza si trova nei Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud (1905). In quest’opera, Freud descrive la pubertà come il momento in cui la vita sessuale raggiunge una forma definitiva. Successivamente, Jones (1922) riprende questa idea, espandendola e dividendo lo sviluppo dell’individuo in fasi, con particolare enfasi sui primi cinque anni di vita, considerati cruciali per la formazione della personalità e per l’organizzazione psichica successiva. Negli anni ’20, Aichhorn (1925) applica i concetti psicoanalitici per spiegare il comportamento disadattivo di molti adolescenti, attribuendolo a una carenza del Super-Io, ovvero alla difficoltà di integrare le norme sociali e morali. Aichhorn introduce metodi educativi innovativi per l’epoca, centrati su interventi psicologici anziché solo disciplinari, per guidare gli adolescenti in difficoltà. Un altro contributo fondamentale arriva da Anna Freud (1936), che sviluppa ulteriormente la riflessione psicoanalitica sull’adolescenza e propone un’interpretazione personale. Ella sostiene che l’adolescente, spinto da un’energia istintuale risvegliata con la pubertà, si trova in una situazione di conflitto interiore: da un lato, sente l’impulso verso la ribellione, dall’altro, cerca di controllare queste forze interne attraverso il Super-Io. Questo processo, se ben gestito, porta alla formazione del carattere; al contrario, se mal gestito, può condurre a sintomi nevrotici. Anna Freud inoltre polemizza con la psicologia accademica dell’epoca, affermando che, per la psicoanalisi, la pubertà rappresenta un momento di “ricapitolazione” della vita sessuale infantile, dove emergono tre aspetti distintivi: Un Es relativamente forte che si oppone a un Io ancora relativamente debole. Una diversificazione dell’Io, che usa diversi meccanismi di difesa a seconda della fase della vita (infanzia, pubertà, climaterio di fronte all’immutabilità dell’Es, che resta costante nel corso della vita). Alla pubertà, secondo Anna Freud, il soggetto subisce una riattivazione delle pulsioni sessuali infantili, assumendo un’identità sessuale ben definita e rafforzando il Super-Io, il quale sviluppa la capacità di adottare nuovi meccanismi di difesa. Queste teorie forniscono una base per comprendere l’adolescenza come una fase di intensi conflitti interni, caratterizzata dalla formazione dell’identità e del carattere, e influenzata dal riemergere delle pulsioni e dalla necessità di integrazione sociale attraverso lo sviluppo di strutture psichiche solide. Nel determinare l'evoluzione della fase adolescenziale entrano in gioco diversi fattori che si possono indicare sinteticamente nel modo seguente: a) La forza degli impulsi dell'Es, condizionato dal processo fisiologico della pubertà. A differenza della libido infantile, la libido investe prevalentemente l'area genitale; b) La possibilità da parte dell'Io di controllare o meno gli istinti, il che dipende dal carattere che si è formato nel periodo di latenza; c) La natura e l'efficacia dei meccanismi di difesa di cui dispone l’Io, che variano a seconda della posizione del soggetto e delle modalità particolari dello sviluppo. La rimozione sceglie come primo bersaglio le fantasie incestuose, la diffidenza dell'Io si dirige contro la fissazione a tutti gli oggetti d'amore dell'infanzia e così si verifica una tendenza all'isolamento rispetto alle figure parentali. Si giunge ad una rottura dei rapporti fra Io e Super-Io perché quest'ultimo è ancora investito di libido derivata dal rapporto con i genitori. Da questo distacco può emergere la tendenza dell’asocialità propria di tanti adolescenti. Spesso, tuttavia, accanto all’isolamento degli oggetti da sempre amati si verifica una sostituzione con altri oggetti d’amore che possono essere coetanei del proprio o dell’altro sesso, ma anche adulti. Queste nuove fissazioni affettive costituiscono, più che vere proprie relazioni oggettuali, un’identificazione di tipo primitivo simile a quelle della prima infanzia e denotano una ricerca di identità. Tutto questo può dare ragione dei fenomeni di incostanza e di volubilità degli adolescenti. 3. Prospettive antropologico-culturali Un altro filone di studi fondamentale ai fini di una precisazione del fenomeno adolescenza è stato iniziato da Margaret Mead. L’autrice ha condotto la sua ricerca in una società cosiddetta primitiva soggiornando a lungo, essa stessa in un’età assai giovane, tra le ragazze dell’isola di Tau nell’arcipelago di Samoa. Attraverso i metodi dell’osservazione partecipante e delle interviste, la Mead ha studiato in profondità l'esperienza di 68 bambine e ragazze che abitavano in tre villaggi collocati nella costa occidentale dell'isola. I dati raccolti hanno messo in luce che per le giovani dell'isola l'adolescenza non rappresentava necessariamente un periodo di tensione e turbamento. L’autrice ha dimostrato, quindi, che le tempeste emotive dell’adolescenza non dipendono esclusivamente dal raggiungimento della maturità fisiologica, bensì la loro manifestazione è influenzata da fattori culturali. Fin dalla prima età, infatti, i bambini di Samoa hanno una educazione completa sulla sessualità, sulla nascita, sulla morte, che passa attraverso il rapporto quotidiano con tali grandi fenomeni naturali. L’adolescenza, perciò, è un periodo di transizione tra infanzia e l’età adulta, tanto da un punto di vista culturale che fisiologico; l’adolescente ha maggiori responsabilità del bambino anche se non ha ancora ottenuto lo status di adulto. Secondo la Mead le ragioni per cui nelle civiltà occidentali, a differenza di Samoa, l’adolescenza è una stagione piena di conflitti e di tensioni sono le seguenti: 1. Nella società occidentale un ragazzo può essere facilmente frustrato e succube dell'autorità paterna, mentre a Samoa si può sfuggire facilmente da una famiglia frustrante autoritaria andando presso altri parenti; 2. Nella società occidentale l'adolescente deve vivere molti conflitti e affrontare molte scelte concernenti in particolare il comportamento sessuale, con tutte le sue implicazioni di ordine morale e religioso. A Samoa, invece, il problema della sessualità è affrontato senza prescrizioni minuziose e di esso si ha un’immagine molto naturale e non problematica. La Mead conclude che l’adolescenza è un fenomeno culturalmente specifico, per cui le difficoltà dell’adolescenza nei paesi occidentali potrebbero essere alleviate seguendo l’esempio di Samoa. Allo studio della Mead segue tutta una serie di precisazioni, da parte di studiosi di antropologia, che affermano la stretta dipendenza dei contenuti, della forma e della durata dell’adolescenza dalla cultura entro la quale si situa. La cultura descritta dalla Mead e altre studiate dagli antropologi, tuttavia, sono caratterizzate da una divisione del lavoro assai limitato, da una gerarchizzazione per l’età molto chiara, da norme comportamentali da tutti condivise, da un solo universo di conoscenze e simboli a tutti noto. Applicando il paradigma culturale elaborato dagli antropologi è possibile immaginare che, all’interno di una cultura come quella occidentale in cui sistema normativo, divisione del lavoro e universi simbolici sono molteplici e connessi fra loro in modo molto complesso, possono coesistere molteplici e fra loro diversi tipi di adolescenze. Proprio partendo da tale assunto è apparso evidente l'esigenza di studiare i fenomeni adolescenziali nella società urbana industriale. Questa è una ricerca condotta nel 1941 da Augusto Hollingshead che introduce come variabile esplicativa principale del comportamento adolescenziale l’organizzazione in classi della società industriale. Il comportamento dell’adolescente costituisce, secondo Hollingshead, «un tipo di comportamento di transizione che dipende dalla società, e più particolarmente dalla posizione che gli individui occupano nella struttura sociale, piuttosto che da fenomeni biopsicologici connessi con quest’età, come la pubertà, o le condizioni cosiddette psicorganiche indicate come tendenze, impulsi, tensioni». Sociologicamente l’adolescenza, sempre secondo questo autore, è il periodo della vita di una persona in cui la società cessa di considerare il singolo come bambino e non gli accorda ancora status, ruoli e funzioni completamente adulti. 3.1 Classi e generazioni Negli studi sull’adolescenza, si pose il problema di tener conto del fenomeno della condizione di classe intesa come collocazione di determinati individui nella struttura economica e di potere della loro società. 4. La sintesi operazionale di Kurt Lewin È stato Kurt Lewin, un gestaltista, a fornire nel 1939 un contributo assai rilevante sul piano metodologico, e che organizzò, in un discorso globale composto di costrutti dinamici tra loro interdipendenti, i diversi dati concettuali riguardanti l’adolescenza fino a quel momento messi in risalto. Lewin parte dalla constatazione che tutti gli studiosi impegnatisi sull’argomento hanno preso posizione, nella spiegazione del comportamento adolescenziale, privilegiando ora fattori biologici, ora i fattori psicologici e sociali, ora i fattori culturali. Il problema, in realtà, non è decidere quali fra essi abbiano un’influenza maggiore; se anche si potesse, attraverso un’accurata indagine statistica, definire quali erano le forze più importanti in gioco, non si giungerebbe a comprendere niente di nuovo circa le loro influenza sul comportamento concreto dell’adolescente. È piuttosto utile analizzare una situazione concreta che si verifica in un contesto ben preciso e tentare di individuare le condizioni che intensificano o rendono più sfumati certi fenomeni definiti tipici della condizione di adolescente. Tutti gli autori definiscono l’adolescenza come un periodo di transizione: Hall parla dirittura di nuova nascita; Anna Freud ne sottolinea i conflitti tra Io ed Es; Margaret Mead ne indica le caratteristiche di prezzo fra cultura occidentale cultura di Samoa; Hollingshead vede delle differenze fra le culture tipiche delle diverse classi sociali. Si può quindi tentare, sul piano metodologico, di caratterizzare la natura di tale periodo di transizione indagandone aspetti diversi, senza però mai cedere a indebita semplificazione di tipo riduttivo. Si può vedere l'adolescenza come un cambiamento nell'appartenenza a categorie sociali. Il soggetto non si considera più un bambino e non vuole essere più trattato come tale; prova ad entrare nella vita adulta ponendosi nella prospettiva di un'occupazione e di uno stile di vita adulto. Questo cambiamento di posizione, il passaggio da un gruppo ad un altro gruppo, modifica non solo la situazione momentanea del soggetto, ma tutto il suo contesto di riferimento. L’ingresso nel gruppo dei giovani, per esempio, rende possibili certe attività precedentemente vietate, come uscire la sera o andare in discoteca. Ma esistono per gli adulti certi tabù che non esistono per il bambino, per esempio piangere o esprimere altre emozioni forti in pubblico. Il passaggio dal gruppo dei bambini a quello dei più grandi implica arrivare in una regione sconosciuta, che sul piano psicologico, viene sperimentato come cognitivamente non strutturata. Il soggetto, cioè, non sa che cosa bisogna fare e che cosa bisogna evitare per raggiungere certi obiettivi: per