Riassunto Introduzione Diritto Pubblico e Fonti - PDF
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Università degli Studi di Milano Bicocca
Tania Groppi e Andrea Simoncini
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Questo documento è un riassunto del libro "Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti" di Tania Groppi e Andrea Simoncini. Il documento discute concetti chiave come il diritto come fenomeno, norme giuridiche, organizzazione sociale e la distinzione tra diritto pubblico e privato. Il testo è destinato a studenti di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca.
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lOMoARcPSD|32936532 Riassunto "Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti" Tania Groppi e Andrea Simoncini Istituzioni di diritto pubblico (Università degli Studi di Milano-Bicocca)...
lOMoARcPSD|32936532 Riassunto "Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti" Tania Groppi e Andrea Simoncini Istituzioni di diritto pubblico (Università degli Studi di Milano-Bicocca) Scansiona per aprire su Studocu Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 DIRITTO COSTITUZIONALE CAPITOLO 1 – COS’È IL DIRITTO IL DIRITTO COME FENOMENO È frequente il pre-giudizio secondo cui il diritto ha a che fare esclusivamente con il potere e con quello che i giuristi chiamano il potere pubblico. Secondo questa impostazione, lo studio del diritto coincide con l’analisi delle regole, dei comandi e degli ordini che vengono dallo Stato o da altre autorità dotate di potere. Ma lo Stato è solo uno dei produttori del diritto e, a fianco dell’autorità statale, il diritto e i suoi obblighi spesso nascono da atti dei privati o da istituzioni non statali. IL PUNTO DI PARTENZA: L’ESPERIENZA GIURIDICA Il nostro punto di avvia è quello delle scienze sociali, orientate in maniera empirico-induttiva, che hanno cioè come proprio oggetto le azioni umane, i comportamenti del singolo uomo e degli uomini insieme. Ad un primo livello, la constatazione comune è che i comportamenti degli uomini, essendo normalmente liberi, sono imprevedibili, causali e caotici. C’è però un secondo “strato” dell’esperienza giuridica. Se osserviamo meglio, alcuni comportamenti si ripetono. Esistono cioè delle regolarità, ovvero delle ripetizioni costanti che rendono meno caotico il comportamento. È tra queste regolarità e eccezioni che si colloca il fenomeno del diritto. È UN MONDO DI NORME Uno dei primi risultati dello studio del diritto è renderci consapevoli dell’importanza del “normativo” nella nostra esistenza individuale e sociale; le norme giuridiche non sono che una parte dell’esperienza normativa. Le regole giuridiche attengono alle ragioni dei comportamenti umani prima che ai comportamenti stessi. IL DIRITTO COME UNA PARTICOLARE FORMA DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE Il diritto costituisce una delle possibili ragioni per cui un uomo agisce. Innanzitutto il diritto è una forma di organizzazione sociale. Un esempio è la fila di fronte ad un ufficio pubblico. I fattori diversificanti in questo caso sono due: 1. il fatto dell’organizzazione o meglio dell’auto-organizzazione; 2. il fatto dell’osservanza spontanea delle leggi. Le regole giuridiche si distinguono dalle regole morali o religiose o di buona educazione innanzitutto perché esprimono delle forme di organizzazione. Tale punto di vista è stato sviluppato da una corrente di giuristi definiti “istituzionalisti”, secondo i quali il diritto è ordinamento giuridico. Il diritto è un insieme di norme che può esistere e funzionare solo se c’è un gruppo umano organizzato, dotato di una organizzazione incaricata di produrre le regole e di farle rispettare. LA SANZIONE COME ULTERIORE ELEMENTO DI SPECIFICITÀ DEL DIRITTO Inoltre, se il diritto è una forma di organizzazione, va precisato che si tratta di una forma di organizzazione che, a differenza di altre, deve, e non solo può, essere rispettata. È fondamentale che le regole, per essere giuridiche, siano “osservate”, nel senso che: da un lato, le persone spontaneamente le rispettino; dall’altro, vi sia qualcosa che assicuri questo rispetto anche se non ci dovesse essere un’adesione spontanea. Ma in un secondo senso, per così dire “prescrittivo”, la doverosità del diritto sta a significare che esistono procedure ed organizzazioni le quali, in caso di violazione, tendono a garantire comunque il rispetto del sistema giuridico nel suo complesso. Come assicurare il rispetto delle regole giuridiche? Occorre prevedere meccanismi che ne garantiscano il rispetto. Ecco che si sviluppa la considerazione sulla statualità del diritto: la convinzione che soltanto le norme accompagnate da una sanzione coercitiva siano veramente giuridiche. E, visto che in epoca moderna soltanto lo Stato è in grado di porre tali sanzioni, l’idea che il diritto sia un fenomeno essenzialmente statuale. Esistono due modi di concepire il diritto: 1. uno fa riferimento all’idea di ordinamento giuridico, di gruppo sociale organizzato; 2. l’altro fa riferimento allo Stato e alle regole che questo produce. IL DIRITTO TRA POSITIVISMO E GIUSNATURALISMO Nella lingua italiana diritto si riferisce anche a una sfera garantita di pretese e di facoltà che il soggetto può vantare nei confronti di tutti gli altri o di alcuni. Per tenere distinti questi due aspetti essi vengono designati, rispettivamente, come: diritto in senso oggettivo; diritto in senso soggettivo. Tra diritto oggettivo e soggettivo c’è uno stretto legame: i diritti soggettivi esistono solo in quanto c’è una norma che li riconosce. Secondo il positivismo giuridico non esiste altro diritto (oggettivo) che quello posto da chi ne ha l’autorità, e i diritti soggettivi sono soltanto quelli qualificati come tali dal diritto oggettivo. I diritti soggettivi sono meri “riflessi” del diritto positivo (diritto posto). Esiste però un altro modo di concepire il rapporto tra diritto oggettivo e diritti soggettivi, ed è quello che classicamente va sotto il nome di giusnaturalismo. Esso è quella corrente di pensiero secondo cui il diritto non è riducibile alle sole leggi umane poiché è legato alla stessa natura/ragione dell’uomo. A questo propositivo nella Costituzione italiana l’art. 2 afferma “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Decisiva è l’espressione “la Repubblica riconosce”: si può riconoscere solo qualcosa che già c’è, che viene prima. Il positivismo giuridico rischia di trasformarsi in supina obbedienza alla legge, anche a quella più inumana, come è accaduto in regimi autoritari e oppressivi. Nel secondo dopoguerra si è assistito al tentativo di superare questi problemi “positivizzando” il diritto naturale. E ciò è avvenuto attraverso due strumenti: 1. le Costituzioni rigide; 2. i trattati internazionali sui diritti umani. LA PLURALITÀ DEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI Se il diritto è l’organizzazione o l’ordinamento di una società allora ci saranno tanti diritti quante sono le società. Da questa constatazione derivano perlomeno due fondamentali direttive per lo studio del diritto: 1. se una società cambia, inevitabilmente cambiano (o cambieranno) le regole e i principi giuridici che la organizzano: - da un lato, nello stesso spazio cambieranno nel tempo le forme dell’organizzazione giuridica; - dall’altro, nello stesso tempo possiamo veder coesistere ordinamenti giuridici profondamenti differenti a seconda dell’area geografica che consideriamo; 2. lo Stato, quantomeno in senso moderno, solo uno dei possibili ordinamenti giuridici. E questo perché: - abbiamo avuto intere civiltà che non erano organizzate secondo quella particolare forma che si è affermata dalla fine del medioevo sul continente europeo, per poi espandersi nel pianeta, e che chiamiamo “Stato”; - è sempre più evidente che gli ordinamenti giuridici statali debbono fare i conti con altri ordinamenti giuridici la cui forza crescente dev’essere tenuta assolutamente in considerazione. IL DIRITTO PUBBLICO Il termine diritto pubblico presuppone il suo antagonista diritto privato. La differenza tra le due definizioni sta nell’oggetto. Il diritto pubblico è quell’insieme di norme che ha per oggetto l’ordinamento giuridico dello Stato. Un ordinamento giuridico è un gruppo umano caratterizzato dall’avere un’organizzazione e tre sono gli elementi che lo connotano: 1. un gruppo di soggetti plurisoggettività; 2. un apparato organizzativo istituzione; 3. le norme giuridiche normazione. In ogni ordinamento giuridico esistono: - norme sulla soggettività norme che individuano chi sono i suoi membri; - norme sulla plurisoggettività norme che regolano i rapporti tra i soggetti dell’ordinamento giuridico; - norme sulle istituzioni norme sull’organizzazione, che individuano gli organi e disciplinano i loro poteri; - norme sui rapporti tra le istituzioni e la plurisoggettività norme che regolano i rapporti tra l’organizzazione e i soggetti dell’ordinamento; - norme sulla normazione norme che stabiliscono come si producono le norme in questo ordinamento; - norme che regolano i rapporti con altri ordinamenti giuridici. Considerando lo Stato come ordinamento giuridico, al diritto pubblico appartengono cinque di questi sei gruppi di norme. Rimane fuori solo le norme sulla plurisoggettività, esse costituiscono l’oggetto del diritto privato. Tutto il complesso delle norme giuridiche può essere ricondotto a questi due grandi settori: diritto pubblico e diritto privato. Le norme del diritto pubblico e del diritto privato si differenziano per l’oggetto della disciplina. Da ciò un’altra distinzione: rapporti regolati dal diritto pubblico sono sempre diseguali, poiché lo Stato si colloca in una posizione di supremazia; rapporti di diritto privato sono tendenzialmente rapporti paritari: i soggetti privati si collocano in una posizione di parità. Ma non c’è differenza tra diritto pubblico e privato quanto al soggetto produttore delle norme: esse sono sempre riconducibili in qualche modo allo Stato o a soggetti da esso autorizzati. Ci occupiamo del settore del diritto pubblico che è il diritto costituzionale, ovvero l’insieme di norme che sono contenuto nella fonte denominata Costituzione e, in particolare, su quelle relative all’organizzazione dello Stato e alle fonti del diritto. CAPITOLO 2 – LO STATO E LE SUE FORME STATO E SOVRANITÀ: DEFINIZIONI Due definizioni di Stato: 1. quella classica della dottrina italiana di Stato come ordinamento giuridico lo Stato è un ordinamento giuridico a fini generali, esercitane il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti; 2. definizione vicina alla scienza della politica più che al diritto lo Stato è una particolare forma storica di organizzazione del potere politico nata in Europa tra il XV e il XVII secolo, che si caratterizza perché esercita il monopolio della forza legittima su di un territorio su cui vive una popolazione e che si avvale di propri apparati amministrativi. Nelle due definizioni balzano all’occhio una serie di elementi fondamentali: il territorio; i soggetti che ci vivono popolo; il potere sovrano cui corrisponde il monopolio della forza legittima. Ma ci sono delle differenze. