Sociologia Dei Processi Economici E Del Lavoro PDF

Summary

This book examines sociological perspectives on economic processes and labor. It discusses classical theories, focusing on Marx's analysis of capitalism, Durkheim's concept of the division of labor, and Weber's approach to economic action. It also explores the evolution of industrial production, from craft production to mass production.

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SOCIOLOGIA DEI PROCESSI ECONOMICI E DEL LAVORO TEMI E PERCORSI DI SOCIOLOGIA DEL LAVORO (FORTUNATO) Cap 1 LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO E IL CONTRIBUTO DEI CLASSICI Pierre Rolle definisce la sociologia del lavoro come «la scienza che si propone di riconoscere, osservare e interpretare i fenom...

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI ECONOMICI E DEL LAVORO TEMI E PERCORSI DI SOCIOLOGIA DEL LAVORO (FORTUNATO) Cap 1 LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO E IL CONTRIBUTO DEI CLASSICI Pierre Rolle definisce la sociologia del lavoro come «la scienza che si propone di riconoscere, osservare e interpretare i fenomeni sociali che si producono tramite il lavoro». Tale definizione rimanda alla nozione weberiana della sociologia intesa come scienza avente lo scopo di osservare e interpretare la società. Definire il concetto di “lavoro” nelle scienze sociali risulta alquanto difficile. In particolare il “lavoro retribuito” occupa una posizione ben precisa all’interno delle società capitalistiche; secondo Gorz è proprio attraverso il lavoro remunerato che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquistiamo un’esistenza e un’identità sociale, siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi in cui ci misuriamo con gli altri. Una definizione più esaustiva è quella proposta da Friedman e Naville, secondo i quali la sociologia del lavoro altro non è che lo studio delle «collettività che si costituiscono in occasione del lavoro…»; questo punto di vista chiarisce meglio quali sono i confini di questa disciplina, individuando gli attori, i processi organizzativi, le relazioni tra gli attori e il contesto esterno. Gli studiosi enfatizzano la centralità del lavoro nell’industria. MARX E L’ANALISI DEL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO Karl Marx (1818-1883) è lo studioso che ha maggiormente influenzato la sociologia del lavoro e dell’industria. Marx ha una concezione materialistica e dinamica della società; egli sostiene che, per capire una società, bisogna rendersi conto di come in essa gli uomini provvedano a soddisfare i loro bisogni e di quali rapporti si instaurano tra di essi nella sfera della produzione. Nello specifico, il modo di produzione capitalistico si distingue da quelli che lo hanno preceduto per il fatto che si caratterizza per l’interazione tra due gruppi di individui o classi distinte, tra loro antagoniste in quanto portatrici di ideali e interessi diversi: vi sono, infatti, i capitalisti (la borghesia) ossia, i detentori del capitale (costituito da fabbriche, mezzi di produzione, materie prime, ecc..) che pongono al loro servizio il proletari cioè quei lavoratori la cui unica fonte di ricchezza è la forza-lavoro che costoro “vendono” sul mercato come merce. Caratteristiche del capitalismo: È un’organizzazione di scambio, in particolare un’economia monetaria; Sul mercato collaborano due diversi gruppi: i proprietari dei mezzi di produzione, che hanno la direzione, e i lavoratori nullatenenti che per vivere non hanno altro da vendere se non la loro forza-lavoro; L’orientamento delle mete dei capitalisti è verso l’accumulazione del profitto come fine in sé e il suo reinvestimento nell’ambito dell’impresa; L’organizzazione della produzione e la gestione dell’impresa sono improntate a criteri di “razionalità economica”, mediante le applicazioni tecnologiche della scienza e l’uso di moderne procedure contabili. LA DIVISIONE DEL LAVORO IN AMBITO SOCIOLOGICO Emile Durkheim nel libro La divisione del lavoro sociale pubblicato nel 1893, analizza le diverse forme di società, a partire da una visione organicistica della società, secondo la quale ogni società, così come un organismo biologico, è composta da parti differenti a ciascuna delle quali corrisponde una determinata funzione. Lo studioso utilizza il termine divisione del lavoro per indicare ogni forma di specializzazione di una funzione sociale, estendendo la sua applicazione ben al di là della sfera economica. Durkheim considerava le forme di divisione del lavoro come strettamente connesse ai diversi tipi di ordine sociale e di ciò che egli definisce come “solidarietà”. In particolare vi sono due tipi principali di solidarietà che contraddistinguono due forme specifiche di società: la prima forma, definita solidarietà meccanica, che corrisponde alla società semplice o segmentaria (tribù primitive), dove la divisione del lavoro è molto limitata. L’altra forma, la solidarietà organica, corrisponde invece alle società strutturalmente complesse e differenziate al proprio interno, dove la divisione del lavoro è un elemento fondamentale. Durkheim, anche se riconosce nella storia umana entrambi i tipi di società, sostiene che al crescere della complessità sociale, cioè l’intensificazione e lo sviluppo dei rapporti umani, aumenta la divisione dal lavoro e la differenziazione dei compiti, e questo conduce al prevalere nel tempo delle società organizzate su quelle segmentate. Però afferma che le società complesse richiedono maggiore coordinamento tra gli individui ed implicano una maggiore rispetto delle norme morali. Infatti in queste società si potrebbe presentare il rischio di Anomia, cioè l’assenza di norme morali unanimemente condivise. I possibili rimedi, secondo lo studioso, consisterebbero nel corporativismo, cioè nella diffusione di associazioni professionali capaci di svolgere un ruolo di intermediazione, e nel potenziamento dei processi educativi tali da fornire a tutti gli individui valori morali condivisi. MAX WEBER E L’APPROCCIO ECONOMICO ALLA SOCIOLOGIA Secondo Max Weber la sociologia ha lo scopo di comprendere l’agire sociale, cioè quella particolare forma di agire dotata di “senso oggettivo” ed orientata verso “altri individui”; tale agire può essere determinato in diversi modi: In modo razionale rispetto allo scopo, alla base dell’agire umano vi è il calcolo razionale mediante il quale l’individuo cerca di raggiungere i propri scopi valutando accuratamente i mezzi più efficaci a tal fine; In modo razionale rispetto al valore, l’agire è orientato in base al “valore in sé” di un determinato comportamento; Affettivamente, agire in base alle emozioni, sentimenti o stati d’animo; Tradizionalmente, cioè seguendo un’abitudine acquisita nel tempo. Weber sostiene che l’agire sociale si presenta come una combinazione di queste diverse forme. In Economia e società lo studioso afferma che l’agire sociale può essere definito agire economico se orientato ad ottenere prestazioni di utilità desiderate o possibilità di disporre di esse; secondo lo studioso i due tipi più importanti di agire economico sono l’amministrazione domestica, che tende al soddisfacimento dei fabbisogni dei membri di una società, e l’economia acquisitiva, che si caratterizza per la ricerca del guadagno attraverso lo scambio. In questa seconda tipologia l’IMPRESA assume un ruolo centrale, essa infatti è orientata alla redditività; un tipo particolare di impresa è la fabbrica. Per Weber alla base dell’organizzazione economica capitalistica vi sono l’impresa e l’agire economico razionale finalizzato all’accumulazione del capitale. La teoria di Weber sull’impresa e sul capitalismo condivide molti punti con il pensiero di Marx, ma secondo Jedlowski, se ne differenzia per due aspetti fondamentali: da un lato il fondamento razionale (rispetto allo scopo) dell’agire economico capitalistico, dall’altro l’assenza del tema dello sfruttamento del lavoratore salariato (centrale invece in Marx). Weber, riguardo alle origini del capitalismo moderno, si discosta dalla tesi di Marx, poiché egli conferisce al capitalismo un carattere prevalentemente culturale (il calvinismo) e sociale, legato al pensiero religioso protestante per il quale il risparmio e la rinuncia al consumo rappresentano una condizione indispensabile alla accumulazione. Weber crede che il sorgere e il diffondersi del protestantesimo sia una condizione necessaria per l’affermazione del capitalismo. Egli focalizza l’attenzione sulla relazione che intercorre tra le diverse religioni e l’avvento del capitalismo nel mondo occidentale. Il capitalismo, infatti, si basa sull’atteggiamento dell’imprenditore, il quale reputa la propria attività economica come una vocazione spirituale, non solo come un impulso al guadagno. Il capitalismo moderno si è imposto in origine laddove era prevalente la religione protestante (calvinista), mentre nei territori dove si praticava la religione cattolica tale sviluppo era avvenuto in ritardo. Mentre nel cristianesimo medievale il credente era convinto di raggiungere la propria salvezza dedicandosi alla vita contemplativa e alla preghiera, il cristianesimo riformato propone un altro modello di “ascesi”. Il protestantesimo introduce un apprezzamento della vita professionale “laica” che genera un modello di “ascesi mondana”. Secondo questa prospettiva, il moderno imprenditore capitalista assume un atteggiamento metodico, che lo spinge a perseguire in maniera razionale e sistematica il profitto per reinvestirlo, rinunciando all’immediato godimento materiale della ricchezza accumulata. Un altro concetto molto importante nella sociologia weberiana è quello di classe. Weber ha elaborato una teoria della stratificazione sociale a più dimensioni. Egli, infatti, era convinto che le fonti delle disuguaglianze e i principi di aggregazione degli individui andassero ricercati in tre diverse sfere: l’economia, la cultura e la politica. Nella prima gli individui si univano sulla base di interessi materiali comuni, formando classi sociali; nella seconda seguendo comuni interessi e ideali, dando vita ai ceti; nella terza gli individui si associavano in partiti per il controllo dell’apparato di dominio. Cap 2 DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE ALLA PRODUZIONE DI MASSA: IL TAYLOR-FORDISMO LE ORIGINI DEL TAYLORISMO Il taylorismo rappresenta una tappa fondamentale dello sviluppo industriale e una vera e propria rivoluzione manageriale rispetto al modello precedente, vale a dire la produzione artigianale. Infatti, l’opera di Frederick Taylor e la sua particolare concezione dell’organizzazione di fabbrica hanno profondamente influenzato per circa un secolo le scelte delle aziende, rappresentando una soluzione razionale e particolarmente vantaggiosa per gli imprenditori ai problemi di natura tecnico-organizzativa. All’inizio del Novecento, infatti, erano ormai presenti una serie di fattori socio economici il cui operare congiunto ha determinato il superamento della produzione artigianale e la formazione della produzione di massa su larga scala. Il primo fattore è insito nello sviluppo della scienza e nelle nuove tecnologie, ossia in macchine specializzate o “dedicate” in grado di compiere una sola o un numero limitato di operazioni, particolarmente a lavorazioni e prodotti standardizzati. Il secondo fattore è legato allo sviluppo del gigantismo industriale, cioè alla crescita delle industrie di grandi dimensioni. Le imprese tendono ad assumere una struttura verticale e sarà una delle caratteristiche fondamentali della produzione di massa. Il terzo fattore è rappresentato dalla particolare natura della forza lavoro utilizzata nelle fabbriche americane agli inizi del 900. Per la stragrande maggioranza si trattava di lavoratori poco qualificati che avevano lasciato le campagne nei paesi di origine affollando le grandi città americane in cerca di occupazione senza mai avere avuto alcun contatto con le manifatture ed il lavoro industriale. Il quarto fattore risiede nelle caratteristiche del contesto