esempio, l’approvazione degli adulti. Questa mancanza di chiarezza cognitiva è una delle ragioni principali della tipica incertezza di comportamento dell’adolescente. Ogni azione, per la mancanza di un quadro cognitivo chiaro, è ambigua, conflittuale: il soggetto non sa se l’azione che si accinge a compiere lo avvicina o allontana dalla meta che si è posto; perciò, è incerto se impegnarvisi o meno. Una situazione come quella di Samoa descritta dalla Mead, dove i bambini sono continuamente in contatto con la vita degli adulti è certamente meno conflittuale e carica di ansia rispetto ad una situazione tipica della cultura occidentale dove in ogni gruppo sociale esistono regole, norme e valori generalmente non esplicitati i bambini. L’incertezza e la conflittualità adolescenziale, perciò, non possono in nessun caso essere fatte risalire direttamente, nella dinamica causale, alla mutazione biologica del soggetto. Il corpo è, per l’individuo, un oggetto psicologico particolarmente prossimo e importante. Esso, infatti, può essere trattato, psicologicamente, per certi aspetti sullo stesso piano dell’ambiente del soggetto. In genere, chiunque conosca a sufficienza il proprio corpo, sa quali prestazioni e quali reazioni può aspettarsi in circostanze diverse. Il momento della pubertà comporta cambiamenti che, talvolta, fanno sì che il soggetto si senta disturbato dal proprio corpo: si verificano esperienze più o meno nuove che lo fanno percepire estraneo e sconosciuto, anche se è una parte così prossima dello spazio di vita. Tali esperienze nuove riguardano in genere: lo sviluppo in altezza nel peso con i cambiamenti di aspetto e di motricità che gli sono connessi, l’intensificazione e l’investimento genitale delle pulsioni sessuali. Queste ultime, in particolare, sono vissute in modo assai diverso a seconda del significato attribuito ai vari tipi di comportamento sessuale in ciascuna cultura. Il cambiamento dell'esperienza riguardante il proprio corpo e le proprie pulsioni sessuali scuote necessariamente la fiducia del soggetto sulla stabilità del terreno su cui poggia e forse anche sulla stabilità del mondo, in senso lato. Da questa serie di dubbi, così radicali, può derivare un incremento dell’incertezza, e anche dell’aggressività, di molte reazioni dell’adolescente. Fino a giungere, nei casi estremi, alla più completa apatia. Il radicalismo rilevato nelle idee politiche e nei giudizi di molti adolescenti è collegato alla grande plasticità mentale propria di questo periodo di cambiamento. Infatti, passare da una situazione A ben nota a una situazione B meno nota fa sì che il nuovo ambiente sia, da un punto di vista dinamico, meno stabile; questo si ripercuote sulla persona che diviene a sua volta meno stabile. Così, un cambiamento esperito come non molto rilevante nella struttura cognitiva dell’adolescente appare come un salto radicale per l’adulto che ha un campo cognitivo molto più differenziato. Nell’adolescenza vi è un allargamento dello spazio di vita che concerne sia l’ambiente geografico (desiderio di conoscere luoghi e costumi diversi), sia l’ambiente sociale (interesse per nuovi gruppi politici e sociali), sia la dimensione temporale. In particolare, eventi futuri influenzano il comportamento presente; possono d’altra parte avere il carattere di attese molto precise o quello di castelli in aria o di false speranze, per cui questo futuro ha carattere fluido. L’adolescente si trova a fare i piani per una prospettiva temporale molto vasta, ma riguarda un campo che per vari aspetti sconosciuto. In più si trova di fronte a numerose contraddizioni strutturali, sia perché mentre libri ed esperienze vissute gli indicano certi tipi di impegno e abnegazione, gli viene al contempo predicata la morale dello stare con i piedi per terra, perché sono sempre in atto tensioni nell’ambito dei valori del gruppo adulto. Il passaggio dall’infanzia allo status adulto può essere molto rapido oppure può venire gradualmente, in un contesto in cui i gruppi dei bambini e degli adulti non sono nettamente separati. Ma quando vi è un’adolescenza difficile ci si trova spesso di fronte una terza situazione: bambini e adulti costituiscono gruppi ben separati, l’adolescente non vuole più far parte del gruppo dei bambini, ma sa anche che non è pienamente accettato nel gruppo degli adulti. In questo caso ci si trova in una situazione simile a quella definita dell’uomo marginale. Sintomi caratteristici del comportamento dell’uomo marginale sono l’instabilità emotiva e la sensibilità: egli mostra comportamenti squilibrati, violenti, o timidi, esibisce una grande tensione e frequenti scivolate fra gli estremi del comportamento contraddittorio. In qualche modo, anche l’adolescente mostra gli stessi sintomi: è ipersensibile, passa da un estremo all’altro, è molto sensibile al limite dei compagni più giovani. In concreto, l’adolescenza può essere caratterizzata come un cambiamento da una posizione psicologica a un’altra. Questo dato porta con sé: a) L’allargamento dello spazio di vita dal punto di vista geografico, sociale e temporale; b) Il carattere poco strutturato, sul piano cognitivo, della nuova situazione. Altri fattori più specifici si possono aggiungere, primo fra tutti l'esperienza nuova del proprio corpo della propria sessualità. Da una tale rappresentazione si possono derivare concettualmente tutti quei sintomi comportamentali che nelle ricerche sono stati individuati: La timidezza, l’aggressività, la sensibilità dell’adolescente, comprensibili per la scarsa chiarezza e per l’instabilità del terreno sociale; Il conflitto più o meno permanente fra diversi atteggiamenti, valori, stili di vita, ideologie che derivano specialmente dalla situazione di marginalità dell’adolescenza; La tensione emozionale che deriva dal vivere tali conflitti; La propensione ad assumere atteggiamenti estremi e a cambiare radicalmente posizioni, ancora per la scarsa chiarezza e la scarsa articolazione cognitiva dello spazio di vita. 5. Contributi struttural-funzionalisti Il rapido sviluppo economico dei paesi occidentali ha conosciuto nel secondo dopoguerra e l’estendersi del processo di industrializzazione che in esso si è verificato, hanno posto all’attenzione degli studiosi il problema dell’integrazione dei giovani nelle istituzioni sociali (scuola, famiglia, lavoro). Come contrappunto, i comportamenti devianti sono stati intesi come fallimento dell’integrazione. Parsons, fin dal 1949, aveva individuato i termini essenziali dei problemi da affrontare a proposito dell’esperienza adolescenziale: l’intensità di rapporti affettivi del figlio con la madre, soprattutto nei primi anni di vita, è tale che richiede, per giungere ad una vera maturità sociale, un ampio periodo del tempo in cui uscire dalla dipendenza emozionale della famiglia e raggiungere una relativa indipendenza nella società. Questa esigenza favorisce l’apparire di una fase adolescenziale specifica che si caratterizza in contrasto con il tipico comportamento adulto: in esso, infatti, l’elemento caratterizzante è la responsabilità, mentre nel comportamento adolescenziale viene valorizzata la gratuità. Parsons aggiunge che l’enfasi riportata soprattutto sulla relazione fra i sessi, all’interno della società industriale post-bellica, differenzia le esperienze adolescenziali della sua epoca da altri fenomeni simili, come, per esempio, i movimenti giovanili iniziati in Germania prima del 1914, in cui era posta sul cameratismo fra maschi, di natura simile a quello militare. Le ipotesi generali che l'autore pone all'inizio del suo lavoro, nell'ambito del quadro problematico citato, sono le seguenti: Nelle società in cui la famiglia o l'unità di parentela sono basilari per la divisione sociale del lavoro in cui gli orientamenti di valore corrispondono a quelli socialmente attribuiti all'età, l'assegnazione di ruoli avverrà secondo il criterio dell'età. Le relazioni fra età eterogenee sono la forma base di interazione tra le diverse generazioni, mentre le relazioni fra soggetti di età omogenee hanno soltanto importanza sussidiaria. Per contro, nella società in cui la famiglia e la parentela non assicurano, o al limite, impediscono il conseguimento di un pieno status sociale ai propri membri, tendono a formarsi gruppi di età omogenea. I gruppi di coetanei, dunque, sono sempre costituiti in riferimento alla società e alla famiglia in cui vivono, tanto da non avere mai una reale autonomia normativa e culturale. I gruppi per età sorgono allorquando gli orientamenti di fondo della famiglia non corrispondono gli orientamenti della società. In una società come quella statunitense degli anni ‘50, secondo Eisenstadt la famiglia non è in grado di garantire una socializzazione completa ai figli: a tal fine provvedono i gruppi di coetanei. Essi costituiscono così una zona intermedia tra la famiglia e gli altri ambiti istituzionali della società. Nei gruppi di coetanei, gli adolescenti possono prepararsi scegliendo e sperimentando i vari ruoli adulti, mantenendosi disponibili a cambiamenti continui nelle scelte per il futuro, quali la società ad alto sviluppo tecnologico richiede. Allo stesso tempo, il carattere sperimentale e provvisorio che il gruppo dei pari mantiene garantisce il superamento e la tolleranza degli atteggiamenti immaturi che possono ancora apparire fra i giovani. Le scelte per il futuro possono, grazie a quest’aria di tolleranza, essere definite con sufficiente calma e ponderazione. 5.1 Esiste una «cultura giovanile»? Un’elaborazione estrema della sintesi di Eisenstadt è stata fatta da un altro autore, l'americano James Coleman, che ha ritenuto possibile sostenere l'esistenza di una vera e propria cultura giovanile, diversa e indipendente da quella adulta. L’esistenza di una specifica cultura giovanile è in rapporto, secondo Coleman, con tre i fattori sociali più vasti: i rapidi cambiamenti che si susseguono nella società, la specializzazione economica, il progresso dell’industria teenage che produce materiali di consumo che interessano soprattutto i giovani dischi, jeans, scarpe di fogge determinate. Nella società tradizionale era la famiglia che preparava i figli per l'età adulta, mentre nelle società industrializzate il patrimonio di conoscenze e gli strumenti educativi della famiglia sono diventati obsoleti, per cui è la società che si assume la responsabilità dell'educazione dei giovani. La specializzazione economica, d’altra parte, richiede un impegno estremo dei padri nella loro occupazione, mentre i figli devono avere un'istruzione assai vasta per poter, più tardi, scegliere fra le molte occupazioni. Per questo, genitori e figli hanno ben poco in comune, dal momento che la famiglia non è più un’unità economica: i figli non possono, finché sono molto giovani, fornire un aiuto economico e i nonni non vivono con i figli e nipoti. Per i bambini e i giovani ci sono istituzioni diverse (dalle scuole materne ai college) che se ne fanno carico. Ma tali dati sono sufficienti per dimostrare l’esistenza di una cultura giovanile autonoma da quella adulta in uno stesso contesto sociale? In altri termini: l’esistenza è indubitabile dei gruppi di coetanei, il loro stile di vita tipico sono elementi sufficienti per costituire una cultura autonoma rispetto a quella