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Riassunto completo Storia contemporanea Soccio Erika.pdf

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RIASSUNTO COMPLETO MANUALE DI STORIA CONTEMPORANEA (SABBATUCCI VIDOTTO) Soccio Erika – Corso: Storia contemporanea 1. LE RIVOLUZIONI DEL 1848 La crisi rivoluzionaria del ’48 interessò gran parte dell’Europa continentale (fra le grandi potenze solo Russia e Gran Bretagna ne rimasero fuori), anche a...

RIASSUNTO COMPLETO MANUALE DI STORIA CONTEMPORANEA (SABBATUCCI VIDOTTO) Soccio Erika – Corso: Storia contemporanea 1. LE RIVOLUZIONI DEL 1848 La crisi rivoluzionaria del ’48 interessò gran parte dell’Europa continentale (fra le grandi potenze solo Russia e Gran Bretagna ne rimasero fuori), anche a causa di alcuni elementi comuni presenti nei vari paesi: la crisi economica che nel biennio 46-47 aveva investito l’Europa creando un clima di acuto malessere, l’azione consapevole svolta dai democratici, l’attesa di un nuovo grande sommovimento rivoluzionario. Simili furono anche i contenuti delle varie insurrezioni: richiesta di libertà politiche e di democrazia, e – in Italia, Germania e Impero asburgico – spinta verso l’emancipazione nazionale. La novità delle rivoluzioni del ’48 risiedette nel massiccio intervento delle masse popolari e nell’emergere di obiettivi sociali accanto a quelli politici. Come era già accaduto nel 1830, il moto rivoluzionario ebbe il suo centro di irradiazione in Francia. La monarchia liberale di Luigi Filippo d’Orleans era certamente uno dei regimi europei meno oppressivi. Ma la stessa maturazione economica, civile e culturale della società francese, faceva apparire sempre meno tollerabili i limiti oligarchici di quel regime e la politica ultramoderata praticata da Luigi Filippo e dal suo primo ministro Guizot. Per i democratici, in particolare, l’obiettivo da raggiungere era il suffragio universale. Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel paese reale. Lo strumento scelto fu la campagna dei banchetti (riunioni private che consentivano la propaganda aggirando i divieti governativi). Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini, già mobilitati da giorni, organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla il governo ricorse alla Guardia nazionale, il corpo volontario di cittadini armati, già impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, fini col fare causa comune con i dimostranti. Dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350 morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio Luigi Filippo abbandono Parigi e la sera stessa veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della repubblica e annunciava la prossima convocazione di un’Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale. Nel governo figuravano tutti i capi dell’opposizione democratico- repubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Blanc e Albert. L’inclusione nel governo di due rappresentanti dei lavoratori rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e riaffermava la vocazione sociale della neonata repubblica. Ma una prima secca sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero il 23 aprile 1848. Il suffragio universale porto, infatti, alle urne un elettorato rurale, i cui orientamenti erano assai più conservatori di quelli prevalenti nella capitale. I veri vincitori furono i repubblicani moderati: furono loro a costituire l’ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert. Invano il popolo parigino tento di riprendere l’iniziativa sul terreno delle manifestazioni di piazza. Le manifestazioni di giugno furono stroncate con spietata durezza. Nei mesi successivi la situazione rimase tuttavia sotto il controllo dei repubblicani moderati. In novembre l’Assemblea costituente approvo a stragrande maggioranza una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un’unica Assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori di ogni gradazione fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, che ottenne una valanga di suffragi. Portato al potere da una coalizione di conservatori, clericali e moderati ex-orleanisti, Luigi Napoleone Bonaparte mostro subito di voler mantenere gli impegni assunti col “partito dell’ordine”. I gruppi conservatori, che avevano favorito l’elezione di Bonaparte in quanto ritenevano di poterlo controllare facilmente, guardavano con sospetto a un eccessivo rafforzamento del suo potere personale. Nel luglio del ’51, la Camera respinse la proposta di modificare quell’articolo della costituzione che impediva la rielezione di un presidente alla scadenza del mandato. Ma pochi mesi dopo, un colpo di Stato attuato con l’appoggio dell’esercito consenti a Bonaparte di sbarazzarsi contemporaneamente della maggioranza moderata e dell’opposizione democratica. Il 2 dicembre 1851 la Camera fu occupata dalle truppe e sciolta d’autorità. La resistenza dei quartieri popolari di Parigi e i tentativi isolati di insurrezione in provincia furono facilmente repressi dall’esercito. Il 21 dicembre, un plebiscito a suffragio universale sanzionò a maggioranza schiacciante l’operato di Bonaparte e gli attribuì il compito di redigere una nuova costituzione. Promulgata nel gennaio successivo, la costituzione stabiliva in dieci anni la durata del mandato presidenziale; ripristinava il suffragio universale, ma toglieva alla Camera l’iniziativa legislativa, riservandola al presidente; istituiva un Senato vitalizio, ovviamente di nomina presidenziale. La Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu abolita nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una maggioranza ancor più schiacciante la restaurazione dell’Impero sotto Napoleone III. In marzo, il moto rivoluzionario si propago all’Impero asburgico, agli Stati italiani e alla Confederazione germanica. Il malcontento suscitato dalla crisi economica si univa alla protesta contro la gestione autoritaria del potere e si mescolava alle tensioni provocate dalle numerose “questioni nazionali” che il congresso di Vienna aveva lasciato irrisolte. Diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente sociale rimase in secondo piano e lo scontro principale fu combattuto fra la borghesia liberale e le strutture politiche dell’assolutismo. Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L’occasione della rivolta fu data da una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall’esercito. Dopo due giorni di combattimenti, gli ambienti di corte furono costretti a sacrificare il cancelliere Metternich: l’uomo simbolo dell'età della Restaurazione dovette abbandonare il potere, che deteneva ininterrottamente da quasi quarant’anni, e rifugiarsi all’estero. Le notizie dell’insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle già irrequiete province dell’Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica. In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere ai magiari una propria costituzione e un proprio parlamento non bastarono a fermare l’agitazione autonomistica. Sotto la spinta dell’ala democratico-radicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi in cui versava il potere centrale per creare un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth comincio a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l’obiettivo finale degli insorti. Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione il vincolo con la monarchia asburgica, ma si limitavano a chiedere più ampie autonomie per tutte le popolazioni slave dell’Impero. A giugno si riunì a Praga un congresso cui parteciparono delegati di tutti i territori slavi soggetti alla corona asburgica. Ma, a pochi giorni dall’apertura del congresso, alcuni scontri scoppiati fra la popolazione e l’esercito fornirono alle truppe imperiali il pretesto per un intervento. La capitale boema fu assediata e bombardata e il congresso slavo fu disperso e il governo ceco sciolto. La sottomissione di Praga segno l’inizio della riscossa per il traballante potere imperiale, che riprendeva gradualmente il controllo della situazione, sfruttando la rivalità fra slavi e magiari. Dopo la repressione di una nuova insurrezione a Vienna (ottobre ’48), saliva al trono imperiale Francesco Giuseppe. Nel marzo ’49 il nuovo imperatore sciolse d’autorità il Reichstag e promulgo una costituzione “moderata”, che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell’Impero. La rivoluzione di Berlino iniziata il 18 marzo 1848, costrinse inizialmente re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Ma intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate in molti degli Stati e staterelli che componevano la Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un’Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi: nacque cosi la Costituente di Francoforte. Ben presto fu chiaro pero che l’Assemblea di Francoforte non aveva i poteri necessari per imporre la propria autorità ai sovrani e ai governi degli Stati tedeschi e per avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che dipendere da quanto accadeva nello stato più importante, la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberal-democratico conobbe un rapido declino. Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano ed emano una costituzione assai poco liberale. Nel frattempo la Costituente di Francoforte, spaccata tra le tesi di “grandi tedeschi” e “piccoli tedeschi”, offri al re di Prussia la corona imperiale, ma questi la rifiuto in quanto gli veniva offerta da un’assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il gran rifiuto di Federico Guglielmo segno in pratica la fine della Costituente di Francoforte. All’inizio del 1848, e prima della rivoluzione di febbraio in Francia, negli Stati italiani c’erano forti aspettative di un’evoluzione interna dei vecchi regimi. La sollevazione di Palermo, in gennaio, induceva Ferdinando II di Borbone a concedere una costituzione; il suo esempio era subito seguito da Carlo Alberto di Savoia, Leopoldo II di Toscana e Pio IX. Lo scoppio della rivoluzione in Francia dava nuova spinta all’iniziativa dei democratici italiani e riportava in primo piano la questione nazionale. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l’avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell’Arsenale militare, costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta. A Milano l’insurrezione inizio il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri cinque giornate milanesi. Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400 morti. La direzione delle operazioni fu assunta da un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Il 23 marzo, all’indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e Milano, il Piemonte dichiarava guerra all’Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell’Impero asburgico l’occasione per liberare l’Italia dagli austriaci; la tradizione aspirazionale della monarchia sabauda ad allargare verso est i confini del Regno; infine il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di agitazione repubblicana. Anche in questo caso la decisione condiziono Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX che decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca. La guerra piemontese sembrava cosi trasformarsi in una guerra di indipendenza nazionale e federale, benedetta dal papa e combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche. Ma l’illusione duro poco. Carlo Alberto dimostro scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupo soprattutto di preparare l’annessione del Lombardo- Veneto al Piemonte, suscitando l’irritazione dei democratici e la diffidenza di altri sovrani. Il 29 aprile il Papa annuncio il ritiro delle sue truppe; lo imitavano, pochi giorni dopo, il granduca di Toscana e Ferdinando di Borbone. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, mentre fra maggio e giugno venivano indetti nei territori liberati frettolosi plebisciti per sancire l’annessione al regno sabaudo, l’iniziativa torno nelle mani dell’esercito asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale, che si combatte a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l’armistizio con gli austriaci. A combattere contro l’Impero asburgico restavano i democratici italiani (oltre a quelli ungheresi). In Sicilia resistevano i separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana si formava un triumvirato democratico composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni. A Roma, dopo la fuga del papa (novembre ’48) l’Assemblea proclamo la decadenza del potere temporale dei papi e annuncio che lo Stato avrebbe assunto il nome glorioso di Repubblica romana. Intanto i democratici ripresero l’iniziativa in Piemonte. Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto riprendeva la guerra contro l’Austria. Le truppe di Radetzky affrontarono l’esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta. La sera stessa Carlo Alberto per non mettere in pericolo le sorti della dinastia abdico in favore del figlio Vittorio Emanuele II. I governi rivoluzionari venivano sconfitti in tutta Italia: terminava la rivoluzione autonomistica siciliana, gli austriaci ponevano fine alla Repubblica toscana e occupavano le Legazioni pontificie, i francesi intervenivano militarmente contro la Repubblica romana. Gli ultimi focolai rivoluzionari a soccombere furono quello ungherese e veneto, in entrambi i casi per l’intervento asburgico. La causa fondamentale del generale fallimento delle rivoluzioni del ’48 va individuata nelle fratture all’interno delle forze che di quelle rivoluzioni erano state protagoniste: nei contrasti, cioè, fra correnti democratico-radicali e gruppi liberal-moderati. Aveva pesato inoltre, nel determinare la sconfitta delle esperienze rivoluzionarie italiane, l'estraneità delle masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione. 4. L’UNITA' D’ITALIA In Italia, la “seconda restaurazione” – cioè il ritorno dei sovrani legittimi dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49 – bloccò ogni esperimento riformatore e frenò pesantemente lo sviluppo economico dei vari Stati, mentre veniva sancita l’egemonia austriaca nella penisola. Aumentava anche il fossato che separava i sovrani dall’opinione pubblica borghese, fenomeno evidente soprattutto nei due Stati che più perseguirono una politica repressiva e autoritaria: lo Stato pontifico e il Regno delle due Sicilie. Ben diversa da quella degli altri Stati italiani fu la vicenda politica del Piemonte sabaudo. Il regno di Vittorio Emanuele II comincio con un duro scontro con la Camera elettiva per questioni riguardanti la pace di Milano. La corona e il governo, presieduto dal moderato Massimo D’Azeglio, decisero di sciogliere la Camera e di indire nuove consultazioni, mentre il re indirizzava agli elettori un messaggio (proclama di Moncalieri: rappresentanti più moderati). Una volta approvata la pace dalla nuova Camera, il governo D’Azeglio poté portare avanti l’opera di modernizzazione dello Stato già avviata negli ultimi anni del regno di Carlo Alberto. Una tappa fondamentale in questo senso fu rappresentata dall’approvazione di un progetto Siccardi che riordinava i rapporti fra Stato e Chiesa, ponendo fine agli anacronistici privilegi di cui il clero godeva ancora nel regno Sabaudo. La battaglia per l’approvazione delle leggi Siccardi vide emergere nelle file della maggioranza liberal-moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d’affari, proprietario terriero e giornalista, direttore di un battagliero organo di stampa dal titolo “Il Risorgimento”. Si affermava cosi un politico dai vasti orizzonti culturali e dall’ampia conoscenza dei problemi economici, animato dalla fede nelle virtù della libera concorrenza e da un liberalismo pragmatico e moderno. Cavour entro a far parte del gabinetto D’Azeglio nell’ottobre 1850, come titolare del ministero dell’Agricoltura e Commercio. Due anni dopo, nel novembre 1852, quando D’Azeglio dovette dimettersi per contrasti con il re, fu incaricato di formare il nuovo governo. Prima ancora di diventare presidente del Consiglio, Cavour si era reso protagonista di una piccola rivoluzione parlamentare promuovendo un connubio tra centro-destro (di cui egli stesso era il leader) e centro-sinistro (comandato da Urbano Rattazzi) e creando cosi una nuova formazione politica di centro che gli permetteva di allargare la base parlamentare del suo governo e spostarne l’asse verso sinistra: il che gli consenti non solo di far propria la politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed economico. Prima come ministro dell’Agricoltura, poi come presidente del Consiglio, Cavour si adopero per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale della sua politica fu l’adozione di una linea decisamente liberoscambista (trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna; fra il ’51 e il ’54 fu gradualmente abolito il dazio sul grano. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche (costruiti strade e canali; modernizzazione porto di Genova; sviluppate le ferrovie). In questo quadro generale di sviluppo non mancavano i ritardi e gli squilibri. Le condizioni delle classi subalterne non conobbero miglioramenti, anche a causa del peso crescente delle imposte indirette; il tasso di analfabetismo si mantenne elevato. Eppure alla vigilia dell’unita italiana il Piemonte poteva vantare un bilancio quanto mai lusinghiero: agricoltura in fase di espansione e modernizzazione e industria in sviluppo ponevano il Piemonte tra i primi posti nella classifica degli Stati italiani. Le sconfitte del ’48-49 non avevano mutato nella sostanza la strategia di Mazzini e dei mazziniani, più che mai convinti che l’unita italiana sarebbe scaturita da un moto insurrezionale e avrebbe potuto attuarsi solo nel quadro di una generale ripresa del processo rivoluzionario. Mazzini da un lato si preoccupo di intensificare i contatti con i maggiori esponenti di tutto il movimento democratico europeo, dall’altro si adoperò instancabilmente per ritessere dall’esilio di Londra le fila dell'attività cospirativa in Italia. Sul piano pratico, pero, i risultati furono fallimentari in rapporto agli altissimi costi umani sostenuti. Negli anni 1851-52 la polizia austriaca inferse duri colpi all’organizzazione mazziniana; ma nonostante i gravi vuoti aperti nelle file del movimento rivoluzionario, Mazzini ritenne di poter tentare ugualmente la carta dell’insurrezione. Il 6 febbraio 1853, a Milano, poche centinaia