di mercato in cui si svilupperà successivamente il modello proposto da Taylor. L’ambiente in cui Taylor viveva ed operava si caratterizzava prevalentemente per la sua stabilità e prevedibilità, per cui sarebbe stato possibile produrre e vendere prodotti nuovi a condizione che fossero a buon mercato. Puntare alla riduzione dei costi per battere la concorrenza piuttosto che sulla qualità dei prodotti sembrava possibile perché una volta indovinato il prodotto da immettere sul mercato, la sua produzione poteva andare avanti per lungo tempo senza variazioni. Le tecniche di conduzione di queste fabbriche si caratterizzavano per l’assenza di criteri rigorosi e uniformi nell’impostare il lavoro e per l’elevata discrezionalità delle gerarchie intermedie, quasi sempre di origine operaia, che, in assenza di standard predefiniti, si affidavano all’approssimazione ed all’empiria. Non esisteva quindi una vera e propria figura manageriale, bensì il capitalista descritto da Marx, il quale non si occupava della gestione diretta del lavoro operaio e si limitava a fornire il capitale fisso, le attrezzature e i materiali. L’elaborazione del metodo scientifico di Taylor nasce dal rifiuto di tale organizzazione, considerata poco efficiente. L’organizzazione scientifica del lavoro consiste fondamentalmente in 4 principi: 1) Task management o organizzazione per compiti è il punto centrale su cui ruota l’intero ragionamento di Taylor. Nasce dalla constatazione della quasi totale assenza di regole e criteri oggettivi nell’impostazione del lavoro artigiano e consiste, secondo Taylor, nella preparazione dei vari compiti e nel farli eseguire conformemente alle istruzioni emanate dalla direzione. Per determinare scientificamente il modo ottimale di svolgere il lavoro, Taylor eseguì una serie di esperimenti noti anche con il nome di “Time Emotion Studies”. Tali studi furono eseguiti con l’uso del cronometro con l’intento di pervenire alla totale determinazione della condotta dell’operaio e dei tempi necessari allo svolgimento di quel particolare lavoro. Nel primo esperimento relativo al trasporto della ghisa, Taylor selezionò all’interno di un gruppo di 75 lavoratori, tutti molto abili nel loro lavoro, 4 migliori operai. La scelta avvenne dopo aver esaminato il carattere, la forza fisica e la muscolatura per poter sollevare e trasportare il maggior carico di materiale. Tra i 4 Taylor scelse un manovale al quale fu chiesto di lavorare seguendo scrupolosamente le istruzioni di un supervisore che definivano in modo dettagliato gli strumenti, i compiti, i movimenti e i tempi. In questo modo la movimentazione del materiale passò dalle 12.5 alle 47 tonnellate giornaliere. In cambio di tale prestazione Taylor offrì al manovale un salario più alto rispetto a quello percepito dagli altri operai. Il manovale accettò e, seguendo le istruzioni del supervisore, riuscì a trasportare le 47 tonnellate giornaliere. Taylor attraverso questi esperimenti arrivò a scomporre il lavoro operaio in attività parcellizzate e a definirle in standard stabilendo i movimenti più razionali per eseguire il lavoro, il tipo di attrezzi da utilizzare e il tempo strettamente necessario per eseguirle. Inoltre per incentivare i lavoratori all’adozione del nuovo metodo Taylor propose un incremento del salario fino al 60% della paga giornaliera. 2) Il secondo principio si basa sul reclutamento e sulla selezione scientifica dei lavoratori. Il compito della direzione aziendale era quello di selezionare, istruire, addestrare il lavoratore con metodi scientifici. La scientificità di tali metodi si basava sull’accurata analisi e valutazione di ogni singolo lavoratore, considerato non più come membro indistinto di una massa, ma come portatore di particolari capacità e di limiti. In sostanza, secondo Taylor, le attitudini, le condizioni fisiche e le abilità innate dei lavoratori sono tra loro così diverse che non tutti sanno svolgere bene e in modo uguale ogni mansione, ma ciascun operaio sa essere di “prim’ordine”, cioè sa svolgere particolarmente bene almeno un lavoro. Il compito della moderna direzione aziendale era appunto quello di individuare, attraverso colloqui, valutazioni test psico-fisici, il lavoro giusto per ciascun operaio sulla base delle proprie capacità. Emerge con chiarezza la differenza e la novità rispetto ai metodi di reclutamento del periodo precedente che si basavano sul caso, sull’approssimazione o anche sulla corruzione dei capisquadra. 3) Il terzo principio riguarda l’instaurazione di rapporti collaborativi tra la direzione e la manodopera allo scopo di assicurare che tutto il lavoro formulato dalla direzione venisse eseguito in conformità ai principi dello Scientific Management. 4) Il quarto principio dell’organizzazione scientifica del lavoro prevede una equa distribuzione del lavoro e delle responsabilità tra dirigenti e operai e rappresenta, una vera e propria ristrutturazione dell’apparato secondo criteri di razionalità ed efficienza organizzativa. La moderna direzione scientifica assume su di sé tutti i compiti per la conduzione della fabbrica, lasciando agli operai lo svolgimento delle mansioni esecutive. Con Taylor si è realizzata, dunque, la netta separazione tra la fase di ideazione e la fase di esecuzione che spettava invece agli operai. Separando il lavoro dei dirigenti da quello operaio Taylor ha dovuto affrontare anche il problema di organizzare in maniera più razionale il ruolo dei dirigenti. In particolare, per cercare di ovviare ai limiti della direzione tradizionale, egli ha proposto un nuovo modello organizzativo, la direzione funzionale, basata sull’aumento dei quadri intermedi, denominati capi funzionali, a ciascuno dei quali veniva assegnata la responsabilità di una particolare area della gestione. Taylor introdusse per la prima volta le funzioni di staff con il compito di affiancare e supportare il comportamento dei manager. Egli ha stabilito le relazioni che si sarebbero dovute instaurare tra le diverse figure e ha disciplinato i flussi della comunicazione tra i vari livelli introducendo il principio di eccezione. Tale principio stabilisce che al responsabile dell’organizzazione devono arrivare soltanto le “eccezioni”, cioè solo quelle pratiche che i capi funzionali non riescono a gestire nell’ambito delle proprie competenze. IL FORDISMO E L’AVVENTO DELLA PRODUZIONE DI MASSA L’opera di Taylor costituisce la base dalla quale riparte un altro illustre personaggio dell’epoca: Henry Ford. Il grande successo di Ford sta proprio nel riuscire in ciò in cui Taylor aveva in qualche modo fallito, vale a dire adattare al lavoro operaio grandi masse dequalificate. Il punto di svolta risiede nella trasformazione delle operazioni di montaggio che trova nella assembly line (catena di montaggio) lo strumento della sua realizzazione. Con l’introduzione nel 1913 della catena di montaggio, i pezzi da montare vengono trasportati dal nastro davanti a postazioni fisse in cui le singole operazioni, semplificate e parcellizzate, vengono svolte dagli operai man mano che i pezzi passano con una cadenza tale da trascinare ogni singolo lavoratore. Diversamente da Taylor, Ford sceglie di puntare sulle masse piuttosto che sul profitto: questo significa vendere di più ma basso costo, piuttosto che in quantità minori a prezzi più alti. Il risultato di questa politica è il celebre modello da turismo (T), la prima automobile che permise a gran parte degli americani, per efficienza e basso costo, l’acquisto di un mezzo motorizzato. Il successo del modello T fu enorme. La produzione monta ad un ritmo vorticoso. Nel 1915 Ford raggiunse un milione di vetture prodotte e mentre i prezzi scendono, Ford aumenta i salari. Il fordismo può essere definito come il prodotto congiunto di nuove modalità di organizzazione della produzione (taylorismo) e di un modello di mercato completamente rinnovato (consumo di massa da parte di produttori diretti). La genialità di Ford è stata quella di comprendere ed esaltare gli enormi vantaggi di un sistema quasi chiuso e massimamente stabile e questo ha consentito l’enorme aumento della produttività anche grazie all’operare di due meccanismi complementari: la specializzazione dei compiti e la standardizzazione dei componenti. Per quanto riguarda la specializzazione dei compiti, nel modello fordista-taylorista, ai lavoratori era richiesta una forma di cooperazione passiva intesa come fedele esecuzione di quanto stabilito dalle norme organizzative. L’idea chiave sottesa, invece, alla standardizzazione del prodotto era stata quella di scomporlo in un insieme di pezzi perfettamente intercambiabili e dotati di massima predisposizione all’incastro, la cui differenziazione era riservata alla sola fase finale di assemblaggio. Cap 3 IL POST-FORDISMO E LA NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO IN FABBRICA Intorno agli anni ‘70 abbiamo assistito ad una crisi del modello fordista, lo sviluppo di una produzione su larga scala era legato ad una contraddizione di fondo: la dilatazione progressiva della meccanizzazione comportava l’esplosione di una complessità difficilmente gestibile con rigore scientifico ed a prezzo di crescenti costi di organizzazione. Il meccanismo infatti ha iniziato a incepparsi quando sono divenute insostenibili le pretese di governo. In un periodo di crescente competizione, l’impresa si è rivelata incapace di far fronte a nuove richieste di domanda. Tra i fattori che hanno avviato il processo di cambiamento del vecchio modello vanno annoverati: in primis la saturazione del mercato dei beni standardizzati e di bassa qualità, alla quale si accompagna la concorrenza dei paesi emergenti, caratterizzati dal basso costo del lavoro; la frantumazione del mercato, dovuta alla crescente diversificazione nella domanda di beni di consumo; i costi e le rigidità della burocratizzazione aziendale di un’organizzazione del lavoro troppo parcellizzata. L'insieme di questi fattori ha comportato il venir meno di quelle condizioni di prevedibilità e di stabilità nel controllo del lavoro e del mercato dei beni che sono necessarie per gli elevati investimenti specializzati richiesti dal modello produttivo fordista. Pertanto la parola “flessibilità”, intesa come capacità di adeguarsi rapidamente alle esigenze del mercato, diventa un’esigenza prioritaria per ogni organizzazione produttiva. Una prima risposta all'aumento del livello di “turbolenza ambientale” è stata il profilarsi agli inizi degli anni 80 di un nuovo modello organizzativo: "la fabbrica automatizzata", basato sull'uso delle nuove tecnologie di processo dell'informazione per svolgere mansioni operative, ponendo le basi di quello che sarà il modello organizzativo successivo. Lo sviluppo delle tecnologie informatiche, con la loro capacità di ridurre la dimensione spazio-temporale dell'agire, ha spostato decisamente in avanti i limiti della capacità umana; lo sviluppo di macchine quali i computer, le reti telematiche (per trasferire dati da un punto all'altro del sistema in tempo reale), le macchine automatiche, che realizzano trasformazioni materiali sotto la guida di un programma operativo ad hoc, ha ridotto enormemente il costo dell’ informazione per unità di tempo. L'organizzazione della produzione risulta trasformata dato che le singole macchine dimostrano di essere in grado di compiere, senza l'intervento dell'uomo, operazioni molto complesse all'interno di una gamma di possibilità già esistenti. Le imprese tendono quindi a perseguire un nuovo obiettivo: la sostituzione del “lavoro vivo” con “lavoro morto”, cioè l'indipendenza dal fattore umano considerato imprevedibile a causa di problemi e anomalie legate a fattori personali. Gli impianti progettati a livelli massimi di sofisticazione per ridurre o addirittura eludere l'intervento dell'uomo, si rivelarono troppo rigidi e incapaci di gestire adeguatamente le frequenti variazioni tecniche e le anomalie del processo. L'aumento del numero delle fermate degli impianti dovuta ad inconvenienti non programmabili ed una qualità del