adulta? Come sempre accade quando l’oggetto del contendere non è chiaro sul piano concettuale e teorico, sono state condotte molte ricerche chiarificatrici che hanno fornito risultati ancora più contraddittori. Maria Jahoda e Neil Warren hanno condotto una ricerca secondo cui il concetto di cultura adolescenziale è definito in termini troppo imprecisi e aspecifici per dar luogo ricerca tangibile. Qualunque sia fra le molte definizioni di cultura quello che serve da modello, il fatto che i giovani occupino una posizione speciale nella società non è sufficiente per poter parlare di una cultura separata. Il termine cultura, così come usato nella disputa aperta da colle man, non significa nulla di più che status. Non si deve trascurare però che la condizione concreta sperimentata da chi occupa la stessa posizione sociale (status) facilita la comparsa di modi di vivere, di credenze, di valori condivisi. È evidente che un tale modo condiviso di sperimentare il proprio status si potrà denominare subcultura: è possibile, infatti, evocare una subcultura dei giovani in quanto essi hanno la possibilità di condividere fra loro tensioni, sofferenze, ricompense, risultati, credenze e valori connessi con il proprio status. La subcultura non è mai un dato cruciale di cui basti verificare la presenza o l’assenza; è un concetto che può condurre ricerche fruttuose, ma che non esclude la possibilità di scoprire abitudini banali e stereotipate. SVILUPPI DEGLI STUDI SULL’ADOLESCENZA Capitolo 2 1. Adolescenza e stili di vita 1.1 La teoria di Erikson Rispetto alle teorie classiche, Kurt Lewin ha proposto un approccio più articolato, secondo quel comportamento umano in funzione dell’interdipendenza tra fattori individuali e contestuali. Lo stesso approccio integrativo lo ritroviamo nel pensiero di Erik Erikson, uno psicologo che molti studiosi dell’adolescenza riconoscono come un pioniere. Egli è stato fortemente influenzato dal lavoro di Anna Freud. La formazione multidisciplinare spinse Erikson a concepire lo sviluppo umano come una continua ricerca di integrazione tra la maturità biologica e l’appartenenza al sistema sociale. È proprio tale lavoro di integrazione che definisce l’unicità di ogni persona. L’altro importante punto di novità introdotto da Erikson è l’attenzione al ciclo di vita. Mentre nella teoria psicoanalitica sono contemplati cinque stadi dello sviluppo (fase orale, anale, fallica, periodo di latenza e fase genitale) che si concludono con l’adolescenza, Eriksson propone una teoria che abbraccia l’intero arco della vita, dalla nascita alla morte. In particolare, l’autore concettualizza il ciclo di vita come una serie di periodi critici dello sviluppo che implicano un conflitto bipolare da affrontare e risolvere prima di procedere in avanti. La polarità di ogni stadio presenta una crisi, che non richiede soluzioni del tipo tutto o nulla ma esige la ricerca di un nuovo equilibrio dinamico, che può essere più o meno spostato verso uno dei due poli. Di seguito descriviamo i dilemmi caratterizzanti gli otto stadi dello sviluppo e l’esito auspicabile in ogni fase. Lo stadio: fiducia vs. sfiducia - speranza (1 anno di vita) La crisi di sviluppo centrata su fiducia-sfiducia si verifica nel corso della prima infanzia: essa è basata in gran parte sul coinvolgimento biologico dell'infante nell'esperienza orale precoce descritta da Freud. L’interazione e la regolamentazione reciproca fra l’infante e chi si prende cura di lui fanno sì che sbocci un sentimento rudimentale di identità e il piccolo giunge a conoscere sé stesso in relazione all'altro conquistando un senso di continuità interiore e di fiducia in sé e nel proprio partner. La mancanza completa della fiducia di base, secondo Erikson, è alla radice delle forme più gravi di psicopatologia come la schizofrenia. La maggior parte degli infanti trovano un equilibrio adattivo tra i due estremi di fiducia e sfiducia, non essendo positive per la crescita né la completa fiducia nel mio nel mondo né la completa sfiducia. Questo equilibrio positivo verso il polo della fiducia conduce alla speranza che, a sua volta, è l’ingrediente di base delle fasi successive della vita. Lo stadio: autonomia vs. vergogna - dubbio/volontà (2-3 anni) In riferimento allo stadio anale dello sviluppo descritto da Freud, Erikson concepisce il senso di autonomia come la fase in cui il bambino cresce la consapevolezza del proprio sé attraverso il controllo delle funzioni corporee e l'espressione di altre competenze motorie e linguistiche attivate di concerto con le attese che gli altri significativi mostrano nei suoi confronti. Trattenere o lasciare andare le feci è una delle prime opportunità che il bambino ha di esercitare un pieno controllo sugli eventi, qualunque sia il desiderio dei genitori. Egli fa così un’esperienza di volontà, qualcosa che si origina dentro di lui in risposta alle condizioni sociali e che può differenziarsi dai desideri e volontà dei propri interlocutori. La scoperta delle proprie competenze linguistiche e locomotorie esalta poi il senso di autonomia. Dai 2 anni e mezzo in genere il bambino sa usare il pronome io per dare ulteriore dimostrazione della propria volontà. La risposta sociale che ottiene può incrementare nel bambino la fiducia nelle proprie capacità o un senso durevole di vergogna e di dubbio. Se l’equilibrio si assesta sul versante negativo, il soggetto mostra un sentimento di inferiorità, di non essere abbastanza buono, che si prolungherà nelle fasi successive della vita. La soluzione migliore consiste dunque nel trovare un equilibrio per cui il soggetto autonomo sia anche consapevole della propria fallibilità in modo da meglio regolare il proprio sé nell’ordine sociale. III stadio: iniziativa vs. senso di colpa - intenzione (3-5 anni) Il terzo stadio dello sviluppo coincide, secondo Erikson, con la fase fallica descritta da Freud, tra i 3 e i 5 anni. La capacità ormai acquisita del soggetto di giocare assumendo ruoli diversi dimostra che egli possiede l'abilità di immaginare. Questa capacità, porta con sé i germi dell'iniziativa nel tradurre i pensieri in azione. Problemi come che tipo di persona posso diventare? e che tipo di ruolo sessuale adottare? diventano questioni critiche. Dall’iniziativa si sviluppano sia il sentimento di intenzionalità, sia l’abilità a elaborare fantasie a sperimentare ruoli sociali e sessuali di importanza cruciale per l’adolescenza e la vita successiva. L’esito negativo di questo stadio è quando c’è il senso di colpa: il soggetto immobilizzato, per paura, è incapace di intraprendere un’azione rivolta al futuro. Questo può accadere se l’esperienza del soggetto è contrassegnata dal divieto di prendere iniziative impostogli dall’ambiente in cui vive. Un equilibrio positivo tra iniziativa e senso di colpa assicurerà una capacità di iniziativa sessuale e sociale temperata dalla consapevolezza di poter essere criticati dagli altri presenti nel contesto. IV stadio: industriosità vs. inferiorità - competenza (6-10 anni) Secondo Freud gli anni della scuola primaria sono contrassegnati da uno spostamento della focalizzazione dall'energia libido su certe parti del corpo a una fase di latenza sessuale in cui l'attenzione si canalizza verso il mondo esterno. Erikson, a proposito dello stesso periodo, sottolinea piuttosto la pratica ripetitiva delle competenze assunte e la risoluzione di compiti che anticipano quanto sarà richiesto dall'assunzione dei ruoli adulti. I sentimenti di competenze di riuscita sono i risultati ottimali di tale apprendistato. Genitori, insegnanti, altre figure di intensificazione giocano un ruolo decisivo nello stimolare un senso di efficacia o di inferiorità. La risoluzione negativa di questo stadio dà luogo ad un estraneamento del soggetto da sé stesso dei propri compiti. L’equilibrio positivo sarà raggiunto quando la consapevolezza dei propri limiti farà da contrappeso a un sentimento ottimistico di competenza e di sicurezza di sé nell’affrontare la realtà. V stadio: identità vs. confusione dei ruoli - fedeltà (fase adolescenziale) Il quinto stadio corrisponde al periodo adolescenziale. La maturazione puberale, lo sviluppo cognitivo, i cambiamenti nelle relazioni sociali spingono l'individuo ricercare la propria identità. L'interrogativo cruciale che gli individui si pongono in questo periodo è chi sono e dove sto andando? Gli adolescenti possono rispondere a tale quesito muovendosi tra due estremi. Il primo è rappresentato dall'acquisizione dell'identità, che implica la capacità di combinare e integrare le identificazioni infantili in una sintesi personale e unica, che corrisponde ai propri interessi e alle proprie aspirazioni. Al contrario la confusione dei ruoli è propria di quegli adolescenti che non hanno fatto ancora scelte rilevanti per la propria vita e pertanto passano da una identificazione all'altra. L'acquisizione dell'identità implica, invece, la capacità di rimanere fedeli ai propri impegni e ai propri valori. VI stadio: intimità vs. isolamento - amore (fase giovanile) Una volta che i giovani hanno sviluppato la loro identità sono pronti, secondo Erikson, a impegnarsi in una relazione a lungo termine con un'altra persona. L'intimità implica la capacità di unirsi a un'altra persona senza temere di perdere sé stessi. Erikson sostiene a tal proposito che il vero impegno con gli altri è il risultato e il test di una solida definizione di sé. Al contrario, se i giovani non hanno un'identità ben definita rischiano di ricadere nell'altro estremo del continuum, rappresentato dall'isolamento, in cui l’incertezza identitaria sfocia in una difficoltà relazionale. L’isolamento può assumere la forma dell’isolamento sociale, ma può anche verificarsi nell’ambito delle relazioni interpersonali, sotto forma di isolamento all’interno del gruppo o di isolamento nella relazione di coppia, in cui l’incertezza personale limita l’impegno con l’altra persona. VII stadio: generatività vs. stagnazione - prendersi carico (età adulta) Raggiunta l'identità e la capacità di amare, l'individuo comincia a sentirsi parte di un noi che si situa nella società nel suo senso più lato; si prende cura perciò dei propri figli, oltre che dei contributi da offrire alla società e le future generazioni. Chi è capace di generatività costituisce il modello necessario per l'identificazione da parte dei membri più giovani della società. La controparte della generatività è la stagnazione, in cui l'appagamento personale diventa l’unica motivazione per l’azione. D’altra parte, la procreazione e le altre forme di produttività non sono necessariamente l’espressione della generatività: deve esserci una vera presa in carico di impegni verso gli altri perché la generatività si espanda. VIII stadio: integrità dell’Io vs. disperazione - saggezza (maturità) Erikson ha avuto qualche difficoltà a definire gli aspetti qualificanti di questo stadio; l'integrità e l'accettazione del proprio ciclo di vita come qualcosa che doveva essere e che, per necessità non poteva essere diverso. In tale accettazione ultima dell'esistenza, la morte perde la sua minacciosità. Dunque, misura dell’integrità è l’accettazione dell’essere mortali. Una vita che culmina nella disperazione, per contro, considera il tempo restante troppo breve per poter imboccare un percorso diverso da quello vissuto. Il lavoro di Eriksson costituisce tutt’oggi un punto di riferimento per gli studiosi interessati al tema dell’identità adolescenziale. 