di operai e di artigiani assalirono con armi improvvisate i posti di guardia austriaci. Ma il moto fu facilmente represso e ne seguirono nuovi arresti e nuove condanne a morte. Mazzini pero non si arrese e fondo nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d’azione, quasi a sottolineare il carattere di puro strumento di battaglia, al di la delle dispute teoriche. Fin dall’inizio degli anni ’50 si delinearono pero fra i democratici italiani nuovi orientamenti che, da diversi punti di vista, tendevano a mettere in discussione la guida politica di Mazzini e a contestare la sua strategia. Due libri di Ferrari e Pisacane introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al movimento risorgimentale. Entrambi sostenevano che la lotta per l’indipendenza nazionale avrebbe potuto avere successo solo se avesse saputo legare a se le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per l’emancipazione economica e spirituale. Le divergenze ideologiche non impedirono, peraltro, a Pisacane e Mazzini di trovare un concreto terreno di collaborazione nella preparazione di un novo progetto insurrezionale, da attuarsi questa volta facendo leva sulle masse diseredate del Mezzogiorno. Ma una volta sbarcati a Sapri, non si verificò nessuna delle condizioni che, nel progetto di Pisacane, avrebbero dovuto assicurare la riuscita del piano. La colonna dei rivoltosi fu facilmente individuata e annientata dalle truppe borboniche. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero. Il fallimento della spedizione di Sapri esaspero il dissidio già in atto fra i democratici e coincise con la nascita ufficiale di un movimento indipendentista filopiemontese. Iniziatore del movimento era stato Daniele Manin, il capo del governo repubblicano di Venezia nel ’48-49, che aveva proposto il superamento di ogni divisione relativa alla futura forma di governo dell’Italia unita e l’unione di tutte le correnti, moderate e democratiche, intorno all’unica forza in grado di raggiungere l’obiettivo: la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Nei primi anni del suo governo, Cavour non aveva tra i suoi obiettivi l’unita italiana ma piuttosto allargare i confini del Piemonte verso l’Italia settentrionale, a scapito dei domini austriaci e degli Stati minori del Centro-Nord. Prima preoccupazione di Cavour fu dunque quella di avvicinare il Piemonte all’Europa più moderna e più sviluppata. Un passo importante fu quando il governo piemontese accetto l’alleanza con Francia e Inghilterra nella guerra contro la Russia in Crimea. In questo modo il Piemonte ottenne di partecipare come Stato vincitore alla conferenza di Parigi (1856) e di poter sollevare, come portavoce, la questione italiana in sede internazionale. Ma l’esperienza del congresso fu avara di risultati concreti. Era dunque necessario, da un lato, mantenere viva l’agitazione patriottica; dall’altro, assicurarsi l’appoggio dell’unica grande potenza europea veramente interessata ad una modifica dello status quo: la Francia di Napoleone III (facendo leva sulle sue ambizioni egemoniche e sulla paura suscitata dal ripetersi delle agitazioni mazziniane). Fu proprio il gesto di un mazziniano (Felice Orsini che attento alla vita dell’imperatore con tre bombe lanciate contro la sua carrozza) ad affrettare i tempi dell’alleanza franco-piemontese che venne sancita ufficialmente nel luglio 1858 a Plombieres. Gli accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell’intera penisola italiana che avrebbe dovuto essere divisa in tre Stati: un regno dell’Alta Italia comprendente, oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l’Emilia Romagna, sotto la casa sabauda; un regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province pontificie; un regno meridionale coincidente con quello delle due Sicilie liberato dalla dinastia borbonica. Ma dietro questo progetto si celavano in realtà due diversi disegni: quello di Napoleone III che mirava a porre l’Italia sotto il suo controllo; e quello di Cavour che pur mostrando di assecondare i progetti bonapartisti contava sulla forza d’attrazione del Piemonte nei confronti degli altri Stati italiani. Perché l’alleanza con la Francia potesse diventare operante era necessario che la guerra apparisse provocata dall’Impero asburgico; fu lo stesso governo asburgico a creare il tanto sospirato casus belli inviando il 23 aprile 1859 un secco ultimatum al Piemonte, che ovviamente Cavour respinse. Dopo un primo scontro con gli austriaci a Montebello, i franco-piemontesi (grazie anche all’aiuto di Garibaldi) sconfissero gli asburgici nella battaglia di Magenta aprendosi la via di Milano. Successivi contrattacchi austriaci a Solferino e San Martino furono facilmente respinti. Ma l’armistizio di Villafranca, improvvisamente stipulato da Napoleone III, permetteva al Piemonte di ottenere solo la Lombardia, fatto che suscito lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour che si dimise a favore del generale La Marmora. Ma intanto grazie a nuove insurrezioni create nell’Italia centro-settentrionale (Firenze, Modena, Parma, Stato della Chiesa) e controllate da moderati e da uomini della Società nazionale il Piemonte poté annettere numerosi territori inviando nelle regioni liberate dei commissari straordinari. Dopo alcuni mesi di stallo Napoleone III decise di accettare il fatto di compiuto asserendo alle annessioni sabaude in cambio di Nizza e della Savoia. Nel gennaio 1860 Cavour torno a capeggiare il governo e a marzo le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana, chiamate a scegliere con un plebiscito fra l’annessione al Piemonte e la creazione di regni separati, si pronunciavano a schiacciante maggioranza per la soluzione unitaria. Cedendo i suoi territori d’oltralpe e allargando i suoi confini verso la Lombardia e l’Italia centralo, lo Stato sabaudo cessava di essere uno Stato dinastico e si avviava a diventare uno Stato nazionale. Rimanevano scontenti i democratici che cominciarono a pensare a una prosecuzione della lotta attraverso una spedizione nel Mezzogiorno. Furono Francesco Crispi e Rosolino Pilo, due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, a concepire il progetto di una spedizione nell’isola siciliana come prima tappa di un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto, Crispi si adopero per convincere Giuseppe Garibaldi ad assumere la guida della spedizione. Garibaldi era l’unico fra i leader democratici che apparisse in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita all’impresa, ritenuta da tutti estremamente rischiosa. Cavour, che temeva le complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un’occasione di rilancio per i mazziniani, la avverso, pur senza far nulla di serio per impedirla. Vittorio Emanuele II, che guardava invece con malcelato favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire concretamente in suo aiuto. Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860 poco più di mille volontari partirono da Quarto per sbarcare a Marsala, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, e penetrare all’interno accolti con entusiasmo dalla popolazione. Galvanizzati dalla vittoria di Calatafimi contro un contingente borbonico, le colonne garibaldine puntarono su Palermo ottenendo, dopo tre giorni di duro combattimento, la fuga dei contingenti governativi. Garibaldi proclamo allora la decadenza della monarchia borbonica. Mentre nell’isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale, dall’Italia settentrionale si programmava l’invio di uomini e mezzi che permisero a Garibaldi di cacciare definitivamente le truppe borboniche sul continente, dopo averle sconfitte il 20 luglio a Milazzo. Il successo delle iniziative costrinse Cavour e i moderati italiani a rivedere la loro strategia. Da un lato il primo ministro piemontese mostro di voler agevolare il buon esito finale inviando armi e volontari in Sicilia; dall’altro tento di bloccarne gli ulteriori sviluppi suscitando un movimento di opinione pubblica favorevole all’annessione al Piemonte. Il tentativo falli di fronte alla ferma reazione di Garibaldi ma le aspirazioni dei contadini causarono presto la fine del clima di concordia che aveva salutato i liberatori e crearono una situazione che lavorava in favore dell’annessione. Dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria e il suo ingresso a Napoli, divenne urgente per il governo piemontese un’iniziativa al Sud tale da evitare complicazioni internazionali e garantire alla monarchia sabauda il controllo della situazione. In settembre le truppe regie varcarono i confini dello Stato della Chiesa, invasero l’Umbria e le Marche e sconfissero l’esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo. Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella battaglia campale del Volturno, l’esercito sabaudo inizio la marcia verso il Mezzogiorno. Pochi giorni dopo il Parlamento piemontese approvo quasi all'unanimità una legge proposta da Cavour che autorizzava il governo a decretare l’annessione, senza condizioni, di altre regioni italiane allo Stato sabaudo purché le popolazioni interessate esprimessero la loro volontà mediante plebisciti. Il 21 ottobre, in tutte le province meridionali e in Sicilia (due settimane dopo anche in Marche e Umbria) si tennero plebisciti a suffragio universale maschile, con una schiacciante maggioranza dei si. A Garibaldi non resto che il volontario ritiro e isolamento a Caprera e mentre Mazzini partiva verso l’ennesimo esilio, l’esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche. Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale proclamava Vittorio Emanuele II re d’Italia. In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di un’iniziativa dall’alto (la politica di Cavour e della monarchia sabauda) e di un’iniziativa dal basso (le insurrezioni nell’Italia centrale e la spedizione garibaldina nel Sud). 5. L’EUROPA DELLE GRANDI POTENZE (1850-1890) Nella seconda metà del XIX secolo, la scena europea continuò ad essere dominata dalle cinque grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Austria, Prussia, Russia), impegnate in una lotta per l’egemonia che, fra il 1850 e il 1870, provocò ben quattro guerre. In questo periodo, il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del Secondo Impero, che però, nel suo tentativo di indebolire l’Austria, finì col facilitare l’ascesa della Prussia. Dalla guerra franco-prussiana del ’70-71, uscì un nuovo equilibrio che faceva perno sulla Germania riunificata. Nell’Europa di meta ‘800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso anomalo. Il secondo Impero non apparteneva, infatti, alla categoria dei sistemi liberal-parlamentari ma era anche molto diverso dai regimi monarchici tradizionali. Infatti, all’autoritarismo e al centralismo, Napoleone III univa la pratica del paternalismo e la ricerca del consenso popolare, verificato periodicamente attraverso le elezioni della Camera a suffragio universale. Oltre al sostegno delle campagne l’imperatore cerco ed ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e dell’industria con un progressivo incoraggiamento ad una politica di sviluppo economico (banche, iniziative finanziarie, costruzioni ferroviarie, grandi opere pubbliche, tecnocrazia). Al tempo stesso pero, i propositi pacifisti si scontravano con la tradizione bonapartista e imperiale. Napoleone III si impegno dunque in una politica estera ambiziosa e aggressiva, volta a modificare l’assetto europeo uscito dal congresso di Vienna. La prima occasione per misurare le nuove ambizioni imperiali della Francia fu offerta dall’improvviso riacutizzarsi, nel 1853-54, della questione d’Oriente. All’origine della crisi vi era l’aspirazione della Russia a espandersi in direzione del Mar Nero e dei Balcani, profittando della crescente incapacità dell’Impero ottomano a esercitare un effettivo controllo sui suoi domini europei. Gli iniziali successi della Russia suscitarono la reazione del governo inglese che temeva un improvviso tracollo dell’Impero ottomano ed era spinto da un’opinione pubblica bellicosa e violentemente antirussa. Alla Gran Bretagna si associo subito Napoleone III, interessato soprattutto all’affermazione della presenza francese nel Mediterraneo, mentre il governo austriaco, deludendo le attese della Russia, opto per una