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 La prima definizione ci dice che lo Stato è un ordinamento giuridico a fini generali: che può perseguire qualsiasi finalità propria del gruppo umano di riferimento e che pertanto si differenzia dagli ordinamenti giuridici a fini particolari, che hanno la cura soltanto di interessi settoriali. La seconda definizione ci dice che lo Stato è una forma di organizzazione del potere politico, cioè di quel tipo di potere sociale che si basa sull’uso della forza per convincere i soggetti a tenere certi comportamenti. E anche che esso non è l’unica forma possibile di organizzazione del potere politico, ma una tra le tante, quella nella quale si realizza il monopolio della forza. E che nasce in un determinato momento storico e in una precisa area geografica. Dei tre elementi quello più qualificante è la sovranità, essa caratterizza lo Stato moderno, designando il peculiare modo di essere del potere statale e distinguendolo da altre, più antiche, forme di organizzazione del potere politico. Per definire la sovranità occorre distinguere un aspetto “esterno” e uno “interno”. Questo implica che ci sono ordinamenti giuridici esterni e ordinamenti giuridici interni allo Stato, rispetto ai quali esso entra in rapporto e afferma la sua sovranità. Gli ordinamenti giuridici esterni allo Stato vengono definiti ordinamenti giuridici extrastatali: gli altri Stati, l’ordinamento internazionale o sovranazionale ai quali fanno riferimento nella Costituzione, gli artt. 10 e 11. Ci sono poi ordinamenti giuridici interni allo Stato, definibili come infrastatali, tra i quali quelli regionali e locali, ai quali si riferisce l’art. 114 Cost., o gli ordinamenti religiosi di cui all’art. 8 Cost., o le “formazioni sociali” delle quali parla l’art. 2 Cost., tra le quali si collocano i sindacati (art. 39 Cost.), i partiti (art. 49 Cost.) e le altre forme di vita associata. sovranità esterna tradizionalmente ricondotta alla nozione di originarietà e di indipendenza. È sovrano quell’ordinamento che non deriva la sua esistenza da un altro e che ha la capacità di escludere ingerenze esterne; sovranità interna riconducibile alla nozione di supremazia. Jean Bodin definiva la sovranità come summa potestas legibus soluta, quindi “potestà suprema sciolta dalle leggi”, svincolata dal diritto. La sovranità interna è la capacità di porre comandi giuridici vincolanti nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento. Le due “facce” della sovranità sono ben sintetizzate nell’art. 7 Cost. che si riferisce ai rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica: sostenere che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani ” significa richiamare l’aspetto esterno (indipendenti) e quello interno (sovrani). Gli sviluppo ai quali siamo di fronte hanno portato a parlare di crisi dello Stato. LE FORME DI STATO La forma di Stato è, sul piano descrittivo, l’insieme degli elementi esteriori che servono a coglierne l’essenza, mentre, sul piano descrittivo, è l’insieme delle finalità per le quali lo Stato stesso esiste. Dall’espressione “forma si Stato” possiamo dare due definizioni distinte: 1. più strettamente giuridica qualifica la forma di Stato come il modo attraverso il quale la sovranità si distribuisce personalmente e territorialmente, cioè si distribuisce rispetto agli altri due elementi, popolo e territorio. Sulla base di questa definizione e con riferimento al popolo, possiamo individuare due forme di Stato: - Stato autoritario la sovranità è concentrata in un unico soggetto, sia esso un partito unico o un’unica persona fisica; - Stato democratico la sovranità è distribuita tendenzialmente su tutto il popolo. Sulla base di questa definizione, ma con riferimento al territorio, possiamo distinguere: - Stato federale forma di Stato in cui la sovranità è distribuita sul territorio, cioè tra due livelli territoriali diversi: la Federazione; i singoli Stati membri. Esso si differenzia dalla Confederazione di Stati, che rappresenta una forma di organizzazione del potere politico diversa dallo Stato, in quanto i suoi componenti restano titolari della sovranità; - Stato unitario forma di Stato nella quale la sovranità non è distribuita sul territorio, ma spetta a un unico livello di Governo, lo Stato centrale. L’art. 5 Cost. esprime tale forma di Stato. Ciò non esclude che, anche nello Stato unitario, il potere possa essere esercitato secondo modalità che lasciano uno spazio di decisione (autonomia) per enti territoriali infrastatali, esponenziali di comunità locali, cioè di popolazioni insediate su porzioni del territorio. Si parla al riguardo di Stato decentrato. Una particolare sottospecie dello Stato decentrato è costituita dallo Stato regionale, come quello italiano. In tale forma di Stato alle regioni è riconosciuta la potestà legislativa; 2. secondo la prospettiva storica la forma di Stato può essere individuata in relazione ai rapporti che, in un certo momento storico, esistono tra autorità e libertà, tra chi ha il potere e chi è soggetto a quel potere, tra governanti e governati, considerando dunque l’insieme degli obiettivi, delle finalità impresse all’ordinamento statale dalle forze politiche dominanti, fini che di solito sono scritti nelle Costituzioni. EVOLUZIONE STORICA DELLE FORME DI STATO. L’ORDINE GIURIDICO MEDIEVALE Lo Stato moderno nasce tra il XV e il XVII secolo in Europa, in un contesto nel quale il potere era organizzato secondo gli assetti dell’ordinamento che viene definito feudale o patrimoniale. Con l’espressione ordinamento patrimoniale si vuole fare riferimento alla rete di rapporti privatistici che lo reggevano, in cui il popolo e il territorio erano parte del patrimonio personale del re, e all’assenza di distinzione tra diritto pubblico e privato. Questo ordinamento non aveva i caratteri propri dello Stato, in quanto i regni medievali non erano sovrani, né dal punto di vista della sovranità esterna né di quella interna. Verso l’esterno, essi non riuscivano ad affermare la propria indipendenza, ovvero ad evitare le interferenze dei due grandi poteri esterni, l’Impero e la Chiesa. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Sul piano interno gli orientamenti medievali non erano in grado di stabilire la propria supremazia nei confronti della complessa varietà di soggetti che componevano la società feudale. Esisteva una serie di centri produttori di norme giuridiche autonome ai quali il re, benché si facesse chiamare “sovrano”, non riusciva ad imporre un diritto uniforme. Questo fenomeno è definito particolarismo giuridico. Le grandi trasformazioni economico-sociali che stanno alla base della nascita dello Stato modero sono riconducibili allo sviluppo dei commerci e dei trasporti, nonché al rimettersi in moto dell’economia, che aveva mantenuto per molti secoli, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, un carattere statico. Le nuove esigenze della guerra moderna e la necessità di infrastrutture adeguate per i commerci richiedevano ingenti risorse finanziarie. L’unico sistema per il re fu quello di imporre tributi a tutti i soggetti residenti sul territorio. Lo Stato moderno, dotato di apparati amministrativi e coercitivi, nacque proprio interno al fisco: esso era l’insieme dei funzionari che avevano lo scopo di raggiungere ogni angolo del territorio per cercare di ottenere il pagamento dei tributi. Dinanzi a una trasformazione di tipo economico-sociale fu necessaria una risposta in termini istituzionali: la concentrazione del potere in apparati che facevano capo al re, il quale si trasformò in sovrano assoluto. LO STATO ASSOLUTO Lo Stato assoluto nacque tra il XV e il XVII secolo e tramontò alla fine del XVIII con la Rivoluzione francese. Esso si caratterizzava per la concentrazione del potere nelle mani del sovrano assoluto e dei suoi apparati amministrativi. La “legittimazione” del poter (Weber) era chiaramente di tipo trascendente e dinastico: il sovrano era tale perché figlio del precedente sovrano e, in ultimo, per volere divino. Quanto alle finalità, lo Stato assoluto perseguiva essenzialmente quella dell’affermazione della propria potenza, ovvero della propria sovranità, esterna e interna. L’intera parabola storica dello Stato assoluto si condensa nel tentativo del monarca di imporre la propria sovranità: tuttavia egli non riuscì mai del tutto a prevalere sul precedente particolarismo giuridico. Per tale ragione lo Stato assoluto viene definito anche come Stato per ceti, in quanto spesso continuavano ad esistere le strutture sociali dell’ordinamento feudale. Al punto che la Costituzione dello Stato assoluto è stata definita come la risultante di un insieme di rapporti materiali, ossia dell’insieme dei rapporti tra i diversi soggetti (monarchia e ceti) che caratterizzavano il particolarismo giuridico dell’ordinamento feudale e che permasero anche nello Stato assoluto. Nacque in questo contesto lo Stato di polizia: si evoca il periodo che caratterizzò in alcuni paesi la parte finale della parabola storica dello Stato assoluto, cioè il periodo che solitamente facciamo coincidere con l’assolutismo illuminato del XVIII secolo. Il fine dello Stato di polizia non era tanto la potenza dello Stato, quanto il benessere, la felicità dei sudditi. Non cambiarono le strutture dello Stato assoluto, quel che mutò furono le finalità perseguite. Si accentuò l’interventismo in molti settori della vita sociale; interventismo che già caratterizzava lo Stato assoluto nel perseguimento delle sue finalità di potenza. Tale cambiamento non fu però sufficiente a soddisfare le esigenze che emersero a seguito di una nuova grande trasformazione economica, la rivoluzione industriale, e alla conseguente trasformazione sociale, lo sviluppo della borghesia. Ciò determinò la fine dello Stato assoluto e l’avvento di una nuova forma di Stato, lo Stato liberale di diritto. LO STATO LIBERALE DI DIRITTO In Europa, lo Stato liberale di diritto nacque con la Rivoluzione francese, nel 1789, e si consolidò nel corso del XIX secolo. Tale forma di Stato entrò in crisi agli inizi del XX secolo, sotto l’impulso di una serie di fattori riconducibili a trasformazioni di tipo economico- sociale, in primo luogo l’ascesa delle classi lavoratrici. Quando ci si riferisce allo Stato liberale si vuole indicare essenzialmente la finalità perseguita dai poteri pubblici, mentre con l’espressione Stato di diritto si ha riguardo soprattutto agli strumenti utilizzati. La finalità era la garanzia dei diritti individuali, che si riteneva dovessero essere tutelati nei confronti delle ingerenze del monarca assoluto e nei confronti dello Stato stesso. Alla base dello Stato liberale vi era l’idea secondo la quale l’individuo è titolare di diritti naturali che lo Stato deve garantire. Lo Stato liberale di diritto nacque come conseguenza di trasformazioni socio-economiche: l’emergere di una nuova classe sociale, la borghesia, composta da soggetti non appartenenti alla nobiltà e connotati dallo status di proprietari; la borghesia richiedeva assetti istituzionali idonei a garantire le libertà economiche che le consentissero di portare avanti la propria iniziativa imprenditoriale (nello Stato assoluto esso aveva un’attitudine interventista nell’economia); la borghesia chiedeva poi regole chiare, certe, prevedibili, uguali per tutti, che lo Stato assoluto non era mai stato capace di imporre; la borghesia chiedeva altresì di partecipare alla gestione del potere attraverso una rivitalizzazione del ruolo dei Parlamenti, trasformati in organi rappresentativi della nuova classe sociale. Le finalità di tale forma si Stato sono descritte in molti documenti normativi dell’epoca e in particolare nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, approvata agli arbori della Rivoluzione francese. Si perseguivano essenzialmente le finalità che stavano a cuore alla classe borghese: lo Stato liberale era funzionale alle esigenze della borghesia, al punto da essere definito Stato monoclasse. Questo non vuol dire che esistesse una sola classe sociale, ma che una sola classe sociale era politicamente attiva, ovvero capace di imprimere allo Stato le sue finalità. Lo Stato liberale di diritto utilizzava il diritto per limitare l’arbitrio dei titolari del potere pubblico. Gli istituti giuridici dei quali si serviva erano: principio di legalità; nozione moderna di Costituzione; principio di separazione dei poteri. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 GLI STRUMENTI DELLO STATO LIBERALE DI DIRITTO Il principio di legalità e il ruolo della legge Secondo il principio di legalità ogni atto dei pubblici poteri deve trovare fondamento e limiti in una norma giuridica previamente adottata. Nello Stato assoluto il diritto era il prodotto del titolare del potere e quest’ultimo era tale perché dotato di legittimazione trascendente. Nello Stato di diritto la legittimazione del potere è di tipo legale-razionale: i titolari del potere sono tali perché c’è una norma che lo attribuisce loro e lo esercitano nel rispetto del diritto. Ogni atto dei pubblici poteri deve fondarsi su una “norma previa”. Tale norma nello Stato liberale era la legge. A centro di tutta la costruzione giuridica si collocava la legge. Per comprendere il ruolo garantistico della legge occorre soffermarsi sui due aspetti enunciati: 1. la legge, nello Stato liberale di diritto, era caratterizzata dalla generalità e l’astrattezza: - norme generali sono norme che si applicano a tutti i soggetti dell’ordinamento - norme particolari o settoriali si riferiscono a un gruppo determinato di destinatari; - norme astratte sono suscettibili di ripetute applicazioni nel tempo, a differenza delle norme concrete, ad hoc, che esauriscono la loro efficacia in un’unica applicazione. Il carattere della generalità e dell’astrattezza della legge si collega strettamente alla concezione del principio di uguaglianza propria di tale forma di Stato. Mentre nello Stato assoluto la società era ripartita in ceti e il trattamento giuridico di ciascun individuo era determinato dall’appartenenza ad un certo ceto, nello Stato liberale di diritto tutti gli uomini sono uguali, senza che abbia alcun rilievo la loro posizione sociale. Un corollario del principio di legalità è il principio di giustiziabilità degli atti viziati; 2. la legge era espressione della volontà generale. Nello Stato di diritto si scelse la democrazia rappresentativa, nella quale la volontà dei cittadini si esprime indirettamente attraverso rappresentanti eletti. La possibilità di realizzare forme di democrazia diretta fu esclusa in ragione del numero elevato dei cittadini. La legge, in conseguenza del principio rappresentativo, era il prodotto di un organo, il Parlamento, in cui almeno una delle due Camere era elettiva. Sulla base del principio rappresentativo ogni membro delle assemblee elettive rappresentava la nazione. L’espressione nazione evoca un’entità pregiuridica che esprime un’unità. La costruzione artificiale della nazione nello Stato liberale di diritto avveniva attraverso il suffragio limitati. Questa era la grande “finzione” su cui si ergeva questa forma di Stato: la semplificazione artificiale del contesto sociale di riferimento attraverso il suffragio limitato. La nozione di Costituzione in senso moderno Collegato al principio di legalità è il secondo istituto tipico dello Stato di diritto, la nozione di Costituzione in senso moderno: un atto giuridico vincolante per tutti i soggetti dell’ordinamento, che serve a garantire i diritti e costituisce il fondamento di tutti i poteri. La Costituzione è un atto del potere costituente. Il potere costituente è il potere che pone la Costituzione, cioè l’atto sul quale si fondano tutti i poteri costituti. Il potere costituente è diverso dai poteri costituti. Per poteri costituti si intendono i poteri che si fondano sulla Costituzione e che, quindi, incontrano i limiti che questa pone loro. In base al principio di legalità la Costituzione non è solo il fondamento di tutti i poteri ma anche di tutti i limiti che questi incontrano. Il potere costituente invece non è limitato dalla Costituzione né da nessun’altra norma giuridica. La Costituzione in senso moderno, come atto del potere costituente, è una norma giuridica vincolante. Nello Stato liberale di diritto la Costituzione si rivelò incapace di vincolare la legge che assunse la posizione di fonte suprema e onnipotente al punto che a volte viene definito “Stato legislativo”. Il principio della separazione dei poteri Il terzo principio sul quale si fondava lo Stato liberale di diritto è la separazione dei poteri secondo cui le diverse funzioni dello Stato, legislativa, esecutiva e giurisdizionale, devono essere conferite a organi o gruppi di organi diversi. Ma cosa si intende per potere? In questo contesto ha un significato tecnico-giuridico, è il prodotto dell’esercizio di una funzione da parte di un organo. Quando si parla di potere legislativo, di potere esecutivo e di potere giudiziario, si fa riferimento a organi o gruppi di organi che esercitano certe funzioni. Anche l’espressione organo viene usata in senso tecnico-giuridico: per organo si intende un insieme di uffici pubblici che svolge un’attività a rilevanza esterna. Gli uffici a loro volta sono un insieme di mezzi personali e materiali organizzati per realizzare un determinato compito. Organi e uffici sono articolazioni interne agli apparati pubblici dei quali lo Stato si avvale per perseguire i propri scopi e che caratterizzano lo Stato moderno. La “funzione” è un’attività preordinata ad un fine. La dottrina all’epoca dello Stato liberale individuava tre funzioni pubbliche che, nello Stato assoluto, erano concentrate nelle mani del sovrano: funzione legislativa era l’attività volta a predisporre norme giuridiche generali e astratte ed era attribuita al Parlamento; funzione esecutiva consisteva nell’applicazione della legge generale e astratta. Nello Stato liberale di diritto tale funzione era attribuita al Governo, o meglio al re e al suo Governo; funzione giurisdizionale consisteva anch’essa nell’applicazione della legge ma a differenza di quella esecutiva, con esclusivo riferimento alle controversie. Essa era svolta dalla magistratura che nello Stato liberale di diritto non riuscì mai ad affrancarsi pienamente dal potere esecutivo. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Quel che veramente interessava, al di là della formale tripartizione dei poteri, era distinguere il potere legislativo, rivolto alla creazione delle norme, dai poteri che tali norme erano chiamati ad applicare in modo subalterno, quasi ancillare: esecutivo e giurisdizionale. Sulla base del principio di legalità e di separazione dei poteri si delineò un ulteriore principio, quello della tipicità degli atti, secondo il quale ogni atto ha una forma tipica, in quanto prodotto a seguito di un certo procedimento. Alla forma è collegata la capacità dell’atto di produrre effetti giuridici che costituisce a sua volta una manifestazione della sovranità statale. atto del potere legislativo la legge si caratterizza per la forza, intesa come capacità di innovare l’ordinamento giuridico; atto del potere esecutivo atto amministrativo si connota per la esecutorietà, cioè la capacità di imporsi immediatamente ed autoritativamente ai destinatari; atto del potere giudiziario la sentenza produce l’effetto del giudicato, ovvero fa stato tra le parti del giudizio, in modo definitivo. LA CRISI DELLO STATO LIBERALE DI DIRITTO Lo Stato liberale di diritto non riuscì a resistere all’allargamento della base sociale determinato dall’estensione del suffragio. Questa trasformazione mise in evidenza le molteplici contraddizioni sulle quali reggeva lo Stato liberale di diritto. Tre passaggi: 1. i diritti che si volevano garantire erano assai pochi, soltanto quelli che oggi chiamiamo libertà negative, ovvero le pretese di escludere ingerenze esterne nella sfera personale dell’individuo. Quanto ai titolari dei diritti, il “cittadino” era visto come un individuo astratto, svincolato da qualsiasi contesto sociale e in sostanza riconducibile al proprietario, maschio, borghese: erano i suoi diritti quelli che si volevano tutelare; 2. risaltava una grande contraddizione circa il principio di uguaglianza. Questo era il vero cardine della forma di Stato. Nello Stato liberale di diritto il principio di uguaglianza veniva solennemente proclamato ma in realtà si mantenevano e si preservavano le disuguaglianze. Il carattere liberista di questa forma di Stato consentiva il perpetuarsi delle disuguaglianze sociali; 3. una contraddizione riguardava il principio della sovranità della nazione. Lo Stato liberale di diritto pur accogliendo i principi della sovranità della nazione e della legge come espressione della volontà generale, era in realtà uno Stato monoclasse; 4. la Costituzione, prodotto del potere costituente, pretendeva di porsi come atto giuridico vincolante per tutti i poteri pubblici. Ciò non accadde per due ragioni: - ragione politico-sociale emerse con evidenza la difficoltà per il Parlamento, detentore del potere legislativo, di accettare il limite rappresentato dalla Costituzione, in quanto egli si riteneva il solo titolare della sovranità; - ragione tecnico-giuridico le Costituzioni del periodo liberale non erano assistite da Garanzie nei confronti delle leggi incostituzionali: esse entravano in vigore e prevalevano sulla Costituzione, senza che ci fosse alcuna possibilità di privarle di efficacia. Le Costituzioni dello Stato liberale di diritto diventarono flessibili: la Costituzione non si pone al vertice del sistema delle fonti in quanto può essere modificata con legge ordinaria. Con l’ingresso della classe lavoratrice sulla scena politica nacque lo Stato pluriclasse nel quale agiscono soggetti portatori di interessi diversi e contrapposti. In un contesto di scontro frontale tra lavoratori e proprietari lo strumento del diritto si rivelò impotente, come testimonia l’esperienza della Costituzione di Weimar: la Germania, dopo la I Guerra Mondiale cercò di dare una risposta in termini giuridici alle esigenze delle classi lavoratrici provando a integrarle nello Stato per mezzo del riconoscimento dei diritti sociali. Per effetto di questo fenomeno sociale in alcuni paesi le forme di Stato liberale di diritto crollò dopo la I Guerra Mondiale e venne sostituita da forme di Stato autoritarie o totalitarie. Stato autoritario forma di Stato che rifiuta i caratteri propri dello Stato liberale di diritto e recupera alcuni aspetti dello Stato assoluto. In Italia il passaggio ad una forma di Stato autoritaria dapprima e totalitaria poi fu possibile grazie al carattere flessibile dello Statuo albertino, che poté essere violato impunemente, prima per consentire la nomina di Mussolini a Presidente del Consiglio e poi per permettere lo smantellamento del sistema delle garanzie, a partire dal carattere rappresentativo del Parlamento; Stato totalitario in questa forma di Stato i caratteri dello Stato autoritario sono ancora più accentuato assumendo il volto di una ideologia “totalizzante” pervasiva di ogni aspetto del vivere sociale. Il crollo dello Stato liberale di diritto non è stato l’unico esito possibile delle trasformazioni economico-sociali dell’inizio del XX secolo: sotto l’impulso di tali nuovi fattori, dopo la sconfitta bellica degli Stati totalitari, la forma di Stato liberale si è trasformata dando luogo alla forma di Stato che viene definita come: Stato pluralista se ci si sofferma sulla sua base sociale e sulle finalità perseguite dai poteri pubblici; Stato democratico, Stato costituzionale, Stato sociale, Stato decentrato se ci si riferisce agli strumenti giuridici utilizzati. L’INARRESTABILE ESPANSIONE DELLO STATO CONTEMPORANEO NEL XX SECOLO Lo Stato contemporaneo è quella forma di Stato nella quale la finalità principale perseguita dai pubblici poteri è il mantenimento dell’unità in un contesto pluralista. Per fare ciò, si sottopone il potere delle maggioranze politiche alla Costituzione e si promuove la coesione sociale attraverso il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale. Tale forma di Stato in molti paesi si è sviluppata come una conseguenza dello Stato liberale di diritto che ha adeguato le sue strutture alle nuove esigenze. A partire dalla seconda metà del XX secolo questa forma di Stato ha dimostrato una capacità di attrazione molto forte nei confronti di quasi tutti i paesi del mondo. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Essa si propone come la forma di Stato “ideale” a cui tendere: le poche eccezioni nel mondo sono rappresentate dal persistere di forme di Stato socialista a Cuba e in Cina, e di forme di Stato islamico in una parte del mondo musulmano. La diffusione di questa forma di Stato è avvenuta attraverso vari “cicli costituzionali”: un periodo storico caratterizzato dalla produzione di Costituzioni che presentano caratteri simili. Inoltre molte organizzazioni internazionali o sovranazionali chiedono agli Stati membri di adottare questa forma di Stato. LA FORMA DI STATO CONTEMPORANEO: UNO STATO PLURALISTA Con l’espressione Stato pluralista si fa riferimento all’elemento plurisoggettività dell’ordinamento giuridico statale, per evidenziare che esistono, e sono politicamente attivi, soggetti o gruppi di soggetti profondamente diversi tra loro, e che questa loro diversa soggettività è riconosciuta dall’ordinamento. Nello Stato contemporaneo pluralista l’allargamento del suffragio ha fatto sì che la quasi totalità dei soggetti dell’ordinamento sia politicamente attiva e, di conseguenza, che affiorino sul piano politico le differenti istanze di cui sono portatori. La Costituzione italiana esprime il suo carattere pluralista in vari articoli a partire dal fondamentale articolo 2 secondo il quale la personalità dell’uomo si sviluppa nelle “formazioni sociali” delle quali fa parte. Si possono richiamare anche: art. 6 si riconosce il pluralismo linguistico; art. 8 si riconosce il pluralismo religioso; art. 29 sulla famiglia; art. 39 relativo alle organizzazione dei lavoratori; art. 49 sull’associazione in partiti politici. L’esistenza di soggetti così variegati determina nello Stato contemporaneo un problema che non esisteva nello Stato liberale e che esige una risposta dal diritto: quello della convivenza pacifica tra soggetti portatori di interessi diversi e a volte contrapposti. Il problema della convivenza nello Stato liberale era stato risolto alla radice attraverso l’esclusione delle differenze. Nello Stato pluralista il problema della coesistenza dei diversi soggetti del pluralismo viene affrontato attraverso quattro tipi di strumenti: 1. la previsione dei processi decisionali basati sul principio di maggioranza; 2. la sottrazione di alcune decisioni alla sfera delle maggioranze; 3. il perseguimento della coesione sociale per mezzo della promozione dell’uguaglianza sostanziale e del dialogo tra le culture; 4. il riconoscimento dell’autonomia delle comunità locali per le decisioni di interesse locale. SEGUE: UNO STATO DEMOCRATICO Lo Stato democratico è quella forma di Stato nella quale esiste una tendenziale corrispondenza tra governanti e governati. Esiste un complesso di caratteristiche che consentono al popolo di esprimere la sovranità: principio di maggioranza nello Stato democratico si adottano soltanto le decisioni che dispongono di un verificato consenso della maggioranza dei soggetti politicamente attivi; garantito il rispetto delle minoranze; deve essere assicurato alle minoranze la possibilità di diventare, un giorno, maggioranze questa libera competizione implica libere elezioni che a loro volta implicano una serie di garanzie che vanno ben oltre il momento elettorale; le decisioni delle maggioranze vanno adottate ed eseguite sotto il controllo delle minoranze. Da tutto ciò deriva una nuova separazione dei poteri, diversa rispetto a quella dello Stato liberale. Il tipo di separazione dei poteri che più interessa nello Stato democratico è una bipartizione che distingue: circuito della decisione politica dove le maggioranze decidono; circuito delle garanzie sottratto alle maggioranze. Significativo a riguardo è l’art. 1 comma 2 Cost. secondo il quale “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Nel circuito della decisione politica rientrano il potere legislativo e il potere esecutivo. Nel circuito delle garanzie, che attiene ai limiti posti alla sovranità popolare, dei tre poteri dello Stato liberale ritroviamo solo il potere giudiziario, ma vi sono altri poteri oltre ai tre tradizionali. SEGUE: UNO STATO COSTITUZIONALE Con l’espressione Stato costituzionale intendiamo una forma di Stato caratterizzato da una Costituzione rigida. La Costituzione rigida è quella che si pone al vertice del sistema delle fonti. Anche la legge deve rispettare la Costituzione. La Costituzione riesce a prevalere sulla legge grazie alla presenza di due garanzie: 1. giustizia costituzionale un istituto che consente di eliminare le leggi contrarie alla Costituzione; 2. procedimento “aggravato” di revisione costituzionale sono richieste per modificare la Costituzione maggioranze più ampie di quelle che possono approvare una legge. La Costituzione rigida è quindi una Costituzione “garantita”, la cui supremazia è assicurata per mezzo di appositi strumenti giuridici. Il punto di partenza è la constatazione che nello Stato pluralista la volontà generale non c’è più. Il Parlamento non è più il luogo dove si esprime la volontà della nazione ma dove si esprime, attraverso la legge, la volontà della maggioranza. Nello Stato costituzionale la Costituzione è il frutto di un potente costituente che si esprime nella forma pattizia, attraverso un “compromesso costituzionale” tra le diverse componenti della società pluralista. La parola “compromesso” è l’asse portante dello Stato costituzionale. L’alternativa al compromesso, nelle società pluraliste, è la sopraffazione, la violenza, la guerra civile. Le garanzie della rigidità della Costituzione sono: Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 la giustizia costituzionale le Costituzioni rigide istituiscono un sistema di controllo della costituzionalità delle leggi. Esse sottopongono la legge, l’atto del Parlamento, al controllo dei giudici. In questo modo la Costituzione riesce a imporsi sulla legge. Nello Stato costituzionale anche la legge deve trovare fondamento e limiti in una norma previa che è la Costituzione. Lo Stato Costituzionale si basa sulla separazione tra il piano della Costituzione, che è di tutti, e il piano della legge, che è quello dove le maggioranze politiche governano e decidono. Il garante della separazione tra i due piani è la giustizia costituzionale; la revisione costituzionale previsione di procedure per la propria modifica diverse dal procedimento legislativo ordinario. La Costituzione rigida non può essere modificata o derogata dalla legge ma è prevista una procedura specifica che richiede il consenso di maggioranze più ampie. Ciò si collega al carattere pluralista dello Stato costituzionale: essendo la Costituzione rigida frutto di un compromesso tra i soggetti della società pluralista, ance per modificarla è necessario che si ripeta quel compromesso. Lo Stato costituzionale cerca quindi di consentire la convivenza pacifica dei soggetti del pluralismo attraverso la Costituzione rigida, con una sequenza di questo tipo: Costituzione rigida, luogo dove si scrivono i principi comuni le maggioranze politiche che vincono le elezioni devono rispettare questo nucleo di principi se non lo rispettano c’è un giudice per modificare questo nucleo ci vuole un vasto accordo, simile a quello iniziale. SEGUE: UNO STATO SOCIALE Per mantenere unita la società pluralista lo Stato contemporaneo si avvale, accanto alla Costituzione rigida, anche di altri strumenti, in primo luogo della promozione di politiche pubbliche volte a rimuovere le disuguaglianze economico-sociali più evidenti. Lo Stato sociale è quella forma di Stato che ha come fine l’uguaglianza sostanziale. uguaglianza formale tutti i soggetti sono uguali davanti alla legge e debbono essere trattati allo stesso modo. uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2 Cost. punto di partenza Stato sociale) uguaglianza di risultato, consiste nella rimozione delle differenze che ostacolano il raggiungimento dell’uguaglianza formale. Parte dal punto di vista che tutti sono diversi e quindi devono essere trattati in modo ragionevolmente diverso. Riconducibili alla nozione di Stato sociale sono poi gli artt. 29-47 che disciplinano i rapporti sociali ed economici. SEGUE: UNO STATO DECENTRATO, IN PARTICOLARE, LO STATO REGIONALE IN ITALIA Un ulteriore strumento per affrontare il problema della pacifica convivenza nello Stato pluralista è costituito dalla distribuzione di quote di potere decisionale sul territorio, in favore di enti infrastatali. Con la Costituzione italiana del 1948, ad uno Stato fortemente accentrato ha fatto seguito uno Stato regionale. Lo Stato regionale mirava a far fronte alle differenze geografiche ed economiche esistenti tra le varie parti del paese e a rispondere a concrete richieste di autonomia provenienti da alcune aree insulari o di confine. Già l’art. 5 Cost. esprime la volontà di distribuire il potere sul territorio: dopo aver affermato l’unità e l’indivisibilità della Repubblica stabilisce che essa “riconosce e promuove le autonomie locali”. Tale principio trova sviluppo nel Titolo V della parte II dove è disciplinata l’autonomia dei comuni e delle provincie, ma soprattutto quella delle regioni, dotate di potestà legislativa. per quanto riguarda gli enti locali la loro autonomia consiste essenzialmente nella possibilità, per gli organi elettivi di questi enti di adottare decisioni autonome nell’ambito delle competenze ad essi riconosciute dalla legge. A livello normativo, essi dispongono di autonomia statuale e regolamentare, ovvero della possibilità di adottare norme secondarie, nel rispetto delle leggi statali o regionali; per quanto riguarda le regioni il modello costituzionale di Stato regionale italiano, così come delineato dai costituenti, si fonda su un regionalismo differenziato, obbligatorio, esteso all’intero territorio. La Costituzione prevede due tipi di regioni: - a statuto speciale per esse sono previste apposite leggi costituzionali (statuti speciali) che ne definiscono l’autonomia in termini più ampi, specie in riferimento alle funzioni legislative e all’autonomia finanziaria; - a statuto ordinario di cui si occupa direttamente. Per le regioni ordinarie le condizioni di autonomia sono definite dal Titolo V della parte II. Nel 1999 e nel 2001 l’intero Titolo V è stato modificato