1.2 La teoria dell’attaccamento La teoria dell’attaccamento, sviluppata da Bowlby, ha notevolmente influenzato la ricerca psicologica negli ultimi decenni. Bowlby, nonostante la sua formazione psicoanalitica, propose una teoria che affonda le sue radici nell’etologia e sottolinea il primato dell’osservazione per la comprensione dei fenomeni psicologici. L'autore sostiene che l'inadeguatezza delle cure materne è all'origine del disagio del bambino. A sostegno della sua tesi egli presenta alcuni firmati, fra cui quelli di René Spitz sui bambini che vivevano nei brefotrofi. Cercando di dare maggiore scientificità al suo lavoro, Bowlby individua notevoli punti di contatto tra gli studi sullo sviluppo dei bambini e quelli condotti in ambito etologico relativi all’imprinting e al bisogno di calore, in particolare con l’esperimento delle scimmie di Harlow. Questi documentano come i piccoli siano più propensi a ricercare vicinanza con la madre che dà calore piuttosto che il soddisfacimento dei soli bisogni nutritivi (madre di ferro). Queste ricerche influenzarono notevolmente il pensiero di Bowlby, che concettualizzò l’attaccamento come un bisogno primario del bambino e non come la conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici. Attraverso comportamenti di segnalazione (come il pianto il sorriso) e/o di avvicinamento, il bambino ricerca la vicinanza del caregiver, cioè della persona che si prende cura di lui, percepito come capace di fornire protezione e sostegno. Da queste interazioni tra il bambino e il caregiver si sviluppa una forma di attaccamento. Bowlby differenzia quindi il legame di attaccamento dal comportamento di attaccamento: dire di un bambino o di un adulto che è attaccato a, o ha un attaccamento o un legame per qualcuno significa dire che il bambino è fortemente portato a cercare la prossimità e il contatto con quell’individuo, specialmente in certe condizioni fisiche. Questo attaccamento persiste cambiando solo lentamente nel corso del tempo e non è influenzato dalla situazione momentanea. Attraverso l’osservazione del bambino in una situazione sperimentale (la Strange Situation) Mary Ainsworth ha individuato tre diversi modelli di attaccamento: 1. I bambini con un attaccamento sicuro hanno fiducia nella figura materna, protestano al suo allontanamento e ne ricercano attivamente la vicinanza appena la rivedono; 2. I bambini con un attaccamento ansioso-evitante non protestano all’allontanamento della madre e tentano di avvicinarsi a lei quando ritorna; tali bambini, infatti, si aspettano di essere rifiutati dal caregiver; 3. I bambini con un attaccamento ansioso-ambivalente non essendo certi della disponibilità del genitore, manifestano un forte turbamento nel momento della separazione. Successivamente, è stato individuato un quarto modello di attaccamento, definito disorientato-disorganizzato. Tale modello, riscontrabile soprattutto nei bambini che hanno subito forti traumi, si caratterizza per una scarsa ricerca della figura di attaccamento e per l'incoerenza dei comportamenti. Ricerche svolte con adolescenti adulti, mediante questionari e interviste semi strutturate, hanno evidenziato che le stesse tipologie di attaccamento sono riscontrabili negli adolescenti e negli adulti, in cui si parla di stili di attaccamento autonomo-sicuro; distanziante; preoccupato o coinvolto; con lutti o traumi non risolti. Ogni stile di attaccamento si caratterizza per un modello operativo interno (internal working model): il bambino in fase di sviluppo costruisce una serie di modelli di sé stesso e degli altri basati su modelli ripetuti di esperienze interattive. Queste rappresentazioni delle interazioni vengono generalizzate e formano dei modelli rappresentazionali relativamente fissi che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione con esso. I modelli operativi interni influenzano le modalità attraverso cui bambini, adolescenti e adulti si relazionano agli altri. Gli individui con un attaccamento sicuro hanno fiducia nel caregiver, che rappresenta una base sicura, da cui partire per esplorare la realtà esterna e a cui tornare per ricevere sostegno. Tale fiducia, presa nelle ultime esperienze infantili, tende poi ad essere introiettata dal bambino. Le ricerche condotte con gli adolescenti evidenziano chiaramente che coloro che manifestano un attaccamento sicuro ai loro genitori sono caratterizzati da livelli elevati di autostima, benessere psicologico e sociale, da livelli bassi di depressione e ansia, da strategie di coping adattive e da adeguate competenze sociali e scolastiche. Un attaccamento sicuro ai genitori fornisce all'adolescente una base sicura da cui partire per esplorare la realtà circostante e trovare degli impegni significativi a cui dedicarsi con fedeltà. Questi rappresentano la base per la formazione della propria entità personale sociale. 1.3 Gli studi longitudinali: l’approccio al ciclo di vita Un contributo interessante per rielaborare in chiave euristica la nozione di interdipendenza tra quadro sociale e adolescenza deriva dalla riflessione sviluppata sia dalla fine degli anni ‘60 nell’ambito della life-span development of psychology. Si tratta di un approccio allo studio del comportamento umano che enfatizza lo sviluppo e il cambiamento della persona lungo l’intero arco della sua vita, rappresentandoli come sequenza di eventi strettamente intrecciati tra loro e con il contesto biologico, sociale, storico e culturale in cui l’individuo opera. Un punto di novità di questo approccio consiste nel privilegiare disegni longitudinali che, studiando accuratamente coorti di soggetti nel corso del tempo, definiscono in questo modo i termini dell’interazione individuo-ambiente. Gli individui sono concettualizzati come attori del loro sviluppo. L’ambiente è concepito come un sistema, un insieme di fonti di influenza di differente natura. Vengono considerate in genere tre classi di influenze ambientali: 1. Le influenze normative legate all'età: consistono nelle determinanti biologiche e ambientali che sono correlate con l'età cronologica (per esempio, gli eventi puberali, l'inizio della scuola). Hanno un carattere normativo nel senso che di norma riguardano tutti gli individui di una certa età in una stessa cultura. 2. Le influenze normative legate ad un particolare periodo storico: si riferiscono alle determinanti biologiche e ambientali che in un dato periodo storico riguardano la maggior parte degli individui di una stessa coorte. Si possono citare, a riguardo, situazioni di cattiva congiuntura economica, modifica del sistema formativo, cambiamenti nelle aspettative connesse ruoli. 3. Le influenze di tipo non normativo: sono distribuite in modo casuale tra le persone di un certo gruppo sociale e hanno una più alta variabilità individuale. Esempi di tale tipo di fattori possono essere: un'improvvisa malattia, interruzione degli studi, e divorzio dei genitori, la migrazione familiare. Questi fattori di ordine ambientale non operano in modo automatico come forze misteriose che premono sull’individuo. Essi costituiscono piuttosto insiemi di compiti, di richieste di vincoli di fronte ai quali il soggetto mette in atto strategie di comprensione, selezione e intervento per continuare a costruire un proprio percorso di crescita personale. Da questo punto di vista l’adolescente non è necessariamente posto in una condizione di crisi e di difficoltà dal momento che le determinanti ambientali biologiche con cui deve interagire possono costituire anche opportunità di sviluppo, ovvero stimoli a nuove forme di differenziazione e di arricchimento personale, anche se non progettati in anticipo. In linea con l’approccio del ciclo di vita, le teorie contestualizzate enfatizzano l’importanza di studiare il comportamento dell’individuo tenendo conto dell’interdipendenza dinamica di fattori individuali e contestuali (ambiente). Al centro degli approcci contestuali sta posto senza dubbio il modello ecologico di Bronfenbrenner, che ha fornito uno strumento di analisi della realtà ispirato alle tesi lewiniane. L’autore sostiene infatti che l’esito evolutivo che si manifesta in un preciso momento dipende dall’interdipendenza di fattori personali e contestuali. L’autore inoltre considera l’ambiente di sviluppo dell’individuo come una serie di sistemi concentrici ordinati gerarchicamente: due sistemi sono direttamente in contatto con la persona (il microsistema e il mesosistema), mentre altri due (l’esosistema e il macrosistema) sono ambiti in cui l’individuo non fa esperienza diretta, ma che hanno ugualmente un’influenza sul proprio processo di crescita. Il microsistema è un sistema con cui l'individuo interagisce in maniera diretta e continuativa. Il mesosistema è definito come un insieme di microsistemi, in quanto comprende due o più contesti ambientali, in cui l'individuo partecipa in modo attivo e le loro interconnessioni. L’esosistema è rappresentato da una o più situazioni ambientali a cui quell'individuo non partecipa direttamente, nelle quali però si verificano eventi che influenzano l'ambiente con cui la persona ha contatto diretto. Il macrosistema, che contiene al suo interno i precedenti sistemi, si configura come un complesso di rappresentazioni di tipo ideologico. 2. Compiti di sviluppo e coping 2.1 La nozione di «compiti di sviluppo» La nozione di compiti di sviluppo si riferisce ai problemi che gli adolescenti incontrano nei vari momenti della loro esperienza. È stato Havighurst il primo ad utilizzarla. Secondo l’autore i compiti che l’individuo deve affrontare, i compiti sviluppo della vita, sono il presupposto di una crescita sana e soddisfacente nella nostra società. Un compito di sviluppo è un compito che si presenta in un determinato periodo della vita di un individuo e la cui buona risoluzione conduce alla felicità e al successo nell’affrontare i problemi successivi mentre il fallimento di fronte a esso conduce all’infelicità, alla disapprovazione da parte della società e alla difficoltà di fronte ai compiti che si presentano in seguito. Secondo Havighurst, la vita dell’individuo è costituita da una successione di compiti che a un momento opportuno e prestabilito devono essere risolti. Se questo non avviene nei tempi prestabiliti, lo sviluppo dell’individuo viene compromesso. Così nell’infante esistono dei compiti, come imparare a camminare e a parlare (periodi sensibili). Oltre alle determinanti biofisiche esistono altre sorgenti di compiti di sviluppo: le pressioni culturali della società che pretendono dall’individuo, con esattezza temporale, competenze comunicative specifiche, quali saper leggere scrivere, oltre che specifiche competenze sociali, quali diventare un cittadino responsabile. Alcuni compiti di sviluppo sono praticamente universali e costanti in ogni cultura, altri, invece, sono presenti solo in alcune società, sono peculiarmente definiti dalla cultura di appartenenza. Altri compiti, specialmente quelli che derivano dalle richieste sociali, mostrano grande variabilità da una cultura all'altra. Il compito di prepararsi per una carriera