rigida neutralità. Nell’estate del 1854 una flotta anglo-francese penetro nel Mar Nero. Gli eserciti alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l’assedio alla piazzaforte di Sebastopoli. Quella combattuta in Crimea dagli anglo-francesi fu una strana guerra, condotta da ambo le parti con scarsa risolutezza. Vi furono pochi scontri campali. E tutto si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli che cadde nel settembre 1855. La Francia non ottenne risultati concreti, in proporzione all’impegno sostenuto, ma accrebbe il suo prestigio svolgendo un ruolo ad protagonista al congresso della pace, dove si batte, contro l'ostilità austriaca, per l’autonomia dei principati danubiani. Un’altra occasione fu l’appoggio dato ai movimenti nazionali, soprattutto attraverso l’alleanza col Piemonte culminata con la guerra contro l’Austria. Dal conflitto che pure si concluse vittoriosamente la Francia usci pero indebolita e sul piano interno si venne a creare un contrasto tra imperatore e gruppi cattolico-conservatori, che fino a quel momento erano stati i primi ad appoggiare ogni decisione. Da qui ebbe inizio una lenta evoluzione in senso liberale delle strutture politiche dell’Impero. L’Impero asburgico, dopo le rivoluzioni del ’48-49, accentuo i suoi caratteri autoritari e burocratici (centralismo amministrativo e burocratico). L’appoggio dei contadini e della Chiesa cattolica non fu sufficiente ad arrestare il declino dell’Impero, travagliato dai contrasti fra i diversi gruppi nazionali, ciascuno con la propria aspirazione all’autonomia. L’impero manco sostanzialmente l’appuntamento con lo sviluppo economico degli anni ’50 e ’60, senza peraltro riuscire a mantenere, anche a causa delle sconfitte militari, il ruolo di primissimo piano che aveva prima del ’48 nel concerto delle potenze europee. Fu cosi la Prussia, anch’essa retta da un regime autoritario e dominata dai ceti aristocratici, a riproporre la sua candidatura alla guida dei paesi di lingua tedesca, grazie soprattutto al suo sviluppo industriale. Con l’ascesa al governo di Otto Von Bismarck, nominato cancelliere da Guglielmo I, la Prussia scelse la strada di un’unificazione da ottenersi soprattutto per mezzo della forza militare. In pochi anni, l’uso spregiudicato della forza, unito all'abilità diplomatica, consenti alla Prussia di realizzare l’unificazione tedesca e di passare dalla posizione di ultima fra le cinque grandi potenze europee a un’indiscussa egemonia sul continente. Il primo ostacolo sulla via dell’unificazione era costituito dall’Austria che, se da un lato era parte di un impero plurinazionale, era anche uno Stato tedesco, membro della Confederazione germanica, all’interno della quale esercitava da sempre un ruolo di primo piano. Il contrasto si fece acuto nel 1864-65, quando le due potenze, dopo essersi accordate per strappare alla Danimarca alcuni ducati, entrarono in conflitto circa l’amministrazione dei territori conquistati. Prima di provocare il casus belli con l’occupazione di uno di questi ducati, Bismarck svolse un abile lavoro di preparazione diplomatica, alleandosi col neocostituito Regno d’Italia e assicurandosi, oltre alla benevola neutralità della Russia, anche quella di Napoleone III, che sperava in un indebolimento di entrambi i contendenti. Dalla parte dell’Austria si schierarono molti Stati minori della Confederazione germanica spaventati dalla prospettiva di un assorbimento da parte della Prussia. Cominciata nel giugno 1866, la guerra duro soltanto tre settimane. Mentre l’Italia impegnava, con scarsa fortuna, una parte delle forze imperiali, il rinnovato esercito prussiano penetrava in Boemia e, il 3 luglio, nella grande battaglia campale di Sadowa, infliggeva agli austriaci una durissima sconfitta. Si giunse cosi, alla fine di agosto, alla firma della pace di Praga. L’Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all’Italia. Ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e dunque la fine di ogni sua influenza nell’Europa centro-settentrionale. La vittoria della Prussia porto cosi alla formazione di una nuova Confederazione della Germania del Nord (stati tedeschi situati a nord del fiume Meno) sotto l’egemonia prussiana e all’adesione della borghesia tedesca alla politica di Bismarck. L’impero asburgico sconfitto si riorganizzo in forma dualistica, dividendosi in una parte austriaca e una ungherese, dotate di larghe autonomie. Uscita trionfatrice dallo scontro con l’Austria, la Prussia di Bismarck e di Guglielmo I poteva accingersi a realizzare l’ultima fase del suo ambizioso programma: l’unificazione di tutti gli Stati della defunta Confederazione germanica, tranne l’Austria, in un grande Reich tedesco sotto la corona degli Hohenzollern. L’ultimo ostacolo reale sulla via dell’unita era rappresentato non tanto dagli Stati tedeschi a sud del Meno (ormai privi dell’appoggio austriaco e rassegnati a subire l’egemonia prussiana) quanto dalla Francia di Napoleone III che aveva gravemente sottovalutato la forza della Prussia e ora vedeva messo in forse dai successi di Bismarck la loro più grande conquista sul piano internazionale (trattato di Westfalia che aveva frammentato la Germania). L’occasione per il conflitto fu offerta dalla questione dinastica del trono spagnolo che il governo provvisorio voleva affidare a Leopoldo di Hohenzollern, parente del re di Prussia, scatenando cosi la reazione del governo francese. Dopo una serie di battibecchi Napoleone III, sull’onda del furore nazionalistico esploso in città, dichiaro guerra alla Prussia il 19 luglio 1870. La Francia affronto il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione militare. Il primo settembre, mentre meta dell’esercito francese era costretto ad arrestarsi nella fortezza di Metz, l’altra meta venne accerchiata a Sedan, presso il confine con il Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore cadde prigioniero dei tedeschi. Il 18 gennaio 1871, nella reggia di Versailles, luogo simbolo della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco. Dure furono le condizioni di pace imposte da Bismarck alla Francia col trattato di Francoforte, firmato il 10 maggio 1871. Non