con la più ampia revisione costituzionale della storia italiana per potenziare l’autonomia degli enti territoriali: legge cost. n. 1 del 1999 è stata riconosciuta alla regioni la piena autonomia statuaria, anche per quanto attiene alla forma di governo, attraverso la sottrazione degli statuti all’appropriazione parlamentare; legge cost. n. 3 del 2001 è stato ribadito il criterio di riparto delle competenze legislative introducendo un elenco di materie di competenza esclusiva dello Stato centrale e affidando alle regioni le competenze residue. Le funzioni amministrative, sulla base del principio di sussidiarietà, sono attribuite in primo luogo ai comuni. L’autonomia finanziaria delle regioni è sulla carta accresciuta ma occorrerà attendere gli esiti concreti dell’attuazione legislativa che va sotto il nome di federalismo fiscale. Gli anni trascorsi dal 2001 ad oggi hanno mostrato il persistere di una forte resistenza da parte dello Stato centrale ad accettare le riforme. La Corte costituzionale ha cercato in alcuni casi di delimitare il potere dello Stato centrale applicando il principio di leale collaborazione: quando lo Stato interviene in materie che interferiscono con le competenze regionali, deve farlo assicurando che le regioni siano coinvolte in tali decisioni. La sede principale in cui avvengono queste negoziazioni tra Stato e regioni è la Conferenza Stato-regioni e, quando sono coinvolti anche i comuni e le provincie, la Conferenza Stato-regioni-autonomie locali. Nel complesso, l’intero Titolo V della parte II della Costituzione, così come modificato nel 2001, non è apparso adeguato a delineare un efficiente Stato decentrato di tipo regionale, al punto che sono state presentate molteplici proposte di riforma, finalizzate alla semplificazione dei livelli di governo e alla garanzia degli interessi unitari. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 CAPITOLO 3 – OLTRE LO STATO: ORDINAMENTI INTERNAZIONALI E SOVRANAZIONALI LA SOVRANITÀ NELLO STATO CONTEMPORANEO E L’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE Tra gli strumenti costitutivi dello Stato quello che a subito la più profonda evoluzione nell’ambito dello Stato contemporaneo è la sovranità: nel XX secolo, a partire dal II dopoguerra, si è assistito a una messa in discussione della sovranità esterna, nel senso di una sua progressiva limitazione. Tale trasformazione ha subito un’accelerazione negli ultimi decenni, determinando, se non la “fine dello Stato”, una sua crisi e la conseguente necessità di ridefinirne molte caratteristiche. Lo sviluppo rapidissimo e inarrestabile del livello internazionale è frutto quantomeno di due fenomeni, in parte intrecciati tra loro, che hanno caratterizzato il XX secolo: il progresso tecnico ha consentito più rapide comunicazioni con importanti riflessi sugli scambi economici, oltre che sulla facilità di movimento delle persone; sono deflagrate guerre devastanti grazie alle interazioni più agevoli, supportate dagli sviluppi tecnologici. Alla fine della II guerra mondiale fu chiaro che le interazioni sempre più facili tra cittadini di Stati diversi e tra Stati dovevano essere orientate nel senso di un rafforzamento della pace e del benessere. Fu chiaro altresì che il principio di sovranità costituiva un ostacolo in questa direzione: esso aveva impedito l’adozione di misure preventive nei confronti di Stati che portavano avanti politiche espansive di potenza e di discriminazione razziale. Se l’ordine internazionale, inteso come insieme di attività, strumenti e comportamenti che regolano i rapporti tra Stati , esisteva fin da quando sono nati gli Stati, dopo la II Guerra Mondiale si è enormemente sviluppato l’ordinamento internazionale, inteso come ordinamento giuridico il cui elemento plurisoggettività è rappresentato dagli Stati. Già dopo la fine della Prima guerra mondiale, in occasione della Conferenza di Pace di Parigi, per volontà degli Stati Uniti, alcuni paesi, compresa l’Italia, costituirono la Società delle Nazioni con lo scopo di prevenire i conflitti armati e garantire e promuovere il benessere dei popoli. La Società delle Nazioni ha rappresentato il prototipo sul quale è stata successivamente modellata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). L’ONU è uno dei paradigmi di un nuovo ordine internazionale garantito da un ordinamento internazionale basato non già sul conflitto e sul predominio ma sulla individuazione di stabili rapporti tra Stati fondati sul diritto internazionale pattizio. Ovvero su trattati internazionali che, creando istituzioni di natura politica o economica, vincolano gli Stati verso interessi e obiettivi comuni. Oggi strumenti di diritto internazionale de da un lato comprimono la sovranità degli Stati, dall’altro lato necessariamente la presuppongono. Gli Stati sono sovrani nella scelta di aderire a questi strumenti internazionali: essi limitano volontariamente la loro sovranità. LO ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI A CARATTERE MONDIALE Le organizzazioni internazionali si dividono in due categorie: 1. a carattere mondiale a cui tendenzialmente partecipano tutti gli Stati a prescindere dalla loro collocazione geografica ; 2. a carattere regionale delle quali fanno parte Stati che appartengono a una medesima area. Entrambe le categorie sono accomunate dal fatto che si tratta di enti dotati di personalità giuridica, creati dagli Stati stessi tramite accordi di diritto internazionale, i quali ne prevedono, accanto alle funzioni e agli obiettivi, anche gli organi. La più importante organizzazione internazionale a carattere mondiale è senz’altro l’ONU. Nata subito dopo la fine della II Guerra Mondiale dalla volontà di 51 paesi, oggi è composta praticamente da tutti gli Stati indipendenti del mondo. L’ONU è un’organizzazione di tipo politico, il cui compito, secondo il disegno originario, è quello di: mantenere la pace e la sicurezza internazionale; sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni; cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto dei diritti umani. Oggi i suoi ambiti di intervento non riguardano solo la sicurezza ma anche, secondo un concetto più ampio di pace, le questioni ambientali, la promozione di condizioni di vita dignitose, il sostegno ai soggetti più deboli. Enti come UNICEF, la FAO, l’UNESCO… sono stati istituiti dall’ONU. Benché tutti gli Stati partecipino a tale organizzazione, sussiste una profonda disparità. Ogni Stato membro è rappresentato nell’Assemblea generale, convocata regolarmente per discutere le lenee generali di indirizzo. Frutto principale di tali riunioni è l’approvazione di raccomandazioni. Nel Consiglio di sicurezza, l’organo esecutivo, siedono solo 15 Stati membri di cui 5 a titolo permanente e con diritto di veto, mentre gli altri 10 vengono eletti dall’Assemblea con mandato biennale. Al Consiglio spetta porre in essere le attività necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Il Consiglio economico e sociale è l’organo che coordina l’attività economica e sociale dell’ONU e delle sue agenzie che si occupano di questioni economiche e sociali. Esso è composto da 54 Stati membri eletti dall’Assemblea con un mandato triennale. Il Segretariato è l’organismo che, quotidianamente, si occupa di far funzionare la macchina dell’ONU. Al suo vertice vi è il Segretario generale che rappresenta l’intera organizzazione. La Corte internazionale di giustizia è l’organo arbitrale dell’ONU. I 15 giudici che vi siedono, eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza, deliberano sulle controversie fra Stati in base alla volontaria sottoposizione delle parti al loro giudizio. Si sviluppò negli anni successivi alla II Guerra Mondiale l’idea che il diritto internazionale avesse come compito precipuo la difesa dei diritti umani attraverso meccanismi di sorveglianza tra Stati che consentissero anche l’ingerenza nei rapporti tra gli Stati e i loro cittadini. I processi di Norimberga e di Tokyo rappresentarono un tentativo per certi versi maldestro e contrario al principio di precostituzione del giudice, poiché gli alleati istituirono un tribunale ad hoc rappresentativo dei soli paesi vincitori, chiamato a giudicare di fatti atroci ma non codificati prima della loro commissione. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Proprio dalle critiche e dalle fragilità dei tribunali penali internazionali istituiti ad hoc, venne elaborata l’idea di una corte penale internazionale permanente che avesse giurisdizione su crimini di guerra e contro l’umanità, compreso il reato di genocidio. Alla data del 7 novembre 2016, 124 paesi hanno aderito alla Corte penale internazionale che, dal 2002, accoglie all’Aja i giudizi ad essa sottoposti dai governi firmatari e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La fine della II Guerra Mondiale ebbe effetti anche sui rapporti di natura economica tra gli Stati. Mentre la guerra volgeva al termine, i delegati di tutti i paesi alleati, compresa l’Unione Sovietica, pensarono che fosse venuto il tempo di approntare strumenti internazionali che non solo garantissero la pace ma anche la stabilità degli scambi monetari. Si incontrarono quindi nell’estate del 1944 a Bretton Woods, firmando gli omonimi accordi, che prevedevano la costituzione di un Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Entrambe queste istituzioni sono organi specializzati delle Nazioni Unite. Il Fondo monetario (FMI) ha l’obiettivo di promuovere la cooperazione monetaria internazionale e la stabilizzazione dei cambi. La Banca mondiale, nata con lo scopo di contribuire alla ripresa del sistema produttivo dopo la II Guerra Mondiale, oggi agisce nella direzione di aiutare i paesi emergenti. Altra istituzione, separata dall’ONU, avente finalità economiche e commerciali è l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC o WTO). Istituita nel 1995, rappresenta l’ordinamento giuridico del commercio internazionale. Quasi tutti gli Stati ne fanno parte e tutti partecipano ai suoi organi interni: Conferenza dei ministri si riunisce ogni 2 anni per discutere le linee guida; Consiglio generale assicura il funzionamento e funge da organo di vigilanza delle politiche commerciali e di risoluzione delle controversie; Segretariato generale al cui vertice sta il direttore generale, che svolge i compiti amministrativi necessari al funzionamento dell’organizzazione. Accanto a queste organizzazioni internazionali a carattere globale e con obiettivi generali, vi sono poi organizzazioni sempre a tendenza globale ma con obiettivi molto più specifici. Quali che siano i loro obiettivi, queste organizzazioni hanno in comune la tendenza a inserire i singoli Stati in una rete più ampia di relazioni e deliberazioni. Esistono anche organizzazioni che, nate su base regionale, si sono successivamente sviluppate fino ad includere Stati di diversi continenti. È questo il caso dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Gli obiettivi dell’OCSE consistono nella promozione di più alti livelli di crescita economica alla luce del concetto di sviluppo sostenibile, di occupazione, di tenore di vita, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria. LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI A CARATTERE REGIONALE Le organizzazioni internazionali a carattere regionale riuniscono sotto obiettivi comuni, più o meno ampi e di varia natura Stati che appartengono a una medesima area geografica. Varie organizzazioni istituite per