lavorativa, per esempio, è molto semplice in un’ipotetica società omogenea con una divisione del lavoro così ridotta in cui tutti gli adulti hanno la stessa occupazione; al contrario nella società postmoderne e pluraliste, tale compito è uno dei più complessi e difficili da risolvere. Ogni classe sociale, ogni gruppo manifestano le proprie specificità anche nelle questioni relative ai compiti di sviluppo. Per quanto riguarda l’analisi relativa all’età, l’autore definisce i compiti di sviluppo suddividendoli in categorie: i ricorrenti e non ricorrenti. I compiti ricorrenti si manifestano per un lungo periodo di tempo o, addirittura per tutta la vita. Imparare a farsi degli amici e diventare amici con persone che si presentano sono buoni esempi di compiti ricorrenti: questi si ripresentano in ogni fase della vita. Altri compiti, invece, quali imparare a camminare a parlare, vengono affrontati in modo definitivo dell’infanzia, e pertanto sono specifici solo di un’età, sono non ricorrenti. Per quanto riguarda i compiti di sviluppo nella adolescenza, l’autore individua nella ricerca dell'indipendenza l'elemento costante specifico. Egli identifica dieci compiti di sviluppo e distingue quelli che si manifestano specificatamente nell'adolescente e quelli presenti nell'adolescenza ma che devono essere affrontati già nel periodo precedente. I compiti di sviluppo tipici del periodo adolescenziale (12-18 anni) sono: 1. Instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi sessi; 2. Acquisire un ruolo sociale femminile o maschile; 3. Accettare la propria maturità fisica; 4. Conseguire indipendenza emotiva dei genitori ed altri adulti; 5. Raggiungere la sicurezza dell’indipendenza economica; 6. Orientarsi verso, e prepararsi per un’occupazione professione; 7. Prepararsi al matrimonio e alla vita familiare; 8. Sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza civica; 9. Desiderare acquisire un comportamento socialmente responsabile; 10. Acquisire un sistema di valori e una coscienza etica come guida al proprio comportamento. A questi fanno seguito quelli che secondo l’autore sono tipici della fase giovanile (19-30 anni): 1. Sviluppare un legame affettivo stabile; 2. Vivere con il partner; 3. Acquisire l'indipendenza abitativa; 4. Formare una famiglia; 5. Prendersi cura della famiglia; 6. Iniziare una carriera lavorativa; 7. Integrarsi nella propria comunità; 8. Assumere le responsabilità connesse all'essere cittadini. Il superamento dei vari compiti di sviluppo è alla base della percezione di benessere psicologico. La teoria di Havighurst rimanda ai compiti tipici degli adolescenti bianchi di classe media americana degli anni ‘50. Non sono accennati problemi connessi con il dover affrontare gravi difficoltà economiche, la mancanza di un sostegno familiare ambientale, l’appartenenza ad un gruppo minoritario. I tentativi di mettere a punto altre liste di compiti di sviluppo degli adolescenti non hanno portato a significativi sviluppi nella conoscenza. I compiti di sviluppo non sono, in una società complessa e pluralista come la nostra, difficoltà che esistono per ogni adolescente, sempre uguali e inevitabili. Bensì si definiscono nel rapporto fra l’individuo, la sua appartenenza sociale e l’ambiente in cui è inserito: in certe condizioni sono numerosi ma possono essere affrontati senza drammi, in altri appaiono particolarmente difficili, creando frustrazioni, angoscia, senso di impotenza che porta irrequietezza, aggressività e, al limite, apatia. Più che parlare di singoli compiti di sviluppo può avere senso considerare classi di compiti legati a quelli che sono i cambiamenti che definiscono l’adolescenza. Pertanto, possiamo avere: I compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà; I compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo; I compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità. 2.2 Il modello focale di John Coleman La capacità dell'individuo di far fronte ai vari compiti di sviluppo dipende da caratteristiche personali e sociali che portano ricorso a varie strategie di coping. Inoltre, la tempistica con cui i compiti di sviluppo si presentano risulta decisiva. Secondo il modello focale di John Coleman, nei diversi momenti dell'età adolescenziale sono affrontati da un individuo pattern particolari di problemi: per esempio, le preoccupazioni per il proprio cambiamento fisico, l'ansia a proposito delle relazioni con i pari del proprio sesso e dell’altro sesso, la paura di non essere accettati in un certo gruppo di coetanei, il conflitto con i genitori, la scelta fra i sistemi di valori diversi. Gli e le adolescenti non potrebbero risolvere i problemi posti dall’esigenza di confronto con le questioni vitali che incontrano nel loro percorso di crescita se dovessero affrontarle tutte insieme, in uno stesso breve periodo di tempo. Gli adolescenti sono in grado di affrontare in modo produttivo, senza tensioni drammatiche, questi problemi, anche quelli più gravi, se possono affrontarli uno o pochi per volta, in successione. L’età dell’adolescenziale occupa gran parte della seconda decade della vita: molti cambiamenti possono avvenire in un tale arco di tempo lasciando agio al soggetto che li vive di recuperare la propria forza psicologica dopo ogni episodio di coinvolgimento emozionale più intenso, e di affrontare la difficoltà successiva. Gli adolescenti che devono far fronte contemporaneamente a più problemi fra loro aggrovigliati rischiano di non uscire dalle panie del disagio che sperimentano. 2.3 Far fronte ai compiti di sviluppo: le strategie di coping La capacità di gestire adeguatamente i compiti di sviluppo dell’adolescenza e della fase giovanile dipende dalla tempistica con cui questi si presentano e dalle strategie con cui gli individui li affrontano. Si parla a proposito di strategie di coping, ovvero strategie di fronteggiamento. È stato Lazarus a impiegare in modo sistematico la nozione di far fronte (coping) nei suoi studi sullo stress. Secondo questo autore, è stress psicologico quando la persona si rende conto che la situazione in cui si trova lei pone delle richieste che vanno aldilà delle proprie forze, sì da mettere in discussione il proprio benessere. Le risposte di coping derivano dall’interazione tra l’individuo e il contesto in cui vive. Quando l’individuo si trova ad avere a che fare con una difficoltà si attiva un processo cognitivo che si sostanzia in una doppia valutazione della situazione. Nella valutazione primaria la persona giudica quanto siano rilevanti il rischio e la minaccia da affrontare, da dove derivino e quanto siano imminenti. L’esito di tale valutazione può portare a giudicare l’evento come positivo, irrilevante, o come una minaccia. In quest’ultimo caso si procede con una valutazione secondaria, in cui la persona considera che cosa può eventualmente fare per superare il pericolo. Dalla valutazione secondaria possono scaturire diverse strategie di coping. In particolare, l’autore distingue tra modalità di far fronte centrato sul problema (per esempio, sforzi per modificare la situazione) e modalità di far fronte centrate sull’emozione (per esempio, prendere le distanze dalla situazione, fuggire di fronte a essa). Un’autrice che ha ampiamente studiato il coping adolescenziale Inge Seiffge-Krenke, ha individuato gli eventi stressanti più frequenti nell’universo adolescenziale. Dai suoi studi è emerso che gli eventi critici riportati con maggiore frequenza degli adolescenti di entrambi i generi possono essere ricondotti alle seguenti aree: Area del sé (sentirsi soli, essere umiliati, essere insoddisfatti del proprio aspetto); Area dei rapporti affettivi (innamorarsi); Area delle relazioni amicali (avere problemi con gli amici); Area della scuola (prendere un brutto voto, litigare con insegnante); Area dei rapporti familiari (litigare con i genitori); Area degli eventi politici; Area del futuro (paura di un evento politico); Area degli eventi di vita critici (aver fatto esperienza di un evento veramente stressante, come una malattia grave, un lutto). Molti eventi stressanti raggiungono un picco intorno ai 14 anni: il momento del passaggio dalla scuola media alla scuola superiore, con tutti i cambiamenti fisici e relazionali che tale transizione comporta, rappresenta sicuramente una sfida notevole per la maggior parte degli adolescenti. Un'ampia letteratura ha indagato sulla presenza di differenze di genere nell’uso delle strategie di coping. Nonostante i risultati ottenuti non siano sempre convergenti, un dato che è emerso in maniera consistente, in ricerche che hanno utilizzato modelli teorici diversi per indagare il coping, è che le ragazze sembrano fare più ricorso al sostegno sociale per affrontare gli eventi difficili. Ciò può derivare dai processi di socializzazione che nel caso dei maschi enfatizzano l’importanza dell’indipendenza, mentre nel caso delle femmine valorizzano la centralità dei legami sociali. 2.4 La resilienza Spesso ci capita di guardarci intorno e di vedere casi di persone che, nonostante vivano in condizioni particolarmente difficili, sono ad un buon livello di adattamento. In questi casi si parla di resilienza. La resilienza può essere definita come la capacità di processo di far fronte, resistere, integrare, costruire, riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare ad un esito negativo. Un contributo importante che ha favorito l’introduzione del concetto di resilienza è stato fornito dalle ricerche di Emmy Werner, la quale effettuò uno studio longitudinale su tutti i bambini nati nel 1955 nell’isola di Kuai, nelle Hawaii. Su un totale di quasi 700 neonati circa 200 presentavano una condizione elevata di rischio, a causa di nascita difficile, povertà, situazioni familiari caratterizzate da problemi. Il campione fu di nuovo esaminato quando i soggetti raggiunsero l’adolescenza. I ricercatori furono sorpresi dal fatto che solo i due terzi dei neonati a rischio presentavano dei problemi. Gli altri soggetti non solo non presentavano problemi, ma erano capaci di sviluppare relazioni stabili, di trovarsi un lavoro e di prendersi cura delle altre persone. L’autrice e i suoi collaboratori si focalizzarono allora sull’individuazione dei fattori protettivi, in grado di attutire le condizioni di rischio e promuovere la resilienza. Dal loro studio è emerso che coloro che avevano avuto uno sviluppo soddisfacente vivevano in famiglie poco numerose, avevano potuto contare su un adulto di riferimento come lo zio o un parente e avevano una forte fede religiosa. Per quanto concerne la definizione stessa di resilienza, si parte dalla concezione secondo cui la resilienza rappresenta un processo dinamico attraverso cui individui si adattano positivamente ad un contesto avverso. Questa definizione implica che, per poter parlare di resilienza, debbano essere presenti necessariamente due condizioni: l’esposizione di una condizione di grave rischio e la manifestazione di uno sviluppo positivo nonostante le condizioni di grave rischio vissute nel passato e che si continuano ad esperire nel momento presente. 