solo la Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra e a mantenere truppe d’occupazione tedesche sul proprio territorio fino al completo pagamento di questa indennità; ma dovette cedere al Reich l’Alsazia e la Lorena: due province di confine di notevole importanza economica e strategica che i francesi consideravano parte integrante del territorio nazionale. Per la Francia si tratto di una vera e propria umiliazione. Nella primavera del 1871, mentre si stava ancora negoziando la pace con la Germania, la Francia dovette affrontare una drammatica crisi interna, in parte causata dalla sconfitta, in parte legata alle tensioni politiche e sociali che gli avvenimenti del ’48 avevano portato alla luce e che vent’anni di regime bonapartista non erano riusciti a soffocare. Dopo la sconfitta di Sedan, era stato il popolo della capitale a insorgere, a costituire una Guardia Nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi insomma aveva vissuto la caduta dell’Impero come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come l’inizio di una riscossa nazionale. Molto diverso era l’orientamento delle campagne e dei centri minori, dove prevalevano le tendenze conservatrici e il desiderio di una rapida firma della pace. La frattura si delineo dopo le elezioni della nuova Assemblea nazionale che si tennero l’8 febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne l’Assemblea risulto composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori, presieduti da Adolphe Thiers. Appena entrato in carica il nuovo governo si affretto a concludere la pace ma una volta note le dure condizioni imposte da Bismarck, il popolo di Parigi protesto in massa. Lo scontro tra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e conservatrice diventava cosi fatale (né Thiers fece nulla per evitarlo). Con lo spostamento della sede del Parlamento da Bordeaux a Versailles (anziché a Parigi) e il ritiro di reparti dell’esercito e funzionari governativi dalla capitale, Parigi era abbandonata a se stessa e indotta a riconoscersi nell’unica struttura organizzata rimasta nella città: la Guardia nazionale, controllata da elementi della sinistra più accesa. Quando, a meta marzo, il governo ordino la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiuto di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune. Per Comune si intendeva come significato usuale quello di autogoverno cittadino. La Comune del 1871 assunse ben presto i tratti di un’esperienza radicalmente rivoluzionaria: nelle elezioni per il Consiglio della Comune, tenutesi il 28 marzo, l’elettorato conservatore si astenne in gran parte dalle urne e il potere resto dunque nelle mani dei gruppi di estrema sinistra. Per quanto divisi da seri contrasti, i dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane al più radicale esperimento di democrazia diretta che mai si fosse tentato in Europa. Ma tutta racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese, la Comune avrebbe avuto qualche speranza di sopravvivere solo se fosse riuscita a provocare un moto generalizzato che coinvolgesse anche i piccoli centri e le campagne. Ma la Francia provinciale e rurale si era già espressa nelle elezioni di febbraio. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni di Francia perché si associassero alla capitale caddero nel vuoto e l’esperienza della Comune non duro più di due mesi: il tempo necessario a Thiers per raccogliere, con la benevola neutralità degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della capitale. Fra il 21 e 28 maggio, le truppe governative procedettero all’occupazione di Parigi che fu difesa strada per strada dalle milizie popolari, anche con sanguinose rappresaglie ma senza grandi risultati. Dopo la guerra franco-prussiana si diffuse in Europa un nuovo clima politico. Si affermava sempre più l’ideologia della forza, del fatto compiuto, della pura politica di potenza (MACHTPOLITIK), fondata sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare. A questo nuovo clima contribuì, come vedremo meglio in seguito, il mutamento della congiuntura economica, che indusse quasi tutti gli Stati europei a ripudiare la politica del libero scambio e ad accentuare le misure protezionistiche. Si dissolse cosi, nel giro di pochi anni, quell’atmosfera di ottimismo e di fiducia nella cooperazione economica internazionale e nella libera concorrenza che aveva caratterizzato gli anni ’50 e ’60. Eppure, nonostante queste inquietanti premesse, quello che segui il 1870 fu per l’Europa occidentale un periodo di pace, anzi il più lungo periodo di pace di cui il vecchio continente avesse mai goduto dagli albori dell'età moderna. Compiutisi i processi di unificazione nazionale italiano e tedesco, la carta politica d’Europa assunse un aspetto più definito e più stabile. Non per questo vennero meno i motivi di rivalità e di attrito, ma il teatro delle tensioni si sposto ai margini del continente, verso la penisola balcanica e il Mediterraneo, per poi allargarsi ai territori dell’Asia e dell’Africa, oggetto della grande competizione imperialistica degli ultimi decenni del secolo. Una volta affermata l’indiscussa egemonia sul continente dal Reich, gli obiettivi della politica tedesca mutarono radicalmente e Bismarck divenne il custode più geloso dell’equilibrio europeo. Lo scopo fondamentale era quello di isolare la Francia impedendole di stipulare un’alleanza con un’altra qualsiasi delle grandi potenze. Lo scopo fu raggiunto, in quanto, finche Bismarck rimase al potere, la Germania poté contare, da un lato, sulla tradizionale tendenza dell’Inghilterra a non impegnarsi sul continente europeo, se non per difendere i suoi interessi più vitali; dall’altro lato, riuscì a legare a se le altre due potenze maggiori – gli imperi di Russia e Austria-Ungheria (patto dei tre imperatori) – e la stessa Italia. Il patto dei tre imperatori aveva come mira non troppo nascosta la tutela degli equilibri conservatori all’interno dei singoli Stati. L’alleanza aveva pero un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e Russia nella penisola balcanica. Non appena nel 1875-76 l’esercito Turco intervenne in Bosnia, in Erzegovina