promuovere una maggiore integrazione regionale, specialmente di tipo economico, esistono anche in America latina. Sul modello della Comunità economica europea, il Mercosur è l’organizzazione del mercato comune del Sud America, istituita nel 1991. Il Mercosur ha già raggiunto l’eliminazione dei dazi doganali interni e una tariffa doganale comune verso i paesi terzi. La Caribbean Communitu (CARICOM) a partire dal 1973 consente l’integrazione dei mercati dei paesi caraibici; la Comunità Andina, nata nel 1969 con lo scopo di una progressiva integrazione economica politica dei paesi andini. Anche nel Sud-Est asiatico è stata fondata, nel 1967, un’organizzazione internazionale con lo scopo di una maggiore integrazione politica e economica tra i paesi aderenti. Si tratta dell’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (ASEAN). Tra Canada, Stati Uniti e Messico vige invece un trattato di libero scambio commerciale, la NAFTA. Esiste poi un altro modello di organizzazione internazionale regionale, volto ala tutela dei diritti fondamentali: il Consiglio d’Europa, nel cui ambito è stata adottata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Seguendo questo modello, nel 1969 è stata siglata la Convenzione americana sui diritti umani, sulla quale ha giurisdizione la Corte interamericana dei diritti umani, con sede a Costarica. Nel 1986 è entrata in vigore la Certa africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, garantita, dal 2004, dalla Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, con sede ad Arusha (Tanzania). L’UNIONE EUROPEA L’Unione europea costituisce una organizzazione sui generis, che rappresenta un unicum nel panorama comparato mondiale. Quello europeo può essere qualificato come un ordinamento sovranazionale, in quanto la cooperazione tra gli Stati membri avviene ad un livello più stretto e meno occasionale di quanto accada con i normali strumenti di diritto internazionale. Il processo di integrazione europea, del quale l’Italia è stata protagonista fin dall’inizio, si è messo in moto negli anni immediatamente successivi alla II Guerra Mondiale, a partire dalla firma, nel 1951, del Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dall’acciaio (CECA), che aveva l’obiettivo di mettere in comune la produzione del carbone e dell’acciaio, ponendola sotto il controllo di un’alta autorità comune. Hanno fatto seguito, nel 1957, il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) e il Trattato istitutivo della Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM). L’avvio del processo di integrazione si è svolto soprattutto nella sfera economica. Sulla base del trattato istitutivo, gli obiettivi della CEE erano alquanto limitati. Anche gli organi della CEE, pur con alcune peculiarità, non erano dissimili da quelli di altre unioni sovranazionali. L’ordinamento comunitario, nato nell’ambito del diritto internazionale, ha però successivamente subito importanti trasformazioni attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia e le modifiche apportate ai trattati: da un lato, la Corte di giustizia ha affermato la “primazia” del diritto europeo self-executing nelle materie devolute alla Comunità sul diritto, anche di livello costituzionale, degli Stati membri; Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 dall’altro, le modifiche apportate ai trattati hanno ampliato notevolmente le competenze originarie nel 1999 è stata proclamata, a integrazione dei trattati, anche una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha assunto carattere vincolante soltanto dieci anni dopo, con il Trattato di Lisbona. Alla fine degli anni ’90 del ha preso avvio un ampio dibattito sull’approvazione di una Costituzione europea. Il 1° dicembre 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona. Per effetto di esso le norme sull’Unione europea sono oggi distribuite in due diversi atti: 1. Trattato sull’Unione europea (TUE) stabilisce principi e norme fondamentali; 2. Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) contiene le regole di funzionamento dei vari organi… Tali atti hanno modificato il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea precedentemente in vigore. In parallelo la stessa composizione dell’UE si è notevolmente ampliata. Attualmente l’UE è composta da 28 membri. Il Regno Unito ha svolto il 23 giugno del 2016 una consultazione referendaria consultiva circa la permanenza nell’Unione europea. Il 51,9% dei votanti si è espresso favorevolmente all’uscita dall’UE. Quando l’uscita sarà formalizzata i Trattati europei cesseranno di applicarsi a tutti il territorio della Gran Bretagna. Molto si è discusso e si discute sulla natura attuale dell’UE. Nei fatti si riscontra una presenza sempre più forte dell’Unione in molteplici materie, al punto che la sovranità degli Stati membri appare in discussione. L’UE agisce, nella maggior parte degli ambiti di competenza dell’Unione, secondo il metodo comunitario: le decisioni vengono assunte non all’unanimità degli Stati membri, come tipico del diritto internazionale, ma a maggioranze variamente modulate. Il metodo definito “intergovernativo”, ossia quello che richiede un consenso unanime, viene invece mantenuto per pochi settori, come politica estera e sicurezza comune. Gli organi dell’UE sono: Consiglio europeo riunisce i capi di Stato o di governo, a seconda della forma di governo dei diversi paesi, che, assistiti dai ministri degli esteri e da un membro della Commissione, decidono periodicamente le linee di indirizzo delle politiche europee. Il Consiglio, tra le istituzioni europee, è quello che definisce gli orientamenti e le priorità generali dell’Unione. Esso fu creato nel 1974 come sede informale di incontro e discussione dei capi di Stato e di Governo. Il Trattato di Maastricht ne ha riconosciuto lo status formale mentre quello di Lisbona lo ha reso una delle istituzioni dell’Unione; Consiglio dell’UE gli indirizzi approvati dal Consiglio europeo vengono poi attuati settore per settore dal Consiglio dell’UE, dove siedono i ministri degli Stati membri, in base alle questioni all’ordine del giorno. Le decisioni richiedono normalmente una maggioranza qualificata con voto ponderato calcolato sulla base del numero di paesi e della popolazione che essi esprimono. Il Consiglio dell’UE approva la legislazione europea, insieme con il Parlamento, coordina le politiche economiche degli Stati membri, firma accordi tra l’Unione e paesi terzi, approva il bilancio dell’Unione, elabora la politica estera e di difesa dell’Unione e coordina la cooperazione tra i tribunali e le forze di polizia nazionali dei paesi membri; Commissione a dare impulso alla legislazione europea e insieme a darvi esecuzione è la Commissione, l’istituzione che rappresenta l’UE poiché, pur essendo composta da un commissario per ogni Stato, i membri non rappresentano gli interessi dello Stato di provenienza, ma , in qualità di componenti della Commissione, rappresentano gli interessi generali dell’Unione. I membri vengono designati dal Consiglio europeo ma l’intera istituzione è legata al Parlamento, che approva la designazione di tutti i commissari e può votare una mozione di sfiducia provocandone le dimissioni; Parlamento il Consiglio dell’UE esercita il potere legislativo insieme al Parlamento, l’unica istituzione rappresentativa. Esso è composto da cittadini dell’Unione eletti a suffragio universale e diretto dai popoli degli Stati membri per un mandato quinquennale. Il suo ruolo principale, oltre ad approvare la normativa europea, è di adottare il bilancio congiuntamente al Consiglio dell’UE e di esercitare funzioni di controllo sulle altre istituzioni europee; Corte di giustizia è l’organo incaricato di interpretare il diritto dell’Unione in maniera tale che la sua interpretazione nei paesi membri sia uniforme e ha anche funzioni di risoluzione delle controversie tra i governi degli Stati dell’Unione e le sue istituzioni. Essa è costituita da un giudice per ciascuno Stato membro e si avvale di undici avvocati generali che preparano le cause sottoposte poi al giudizio della Corte. Sia gli avvocati sia i giudici restano in carica per sei anni, con mandato rinnovabile. La Corte è stata affiancata negli anni dal Tribunale composto da 47 giudici che, occupandosi dei ricorsi ricevuti da persone private e dei casi di concorrenza, ha alleggerito il lavoro della Corte, salvo poi la possibilità di ricorrere a essa in appello per motivi di diritto; Banca centrale europea è l’istituzione competente a garantire, attraverso la politica monetaria europea, la stabilità dei prezzi e del valore dell’euro; Corte dei conti europea verifica la regolarità dei bilanci dell’Unione. I rapporti tra le istituzioni dell’Unione generano una forma di governo nuova e atipica. IL CONSIGLIO D’EUROPA E LA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO Nell’immediato II dopoguerra gli Stati che stavano costruendo la Comunità economica del carbone e dall’acciaio nel frattempo conducevano negoziati per l’istituzione di un’organizzazione a carattere regionale, il Consiglio d’Europa, che avesse lo scopo di attuare un’unione più stretta tra i paesi membri per tutelare e promuovere gli ideali e i principi condivisi e per favorire il progresso economico e sociale mediante, in particolare, il sostegno a un’azione coordinata e comune nel campo economico, sociale, culturale, scientifico, giuridico e amministrativo e la tutela e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Oggi il Consiglio, che ha sede a Strasburgo, è composto da 47 Stati (28 dei quali fanno parte dell’UE). I suoi organi principali sono: Comitato dei ministri rappresenta l’organo decisionale; Assemblea parlamentare riunisce rappresentanti di tutti gli Stati designati dai Parlamenti nazionali; Corte europea dei diritti dell’uomo; Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Congresso dei poteri locali e regionali ha il compito di garantire una sede privilegiata di confronto tra le regioni e i comuni d’Europa; Commissario per i diritti umani; Segretario generale designato dall’Assemblea parlamentare, è responsabile delle attività del Consiglio d’Europa. Il principale strumento operativo del Consiglio d’Europa è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma nel novembre 1950 ed entrata in vigore nel 1953. La Convenzione è il primo strumento di diritto internazionale che consente, oltre che agli Stati, anche ai singoli individui di fare ricorso contro uno Stato firmatario per violazione dei diritti in essa codificati. Competente a giudicare è la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha la legittimazione a condannare lo Stato responsabile al ripristino della situazione anteriore alla violazione o alla equa soddisfazione se non è possibile rimuovere le conseguenze della violazione. Questa forza coercitiva distingue la Convenzione dalla maggior parte dei trattati i quali, pur impegnando gli Stati, sono generalmente privi di meccanismi sanzionatori compiuti. LA PERMEABILITÀ DEGLI ORDINAMENTI NAZIONALI NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE: ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE I drammi del XX secolo allertarono gli Stati sulla necessità di doversi vigilare vicendevolmente fino ad accettare intromissioni nelle proprie attività interne. Sulla base del principio dell’ingerenza umanitaria, organizzazioni sovranazionali o semplicemente alleanze di Stati sono oggi autorizzate a intervenire militarmente nella