prodotto al di sotto degli standard prefissati, rendevano quindi urgente un nuovo modello organizzativo caratterizzato da un rapporto più attivo del lavoratore. All'inizio degli anni 90 si ha un abbandono della fabbrica automatizzata ed il ridimensionamento dell'ottica della completa integrazione informatica tra le varie funzioni aziendali. Si è avviato un processo di profonda ristrutturazione della produzione industriale con l'affermazione su scala mondiale delle aziende giapponesi con il cosiddetto " sistema produttivo Toyota" divenuto il punto di riferimento delle grandi imprese internazionali per il radicale cambiamento dei concetti e dei criteri di progettazione e gestione della produzione. I PILASTRI DEL MODELLO GIAPPONESE Taiichi Ohno è considerato il padre fondatore del sistema di produzione Toyota introdusse per la prima volta il concetto di lean production, la fabbrica snella o “integrata”. I due pilastri di questo sistema per ottenere l'eliminazione totale degli sprechi sono: il just in time, che rappresenta il principio in base al quale ogni attività lavorativa deve essere alimentata con i componenti richiesti, nel tempo richiesto, nella quantità esattamente richiesta per l'assemblaggio del prodotto finale. Il just in time mira a ridurre i costi elevati di stoccaggio tipici della produzione di massa, attraverso la valorizzazione solo di quelle operazioni in grado di generare effettivamente valore aggiunto al prodotto ed eliminando ogni tipo di spreco. Lo strumento usato nella pratica per rendere effettivo il just in time e rappresentato dal sistema di comunicazione interna kanban: con questo termine si intende il cartellino attaccato ai contenitori di parti che regolano la logica del pull del just in time nel sistema produttivo Toyota, segnalando a monte produzione e consegne. In questo modo sono i segmenti finali che attivano il processo lavorativo e che impongono il ritmo all’intero sistema produttivo. Dal momento che il kanban è la tecnica che consente di realizzare il just in time, affinché il sistema possa operare correttamente e in modo efficiente, i processi produttivi devono essere articolati in modo da ottenere il miglior livello possibile di continuità del flusso. Per quanto riguarda la disposizione degli impianti, la lean production adotta la disposizione ad “U”, che prevede che le entrate e le uscite della linea devono trovarsi l’una di fronte all’altra. In pratica il flusso produttivo è organizzato secondo diverse postazioni alle quali corrispondono una serie di operazioni. A ciascun lavoratore, addetto a più macchine, vengono assegnate una serie variabile di operazioni stabilite sulla base della natura e del volume di ordini indirizzate all'impresa. Con questa organizzazione si riducono drasticamente i tempi d’attesa, di stoccaggio e di trasferimento. L'auto Attivazione, invece, si propone di superare altri due punti di debolezza della produzione di massa. Da un lato, la mancata possibilità di arrestare la catena di montaggio, anche in presenza di gravi difetti; dall’altro la tendenza dei macchinari, che producono in grandi quantità, a riprodurre e moltiplicare all’infinito i difetti perché incapaci di bloccarli alla fonte. Per questo motivo, la fabbrica lean si avvale di macchine “auto-attivate”, cioè predisposte di dispositivi di arresto automatico e di meccanismi di prevenzione delle difettosità. All'interno della fabbrica "snella minima" in cui tutto ciò che è superfluo deve essere portato alla luce e quindi, eliminato, la trasparenza e la supervisione del processo produttivo sono garantite da una serie di procedure che rientrano nella cosiddetta "direzione con gli occhi", le quali permettono di rendere visibile ogni evento che può verificarsi nello svolgimento dell'attività lavorativa all'interno della fabbrica. L’andon è uno degli strumenti principali attraverso i quali si realizza la direzione con gli occhi; in pratica si tratta di un indicatore luminoso il cui funzionamento è simile a quello del semaforo: la luce verde indica che le attività procedono normalmente; la luce arancione indica che un lavoratore deve compiere un’azione di regolazione sulla linea e ha bisogno di aiuto e la luce rossa infine indica che la linea è ferma in seguito a possibili problemi. Questo strumento ha il vantaggio di fornire una serie di informazioni che sono immediatamente visibili dai lavoratori e dalla direzione aziendale e che permettono quindi al team di lavoro di intervenire subito senza che il difetto si ripercuota sull’intero processo. Altre condizioni importanti sono il livellamento della produzione e lavorazione rispetto agli standard operativi. Il sistema di produzione Toyota richiede una produzione livellata e piccole quantità di prodotti differenziati. Per il raggiungimento di tali risultati sono stati determinanti l'apporto e le idee, contribuendo alla creazione di quella cultura comune basata sul coinvolgimento e sulla partecipazione attiva dei lavoratori. La fabbrica lean opera secondo un principio di valorizzazione delle risorse umane e di miglioramento continuo del prodotto e dei processi; anche la formazione dei lavoratori assume particolare importanza. Le risorse umane costituiscono un elemento centrale del passaggio dalle tradizionali alle moderne forme di organizzazione della produzione, soprattutto per quanto riguarda la concezione della partecipazione alle decisioni d'impresa. LA FABBRICA INTEGRATA L'insieme di questi orientamenti sul flusso di produzione e sulla partecipazione attiva del lavoro, ha prodotto anche un disegno attivo di fabbrica integrata. Nella fabbrica integrata l'innovazione non riguarda solo l'area della produzione dei beni, ma tutte le aree funzionali ed il rapporto di fornitura con le altre imprese. L'importanza assunta dall'integrazione tra funzioni e unità produttive è dovuta al nuovo principio per cui la frontiera dell’efficienza operativa viene raggiunta anche con una riduzione significativa dei tempi di progettazione e di ingegnerizzazione del nuovo prodotto (time to market) e di attraversamento dei prodotti (lead time). La necessità di fornire ai consumatori sempre nuovi e interessanti modelli, fanno sì che la riduzione dei tempi dalla progettazione al lancio sul mercato del nuovo prodotto risultino fondamentali. Lo stesso fenomeno implica la capacità di dare in tempi brevi il modello richiesto dal cliente. Sia il "time to market” che il “lead time”, con il flusso teso di produzione e la riduzione delle scorte, richiedono una maggiore integrazione ed una più strategica collaborazione tra azienda e fornitori sin dalla fase di pianificazione del prodotto. Il modello di controllo passa da una logica improntata sulla routine ad una logica di gestione per "norme e obiettivi", così aumenta la quantità di informazioni a disposizione del lavoratore per permettergli di prendere decisioni. Cambia anche la distribuzione di potere tra “Line” e “staff”. Nella fabbrica snella l'integrazione tra line e staff si ottiene tramite lo slittamento verso il basso degli staff ed il baricentro del nuovo modello organizzativo si sposta dagli uffici alle officine. Non si deve comunque pensare alla produzione snella ed alla fabbrica integrata come alla risoluzione definitiva delle problematiche relative alla produzione. Ad un primo esame, la fabbrica integrata rappresenta un superamento, non una negazione del fordismo. Il problema della produzione non è più soltanto un problema di ingegneria del prodotto e della produzione, ma anche sociale, in quanto l'impegno dei lavoratori è funzionale alla determinazione del risultato, sia in termini di qualità che di quantità della prestazione. Il fordismo teorizza una separazione fra chi studia e progetta l'organizzazione della produzione e chi deve eseguire il lavoro, attenendosi alle procedure sperimentali degli specialisti. La produzione snella e la fabbrica integrata, pur mantenendo questa separazione nella progettazione e nell’ingegneria, prevedono una stretta interazione fra tecnici ed esecutori materiali in produzione, poiché nessuno specialista è in grado di determinare a priori le routine di risposta più adeguate per risolvere le criticità contingenti. È dunque indispensabile permettere ad ogni lavoratore di dare il suo contributo attivo, fatto di esperienza concreta, creatività e autonomia nella gestione delle anomalie. Il nuovo modo di intendere l’organizzazione delle imprese ruota intorno a due assi: l’asse tecnologico e l’asse sociologico. Il primo esalta il concetto di flusso e teorizza il passaggio dalla centralità delle funzioni, alla centralità dei processi, attraverso il ridisegno delle strutture organizzative e dei fornitori in un’ottica di integrazione e semplificazione. Nell’asse sociologico, la produzione snella si regge sulla creazione di gruppi di lavoro o di team. La fabbrica integrata promuove forme di autonomia e controllo delle prestazioni che possono condurre a situazioni professionali differenti sotto il profilo della qualità del lavoro. Agli operai vengono affidati compiti di controllo oltre che di produzione, con la conseguente richiesta di sviluppo di forti dosi di elevata polivalenza e polifunzionalità. LA CENTRALITA’ DEL LAVORATORE E LA LEAN PRODUCTION. La produzione snella, introdotta dai produttori auto giapponesi, si propone di ridurre i costi e la rigidità, rispettivamente della produzione artigianale e della produzione di massa, utilizzando meno risorse umane, meno ore di progettazione, minor spazio produttivo e minori investimenti in impianti. Ricorre a lavoratori qualificati e motivati grazie ad una gestione “strategica” delle risorse umane e al concetto di “azienda comunità”, basata sul contributo attivo degli stakeholders; inoltre le regole sono poche e spesso implicite, ovvero non soggette a regolamenti aziendali. Il successo di questo sistema si può far risalire ad un complesso di incentivi finalizzati al raggiungimento del consenso, riconducibili: All’impiego a vita: si riferisce alla sicurezza del posto di lavoro garantita dall’azienda in cambio della lealtà e della partecipazione attiva alla manodopera. Il reclutamento degli operai avviene nelle scuole o nelle università attraverso un processo accurato di selezione che permette di individuare i lavoratori migliori. All’interno dell’azienda, gli operai sono formati e incentivati dal management ad acquisire nuove abilità, a sperimentare diverse mansioni, a lavorare in team e a cimentarsi in attività di problem solving e miglioramento della qualità; per di più si creano occasioni di svago e ricreazione come vacanze, cene, eventi sportivi, al di fuori del luogo di lavoro, per favorire la socializzazione tra i colleghi; Ad un particolare sistema di valutazione e remunerazione del lavoro: la struttura del salario è la forma istituzionale in cui si riflettono le regole del rapporto tra l’azienda e i propri dipendenti. Le modalità di retribuzione sono in gran parte legate all’anzianità che si coniuga con il merito. La retribuzione è composta da tre parti: quella di carattere personale (basata sull’anzianità e il merito), quella correlata alla mansione (a seconda del ruolo che si svolge) e la retribuzione comprendente i benefici vari (l’azienda corrisponde ai propri dipendenti ed alle loro famiglie, per sostenerli, alcuni benefici come le assicurazioni e le indennità); Alla caratteristica peculiare del sindacato d’impresa: il sindacato d’impresa è uno dei caratteri distintivi del sistema giapponese di relazioni industriali, ma anche un importante elemento della gestione del personale nella fabbrica snella. L’iscrizione al sindacato avviene automaticamente ed è il sindacato stesso che raccoglie le quote obbligatorie versate dai lavoratori. Ci si domanda come siano regolati contrattualmente i termini d’impiego e quale sia il ruolo del sindacato; la risposta è che i contratti non contengono clausole esplicite di impiego a vita, ma il contratto è implicito e individuale. Il contratto tra il singolo lavoratore e l’impresa è “incompleto” e deve essere