2.5 Far fronte a un compito di sviluppo particolare: la migrazione familiare Gli adolescenti stranieri si trovano a dover affrontare, come i loro compagni italiani, i compiti di sviluppo tipici della fase della vita che stanno vivendo, ma allo stesso tempo devono sviluppare la loro identità personale e sociale tenendo conto del fatto che non sempre collima con le caratteristiche della cultura della società ospitante. Gli adolescenti stranieri devono decidere come rapportarsi alla società e alla cultura italiana e nel fare questo possono ricorrere a quattro diverse strategie di acculturazione, definite dal grado con cui gli individui desiderano preservare la propria entità culturale e, nello stesso tempo, far propria la cultura della società ospitante. Nello specifico: 1. Gli stranieri che adottano la strategia dell'assimilazione fanno propria la cultura ospitante rinunciando alla loro tradizione culturale; 2. Coloro che optano per la strategia dell'integrazione cercano di fare propria la cultura del paese ospitante mantenendo salda la propria tradizione. 3. Gli stranieri che ricorrono alla strategia della separazione, invece, rifiutano la cultura del paese ospitante e privilegiano la preservazione della propria cultura di origine; 4. Coloro che ricorrono alla strategia della marginalizzazione rifiutano i principi e i valori di entrambe le culture. In Italia l'aumento dei flussi migratori ha anche portato un aumento delle coppie miste, composte da un italiano e una straniera o viceversa. Anche gli adolescenti che nascono in famiglie miste si trovano ad affrontare, oltre ai compiti di sviluppo tipici della fase adolescenziale, compiti di sviluppo specifici, sociali, al confronto con i valori, i principi e le abitudini proprio delle culture di appartenenza dei loro genitori. Tuttavia, un confronto tra adolescenti appartenenti a famiglie italiane, miste e migranti, mostra che tendenzialmente gli adolescenti cresciuti in famiglie miste si differenziano dai loro pari che appartengono a famiglie migranti in quanto manifestano meno problemi emotivi e minori difficoltà a definire la propria identità personale sociale. L’appartenenza a famiglie miste più che un fattore di criticità sembra rappresentare un’opportunità. LE FASI ADOLESCENZIALI E GIOVANILI NELLO SVILUPPO PSICOSOCIALE Capitolo 3 Quando finisce l’adolescenza? E che rapporto c’è tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta? Secondo la concezione maturata negli ultimi decenni dagli psicologi, l’adolescenza finisce al raggiungimento della maggiore età e il passaggio alla vita adulta non è diretto, ma mediato da un’ulteriore fase dello sviluppo, la cosiddetta fase giovanile o emerging adulthood. 1. La specificità della fase giovanile 1.1 Il contributo di Keniston Keniston è stato il primo autore a fornire una serie di argomentazioni per tenere distinti gli adolescenti (fino ai 18 anni) dai giovani (oltre 18 anni) onde evitare indebite generalizzazioni. Secondo l’autore, così come le caratteristiche della società industriale hanno favorito l’affermarsi dell’adolescenza come fase specifica del ciclo di vita, la peculiarità della società postindustriale ha permesso il delinearsi della giovinezza come ulteriore fase evolutiva. La società tecnologica richiede infatti abilità e competenze complesse, acquisibili mediante un lungo percorso di formazione universitaria e post-universitaria che porta a dilazionare l’ingresso nel mondo del lavoro. Allo stesso tempo, sono cambiate le aspettative familiari e culturali, che hanno visto una progressiva accettazione della posticipazione del matrimonio e della formazione di una nuova famiglia. Rimanere in attesa era, ed è tuttora, una strategia per esplorare la realtà circostante prima di fare scelte vincolanti per il proprio futuro professionale ed affettivo. Secondo Keniston l’adolescenza e la giovinezza sono fasi distinte, con caratteristiche psicologiche peculiari. La giovinezza è quella fase del ciclo di vita compresa tra l’adolescenza e l’età adulta. I giovani hanno affrontato i problemi dell’adolescenza, legata ai cambiamenti fisici, cognitivi e sociali propri di questa fase, che sviluppano un'idea, seppur non definitiva, di sé stessi, eppure sono riluttanti a fare il loro ingresso nell'età adulta. Il problema focale dei giovani è proprio rappresentato dalla definizione del loro ruolo sociale, dalla necessità di decidere, in base alle proprie caratteristiche e a quelle del contesto in cui vivono. Non è facile stabilire quando si conclude la giovinezza, così come è difficile valutare gli esiti di questo periodo. Per alcuni la fine della giovinezza può comportare un senso di turbamento, dovuto ad un vissuto di paura alimentato da riconoscere di aver fatto delle scelte, rinunciando ad altre alternative, che potrebbero rivelarsi non sempre gratificanti. Per altri, invece, la giovinezza può concludersi con un senso di soddisfazione legato alla comprensione delle modalità adeguate di esprimere la propria individualità nel contesto sociale. 1.2 La tesi dell’«emerging adulthood» di Arnett Nel 2000 Arnett ha riportato l’attenzione degli studiosi sulla necessità di distinguere gli adolescenti dai giovani. Questo studioso ha sottolineato come i cambiamenti socioeconomici e culturali accorsi negli ultimi decenni abbia notevolmente favorito l’affermarsi della giovinezza come fase distinta del ciclo di vita. Per enfatizzare la specificità di questo periodo, Arnett ha suggerito l’utilizzo di una nuova nozione, emerging adulthood, argomentando come l’introduzione della nuova espressione sia funzionale al riconoscimento della specifica fase evolutiva. I giovani infatti non sono, ne dovrebbero essere trattati come dei tardoadolescenti: hanno infatti già affrontato i compiti di sviluppo tipici dell’adolescenza e ora si trovano di fronte a nuove sfide. Allo stesso tempo, l’espressione giovani rischia di essere troppo generica perché usata, nel linguaggio scientifico così come quello comune, per riferirsi a persone di varie età. Infine, Arnett sottolinea come anche l’espressione giovani adulti possa essere improprio perché veicola l’idea che l’età adulta si sia raggiunta. Sulla base di queste considerazioni l’autore propone di distinguere tre fasi: 1. L’adolescenza (10-18 anni), 2. L’emerging adulthood (19-29 anni), 3. L’età adulta (dopo i trent’anni). In realtà, ogni limite di età è difficilmente definibile. Così come per l’adolescenza, è facile stabilire l’inizio dell’emerging adulthood, fatto coincidere con la maggiore età, ma non la fine di questa fase del ciclo di vita. La ricerca empirica condotta negli Stati Uniti ha mostrato che sia adolescenti, sia giovani di 20-29 anni, sia le persone adulte affermano che i criteri considerati decisivi per la definizione dello status di adulto sono da ricercarsi nella sfera individuale. Quindi il raggiungimento dell’indipendenza decisionale, emotiva oltre che economica, viene considerato come l’indicatore più importante dello status adulto. Un’altra questione a cui è difficile rispondere è quella relativa alle caratteristiche distintive dell’emerging adulthood. Inizialmente Arnett si è soffermato su criteri demografici, soggettivi e identitari. Nello specifico, dal punto di vista demografico, l’emerging adulthood è un momento contrassegnato da frequenti cambiamenti, più o meno marcato a seconda del contesto di appartenenza, nello status relazionale e sociale. Gli adulti emergenti possono passare dalla vita in famiglia a condizioni di semi-autonomia, in cui condividono durante la settimana l’appartamento con altri giovani studenti o lavoratori per poi tornare a casa il fine settimana, a condizioni di maggiore autonomia, che prevedono il vivere da soli o il convivere con il partner. Questi cambiamenti sono associati alle scelte formative e lavorative, che possono caratterizzarsi per il tentativo di portare avanti parallelamente le esperienze universitarie e quelle lavorative, o per i passaggi, più o meno ripetuti, dalla condizione di studente a quella di lavoratore. In altre parole, l’emerging adulthood non si caratterizza per la linearità delle scelte, ma per l’emergere di traiettorie contraddistinta da numerosi cambiamenti, in cui a passi verso la maggiore autonomia possono seguire ritorni a condizioni di dipendenza dalla famiglia di origine. Dal punto di vista soggettivo, l’emerging adulthood si caratterizza per essere, nella percezione di coloro che la stanno vivendo, una fase di passaggio, in cui non ci si considera più adolescenti, ma, al contempo, non si ritiene di aver raggiunto lo status di adulti. Inoltre, per quanto riguarda le dinamiche identitarie, durante l’emerging adulthood continua ad essere pregnante quello che Erikson aveva considerato il compito di sviluppo tipico dell’adolescenza, ovvero la formazione della propria identità. In realtà sono pochi gli individui che al termine dell’adolescenza hanno acquisito un’identità stabile. L’emerging adulthood può essere definito come l’età dell’esplorazione dell’identità, in cui i giovani possono sperimentare, più che in qualsiasi altra fase della vita, varie alternative in campo affettivo, educativo, lavorativo e culturale prima di assumere scelte decisive nei vari ambiti. 2. Il caso italiano: la «sindrome del ritardo» L’emerging adulthood è una cosa che è divenuta visibile e si è affermata come un momento specifico del ciclo di vita a seguito di precisi cambiamenti socioeconomici e culturali. Da ciò conseguono due fenomeni: innanzitutto l’emerging adulthood non è un fenomeno universale, ma acquista significato soltanto in certi contesti culturali. In secondo luogo, anche all'interno della stessa società, le modalità di interpretare e vivere l’emerging adulthood variano a seconda del gruppo di appartenenza. Per quanto riguarda il caso italiano, i giovani italiani sono numericamente pochi e hanno poco peso nella vita pubblica. Inoltre, si può parlare di una sindrome del ritardo che caratterizza i giovani italiani. Infatti, sebbene sia evidente un progressivo dilazionamento dell’ingresso nella vita adulta riscontrabile nei paesi occidentali, bisogna riconoscere che in Italia tale posticipazione appare particolarmente marcata e differenzia il nostro paese dalle altre nazioni europee. I sintomi di questa sindrome del ritardo sono molteplici: L'allungamento dei processi formativi; La posticipazione dell'ingresso nel mercato del lavoro per via dei tassi di attività e occupazioni più bassi della media europea. A questi problemi bisogna aggiungere la diffusione delle forme contrattuali atipiche; L'elevata età alla quale si lascia la casa dei genitori per raggiungere l’indipendenza abitativa; La posticipazione dell’inizio di una stabile vita di coppia; Il ritardo nella transizione della genitorialità. Un ulteriore tipicità italiana consiste nel fatto che nel nostro paese i sintomi appena delineati tendono a configurarsi come tappe sequenziali, per cui ritardi accumulati nel corso delle prime tappe determinano ritardi nel passaggio dalle tappe successive. Questa tipicità italiana, definita come già ricordato sindrome del ritardo, è imputabile in parte limiti del sistema di Welfare del nostro paese, in cui, rispetto agli altri paesi europei, le politiche sociali a beneficio delle giovani generazioni sono ridotte. Tuttavia, da un’attenta analisi emerge che la difficoltà economiche spiegano solo in parte questa sindrome. Infatti, esiste un gruppo non trascurabile di emerging adults che, pur godendo della sicurezza economica necessaria per l’indipendenza abitativa e per formare una nuova famiglia, decide di posticipare lo stesso momento della transizione alla vita adulta. L'interdipendenza di fattori contestuali oggettivi, come l'inadeguatezza delle politiche sociali a favore delle giovani generazioni e la precarietà del mercato del lavoro, di fattori personali, quali la propensione ad approfittare di una situazione caratterizzata da notevole libertà e poche responsabilità, ha contribuito a delineare una specificità del caso italiano, evidente a partire da metà degli anni ‘80, quando si è iniziato a parlare della famiglia lunga del giovane adulto. Con questa espressione si pone l’accento sulla tipicità italiana, già riscontrabile più di vent’anni fa e ancora oggi evidente. Questo fenomeno è stato reso possibile da un mutamento delle relazioni familiari che ha fatto sì che i giovani sperimentassero all'interno della famiglia di origine spazi di libertà di espressione notevoli associati a ridotta responsabilità. In altre parole, i giovani vivono sempre più spesso in cosiddette famiglie hotel, in cui non hanno limiti di orari, possono invitare loro amici o il loro partner e dedicarsi a sé stessi visto che genitori non richiedono nessun contributo (né economico, né sottoforma di partecipazione alle attività domestiche) alla gestione familiare. In questo contesto la tentazione di rimanere in famiglia, anche quando ci sarebbero i presupposti per passare all’indipendenza abitativa e formare una famiglia, è forte. 