sfera di un altro Stato in nome della tutela dei diritti umani. Alla fine del XX secolo la globalizzazione è venuta ad essere l’elemento caratterizzante la perdita di sovranità statale. Esso è definito come l’intensificazione di relazioni economiche e sociali mondiali che collegano tra loro località molto lontane facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri e viceversa. Nella sua dimensione più prettamente economica, la globalizzazione descrive l’interconnessione sempre più stretta tra i fattori della produzione su scala mondiale, che si realizza prima di tutto attraverso lo scambio di beni e servizi all’interno di mercati strettamente interconnessi. In risposta alla crescita del potere economico la globalizzazione ha assunto altre sembianze, che possiamo indicare come il suo lato giuridico-politico. È divenuto sempre più rilevante il ruolo di organizzazione internazionali come il FMI, la Banca mondiale, l’ONU… Le esigenze delle nuove relazioni economiche e sociali hanno determinato inevitabilmente soluzioni nuove anche nella prospettiva delle fonti del diritto, come la rinascita della lex mercatoria, la possibilità di scegliere a quale ordinamento sottoporre la regolazione dei propri affari, la possibilità di ricorrere a forme arbitrali di risoluzione delle controversie anziché al giudice ordinario. Anche nell’attività giurisdizionale si assiste a un sempre più frequente richiamo alle fonti di diritto internazionale. L’interazione tra ordinamenti nazionali, sovranazionali e internazionali è sempre più frequente. CAPITOLO 4 – LE FONTI DEL DIRITTO: CONSIDERAZIONI GENERALI LE FONTI NORMATIVE Come si producono le regole giuridiche? Chiamiamo fonti del diritto (o fonti normative) quei “meccanismi” che pongono in essere regole giuridiche. Il diritto, quindi, non solo disciplina i comportamenti o le organizzazioni sociali ma anche i modi di produrre regole giuridiche. È necessario separare: fonti di produzione giuridica pongono in essere nuove regole di comportamento o regole di organizzazione che tutti debbono osservare. È la legge che obbliga tutti a pagare una certa imposta; fonti sulla produzione giuridica meccanismi (organi e procedure) attraverso i quali si producono le fonti di produzione. È la legge che prevede come debba essere approvata quella legge; fonti di cognizione tutti quei supporti, di solito scritti, attraverso i quali si rendono conoscibili le fonti di produzione. Esse non hanno di per sé efficacia o valore normativo ma sono solo strumenti volti a rendere pubblici gli atti normativi in modo che tutti li possano conoscere. Questo settore è tra quelli che più risente dell’evoluzione delle forme di comunicazione. Tra queste un ruolo rilevante per la conoscenza delle fonti normative è la rete Internet. Indubbiamente il testo scritto oggi rappresenta la principale fonte di cognizione, finora il supporto più comune per fissare la scrittura è stata la carta. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA CLASSIFICAZIONE DELLE FONTI NORMATIVE E SULLA CRISI DELLO STATO COME “MONOPOLISTA” DEL DIRITTO L’avvento, a partire dal XIX secolo, di quel peculiare ordinamento giuridico chiamato Stato ha avuto notevoli conseguenze sul piano delle fonti normative. Oggi si può parlare di una vera e propria crisi del ruolo dello Stato come “monopolista” della produzione delle regole giuridiche. Oggi le fonti normative sono molteplici. Dai livelli internazionali o sovranazionali ai livelli statali infine ai livelli infrastatali numerosissimi sono i soggetti e le procedure da cui si producono regole giuridiche. IL PROBLMEA DELLE ANTINOMIE E IL SISTEMA DELLE FONTI NORMATIVE Cosa succede quando si verificano delle contraddizioni, delle antinomie? Un sistema giuridico che voglia essere razionale deve evitare ad ogni costo che queste situazioni si verifichino, dal momento che due regole giuridiche dal contenuto contraddittorio renderebbero vano lo scopo del diritto, che è quello di orientare il comportamento delle persone. Cosa fa sì che un insieme di regole giuridiche divenga un vero sistema giuridico, un insieme ordinato di regole giuridiche, una forma di organizzazione sociale? Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 I CRITERI PER RISOLERE LE ANTINOMIE NORMATIVE La scienza giuridica ha elaborato alcuni criteri per risolvere le antinomie normative. I tre principali criteri sono: 1. criterio della gerarchia nel conflitto tra regole poste da due fonti, prevale la regola posta dalla fonte superiore. Esso presuppone un ordinamento “a gradi” delle fonti normative, cioè presuppone che sia possibile identificare fonti “superiori” e fonti “inferiori” in una scala basata sulla diversa forza degli atti normativi. Per forza di un atto normativo si intende la sua capacità di produrre nuovo diritto, di innovare l’ordinamento giuridico creando nuove regole (forza attiva), nonché la capacità di resistere all’innovazione portata da un atto diverso (forza passiva). La violazione del principio di gerarchia rappresenta un aspetto patologico dell’ordinamento giuridico. Se il contrasto dovesse in effetti verificarsi, ciò significa che la fonte inferiore nasce (o diventa) viziata. È questo il motivo per cui dalla violazione di questo principio deriva l’invalidità dell’atto normativo inferiore e dunque la sua annullabilità. L’annullamento è l’istituto giuridico attraverso il quale un atto invalido viene eliminato dal sistema normativo. Gli effetti dell’annullamento di un atto sono erga omnes (riguardano tutti i soggetti dell’ordinamento) ed ex tunc (da allora). Questo vuol dire che l’atto è eliminato retroattivamente, fino al momento in cui era entrato in vigore, poiché contiene un vizio ab origine, per cui gli effetti giuridici eventualmente prodotti vengono meno, con il solo limite dei cd. rapporti esauriti, che non vengono rimessi in discussione. Con tale espressione ci si riferisce a quei rapporti giuridici che sono divenuti definitivi perché sia stata pronunciata una sentenza passata in giudicato o siano decorsi i termini di prescrizione o decadenza per poter promuovere un giudizio; 2. criterio della competenza nel conflitto tra regole poste da due fonti prevale la regola posta dalla fonte competente. Si applica quando una fonte superiore attribuisce a fonti di produzione che hanno determinate caratteristiche, e solo ad esse, la possibilità di disciplinare certe materie, con l’esclusione di tutte le altre. In termini logico-giuridici, la violazione del principio di competenza costituisce sempre in una violazione del principio di gerarchia in quanto la fonte competente viola la fonte superiore che attribuisce le competenze. Analogamente alla violazione del principio di gerarchia, l’inosservanza del principio di competenza rappresenta una patologia da cui deriva l’invalidità dell’atto normativo incompetente e la sua annullabilità; 3. criterio cronologico nel conflitto tra regole poste da due fonti (di eguale grado gerarchico e nello stesso settore di competenza), prevale la regola più recente. Questo principio non presuppone un particolare assetto del sistema di produzione normativa nel suo complesso. L’unico fattore che dev’essere presupposto in questo caso è il decorso del tempo. Il principio cronologico ci dice che se due regole pongono tra loro contenuti totalmente o parzialmente contraddittori andrà applicata quella successiva. Mentre la violazione della gerarchia o della competenza è un fenomeno patologico per il sistema normativo e quindi implica l’invalidità dell’atto e la sua annullabilità, il decorso del tempo è un fenomeno fisiologico. Si chiama abrogazione l’effetto che una norma successiva produce nei confronti di quella precedente, e cioè l fenomeno per cui la norma successiva delimita temporaneamente la sfera di applicazione di quella precedente – purché esse siano sullo stesso piano gerarchico e nello stesso settore di competenza. A proposito dell’abrogazione, si possono poi distinguere varie modalità in cui questa avviene. Essa può essere: - espressa quando il legislatore elenca esplicitamente le disposizioni abrogate; - tacita nel caso in cui l’abrogazione derivi da una incompatibilità tra le nuove norme e quelle precedenti; - implicita quando il nuovo atto normativo disciplina completamente la materia già disciplinata dall’atto normativo precedente. Diversa dall’abrogazione è la deroga che deriva dall’applicazione del principio di specialità. La deroga è quell’istituto attraverso il quale si risolve un’antinomia tra norme giuridiche diverse sul piano della generalità; la generalità di una norma è la sua maggior o minore attitudine ad applicarsi ai comportamenti ovvero alle condotte prese in considerazione. Nel caso della deroga il conflitto nasce tra una norma più generale (derogata) e un’altra (derogante) di tipo particolare: è quello che normalmente si definisce come l’eccezione alla regola. La differenza tra abrogazione e deroga sta nel fatto che mentre nella prima la norma abrogata cessa di avere efficacia per il futuro, la norma derogata non perde invece la sua efficacia ma viene limitato il suo campo di applicazione. CRISI DELL’ORDINE GERERCHICO DEL SISTEMA DELLE FONTI Per lungo tempo l’effettivo super-criterio è stato il principio di gerarchia. Esso ha “funzionato” perfettamente fino a quando la struttura piramidale-gerarchica è stata anche il modulo organizzativo principale della società ed in particolare dello Stato e dell’amministrazione pubblica. Quando questo presupposto ha cominciato a sgretolarsi, è entrato in crisi anche il principio di gerarchia e con esso gran parte della “razionalità” interna del sistema normativo. Il principio di competenza recupera un proprio ruolo centrale anche a scapito del principio gerarchico. L’esempio più clamoroso riguarda la nascita e lo sviluppo dell’Unione Europea. In un sistema delle fonti prevalentemente gerarchico, quando nasce un nuovo ordinamento normativo esso si può trovare in due sole condizioni: 1. il nuovo ordinamento è inseribile nella scala gerarchica esistente; 2. il nuovo ordinamento è esterno, estraneo e non interferente. Oggi però né il principio di gerarchia né quello di competenza riescono effettivamente a spiegare in modo esaustivo la relazione tra il nostro ordinamento nazionale e quello europeo. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 ATTI E FATTI NORMATIVI In che modo le fonti producono le regole? Se osserviamo il panorama delle fonti, esse possono consistere in atti ovvero in fatti, a seconda che esse siano l’espressione di, ovvero prescindano da, la volontà: fonti atto fonti di produzione del diritto che sono il risultato di procedimenti finalizzati a produrre norme giuridiche. Sono fonti atto gli atti normativi, ovverosia le leggi, i trattati, i decreti, i regolamenti e tutti gli atti che esprimono una manifestazione di volontà, approvati da organi collegiali (Parlamento, Governo) o monocratici (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio) in grado di produrre regole giuridiche; fonti fatto fatti normativi, in cui le regole non nascono dalla volontà espressa di regolare in un certo modo i comportamenti bensì da accadimenti esterni rispetto alla volontà. L’esempio più noto di fatto normativo è la consuetudine o l’uso, in cui la norma giuridica nasce dalla ripetizione costante nel tempo di un determinato comportamento da parte di una generalità di soggetti che lo ritengono obbligatorio sul piano giuridico. Un altro esempio è la convenzione, ossia l’accordo tacito tra soggetti politici sull’applicazione di regole costituzionali. Un dato che caratterizza i sistemi normativi contemporanei è che la gran parte delle norme giuridiche è prodotta da fonti atto, anche se al riguardo vanno distinti: - sistemi giuridici di common law si è sviluppato in Inghilterra, per poi diffondersi in tutti gli ordinamenti di matrice britannica, Stati Uniti compresi. In questo sistema il diritto consuetudinario riveste un ampio spazio accanto a quello di matrice giurisdizionale, costituito dalle pronunce dei giudici, mentre le fonti atto vere e proprie hanno soltanto una funzione derogativa rispetto al complesso di regole derivanti dall’insieme dei precedenti; - sistemi giuridici di civil law sistema giuridico proprio dell’Europa continentale. La maggior parte del diritto è prodotta da fonti atto e ha alla base la codificazione. L’Italia rientra in questa tipologia. Ma qual è il medium attraverso il quale esprimiamo la nostra volontà? Il linguaggio. Tutti gli atti normativi utilizzano il linguaggio, in particolare la scrittura, per esprimere la volontà di produrre certe regole. La maggior parte delle fonti normative sono atti e la maggior parte di questi sono atti scritti; è generalmente un atto formulato per iscritto a produrre una o più norme giuridiche. INTERPRETAZIONE: DISPOSIZIONE E NORMA Sul piano descrittivo si indica con il termine: disposizione atto in senso proprio, la formulazione linguistica che costituisce la fonte (quindi ha senso parlare di disposizioni solo per le norme scritte); norma il significato dell’atto, la regola giuridica che poi utilizzeremo per decidere come comportarci. L’attività che consente di cogliere il significato (norma) di una formulazione normativa (disposizione) si chiama interpretazione giuridica. Ci sono due precisazioni riguardo i rapporti che si instaurano tra norme e disposizioni: il diritto è un fenomeno che presenta moltissime analogie con il linguaggio interpretare un atto normativo consiste nell’analizzare un significante per estrarne i significati; l’interpretazione di una disposizione non è mai un’operazione univoca risente di numerosi fattori, quali il fine, il tempo, lo spazio. NON ESISTE NECESSARIAMENTE UN RAPPORTO BIUNIVOCO TRA DISPOSIZIONE E NORME Spesso si postula l’esistenza di un rapporto biunivoco tra una disposizione e un enunciato normativo. Se c’è un testo di legge ci sarà un solo significato attribuibile e quindi una sola regola giuridica da rispettare. Questa credenza è errata per una serie di ragioni: la prima deriva dalla stessa natura degli enunciati da interpretare ogni disposizione ha sempre un certo grado di indeterminatezza poiché sono possibili diverse attribuzioni di significato; la seconda è esemplificata da un fenomeno estremamente frequente nell’attività interpretativa e che va comunemente sotto il nome di combinato disposto. Può accadere che una sola norma sia prodotta da diverse disposizioni tra loro “combinate”. In questo caso la norma applicabile deriva dall’interpretazione congiunta di più disposizioni. UNA NORMA PUÒ VIVERE PIÙ A LUNGO DI UNA DISPOSIZIONE (E VICEVERSA) Applicando il criterio cronologico, quando due fonti pongono tra loro discipline diverse, va applicata la più recente, la quale abroga la precedente. Il fenomeno dell’abrogazione non produce l’eliminazione della fonte abrogata dall’ordinamento giuridico, bensì ne delimita la sfera di applicazione. È possibile che al momento attuale potremmo trovarci a dover applicare moltissime norme (cioè interpretazioni) estratte da disposizioni che in realtà sono state abrogate. Ma è vero anche il fenomeno opposto: esistono disposizioni formalmente in vigore (non abrogate) ma che non sono più in grado di produrre norme. LE NORME POSSONO ESSERE REGOLE O PRINCIPI Un’ultima distinzione in materia di norme è tra: regole sono norme giuridiche più specifiche, hanno normalmente una portata applicativa più ristretta; Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 principi sono norme giuridiche più generiche, hanno normalmente una portata applicativa più ampia. Da questa distinzione derivano alcune conseguenze: la prima riguarda la soluzione dei conflitti tra regole, ovvero tra principi le regole sono soggette ad applicazione categorica (sì/no). Ne deriva che, se due regole sono in contraddizione tra loro, solo una sarà applicabile. Per definire quale delle norme debba essere applicata, occorre osservare da quali fonti esse derivano ed utilizzare i criteri di risoluzione delle antinomie. Dinanzi a due o più principi tra loro in conflitto, la situazione è del tutto diversa. Si cercherà di “bilanciare” i due principi, ovvero di applicare entrambi nella misura maggiore possibile, trovando un punto di equilibrio ragionevole; i principi generano le regole proprio per la loro caratteristica di esprimere valori e finalità generali i principi possono essere attuati mediante un processo di specificazione il quale fa sì che da un principio (generale) nascano diverse regole. I principi rappresentano i valori di riferimento del sistema normativo. Essi: - da un lato, sono in grado di orientare l’attività di interpretazione delle regole; - dall’altro, generano le regole concrete. LE NORME POSSONO ESSERE GENERALI O SPECIALI Prendendo in considerazione le norme un’altra distinzione è tra: norme speciali norme che stanno in un rapporto di species a genus e che pertanto producono l’effetto della deroga e non dell’abrogazione né dell’annullamento; norme generali. In caso di contrasto tra una norma speciale e una generale l’interprete deve preferire la prima, anche se è anteriore. Il principio di specialità ha un valore solo inter partes quando è disposto da un giudice. IN CONCLUSIONE: L’ORDINAMENTO GIURIDICO, LE DISPOSIZIONI E LE NORME L’ordinamento giuridico è composto da norme e non da disposizioni. I giudici, gli amministratori pubblici, i soggetti privati sono vincolati dal senso dei testi normativi che si trovano ad applicare; da ciò deriva che la comprensione esatta del fenomeno giuridico, e in particolare delle sue regole, dipende sia dalla capacità di individuare esattamente la fonte normativa e la disposizione che ci riguarda o che ci interessa, sia dalla capacità di “estrarne” correttamente il senso, cioè dalla attività interpretativa. CAPITOLO 5 – LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO LA COSTITUZIONE COME FONTE E LE LEGGI COSTITUZIONALI L’approvazione della Costituzione La Costituzione italiana è stata approvata dall’Assemblea costituente, che è stata eletta, con sistema proporzionale, il 2 giugno 1946, nella stessa data nella quale si è svolto anche il referendum istituzionale per la scelta tra repubblica e monarchia. L’Assemblea costituente ha lavorato negli anni 1946-1947, fino all’approvazione, il 22 dicembre 1947, del testo della Costituzione (entrata in vigore l’1 gennaio 1948) e ha avut come protagonisti i partiti politici antifascisti, che si sono accordati su un nucleo di principi comuni, inserendoli nella Costituzione rigida. Tali partiti hanno assimilato le principali idee costituzionali che si stavano affermando sullo scenario internazionale dopo le distruzioni della II Guerra Mondiale. La Costituzione italiano è il frutto di n patto tra le forze antifasciste protagoniste della Resistenza e riconducibili principalmente a tre tradizioni culturali: 1. cattolica Democrazia cristiana; 2. marxista Partito socialista e Partito comunista; 3. liberal-democratica Partito d’azione, Partito liberale, Partito repubblicano. Ciascuna di queste componenti ideali, portatrici di principi e valori, ha dato un contributo al patto costituente che emerge con maggior evidenza in alcuni articoli della Costituzione. Tale accordo è stato reso possibile da quello che la filosofia politica contemporanea chiama “velo di ignoranza”, ossia il fatto che nel momento della rifondazione dell’ordinamento, dopo il regime fascista e la guerra, nessun partito politico poteva sapere se le soluzioni istituzionali prescelte lo avrebbero avvantaggiato o danneggiato. Le forze costituenti lavorarono quindi con lo sguardo rivolto al futuro e nella consapevolezza di stare scrivendo un testo destinato a durare nel tempo, in un’atmosfera che restò protetta dalla dialettica politica contingente la quale, specie a partire dal 1947, fu fortemente influenzata dall’inizio della Guerra Fredda. Leggi costituzionali e di revisione costituzionale Se guardiamo la Costituzione italiana come fonte del diritto dobbiamo prima di tutto osservare che si tratta di una Costituzione rigida, che si pone al vertice del sistema delle fonti. Anche se non esiste un’esplicita clausola di supremazia, la rigidità può essere dedotta facilmente da varie disposizioni. La mera affermazione della supremazia vorrebbe dire ben poco se non esistessero le garanzie della rigidità della Costituzione. Esse sono contenute nel titolo VI della parte II, che reca “Garanzie costituzionali”, ovvero garanzie della rigidità della Costituzione. Tale titolo si articola in due sezioni: 1. La corte costituzionale artt. 134-137; 2. Revisione costituzionale. Leggi costituzionali artt. 139 e 139. La Costituzione stessa prevede nell’art. 138 una procedura speciale ed “aggravata” attraverso la quale viene prodotta una fonte che prende il nome di legge costituzionale. Scaricato da Pietro Campi ([email protected]) lOMoARcPSD|32936532 Le leggi costituzionali nel nostro ordinamento possono servire a: modificare il testo della Costituzione in questo caso si chiamano “leggi di revisione costituzionale”; soddisfare le riserve di legge costituzionale disciplinare quelle materie che la Costituzione stessa affida esclusivamente a tali fonti; irrigidire la disciplina di certe materie che, in tal caso, viene sottratta alla disponibilità del legislatore ordinario. In base all’art. 138 Cost. occorre una doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera (anziché una come per le leggi ordinarie), e tra le due deliberazioni deve intercorrere un intervallo di tempo (non meno di tre mesi): 1. prima deliberazione segue le regole del procedimento legislativo ordinario (compresa la maggioranza semplice, ovvero dei presenti, per l’approvazione del testo); 2. seconda deliberazione - da un lato, non possono essere apportati emendamenti al testo votato in prima deliberazione; - dall’altro, è richiesta la maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera. Le leggi costituzionali sono da ritenere approvate anche se, nella seconda deliberazione, non hanno raggiunto la maggioranza dei due terzi ma, almeno, la maggioranza assoluta (dei componenti) di ciascuna camera; in questo caso, però, le leggi stesse possono essere poste a referendum popolare se, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda: 1/5 dei membri di una Camera; 500000 elettori; la legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla 5 Consigli regionali. maggioranza dei voti validi. All’interno della Carta costituzionale, composta originariamente di 139 articoli e 18 disposizioni transitorie è possibile operare una sorta di distinzione tra “principi supremi” e regole costituzionali “ordinarie”, nel senso che attraverso la revisione costituzionale si può modificare o integrare la Costituzione, ma non in tutte le due previsioni; esistono alcuni principi che sono sottratti alla revisione. Possiamo ritenere che al vertice del nostro sistema delle fonti esista una sorta di “micro-gerarchia” per cui i principi supremi d