integrato da un processo di contrattazione interno all’impresa attraverso il contributo di un terzo attore, il sindacato, il cui potere contrattuale si esercita sia attraverso la determinazione del livello generale delle retribuzioni, si attraverso la verifica e la discussione di controversie sulla valutazione e promozione degli addetti. La contrattazione si basa su due livelli: il primo livello è quello centrale, all’interno del quale vengono definite le linee guida generali; il secondo e più importante livello contrattuale è invece quello aziendale, in cui ciascun sindacato discute le proprie priorità e ed elabora le proprie proposte. La rappresentanza dei lavoratori in fabbrica si basa su tre figure principali: 1. Gli Shop Stewards, il cui loro compito è quello di raccogliere suggerimenti, richieste, lamentele e controllare il rispetto delle regole; 2. Il consigliere(Councilor), eletto ogni cento lavoratori, la cui funzione è quella di esprimere pareri e votare il programma messo a punto dal sindacato; 3. Delegato capo (Chief shop steward), la figura più importante, che deve partecipare alla conferenza con il management per discutere di tutti i problemi sul luogo di lavoro. Il sindacato giapponese rappresenta una parte rilevante dell’organizzazione lean e del coinvolgimento dei lavoratori ed ha la natura di “sindacalismo cooperativo”. CAP 4 LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO NELLA SOCIETA’ DEI SERVIZI Crouch ritiene che i profondi cambiamenti osservati negli scenari organizzativi non devono essere associati solo ai mutamenti nel modo di produrre e di organizzare il lavoro, poiché essi rappresentano un ordine politico economico. Nel secondo dopoguerra con lo sviluppo industriale degli anni 70, la grande industria raggiunse nei paesi dell'Europa occidentale il culmine della sua espansione. Questo determinò l’affermazione della logica del "posto" stabile, all’interno di una grande organizzazione. In quegli anni si affermò un modello standard di famiglia e di lavoratore fondato sulla stabilità occupazionale dell'uomo e l'affidamento dei compiti di cura della donna. La stabilità e soprattutto la linearità del paradigma fordista vengono meno con l'avvento di un nuovo modello occupazionale definito dagli studiosi come "post-industriale". La crescente complessità organizzativa e gestionale delle attività d'impresa su vasta scala, la maggiore disponibilità di reddito familiare e l'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro favorirono l'introduzione e la rapida diffusione dapprima dei servizi alle imprese e, successivamente, dei servizi ai consumatori nei settori più disparati. Quando parliamo di servizi, o più generalmente di settore terziario possiamo far riferimento a diverse interpretazioni. Una prima definizione ci viene fornita da Gershuny il quale considera il settore dei servizi come ambito residuale, accorpando attività spesso non omogenee che non appartengono all’ industria. Altri autori come Crozier parlano invece di società dell'informazione: infatti fanno dell'importanza del sapere, della conoscenza e delle nuove tecnologie informatiche i fattori determinanti rispetto al capitale ed al lavoro che erano centrali nella fase precedente. Un terzo ed ultimo modo di pensare alla società dei servizi è quello di collegarla alle occupazioni in essa prevalenti (settore della comunicazione, assistenza sociale, marketing), diverse rispetto alla figura dell’ operaio industriale le cui principali caratteristiche erano la flessibilità e l'instabilità lavorativa. Dalle riflessioni di Crozier emerge che la nuova logica si basa su elevate capacità di innovazione, sul primato della qualità dei beni e dei servizi rispetto alla logica precedente, orientata alla quantità, sulla centralità delle risorse umane e sulla professionalizzazione intesa in termini di skills individuali e collettive insieme alla capacità di apprendimento. Il gigantismo industriale lasciò il posto ad un modello organizzativo fondato sull’ esternalizzazione, un percorso di snellimento dell'impresa e di delocalizzazione produttiva verso i paesi dell'est europeo. In Italia il 1981 può essere considerato l'anno del “sorpasso” nel numero di lavoratori occupati nei servizi rispetto all’ industria, segnando l'avvio di quel percorso comunemente definito come “terziarizzazione dell'economia”. Alla crescita significativa e costante dell’occupazione nel terziario, si accompagna, però, una scarsa propensione all'internalizzazione dei servizi e soprattutto una bassa qualità dell'occupazione prodotta. La forte contraddizione tra gli effetti della crisi economica, ha generato delle trasformazioni importanti nell’organizzazione del lavoro e della produzione, nelle tipologie di beni e servizi richiesti. La fragilità del mercato del lavoro italiano sembra incapace di sviluppare gli anticorpi per uscire dalla crisi. Come dimostra l'esperienza della Germania e di altri paesi nordici, l'unica strategia percorribile per un'economia avanzata come quella italiana non può che essere la via dell’alta competitività, ovvero quella che ruota intorno ad una concezione dell’economia della crescita basata sulla formazione e sulla ricerca, in cui si realizza una corrispondenza reale tra domanda offerta di lavoro. LAVORARE NEI SERVIZI Uno dei cambiamenti più importanti avvenuto dai tempi dell’organizzazione scientifica del lavoro nel rapporto tra imprenditori e lavoratori, è stato il considerare il dipendente non più con ingranaggio di una macchina, come un soggetto passivo, ma come “risorsa” strategica da coinvolgere nei processi organizzativi dell’impresa. Questo è dovuto anche all’orientamento alla qualità nella produzione di beni e servizi che ha comportato la necessità di collaborazione e l’impegno da parte del lavoratore nel raggiungimento di questo fondamentale obiettivo, in modo da raggiungere così la soddisfazione del cliente. I cambiamenti nei mercati e la crescente competitività tra aziende hanno portato il consumatore a trovarsi di fronte ad una ampia offerta tra cui scegliere. Nel settore dei servizi, l'aspetto della qualità è di cruciale importanza: la strategia delle imprese deve essere sempre più mirata a prendersi cura della soddisfazione del cliente. Sul finire degli anni 70, Hochschild aveva già introdotto l'idea di emotion work come l'atto di agire sul proprio stato d'animo e sulle proprie emozioni per modificarne qualità e intensità. Con l'affermarsi dei servizi, un numero sempre maggiore di lavori necessitano di questa gestione dei sentimenti: è il caso ad esempio delle hostess e gli operatori sociali, degli addetti all'ufficio reclami, versione aggiornata degli operai di call center. Si tratta infatti di lavori in cui si gestiscono i propri sentimenti e stati d'animo in relazione alle regole date dall'organizzazione e soprattutto dai contenuti propri del lavoro. I PRINCIPI DELLA FLESSIBILITÀ Nella società post-fordista e terziarizzata il concetto di flessibilità assume particolare rilevanza. Oggi sembra emergere il bisogno di una maggiore flessibilità nei sistemi economici, tuttavia è forte l’esigenza di evitare gli eventuali rischi e di coniugare la flessibilità con la tutela dei lavoratori. Il concetto di flexicurity fa riferimento alla necessità di modernizzare il mercato del lavoro e di promuovere la crescita dell'occupazione attraverso una strategia basata su politiche attive del lavoro, sull'apprendimento continuo, sul rafforzamento dei sistemi di sicurezza sociale. Parlando di flessibilità dobbiamo distinguere tra due principali varianti: 1) la flessibilità numerica o quantitativa, che consiste nella possibilità della direzione aziendale, di aumentare o diminuire il numero dei propri dipendenti in funzione di particolari esigenze produttive legate ad esempio all'andamento del ciclo economico. 2) la flessibilità funzionale o qualitativa, prevede che i ruoli all’interno di un’organizzazione siano suscettibili di modificazione. Si possono anche aggiungere la flessibilità salariale, in base alla quale possono applicarsi differenze salariali sia per esigenze organizzative sia per ragioni congiunturali, e la flessibilità temporale legata alle variazioni di ore di lavoro in base alla domanda sul mercato. Le questioni legate all'una e all'altra variante della flessibilità danno un'idea delle strategie perseguite dalle imprese. Un maggior uso della flessibilità numerica corrisponde generalmente ad una strategia di tipo difensivo e di adattamento al contesto. FLESSIBILITÀ OCCUPAZIONALE E TIPOLOGIE DI LAVORO NON STANDARD Le ricerche qualitative sugli effetti della flessibilità mettono in risalto principalmente gli effetti negativi legati alla crescita della precarietà e dall'insicurezza sociale. La precarietà attacca tutti gli aspetti del modello fordista: la relativa stabilità del rapporto di lavoro, l’ubicazione fissa del luogo di lavoro, l’orario standard, la copertura previdenziale. In Italia la prima grande riforma del mercato del lavoro orientata ad introdurre nel sistema maggiori livelli di flessibilità organizzativa e numerica nell'uso della forza lavoro è rappresentata dalla legge n.196 del 1997 definita come “Pacchetto Treu”. Il principio generale al quale si ispira la riforma è definito “garantismo flessibile” in base al quale si cercano combinazioni di flessibilità utili a garantire maggiore occupazione senza rinunciare ai livelli di tutela raggiunti. L'altro grande intervento di riforma del mercato del lavoro è rappresentato dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30 che ha l'obiettivo di semplificare e snellire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, introducendo alti livelli di flessibilità del mercato e del rapporto di lavoro. Inoltre vengono utilizzati per la prima volta i concetti di job on call (lavoro a chiamata), job sharing ed il lavoro interinale; tali concetti rimandano senz’altro all’idea di “lavoro occasionale” e di “prestazione accessoria”. Gli obiettivi prioritari della riforma erano la riduzione della disoccupazione, in particolare quella giovanile, la sua concentrazione nelle regioni del Mezzogiorno nonché il basso tasso di partecipazione delle donne e degli anziani al mercato del lavoro. Ricorrere a concetti quali flessibilità, instabilità e precarietà sottolinea la condizione del lavoro e del lavoratore. il confine tra flessibilità e precarietà risulta molto sensibile alle caratteristiche del mercato del lavoro. Da questo punto di vista si configura chiaramente il dualismo territoriale tra il Nord e il Sud del Paese, in particolare nelle regioni settentrionali la diversificazione dei rapporti contrattuali risponde maggiormente ad esigenze di flessibilità sia da parte della domanda che dell'offerta di lavoro. Diversamente nel Mezzogiorno la diffusione dei rapporti di lavoro flessibile sembra avere un effetto di sostituzione rispetto alle forme di lavoro standard piuttosto che essere determinato dalle comuni esigenze di flessibilità. L'indagine sulle Forze di lavoro condotta dall'Istat evidenzia un utilizzo leggermente più alto di questi strumenti di flessibilità per le donne e più alto per i giovani di età compresa tra i 15 ei 34 anni legato all'ingresso del mercato del lavoro. L’idea del lavoro temporaneo, o “atipico” si configura, dunque, come una tappa fondamentale dell’esperienza lavorativa delle persone. LE CONSEGUENZE DELLA FLESSIBILITÀ La diffusione di occupazioni non standard e il sentimento di insicurezza ad esse collegato sono stati oggetto di interesse per molti studiosi. Secondo Sennett la flessibilità ha ripercussioni significative sulla vita delle persone, infatti alcune ricerche empiriche svolte in Italia hanno evidenziato le caratteristiche di questo fenomeno e le sue conseguenze. Garsten sostiene che nelle organizzazioni contemporanee, segnate dalla flessibilità, l’esperienza di un lavoro temporaneo, potrebbe generare forme di ansia riguardo al futuro. Con l'avanzamento del processo di terziarizzazione si deve considerare la diminuzione di opportunità di lavoro