2.1 Adolescenti, «emerging adults» e adulti italiani a confronto Affinché sia possibile individuare strategie adeguate è indispensabile conoscere bene la realtà degli emerging adults italiani. A tal fine abbiamo deciso di completare la riflessione sulla specificità del caso italiano con un'analisi di un importante ricerca sociologica svolta su scala nazionale, i cui dati sono stati ri-analizzati con un duplice fine: offrire ulteriori elementi sulle caratteristiche degli emerging adults italiani e individuare specificità dell'emerging adulthood rispetto all'adolescenza e l’età adulta. La ricerca in questione è lo studio condotto dall’Istituto IARD su un campione di 3000 individui di età compresa tra i 15 e i 34 anni. I dati sono stati ri-analizzati per esaminare la presenza di differenze e similarità tra gli individui di diverse fasce d’età: Adolescenti di 15-19 anni; Emerging adults di 20-24 anni; Emerging adults di 25-29 anni; Adulti di 30-34 anni Di seguito, nella tabella, i risultati: 3. Uno sguardo al resto del mondo Il 77% delle ricerche condotte negli Stati Uniti nel 2007 riguardavano solo gruppi di origine europea, e pertanto escludevano gli appartenenti alle minoranze etniche. Inoltre, più dei due terzi degli articoli riguardavano ricerche condotte unicamente con studenti universitari di psicologia, restringendo ulteriormente la porzione di popolazione oggetto di indagine. Queste considerazioni mettono in luce una grave criticità della ricerca psicologica, spesso non in grado di tener conto dell'influenza dei fattori contestuali e culturali. Per esempio, gli studi sull’adolescenza sottolineano la centralità delle relazioni amicali come contesti in cui si sperimentano e negoziano vari ruoli sociali. Per gli adolescenti che vivono nei paesi occidentali il primo contesto in cui avviene l’interazione tra pari è rappresentato dalla scuola. Ma cosa accade per gli adolescenti che crescono nei paesi in via di sviluppo e spesso non hanno accesso all’istruzione secondaria? Nel 2007 è stata pubblicata l’International enciclopedia of Adolescense, curata da Arnett e strutturata in modo da fornire elementi utili a comprendere come l’adolescenza emergente sia vissuta in vari paesi del mondo. La documentazione presentata mette in luce come il riconoscimento dell’esistenza delle fasi adolescenziali e giovanili vari fortemente, non solo tra un paese all’altro, ma anche all’interno degli stessi. In ogni paese è possibile riscontrare differenziazioni sulla possibilità di individuare i periodi evolutivi che segnano un passaggio graduale dall’infanzia alla vita adulta, sulle rappresentazioni di tali fasi e sulle aspettative riposte nelle giovani generazioni dovute all’area geografica di residenza, al contesto in cui gli adolescenti vivono, allo status socioeconomico della famiglia di origine e al gruppo etnico di appartenenza. Se ci spostiamo in Africa e consideriamo, per esempio lo Zimbabwe, notiamo che l'adolescenza viene riconosciuta come una fase dello sviluppo, ma è difficile stabilirne la fine. Nei paesi dell’Africa settentrionale, come per esempio il Marocco, si può parlare di emerging adulthood solo riferendosi ai giovani provenienti dagli strati sociali più elevati, che hanno la possibilità di accedere all'università, posticipando così l'assunzione dei ruoli adulti. Nel continente asiatico la variabilità tra i diversi paesi è ancora più marcata. In questo paese le modalità di vivere l’età adolescenziale variano fortemente non solo in base all’area e allo status socioeconomico della famiglia di origine, ma anche in base al genere. In Cina l'inizio dell'adolescenza viene associata alla fine della scuola primaria e al passaggio della scuola secondaria di primo grado, mentre la fine dell’adolescenza è legata alla fine della scuola secondaria e all'ingresso all'università nel mercato del lavoro. In Giappone tra l’adolescenza e l’età adulta vi è possibile individuare un periodo di emerging adulthood caratterizzato dai tentativi dei giovani di trovare un proprio stile di vita autonoma. Concludendo, questi brevi esempi rivelano come le caratteristiche dell’adolescenza delle emerging adulthood non siano universali, bensì acquistano senso in specifici contesti socioculturali. IDENTITÀ E CONCETTO DI SÉ Capitolo 4 L'adolescenza (10-18 anni) e l’emerging adulthood (19-29 anni) rappresentano due fasi del ciclo di vita in cui il compito di sviluppo fondamentale rappresentato dalla ristrutturazione del proprio concetto di sé. Infatti, in questi due periodi le domande chi sono io? Che cos’è che mi definisce? Qual è il mio posto nella società? Per cosa vale la pena spendere la propria vita? diventano il nodo centrale attorno a cui avviene lo sviluppo individuale. Comprendere come gli adolescenti e i giovani affrontano il compito di sviluppo legato alla ristrutturazione della propria rappresentazione di sé è stata, fin dall'emergere dello studio scientifico dell’adolescenza, una priorità degli psicologi. Esistono due linee di ricerca che, pur trattando argomenti affini, sono chiaramente distinte e spesso non comunicanti. Facciamo riferimento alla linea di ricerca che studia l'identità adolescenziale e a quella che si occupa del concetto di sé. Entrambi gli approcci sono finalizzati a individuare le modalità attraverso cui gli adolescenti cercano di rispondere alla domanda chi sono io? Ed entrambi riconoscono che tale domanda è stimolata dei cambiamenti biologici, cognitivi e sociali tipici della fase adolescenziale. Tuttavia, nonostante queste similarità, le due correnti hanno proceduto su binari paralleli, arrivando concettualizzazioni molto elaborate ma scarsamente collegate tra loro. 1. Il compito di sviluppo centrale dell’adolescenza Anche se l’adolescenza non viene necessariamente esperita come momento di storm and stress, rappresenta sicuramente il periodo evolutivo più denso di cambiamenti e transizioni. L’adolescenza inizia con la pubertà; al cambiamento fisico si associano esperienze emozionali molto intense, soprattutto per la rilevanza dei cambiamenti corporei che impongono la ricerca di nuovi equilibri e rapporti con il mondo e con il proprio sé. I cambiamenti fisici, d’altronde, fanno sì che l’individuo sia trattato dalle persone con cui abitualmente entra in contatto, e anche dagli estranei, in modo diverso da come era trattato da bambino. Le richieste che gli sono rivolte si modificano, ci si aspetta da lui un comportamento da adulto ma contemporaneamente lo se continua considerare non autonomo. Di questo mutamento di relazioni l’adolescente è particolarmente consapevole: in rapporto a esso modifica il suo atteggiamento verso sé stesso e il mondo circostante. Il primo indice, frequentemente conflittuale, si manifesta nel fatto che lui non accetta più di essere totalmente dipendente dalla propria famiglia, dalle varie forme di sostegno socioaffettivo che la famiglia gli ha fornito fino a quel momento. In parallelo, altri cambiamenti nei confronti del mondo circostante sono attivati dall’aumentato numero di stimoli a cui l’adolescente pone attenzione, in rapporto a un incremento del proprio interesse nei confronti di sentimenti e stati d'animo, oltre che del mondo esterno. Molte certezze consolidate sono così messe in discussione, anche perché immaginare il proprio futuro e prepararsi ad affrontarlo può risultare particolarmente difficile. Gli adolescenti, in altre parole, si trovano di fronte molta incertezza a proposito di come interpretare la propria esperienza, tanto che non vuole più applicare i parametri di giudizio familiari. È in momenti critici di questo tipo, in cui nasce una vera e propria riorganizzazione del sistema di sé, in cui la specificità di un sistema sociale offre alla persona la possibilità di trovare soluzioni adeguate. La riorganizzazione del sistema di sé si verifica grazie ad una fitta rete di relazioni di scambio in cui il soggetto, consapevole almeno in parte del cambiamento che lo concerne, sviluppa il proprio valore riflette su sé stesso. I cambiamenti che avvengono a livello fisico, cognitivo e sociale, spingono, dunque, a rivedere criticamente l’immagine che si sono formati di sé stessi ed avviare un percorso verso la formazione di un sé maturo e responsabile. 