standard. Il percorso intrapreso nel nostro Paese verso la flessibilità del lavoro sembra avere conseguenze soprattutto sulla stabilità/instabilità del lavoro, e da parte dei più giovani una diffusa difficoltà a definire scelte di vita di transizione alla vita adulta. sul piano professionale può sempre essere diffusa una tendenza a ridurre aspirazioni, progetti e ambizioni. LA QUALITÀ DEL LAVORO NEI SERVIZI TRA ARRICCHIMENTO E DEQUALIFICAZIONE Quando si parla di servizi non sempre ci si riferisce ai lavori gratificanti che richiedono elevate competenze professionali. L'aumento dell'occupazione nel settore dei servizi ha riguardato non il settore della conoscenza ed il terziario avanzato (cioè le attività di marketing, consulenza aziendale, pubblicità ecc.) ma quei settori che non richiedono particolari specializzazioni o capacità professionali. Si pensi, ad esempio, al settore dei call center, della ristorazione fast food, ai lavori di pulizia ecc. Infatti come rileva Reyneri l'Italia si colloca tra i paesi europei con la percentuale più bassa di lavoratori occupati nel settore dei servizi alle imprese (quelli a più alto contenuto tecnologico e maggiore professionalizzazione dei lavoratori) e la percentuale più alta di addetti in quello dei servizi finali ai consumatori. La ragione di questa particolare articolazione del settore terziario è legata alla natura tradizionale e poco innovativa dell'industria manifatturiera, che non richiede servizi particolarmente avanzati. Ciò che sta accadendo gli ultimi anni nel settore dei servizi è il ritorno ad una organizzazione del lavoro formale standardizzata; infatti si evince che a partire dagli anni 50 iniziava a porsi attenzione all'organizzazione scientifica del lavoro anche nella burocrazia della fabbrica. Passando a studi più recenti il caso più famoso è quello dei lavoratori della grande catena di ristorazione fast-food McDonald's studiata da Ritzer; fast-food e fast-talk sono termini utilizzati per spiegare l'elevato livello di standardizzazione di routine a cui sono sottoposti oggi i lavoratori dei servizi. Basti pensare al processo di confezionamento dell'hamburger con estrema applicazione della tradizionale catena di montaggio. I processi di taylorizzazione secondo questa prospettiva sembrano ritornare con forza nei servizi. Il costante aumento dell'intensità e dei ritmi di lavoro porta ad associare l'idea della catena di montaggio tipica dei processi di produzione manifatturiera, al caso dei call center: il sistema ACD come un nastro trasportatore, gestisce i “file” e distribuisce le chiamate al primo operatore libero. Alcune recenti ricerche svolte in Italia evidenziano che lavorare nei call center non richiede particolari competenze e abilità. Risulta però importante il “saper fare”, la capacità di comunicare positivamente con la clientela, di interagire con gli altri, di saper risolvere problemi se e quando essi si manifestano. Il "savoir-faire" quindi prevale. CAP. 5 IL LAVORO NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Weber attraverso un’analisi di tipo storico-comparativo esamina i caratteri fondamentali degli apparati amministrativi; nello specifico approfondisce e analizza il passaggio dal modello patrimoniale tipico del feudalesimo, a quello burocratico che caratterizza lo Stato moderno; di conseguenza da un esame delle condizioni storiche lo studioso individua i prerequisiti che hanno portato al superamento del modello patrimoniale e del feudalesimo e all’affermazione della burocrazia e dello Stato moderno. Il primo fattore è di natura economica e riguarda lo sviluppo riguardante il modo di produzione capitalistico, avviato nel Cinquecento, i cui caratteri erano lo scambio, il mercato e la nascita di un’economia monetaria. Il secondo fattore di razionalizzazione riguarda la crescita qualitativa e quantitativa dei compiti amministrativi. Il terzo fattore può essere definito come razionalismo giuridico, ed è legato all’affermazione del diritto razionale; il potere legale razionale si fonda sulla norma e sul diritto. Successivamente, Weber definisce le caratteristiche dell’apparato amministrativo burocratico: 1. Un sistema generale di norme astratte; 2. Il sapere specialistico, accertato mediante esame o dal possesso di un titolo di studio; 3. Il principio gerarchico che definisce il numero, la natura dei ruoli ed il rapporto di autorità tra essi; 4. La separazione della persona dagli uffici, in quanto i funzionari non hanno la proprietà dei mezzi di amministrazione che vengono loro forniti; 5. Esercizio continuativo delle funzioni attraverso diverse fasi, quali il reclutamento, la selezione, la carriera, la pensione; 6. L’esistenza di procedure formalizzate; 7. L’impersonalità, in quanto i funzionari devono garantire agli utenti pari opportunità di trattamento. Nella sua analisi, Weber evidenzia come la burocrazia non si limita solo allo Stato ed alle amministrazioni pubbliche, ma riguarda ogni forma di vita sociale. LE CRITICHE ALLA TEORIA WEBERIANA SULLA BUROCRAZIA Weber afferma che le organizzazioni debbano essere concepite come burocrazie, dato che la burocrazia è l’unica forma in cui si reggono le organizzazioni razionali. Tuttavia nel corso del XX secolo si sono sviluppate diverse critiche riguardo questa teoria. Una prima critica è mossa da Merton e riguarda le cosiddette conseguenze inattese della burocrazia. Egli scoprì dei fallimenti di razionalità legati alla discrepanza tra le intenzioni razionali degli individui e le conseguenze inattese (funzioni latenti), che compromettono l’efficacia della burocrazia nel perseguimento dei propri fini. Altri aspetti evidenziati da Merton riguardano l’esistenza di un diffuso spirito di corpo dei funzionari, che li conduce a difendere i propri interessi a discapito degli utenti. Un secondo filone di studi riguarda le ricerche condotte da Gouldner, che esplorano il rapporto tra la natura del lavoro svolto e la tipologia e le caratteristiche dei modelli organizzativi adottati. Gouldner critica l’idea di Weber di burocrazia come modello ideale introducendo una molteplicità di modelli differenti. Egli pone l’attenzione sul dualismo tra disciplina gerarchica, cioè la conformità alle disposizioni superiori, e la competenza professionale. Inoltre egli si sofferma sia sulle funzioni manifeste che su quelle latenti delle norme, affermando che le manifeste sono quelle che esplicative, di controllo a distanza e legittimazione del potere, mentre le latenti sono quelle di deriva o conservazione dell’apatia. Gouldner definisce tre modelli normativi che corrispondono ad altrettante tipologie di burocrazia: 1. La prima tipologia è rappresentata dalla “Burocrazia apparente” e si realizza quando i lavoratori e la direzione aziendale si mostrano indifferenti rispetto all’applicazione di una norma specifica formulata da una struttura esterna alla fabbrica; 2. Nel caso della “Burocrazia rappresentativa” le regole sono formulate unitamente dalla direzione e dai lavoratori che ne condividono i contenuti; 3. La “Burocrazia impositiva” si ha quando le regole sono formulate e imposte da una sola delle due parti, ma non accettate e considerate legittime dall’altra. Un altro contributo è fornito da Crozier, il quale nel suo “Fenomeno burocratico” prende le distanze dal modello ideale weberiano adottando un’interpretazione negativa del termine burocrazia, intendendola come “un’organizzazione incapace di trasformarsi e cambiare”. Questa sua analisi si basa su alcuni assunti teorici: il primo elemento è rappresentato da una diversa interpretazione, rispetto a Weber, del concetto di potere: infatti per Crozier il potere è inteso come controllo dei margini di incertezza, ovvero un individuo esercita un potere su un altro nel momento in cui riesce a prevederne il comportamento. Dall’altro lato, nelle organizzazioni, ciascun individuo cercherà di sfuggire al potere di controllo dei superiori in vari modi, per difendere la propria libertà. Crozier sottolinea il problema del cambiamento. Secondo l’autore, sarebbero proprio le caratteristiche della burocrazia, come la rigidità, a renderla incapace di correggere i propri errori ed adattarsi al cambiamento. Il solo modo di cambiare è la crisi o un evento improvviso in grado di scuotere dalle fondamenta l’organizzazione. Ma Crozier si spinge oltre, affermando che al crescere della razionalità, deve aumentare la flessibilità e le innovazioni delle pubbliche amministrazioni. La “modernizzazione”, secondo lo studioso, si manifesta con la diffusione della cultura di massa, lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche, la crescita della società civile e il suo coinvolgimento nella sfera pubblica; infatti se l’organizzazione sarà capace di accettare i contributi degli individui e la loro partecipazione, riuscirà ad uscire dalla chiusura a cui tende naturalmente. LA MODERNIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DALLA BUROCRAZIA TRADIZIONALE ALL’APPROCCIO MANAGERIALE Una delle possibili soluzioni per contrastare gli aspetti “problematici” della burocrazia, è valorizzare il ruolo dei dipendenti e nel far diventare i funzionari pubblici dei veri e propri manager. Negli anni Settanta, Drucker parlava di Direzione per obiettivi (DPO) come strumento per contrastare le conseguenze inattese della burocrazia, ma è a partire dagli anni Novanta che, con l’introduzione del Nuovo management pubblico (NPM), le amministrazioni si avviano verso un radicale cambiamento. Il New Public Management si propone di riuscire nel difficile compito di aumentare la produttività, di ridurre i costi e di migliorare la qualità dei servizi, basando tutto su alcuni punti: 1. L’amministrazione dovrebbe indirizzare e non gestire le azioni pubbliche; 2. Gli utenti delle prestazioni devono essere considerati come clienti e non come portatori di diritti; 3. Gli utenti dovrebbero essere coinvolti nell’ambito dell’azione amministrativa mediante azioni finalizzate alla rilevazione del loro gradimento nei confronti dei servizi erogati dall’ente; 4. Introduzione di un sistema di concorrenza regolata nella fornitura dei servizi in alternativa al monopolio; 5. L’azione amministrativa dovrebbe essere basata sull’individuazione e il perseguimento degli obiettivi specifici (management per obiettivi); 6. L’amministrazione deve orientarsi verso una logica ispirata al guadagno (profitto) e non alla spesa; 7. Maggiore attenzione deve essere data in principio alla prevenzione dei rischi; 8. Promuovere azioni dirette a favorire la strutturazione del mercato; 9. Promuovere l’innovazione dal basso attraverso il decentramento delle attività a livello locale; 10. Ripensare ai meccanismi di incentivazione per i dipendenti per facilitare il loro coinvolgimento e l’apprendimento organizzativo. Il secondo aspetto si riferisce all’esternalizzazione di una parte dei servizi attraverso la formula del “quasi mercato”. Il terzo elemento invece si basa sulla diffusione nel settore pubblico di tecniche di gestione derivate dal mondo imprenditoriale privato e utilizzate per la verifica dei risultati e l’efficienza delle organizzazioni. I nuovi manager provengono spesso dal campo privato e sono assunti con contratto a termine, rinnovabile in base al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Negli ultimi anni, il presunto dualismo tra governance - government è stato al centro del dibattito sociale. La teoria della Governance propone il coinvolgimento, nel processo decisionale, di attori pubblici e privati e fornisce un nuovo modo di interpretare la politica e le relazioni che ha con le altre sfere. Quindi la governance indica un modello di governo caratterizzato da minore controllo gerarchico e da maggiore grado di cooperazione tra attori pubblici e privati all’interno delle reti decisionali. Il Government rappresenta una fonte di legittimazione per i soggetti che promuovono forme di governance ai diversi livelli (locale, nazionale). IL LAVORO PUBBLICO E LE RIFORME DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN ITALIA Bisogna attendere gli anni Novanta per sperimentare efficacemente una serie di cambiamenti che contribuirono a ridisegnare il volto della pubblica amministrazione italiana. In particolare durante il governo Amato e Ciampi (1992-1997) e col governo di Romano Prodi (1997-2011). Una spinta determinante al cambiamento derivò dalla firma del Trattato di Maastricht, firmato nel 1992, che fissava i parametri per l’entrata nell’ Unione Europea. Il governo di centro-sinistra predispose un intero programma finalizzato alla riorganizzazione della burocrazia statale, attraverso il decreto legislativo 29/1993, che stabiliva la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti; la creazione di un’agenzia delle relazioni sindacali nel settore pubblico; il riconoscimento della responsabilità dei dirigenti rispetto agli obiettivi determinati dagli organi politici. Uno dei principi innovativi della legge 59/1997 è il principio di sussidiarietà, in base al quale le funzioni amministrative devono essere svolte dagli enti più vicini ai cittadini. Con la “Riforma Bassanini” si chiude una fase importante del processo di modernizzazione della pubblica amministrazione italiana; i governi di centro-destra avvieranno una nuova riforma di stampo neo-liberista, basata sulla riduzione dei costi, al miglioramento dell’efficacia dell’amministrazione, al riconoscimento del merito e della valorizzazione delle risorse umane. Con la nomina di Renato Brunetta a Ministro della Pubblica Amministrazione, il processo di cambiamento riprende nuovamente; viene rilanciata la necessità di “ristrutturare” la pubblica amministrazione mediante il ripensamento al suo ruolo e della sua organizzazione. Per far “Funzionare il sistema”, il ministro presenta il suo “Piano Industriale”; Per accrescere la produttività del lavoro vengono individuati 5 ambiti: 1. Riconoscere e premiare il merito; 2. Potenziare/Valutare l’operato del personale delle amministrazioni pubbliche, con criteri trasparenti; 3. Ridefinire diritti e doveri del dipendente pubblico; 4. Rivalutare il ruolo e i compiti del dirigente pubblico; 5. Potenziare la funzionalità dell’amministrazione. Il punto di forza della riforma Brunetta, però, è rappresentato dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, numero 150. Questo decreto dà attuazione ai principi fondamentali della riforma, individuando precise regole sulla programmazione, il controllo, la trasparenza e la premialità dei lavoratori. Un aspetto critico nei confronti dell’attuazione della riforma sta nel considerare che tutto ciò che funzioni altrove, possa funzionare anche nel nostro paese, non tenendo conto di culture, società, politica ed economia molto diversi. CAP. 6 WELFARE, FAMIGLIE E LAVORO SOCIALE MODELLI DI WELFARE IN EUROPA In Europa esistono differenti modelli di protezione sociale. Esping-Andersen ha proposto una tipologia dei differenti modelli di politica sociale nei paesi della OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Secondo lo studioso, i modelli che lui chiama liberale, social-democratico e quello conservatorecorporativo, si caratterizzano per un differente rapporto ed equilibrio fra i tre principali attori delle politiche sociali: lo Stato, il mercato e la famiglia. Al primo gruppo appartengono Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna. Nel modello liberale il principale meccanismo di regolazione sociale è il mercato, lo Stato è concepito come residuale ed interviene solo quando sia il mercato e sia la famiglia siano in difficoltà. I diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno; i servizi pubblici non sono forniti a tutti ma solo ai più poveri, gli altri possono acquistarli privatamente. Riduzione al minimo dell’impegno dello Stato. Nel modello social-democratico, tipico dei paesi scandinavi, l’attore principale delle politiche sociali è rappresentato dallo Stato, mentre le famiglie e il mercato hanno un ruolo marginale. I diritti sociali derivano dalla cittadinanza. Il terzo modello, conservatore-corporativo, raggruppa i paesi dell’Europa Continentale, come la Francia e l’Italia. In questo modello, le politiche sociali sono basate sul sistema delle assicurazioni sociali. Lo Stato conserva una significativa capacità di regolazione, ma affida alla famiglia vari compiti di cura e tutela dei soggetti svantaggiati. I diritti sociali derivano dalla professione esercitata, e sono collegati alla condizione del lavoratore. Nella seconda metà degli anni Novanta, però, si sono diffusi che hanno sviluppato ulteriormente l’analisi di Esping-Andersen. Tali studi inseriscono una novità rispetto alla classificazione precedente, inserendo un quarto modello denominato “familistico”, al quale apparterrebbero i paesi dell’Europa meridionale, vale a dire Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. La situazione Italiana si caratterizza per un diverso rapporto tra Stato e famiglia, che diventa partner dello Stato stesso nella gestione delle politiche sociali, senza però ricevere quel supporto economico per svolgere i compiti di cura che le vengono assegnati. Per chi si trova senza lavoro, la famiglia diviene un vero e proprio” ammortizzatore sociale” nei confronti dei giovani disoccupati. Il paradosso del welfare italiano è rappresentato proprio dall’assenza di una vera e propria politica sociale che tenga conto del lavoro e del bisogno delle famiglie. Rispetto agli altri paesi europei, le politiche a sostegno delle famiglie in Italia sono state spesso il prodotto secondario di altre politiche, piuttosto che misure pensate e mirate al soddisfacimento del bisogno delle famiglie. UN SISTEMA DI PROTEZIONE SOCIALE FRAGILE E INCOMPLETO Con il termine “ammortizzatori sociali” si fa riferimento ad un insieme di misure e prestazioni a sostegno del reddito dei lavoratori che si trovano nella condizione di disoccupati o sospesi dal lavoro. Si tratta di misure specifiche, dedicate a particolari casi; tra le misure principali, il sistema italiano di protezione sociale prevede: “l’indennità ordinaria di disoccupazione”, l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione che prevede la tutela per tutti i lavoratori dipendenti i quali possono rimanere senza lavoro. Per avere diritto all’indennità, i lavoratori devono versare un contributo; si tratta quindi di un meccanismo assicurativo dove, per riceverlo, bisogna soddisfare determinati requisiti di tipo contributivo. Altro strumento diffuso negli ultimi anni è la cosiddetta “mobilità”. L’indennità di mobilità spetta ai lavoratori a tempo indeterminato occupati nelle grandi aziende a seguito di licenziamento per motivi legati alla trasformazione o alla cessazione dell’attività lavorativa, o licenziamento a seguito di un periodo di cassa integrazione straordinaria e laddove le imprese prevedono di non reimpiegare tutti o parte dei lavoratori sospesi. Tra gli ammortizzatori sociali rientrano anche gli LSU, cioè i “lavoratori socialmente utili”. Lo strumento più importante di protezione dei lavoratori è rappresentato dalla “Cassa integrazione guadagni (CIG)”. Distinta in ordinaria e straordinaria, rappresenta un ammortizzatore sociale utilizzato soprattutto nel settore industriale; il lavoratore è sospeso dal lavoro oppure lavora con un orario ridotto a causa della riduzione dell’attività derivante da difficoltà produttive. Quella “Ordinaria” è prevista in presenza di sospensioni o riduzioni di attività per eventi temporanei, mentre quella “Straordinaria” è prevista nei casi di ristrutturazione, riorganizzazione, crisi aziendale, fallimento. La somma delle due tipologie non può superare i 36 mesi in quattro anni. La Cassa integrazione è gestita direttamente dall’ INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale). Il sistema italiano di protezione sociale è costituito sulla figura centrale del lavoratore salariato a tempo indeterminato, quindi il sistema welfare italiano appare attualmente incapace di fornire ai lavoratori flessibili un’adeguata protezione contro il rischio di disoccupazione, considerata la crescente diffusione di forme di lavoro “atipiche” o non standard; di conseguenza i lavoratori flessibili sono praticamente esclusi dall’utilizzo degli istituti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione. In altre parole viene a mancare, nel nostro paese, una rete di protezione dei soggetti più deboli sul mercato del lavoro. Una differenza evidente tra il sistema italiano e i sistemi degli altri paesi europei sta nel fatto che il sistema italiano si pone come obiettivo non tanto il sostegno al reddito in caso di disoccupazione, quanto piuttosto la conservazione del posto di lavoro. Sarebbe auspicabile una riorganizzazione del sistema degli strumenti di sostegno al reddito, che tengano principalmente conto dello stato di disoccupazione involontaria del lavoratore a prescindere dal motivo e dal tipo di disoccupazione stessa. Sarebbe anche utile applicare una serie di attività e strategie efficaci volte al reinserimento dei soggetti nel mercato del lavoro, e favorire in tal modo la reale integrazione di costoro nella società. DAL WELFARE STATE AL WELFARE MIX: L’ESPERIENZA ITALIANA Con la crisi del welfare state si è assistito in tutta Europa ad un processo di privatizzazione dell’assistenza sociale, con la crescita di quei soggetti collettivi che rientrano nel cosiddetto “Terzo settore”, con questo termine ci si riferisce ad un insieme eterogeneo di soggetti e movimenti collettivi non-profit come gruppi di volontariato, cooperative sociali, onlus, ecc. Si realizza così il passaggio dal welfare state tradizionale, a quello che ora viene definito come welfare mix, cioè un modello di regolazione sociale che è il risultato dell’interazione tra lo Stato ed i soggetti privati. Tali organizzazioni sono finanziate dagli enti pubblici per i servizi prestati in virtù di un meccanismo di convenzionamento. Cambia il ruolo dello Stato e quello degli enti pubblici locali, che da erogatori di servizi sociali diventano sempre più facilitatori della crescita delle risorse private in grado di fornire servizi e diventano responsabili della progettazione e del finanziamento di tali servizi. La collaborazione tra soggetti pubblici e privati ha lo scopo di migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi, riducendo i costi di gestione. In alcune recenti analisi, il modello italiano è stato definito come “modello negoziale”, le cui caratteristiche principali possono essere individuate in un ridotto impegno finanziario dello Stato e sulla sua capacità di identificare e «mobilitare la domanda di servizi proveniente dalle famiglie, orientandola verso un’offerta proveniente da fornitori privati accreditati». LA DIFFUSIONE E LE CARATTERISTICHE DEL TERZO SETTORE IN ITALIA Quando si parla di Terzo settore in Italia si fa riferimento ad una realtà frammentata che fatica ad affermarsi in un contesto che sembra ostile allo sviluppo di un settore non-profit maturo e di grandi dimensioni. Una delle caratteristiche principali del Terzo Settore in Italia è data dalla frammentarietà delle iniziative; basta dare uno sguardo alla pluralità delle organizzazioni che operano nel sociale per rendersi conto che esse hanno finalità, modelli organizzativi, riferimenti normativi e utenze spesso differenti. Il volontariato organizzato e le cooperative sociali rappresentano le due tipologie centrali nel modello italiano di welfare. Dal punto di vista economico, ad eccezione delle fondazioni dotate di un patrimonio proprio, le organizzazioni non-profit si caratterizzano per la dipendenza da fonti pubbliche di finanziamento, costituite da convenzioni per l’erogazione di servizi e prestazioni, mentre le entrate private sono riconducibili all’autofinanziamento da parte dei soci, alle donazioni e alle attività di raccolta fondi. I LAVORATORI NEL TERZO SETTORE: UN CONFRONTO CON IL SETTORE PUBBLICO La crescita del Terzo Settore in Italia pone al centro dell’attenzione una riflessione sul ruolo dei lavoratori nel settore non-profit rispetto alla soluzione tradizionale di