2. L’identità 2.1 Il contributo pioneristico di Erik Erikson L'impostazione ora delineata per lo studio dell'adolescenza è largamente debitrice del contributo di conoscenza fornito da Erik Eriksson. Egli sostiene che la vita dell'uomo può essere concepita come una serie di stadi, ciascuno contrassegnato da un dilemma cruciale che deve essere risolto per passare allo stadio successivo; il dilemma che caratterizza l'adolescenza è quello espresso dalla tensione fra identità e diffusione dell'identità. Erikson approfondisce il costrutto di identità giungendo progressivamente a definirlo come un fenomeno psicosociale articolato: È necessario distinguere tra identità personale e identità dell’Io. Il sentimento cosciente di avere un’identità personale è basato su due osservazioni simultanee: la percezione dell’essere se stessi nella continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio; la percezione che gli altri riconoscano il nostro essere noi stessi e la nostra continuità. Elaborando in tal modo la nozione di identità, Erikson si stacca dalla tradizione freudiana ortodossa che enfatizza la rilevanza della dotazione biologica individuale per lo sviluppo della persona: anche la storia di vita del soggetto e il contesto culturale storico in cui egli vive entrano in gioco nel processo di formazione della personalità. L’identità, dunque, viene concettualizzata e definita da Erikson in modo interdisciplinare: la dotazione biologica, l’organizzazione, l’esperienza personale e l’ambiente culturale contribuiscono, insieme, a dare significato, forma e continuità all’esistenza unica di ciascuno. L’acquisizione dell’identità implica un conflitto assai rilevante per la persona che si realizza nell’adolescenza e nella giovinezza, periodo in cui la dotazione biologica del soggetto e i processi intellettuali devono incontrare le attese sociali per una dimostrazione adeguata di funzionamento adulto. Erikson considera il processo di formazione dell’identità come il fenomeno più significativo dell’esistenza, anche se poi si sofferma a illustrare soprattutto gli aspetti costitutivi, strutturali, dell’identità, discutendo assai meno i termini interattivi del processo attraverso il quale essa si forma. In questo senso l'autore definisce la differenza tra infanzia e adolescenza: la formazione dell'identità è un processo adolescenziale ben diverso dei processi di introduzione di identificazioni infantili. La confusione dei ruoli (lo stato psicologico che secondo Erikson corrisponde alla diffusione, cioè alla mancata acquisizione dell'identità) consiste nel passare da una identificazione all'altra, provando e riprovando ruoli sociali diversi in una sorta di turismo psicologico dell’Io, generatore di ansie profonde, senza mai riuscire a costruire una sintesi originale del materiale disponibile. La formazione dell'identità è un processo esaltante ma anche doloroso perché il soggetto che viene impegnato deve scegliere una prospettiva di sviluppo, rinunciando ad altre che sente altrettanto allettanti. Questo richiede anche che il soggetto trascenda le identificazioni per produrre un insieme dei propri bisogni e talenti, che lo renda capace di occupare un proprio spazio nel contesto sociale circostante. Fedeltà e impegno sono le due competenze chiave che caratterizzano l’acquisizione dell’identità raggiunta, una nuova identità in cui la persona è in grado di individuare una causa valida ed investire in essa le proprie energie, trovando in tale impegno la validità dei propri valori. A questo punto occorre precisare che l’acquisizione dell’identità non necessariamente implica la scelta di un percorso socialmente approvato. Lo stesso Erikson precisa, nel suo lavoro, che lo sviluppo non si conclude con l’acquisizione dell’identità: raggiunto questo stadio il soggetto può procedere, grazie la fedeltà di cui è capace, e impegnarsi in un rapporto intimo con un’altra persona realizzando così un incontro tra due Io, ognuno ben fondato sulla propria identità. L’intimità è, in altre parole, la capacità di fondere la propria identità con un altro senza temere di perdere qualcosa di sé stessi. L’isolamento è l’alternativa psicosociale che sostiene il conflitto a questo livello: può verificarsi, anche nel contesto di una relazione, una sorta di isolamento a due che fornisce ai partner una giustificazione per non impegnarsi a crescere ulteriormente aprendosi agli altri. Infine, nella concezione di Erikson l’identità è una componente di tutti gli stadi del ciclo di vita dell’uomo. Quindi, la formazione dell’identità durante l’adolescenza chiarisce l’orientamento dello sviluppo di tutti gli stadi precedenti del ciclo di vita e costituisce la base degli sviluppi successivi della personalità. 2.2 Il modello degli stadi dell’identità di Marcia Il lavoro di Erikson è fondato sulla sua esperienza clinica, nutrita da una profonda sensibilità umana e dalla sua grande cultura filosofica e antropologica. Molti ricercatori si sono posti il problema della possibilità di operazionalizzare, in tutto o in parte, tale modello per sottoporlo alla verifica della ricerca empirica. Il lavoro più noto svolta a proposito dello sviluppo dell’identità è quello di James Marcia. Marcia ha dedicato gran parte della sua vita e della sua carriera a studiare il processo di costruzione dell’identità dell’adolescenza tentando, per mezzo della ricerca empirica, di confermare la validità euristica e l’utilità operativa del costrutto eriksoniano di identità. La definizione che l’autore assume deriva direttamente dalla teoria di Erikson: l’identità si riferisce al sentimento coerente del proprio significato, per sé e per gli altri, del contesto sociale. Il sentimento di identità implica un’unità dell'individuo con il proprio passato. Una volta che una persona ha formato la sua identità verso la fine dell'adolescenza, vede sé stessa e agisce nel mondo secondo modalità ispirate dalla stessa identità. Sin dall'inizio dei lavori empirici, Marcia si rese conto che la dicotomia eriksoniana identità verso diffusione dell'identità non poteva cogliere in modo adeguato la molteplicità degli stili con cui i soggetti studiati descrivevano sé stessi. In specifico, qualcuno arrivava dall’identità attraverso un periodo di crisi, altri restavano fermamente ancorati alle identificazioni realizzate durante l'infanzia; fra quelli che non erano giunti a definire una propria identità, alcuni sembravano poco preoccupati di ciò, mentre altri apparivano molto coinvolti nello sforzo di perseguire un sentimento di identità intimamente coerente. L’osservazione delle diverse modalità con cui gli individui studiati, tutti i soggetti verso la fine dell’adolescenza, affrontavano il problema dell’identità, indusse Marcia a postulare i quattro stadi dell'identità, cioè quattro modalità di affrontare, da parte di soggetti nel corso dell’adolescenza, il dilemma identità verso diffusione dell’identità. Sulla base dei criteri dell’esplorazione e dell’impegno sono stati individuati quattro stati dell’identità: 1. Acquisizione: gli adolescenti in questo stato hanno esplorato in maniera significativa vari alternative: tale esplorazione ha portato all'assunzione di impegni precisi a lungo termine; 2. Chiusura: gli adolescenti in questo stato si sono impegnati in determinati ambiti, per esempio quello politico o religioso, ma tali impegni sono stati scelti dedicando scarso interesse all’esplorazione delle alternative disponibili; 3. Moratorium: gli adolescenti che si trovano in questo stato sono ancora nella fase esplorativa della propria esperienza, gli impegni non sono stati ancora assunti in modo fermo, ma presentano uno sforzo rilevante per giungere a tale punto. È per soggetti in queste condizioni che Marcia impiega la definizione di crisi d’identità; 4. Diffusione: chi si trova in questo stato ha messo in atto vari tentativi di esplorazione ma comportandosi sempre in modo superficiale. Ciò che contraddistingue questi soggetti è la mancanza quasi assoluta di impegno. Secondo il modello di Marcia, il processo di costruzione dell'identità inizia nel momento in cui i cambiamenti biologici, cognitivi, culturali e sociopsicologici caratterizzanti l’inizio dell'adolescenza costituiscono l'evento critico che obbliga il soggetto che cresce ad abbandonare gli equilibri infantili e cercare di nuovi. Soltanto se il processo di esplorazione si conclude con l’integrazione tra elementi nuovi e caratteristiche precedenti della persona si può parlare di acquisizione dell'identità. Se la configurazione dell’identità raggiunta al termine dell’adolescenza è costruita dal soggetto stesso e non imposta da forze esterne nel corso del ciclo di vita si possono verificare delle riformulazioni ulteriori di essa nel momento in cui l’attore sociale incontra e risolve sfide rilevanti per la crescita dell’Io. 2.3 Come evolvono in adolescenza gli stati dell’identità? In una recente metanalisi è emerso che il 49% degli adolescenti e dei giovani rimane nello stesso stato dell’identità (lo stato di acquisizione rappresenta lo stato più stabile, mentre lo stato di moratorium è quello meno stabile), il 36% mostra movimenti progressivi, che riguardano varie transizioni, mentre il restante 15% riporta movimenti regressivi (per esempio, abbandono dello stato di acquisizione per tornare allo stato di moratorium). Questi risultati, presi nel loro complesso, suggeriscono una serie di riflessioni sulla possibilità di considerare la teoria di Marcia come un modello evolutivo. Per poter essere interpretata come tale, la teoria degli stadi dell’identità dovrebbe prevedere due condizioni: Una sequenza evolutiva fissa, che prevede il passaggio dagli stadi meno immaturi a quelli più maturi; Un punto di arrivo uguale per tutti, rappresentato dallo stato di acquisizione dell’identità. Come suggerito dei risultati della metanalisi, entrambe le condizioni non sono rispettate. Infatti, molti adolescenti rimangono nello stesso stato dell’identità e, anche nei casi in cui si verificano delle transizioni, queste riguardano principalmente il passaggio da uno stato a un altro nella sequenza evolutiva ipotizzata. Queste considerazioni, unitamente ad altre ricerche mosse negli ultimi vent’anni al modello degli stadi dell’identità hanno dato un nuovo impulso alla ricerca sull’identità. 3. I contributi europei allo studio degli stadi dell’identità 3.1 Le riflessioni di Harke Bosma A metà degli anni ’80, lo psicologo olandese Harke Bosma ha sviluppato il modello di Marcia cogliendo l’importanza di alcuni aspetti originariamente trascurati. In particolare, il contributo innovativo proposto da Bosma si articola su tre livelli: 1. La riflessione sui processi dell'identità; 2. L’analisi degli ambiti specifici in cui gli adolescenti devono assumere impegni rilevanti; 3. L'attenzione all'interdipendenza tra sviluppo identitario contesto. Per quanto riguarda il primo aspetto, Bosma ha sottolineato l’importanza di non focalizzarsi esclusivamente sulle differenze tra gli stadi dell’identità, bensì esaminare anche i processi attraverso cui l’identità si forma. La distinzione tra contenuto dell’impegno e intensità dello stesso suggerisce che non è sufficiente che gli adolescenti assumano un impegno: se essi non si identificano con tale impegno questa scelta non diventa un elemento centrale. L’assunzione di un impegno non comporta necessariamente l’identificazione con esso. Bosma ha sottolineato, inoltre, che l’acquisizione dell’identità passa attraverso più crisi e risoluzioni e non può mai essere considerata conclusa. L’acquisizione dell’identità può dunque passare attraverso diverse crisi e risoluzioni costruttive della stessa, oppure può essere ostacolata da difficoltà particolari incontrate in un’area vitale. La rielaborazione di Bosma, che apre la strada a possibilità di ricerca molto analitiche differenziate, permette di intendere il processo di acquisizione dell’identità non più in termini di tutto-nulla ma in termini relativi: un soggetto può, in linea teorica, costruire un’identità integrale assumendo, dopo molteplici fasi di crisi, di impegno e di fedeltà a sé i valori che gli sono richiesti dalle responsabilità di adulto; molto più generalmente, sul piano pratico, la gran parte dei soggetti costruisce una prova identità imperfetta risolvendo alcune crisi con l’assunzione di impegni di fedeltà ai propri valori nei confronti delle corrispondenti aree del proprio spazio di vita, non esplorando altre aree di rilevanza vitale. Attraverso il suo lavoro di ricerca, Bosma ha cercato di individuare gli ambiti che gli adolescenti considerano più rilevanti della propria identità, riscontrando la centralità della dimensione scolastica e delle scelte professionali future, l’importanza