impiego nel settore pubblico. Tali differenze riguardano tendenzialmente percorsi che portano al lavoro sociale, le motivazioni alla base della scelta, le condizioni di lavoro e il livello di soddisfazione nel lavoro. Si tratta di una professione che interessa prevalentemente le donne e con una scolarità medio alta; la maggior parte dei lavoratori possiede un titolo di studio superiore ed è arrivata a svolgere questo tipo di professione casualmente, senza una volontà premeditata. A differenza del settore pubblico, in cui si accede per concorso, le organizzazioni no profit sono più flessibili e offrono al lavoratore la possibilità di coniugare il lavoro con il tempo libero e la famiglia; questa maggiore flessibilità rappresenta uno dei punti di forza del Terzo settore italiano. Tuttavia le differenze più significative tra gli operatori che lavorano nei servizi sociali pubblici e privati si riscontrano sul fronte delle motivazioni, delle condizioni di lavoro e sul livello di soddisfazione personale. Dal confronto tra settore pubblico e privato emerge che gli operatori del settore pubblico sono quelli meno motivati e soddisfatti del lavoro che fanno e dell’organizzazione per cui lavorano, nonostante le retribuzioni più alte e la sicurezza di un lavoro stabile; il livello di soddisfazione degli operatori cresce notevolmente nelle organizzazioni non-profit. Il livello di soddisfazione dei lavoratori è strettamente legato al tipo di struttura sociale organizzativa ed alle modalità di gestione delle relazioni interne. Nelle organizzazioni non-profit, il “fattore umano” è soddisfatto attraverso la realizzazione di un ambiente lavorativo più gradevole e con meno tensioni tra i lavoratori. In generale è possibile affermare che tra i fattori del successo del terzo settore e della sua crescita, vi sia proprio la sua capacità di combinare incentivi economici e incentivi psico-sociali. LA QUESTIONE INDUSTRIALE (BONAZZI) CAP. 5 TECNOLOGIA E PLURALITA’ DELLE FORME INDUSTRIALI Superamento pratico e concettuale del taylorismo Il primato delle soluzioni tecnologiche su quelle volontaristiche per quanto riguarda il superamento del taylorismo, necessita di alcune precisazioni. L’uscita o almeno l’attenuazione del taylorismo non può essere considerato solo il programma di un management illuminato, può anche essere materia di rivendicazione sindacale, richiesta collettiva di nuovi modi di produrre e di crescere professionalmente. La supremazia tecnologica non nega gli apporti volontaristici ma tende a spiegarne i limiti; d’altra -parte non è raro che le innovazioni indotte dal progresso tecnologico dimostrino di soddisfare, seppur in modo diverso, le stesse esigenze che ispiravano le sperimentazioni di job enrichment. Un altro aspetto da chiarire è cosa si intende per “superamento del taylorismo”. Superare il taylorismo ha due significati: uno pratico che riguarda l’organizzazione del lavoro in fabbrica e uno concettuale che riguarda la pretesa di porsi come formula di validità universale. In senso concettuale significa abbandonare il presupposto che quel modello possegga una validità universale, che sia il passaggio obbligato per l’efficienza di qualsiasi lavoro; significa inoltre considerare le situazioni difformi da quel modello non come anomalie o residui di industrializzazione imperfetta, ma come soluzioni legittime inserite in logiche differenti. Vuol dire infine riconoscere che ciò che caratterizza la storia dell’industria non è la dominanza di alcuni tratti comuni, bensì la pluralità delle forme, la storicità delle fasi produttive, la diversità delle soluzioni adottate nei vari settori. Esistono tre importanti contributi al superamento della condizione che esista un solo modello di sviluppo industriale che rappresentano altrettanti modo di affrontare il pluralismo delle forme nell’industria: come fasi evolutive (Touraine), come settori (Blauner) e come dimensioni d’impresa. Alain Touraine: tecnologia ed evoluzione del lavoro Touraine affronta il problema di come l’evoluzione tecnologica avvenuta in uno specifico settore industriale abbia contribuito a modificare il lavoro operaio e il sistema generale di fabbrica. Egli parte da una sua ricerca svolta nel 1948/49 negli stabilimenti automobilistici della Renault a Billancourt, dove cerca di ricostruire la situazione lavorativa che esisteva in differenti epoche: 1920, 1935, 1948. Si osserva una sempre crescente tendenza all’automatismo, ad incorporare nelle macchine delle lavorazioni che prima erano eseguite dall’uomo, questo in una logica analoga a quella marxista, che sottolinea inoltre le conseguenze che tali innovazioni hanno provocato sul lavoro umano. Il programma di Touraine era quindi volto a studiare il passaggio da un dato sistema di lavoro ad un altro dotato di una logica, di vincoli e profili professionali radicalmente differenti da quelli del sistema precedente. L’autore individua così tre fasi che non corrispondono solo a tre tappe storiche dell’evoluzione, ma anche a tre differenti sistemi di lavoro: Fase A: vecchio sistema di lavoro, caratterizzato da lavori qualificati di fabbricazione richiesti dalle macchine universali o “flessibili”: Fase B: periodo di transizione caratterizzato dallo sviluppo del macchinismo e del lavoro non qualificato di alimentazione delle macchine; Fase C: fase dell’automatismo e dell’eliminazione del lavoro direttamente produttivo. Fase A Questa fase è caratterizzata dalla diffusione delle macchine polivalenti universali azionate a comando elettrico, sulle quali è possibile applicare un’ampia gamma di utensili. Caratteristica di queste macchine è quindi la flessibilità produttiva e l’uso per lavorazioni di serie limitate e intercambiabili. Compare inoltre la figura dell’operaio qualificato di produzione, la cui professionalità è ancora un mestiere che viene espletato tramite l’intervento sulla macchina e sulla produzione stessa. È Interessante notare la professionalità e la cooperazione che caratterizzano il sistema di fabbrica centrato sull'operaio di mestiere tipico dell’industria pre - tayloristica. L’operaio acquisisce il suo mestiere con il tempo, in maniera empirica; ogni operaio finito può essere considerato come un capoposto, intorno al quale si forma un piccolo gruppo che funziona come una squadra di lavoro indipendente. In questa fase non vi è ancora un’ opposizione tra organizzazione formale ed informale del lavoro; gli operai formano dei gruppi naturali dove i rapporti umani sono un tutt’uno con la cooperazione produttiva e non entrano in conflitto con le direttive imposte dall’alto. Questo perché la direzione ha una funzione marginale per quanto riguarda la produzione, il cui controllo viene affidato agli operai: capi reparto, i quali non hanno una formazione specifica che li differenzi dagli altri operai, per questo sperimentano una contraddizione che nasce dalla differenza tra loro origine e il ruolo sociale che occupano. Fase B Il passaggio dalla fase A alla fase B avviene quando le macchine polivalenti universali vengono sostituite da quelle monovalenti, specializzate nell’eseguire un ridotto numero di operazioni. Queste macchine sono più rigide, più stabili e semplici nel loro funzionamento da divenire monotone. La causa di tale innovazione è da ricondurre a calcoli puramente economici. L’unità del lavoro passa dalla singola macchina al reparto complessivo; qui domina un’ oggettività del lavoro che non è solo imposta ma anche incorporata nello stesso sistema di macchine e nel nastro trasportatore che caratterizza il lavoro a catena. Spariscono i vecchi mestieri operai e compare la struttura formale a cui si contrappone quella informale, tale contrapposizione nasce dall’estinguersi di quella dimensione naturale del gruppo. Da un sistema produttivo che appiattisce e standardizza il lavoro manuale sarebbe logico attendersi un appiattimento delle categorie e delle paghe; ciò non avviene e si assiste ad una proliferazione di livelli e mansioni che corrispondono alla divisione tecnica del lavoro. Questo è voluto sia dalla direzione che dalle organizzazioni sindacali come mezzo per assicurare un minimo simbolico di crescita personale. Nella fase B è compresa anche una rivoluzione delle gerarchie aziendali: compaiono i capisquadra con funzioni organizzative e amministrative lasciando la parte tecnica ad operai competenti; cambia inoltre il ruolo del capo reparto poiché si attenua il suo potere di comando e diventa un rappresentante dell’organizzazione centrale della fabbrica. Fase C Touraine trovò ,nella sua ricerca presso la Renault, solo degli abbozzi della fase C, rappresentati dall’introduzione delle prime macchine transfert di tipo automatico che rappresentavano una premessa per il passaggio ad una nuova fase di lavoro. Il Tutto è diretta conseguenza della fase precedente. La fase C è contrassegnata da un crescente automatismo, fino alla produzione integrale. La fase B ha distrutto il mestiere di una volta e l’operaio si è trovato a svolgere un lavoro disumano, ridotto ad essere il prolungamento vivente di una macchina: assoggettato nei tempi e nei movimenti. Nella fase C questi movimenti venivano gradualmente reincorporati nelle macchine. Il progresso tecnologico ha contribuito a liberare la manodopera in due sensi: la parte superflua si è trasformata in disoccupazione, mentre in quella ancora necessaria l’uomo svolge solo la mansione di controllore della macchina, pertanto il lavoro in condizioni normali è passivo ed inattivo, diventa frenetico e attivo solo quando c’è da riparare un guasto. Si ha quindi un capovolgimento sociale, nel senso che diminuiscono gli operai comuni addetti direttamente alla produzione e aumentano quelli specializzati nelle operazioni di controllo tecnico; si verifica inoltre un cambiamento nei tempi di lavoro. In base a ciò la qualificazione operaia non è più un fatto di competenza tecnica o abilità manuale, ma una qualità sociale: l’affermarsi della fase C conduce ad un nuovo tipo di operaio, la cui professionalità è fondata sulla connessione tra aspetti sociali e tecnici del sistema integrato in cui lavora. Cambiano anche le richieste di qualità umane : gli operai devono essere decisi, non devono possedere spirito di iniziativa ma precise conoscenze in base alle loro mansioni tecniche. La figura del capo si rifà alla scuola delle Relazioni Umane, pertanto egli deve tenere conto del fattore umano adattando i compiti al lavoratore ed aiutarlo a capire il suo lavoro; liberato da molte funzioni tecniche, la sua mansione è quella di organizzatore di un insieme di posti di lavoro e di operai. A differenza delle relazioni umane però le qualità psico – sociali dei capi non sono volte ad un controllo politico, ma sono funzionali ad un sistema di lavoro. Alcune questioni teoriche sollevate dalla ricerca Alla ricerca di Touraine va il merito di aver compreso per la 1° volta che il taylorismo non è un modello né universale, né definitivo, ma solo la risposta organizzativa elaborata in relazione ad una fase storica dell’evoluzione tecnologica. Occorre pertanto analizzare alcune questioni: Rapporto tra modello interpretativo e realtà empirica. Teoricamente ogni fase configura un sistema lavorativo completo fatto di macchinari , di prestazioni professionali, di gerarchie di comando…Il superamento di un dato ordine sistemico non conduce semplicemente alla sua decomposizione , ma ad un nuovo sistema di lavoro, con principi, vincoli e norme qualitativamente differenti da quelli in vigore nel sistema precedente. A livello pratico Touraine stesso avverte che le tre fasi possono coesistere nella stessa unità produttiva, come residuo di epoca passata e come anticipazione di una a venire. Ruolo della tecnologia. Nonostante l’importanza della tecnologia, Touraine cerca di evitare conclusioni deterministiche che porterebbero a considerare l’organizzazione del lavoro come conseguenza necessaria delle varie tappe dell’evoluzione tecnologica. Egli sottolinea invece la natura culturale e le risposte umane all’evoluzione della tecnologia, che in quanto tali non sono necessarie.( vede il taylorismo in quest’ottica). Ripercussioni che l’innovazione tecnologica esercita sui contenuti del lavoro. Touraine sottolinea la drammaticità dei costi umani causati dall’evoluzione tecnologica, ma esprime anche la consapevolezza che attraverso questi costi è possibile dare all’uomo una prospettiva di riqualificazione intellettuale (visto che quella esecutiva è stata soppiantata dall’uso delle macchine). Infine non si trova in Touraine nessun giustificazionismo storico del taylorismo, egli sostiene che se in quell’epoca c’è stata una disaffezione dal lavoro, non ne erano responsabili gli operai bensì le condizioni generali di lavoro e di vita che erano loro imposte. Robert Blauner: l’alienazione operaia da costante del capitalismo a variabile della tecnologia Anche Blauner esamina come le condizioni del lavoro operaio variano all'avanzare della tecnologia ma, a differenza di Touraine che si concentra su un solo settore produttivo, egli ne esamina 4: grafico, meccanico, tessile, chimico: facendone un’analisi comparata. Riprende, rielaborandolo, il concetto di alienazione ideato da Marx. L’alienazione in Marx: Tale concetto identifica la condizione operaia in un regime capitalistico, in cui i lavoratori: non possiedono gli strumenti di produzione, né possono prendere decisioni; non possiedono il prodotto del lavoro per il quale il capitalista paga un salario inadeguato; non controllano il processo di produzione imposto dall’esterno; non comprendono più la globalità di questo processo a causa della divisione del lavoro imposta dal meccanicismo; sono mercé delle logiche di mercato per quanto riguarda la sicurezza del posto di lavoro e alla mercé del capitalista e della gerarchia di fabbrica per quanto riguarda l’utilizzo della forza lavoro. L’alienazione presenta anche un aspetto soggettivo, in quanto falsa coscienza della propria condizione sociale, che gli apparati culturali e politici del capitale cercano di infondere nella classe operaia. In tal modo la condizione operaia subalterna viene vista come la legittima espressione di un ordine immutabile e non come l’espressione storica del dominio capitalistico. Blauner sostiene che da un punto di vista sociologico non serve considerare l’alienazione in questi termini, non negando la validità del concetto come denotante una situazione negativa di perdita della comprensione e del controllo del processo produttivo. Per trattare l’alienazione in termini sociologici,occorre trasformare la costante in variabile, individuandone alcune dimensioni osservabili che sono più o meno gravi, a seconda delle specifiche condizioni produttive. Queste condizioni sono determinate innanzitutto dalla tecnologia, dall’ampiezza degli stabilimenti, dal tipo di mestiere, dal controllo gerarchico, dal potere contrattuale degli operai… Fenomenologia dell’alienazione operaia Blauner arriva a formulare 4 dimensioni dell’alienazione: Mancanza di potere: Una persona non ha potere quando è un oggetto controllato e manipolato da altre persone o da un sistema impersonale come la tecnologia. Esistono però altre due forme di mancanza di potere: il grado di controllo sul mercato del lavoro (tutela da parte dei sindacati), e il grado di controllo sul processo produttivo. La possibilità che questi vincoli siano più o meno pesanti, a seconda del settore o della tecnologia, induce Blauner a sceglierli come indicatori privilegiati di quella specifica dimensione dell’alienazione che è la mancanza di potere. Assenza di significato: il significato che i lavoratore trova nel proprio lavoro è una variabile che dipende da fattori tecnologici e organizzativi. Di solito ha più significato lavorare su un prodotto unico piuttosto che standardizzato, completo piuttosto che parcellizzato Mancanza di integrazione e di appartenenza ad una comunità industriale: Blauner vede la comunità industriale come un insieme di relazioni sociali che si realizzano all’interno della fabbrica; questa possibilità relazionale può stare alla base di una visione sopportabile e non alienante del lavoro. Anche questa possibilità può variare a seconda del tipo di lavoro, in alcuni casi , come nella catena di montaggio ciò non è possibile. Autoestraniazione: come dimensione soggettiva. Riguarda una mancanza di coinvolgimento rispetto al proprio lavoro che diventa quindi solo un mezzo per raggiungere mete alternative. L’operaio è motivato a svolgere il suo dovere solo dal guadagno, assume pertanto un orientamento strumentale verso il lavoro. La differente distribuzione di alienazione e di libertà nel mondo del lavoro Blauner solleva il problema di cosa si debba intendere come opposto dell’alienazione;ed indica come soluzione la “libertà”( di controllare il proprio lavoro, di identificarvisi, di trovarlo gratificante). Come i motivazionalisti vede questa come la prospettiva ideale della condizione lavorativa non sottovalutando però l’ambivalenza insita nel lavoro che impedisce anche ai massimi gradi di libertà e creatività di identificarsi completamente con soddisfazione e felicità. A differenza dei motivazionalisti inoltre egli considera alienazione e libertà delle condizioni oggettive che non possono pertanto essere modificate a piacimento. Blauner svolge un’analisi comparata di 4 settori industriali: uno a tecnologia tradizionale (grafico), due a tecnologia taylorizzata ( tessile e automobilistico), e uno a tecnologia avanzata (chimico). Nel settore grafico si riscontra il minor livello di alienazione poiché si resta ad un’esecuzione del lavoro pressoché artigianale, in cui l’operaio ha libertà di movimento e possibilità di determinare qualità e quantità di produzione. Inoltre le imprese rimangono di piccole dimensioni, resistono una forte coesione comunitaria, la sicurezza del posto di lavoro e la professionalità dei lavoratori. Più alienazione si riscontra nel settore tessile, dove la manodopera prevalentemente femminile svolge mansioni ripetitive, dequalificate, fortemente controllate e vive in una perenne insicurezza dell’impiego. ( senso di privazione limitato dalle caratteristiche culturali delle comunità tradizionali degli stati del sud america). I settori dove l’alienazione è più intensa sono quelli meccanici e automobilistici, in cui vige una tecnologia rigida e ripetitiva, un lavoro dequalificato e parcellizzato,stabilità, isolamento in fabbriche di grandi dimensioni…l’unico aspetto positivo sono i salari leggermente più elevati, che però non bastano a supplire le condizioni sopra citate. L’alienazione torna invece a diminuire nel settore chimico in cui il grande progresso tecnologico ha condotto a processi automatici e continui di lavorazione incorporati nelle macchine, ciò fa sì che il lavoro umano si trasformi in somma delle mansioni individuali nella collaborazione di squadre specializzate per il controllo dei macchinari. I lavoratori negli stabilimenti chimici sono inoltre in numero ridotto e svolgono compiti di sorveglianza e manutenzione, infine il decentramento produttivo in piccole unità fa sì che gli operai non si riducano a massa anonima. Blauner, rifacendosi a Touraine, conclude che l’alienazione operaia può essere vista come una parabola legata alle vicende della tecnologia, ma l’innovazione da lui introdotta sta nell’adottare un metodo comparativo per farci conoscere le condizioni di lavoro nei diversi contesti culturali, dove tecnologia, contenuti e vincoli, rapporti sociali…costituiscono sistemi produttivi e sociali distinti gli uni dagli altri. Il maggior contributo di Blauner sta nel dimostrare come sia inadeguato considerare i differenti settori produttivi come delle variazioni di un modello monastico dell’industria,e come al contrario sia opportuno mantenere il pluralismo delle diverse realtà industriali. Dalla critica del taylorismo alla critica al fordismo: la specializzazione flessibile come alternativa storica alla produzione di massa Piore, Sabel e Zeitlin sono i più importanti teorici della “specializzazione flessibile” e lavorano negli anni ‘80 e ’90, epoca in cui la questione prevalente è l’inefficienza di un sistema produttivo troppo rigido. (fordismo). Mentre il taylorismo riguarda l’organizzazione del lavoro operaio che viene segmentato,dequalificato, al fine di aumentare l’intensità delle prestazioni, il fordismo , nato negli anni ’10 con l’introduzione della catena di montaggio, è inteso come produzione di massa caratterizzata dalla rigidità del processo produttivo, delle prestazioni e dei costi della manodopera. Il modello fordista entrò in crisi proprio a causa della sua rigidità e al suo posto subentrò un modello flessibile tanto nei processi produttivi, quanto nell’impiego della manodopera (postfordista). Se Touraine e Blauner contestano l’unicità del taylorismo cercando dessi storiche e settori dove il taylorismo era assente, i fautori della specializzazione flessibile contestano l’inevitabilità del fordismo affermando che la storia industriale avrebbe potuto essere diversa da quella che è stata; sostengono quindi uno sviluppo diverso, fondato su un sistema specializzato e flessibile di piccole e medie industrie. Nuova variabile strategica diventa la dimensione d’impresa; la differenza tra grande e piccola industria consiste nel fatto che le piccole imprese garantiscono una produzione flessibile e articolata in piccoli lotti (non di serie), mentre le grandi imprese fordiste possono offrire solo una produzione rigida e di massa. Nel nuovo modello il lavoro operaio, proprio perché variato e svolto in ambienti piccoli è più ricco di opportunità professionali e meno anonimo. In alternativa alla grande impresa si auspica la realizzazione di “distretti industriali” (Marshall) come agglomerato geograficamente definito di piccole imprese specializzato nella produzione di beni consimili dove: le imprese sorgono per imitazione, si ha una regolazione formale ed informale della concorrenza e di tutela di interessi collettivi… Non mancano tuttavia delle critiche al modello della specializzazione flessibile, in primis quella rivolta alla tesi centrale che la piccola industria avrebbe potuto essere un modello vincente soppiantando quello fordista (storia ottativa), altre critiche sono state mosse per il fatto che non esiste alcun argomento fondato per sostenere tale tesi e perché l’analisi storica l’ineluttabilità del passaggio alla grande industria almeno per alcuni tipi di produzione a forte domanda. Una seconda critica è rappresentata dal fatto che un’alternativa alla specializzazione flessibile è incarnata nel modello giapponese. Nonostante tutto questa nuova corrente ha riscosso grande successo negli anni ’80. Il modello a piccola impresa configura una società a micro imprenditorialità diffusa, con un forte senso di comunità, con una grande mobilità individuale che porta alla speranza di progresso. Questo modello di società ha rilevanti conseguenze per l’analisi organizzativa. Sollecita ad assumere come oggetto di analisi non una singola impresa ma l’organizzazione di un intero ambito territoriale, un insieme di imprese con i loro rapporti di collaborazione e competizione.. vd. Recenti sviluppi dell’analisi organizzativa: economia dei costi di transazione, ecologia…(p.139). CAP. 9 DOPO WEBER. LE CONSEGUENZE INATTESE DELLA BUROCRAZIA NELL’ANALISI DI ROBERT MERTON 1. SVILUPPI POST-WEBERIANI DEGLI STUDI SULLA BUROCRAZIA: Dopo Weber ci sono una serie di riflessioni, Bonazzi dice che Weber ha lasciato: - Un presupposto: burocrazia come forma unica e specifica di organizzazione razionalmente orientata a un fine. Burocrazia tipica di una organizzazione. - Problema aperto: il significato assegnato dai soggetti alle azioni è un criterio insufficiente rispetto all’effetto complessivo delle azioni sociali nelle organizzazioni; In questo scenario si mossero due diversi tipi di revisionismo al pensiero di Weber, in atto tra gli anni ’40 e ’60 specificatamente negli USA, le 2 critiche secondo Bonazzi

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