e Bulgaria schiacciando repressioni slave con eccessiva violenza, la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, entro in guerra contro la Turchia e la sconfisse dopo una guerra durata quasi un anno, imponendole una pace onerosa (trattato di Santo Stefano). Questo accordo, che avrebbe sancito definitivamente l’egemonia russa sui Balcani, provoco pero l’immediata reazione dell’Austria e dell’Inghilterra. Fu a questo punto che Bismarck prese l’iniziativa di convocare un congresso fra le grandi potenze che fu tenuto a Berlino nell’estate del 1878. Grazie alla mediazione del cancelliere tedesco, si giunse ad un accordo che ridimensionava notevolmente i vantaggi già ottenuti dalla Russia. Serbia e Montenegro conservarono l’indipendenza (come la Bulgaria anche se entro confini più ristretti). La Bosnia e l’Erzegovina furono dichiarate autonome ma affidate in amministrazione temporanea all’Austria. La Gran Bretagna ottenne l’isola di Cipro. Scongiurato il pericolo di un conflitto europeo, la diplomazia bismarckiana si impegno nella difficile impresa di rimettere insieme l’alleanza con Austria e Russia. L’intesa fu raggiunta sulla base di una divisione dei Balcani in zone di influenza e, nel 1881, fu firmato un nuovo patto dei tre imperatori. L’anno seguente 1882 il complesso edificio diplomatico fu completato dalla stipulazione della Triplice alleanza, che univa la Germania all’Austria-Ungheria e all’Italia e sanciva l’ingresso di quest’ultima nel sistema di alleanze tedesco. Dal punto di vista istituzionale, il Reich tedesco era un organismo piuttosto complesso, fondato in apparenza su larghe autonomie, ma in realtà strettamente accentrato intorno al nucleo della vecchia Prussia. Le grandi scelte politiche erano di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere e responsabile di fronte all’imperatore, mentre alla Camera (Reichstag) spettava il solo potere legislativo (su cui prevaleva il potere esecutivo sostanzialmente in mano a imperatore e cancelliere). Il potere del cancelliere si fondava su un solido blocco sociale imperniato sull’alleanza fra il mondo industriale e bancario e l’aristocrazia terriera e militare. La forma accentrata e autoritaria del potere e la schiacciante preponderanza degli interessi conservatori nella gestione dello Stato non impedirono tuttavia la nascita di nuove formazioni politiche, quali il Centro cattolico e il Partito socialdemocratico. La lotta di Bismarck contro i cattolici (Kulturkampf) ebbe la sua acme negli anni 1872-75, quando il governo del Reich emano una serie di misure colte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato ma anche a porre sotto sorveglianza l'attività del clero cattolico. La battaglia scatenata da Bismarck ebbe pero l’effetto di stimolare l’orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che, sotto la guida di un leader di grandi capacita, Ludwig Windthorst, riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare. Bismarck fu indotto, cosi, ad attenuare le misure anticattoliche e più tardi a varare una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente. La ritirata, che in pratica segnava il fallimento del KulturKampf, fu imposta dal cancelliere dalla necessita di fronteggiare la nuova e temibile minaccia che veniva dall’ascesa della socialdemocrazia (gravi limitazioni alle libertà di stampa e di riunione e illegalità per tutte le associazioni aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell’ordinamento statale o sociale esistente). Ma Bismarck non si limito a misure repressive approvando anche alcune leggi di tutela delle classi lavoratrici (assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, malattie e vecchiaia). Si trattava dunque di un riformismo conservatore in cui le leggi sociali bismarckiane davano soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia ma al tempo stesso rifiutavano di legittimarne la rappresentanza organizzata. Il cancelliere tedesco mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna. Ma l’affermazione socialdemocratica, anche con un forte movimento sindacale, sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio ed ebbe non poca parte nel provocare l’allontanamento dal governo dell’onnipotente cancelliere. Dopo i traumi della sconfitta e della guerra civile. La Francia non tardo a rivelare segni di ripresa (introduzione del servizio militare obbligatorio, ultimato con anticipo il pagamento dell'indennità di guerra ai tedeschi). Verso la fine degli anni ’70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale cominciando ad incamminarsi sulla strada delle conquiste coloniali. Se la ricostruzione economica fu relativamente rapida, assai più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. Nonostante l’Assemblea nazionale, incaricata di redigere la nuova costituzione, fosse maggiormente favorevole alla restaurazione della monarchia, un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentirono il varo di una costituzione repubblicana. La costituzione della Terza Repubblica del ’75 costituì un indubbio successo per i repubblicani moderati (gli “opportunisti”, facenti capo a Gambetta e Jules Ferry) che nelle elezioni del 1876 riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice, assicurandosi la maggioranza. Nell’ estate del 1877, il presidente della Repubblica Mac Mahon cerco di opporsi a questa tendenza facendo ricorso all’arma dello scioglimento della Camera; ma le nuove elezioni confermarono la maggioranza repubblicana. Fu quindi sotto la guida dei governi repubblicano-moderati che la Francia pota consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla guerra civile del ’71 e ad evolversi nonostante l'instabilità dei governi e i frequenti scandali politico-finanziari. Un caso famoso fu quello di Georges Boulanger che si mise a capo di un vasto ed eterogeneo movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario antiparlamentare che ebbe pero breve durata. Nel periodo successivo al 1848, la Gran Bretagna visse una lunga stagione di stabilita politica e tranquillità sociale, oltre che di notevole prosperità economica tanto da farne la più progredita tra le grandi potenze europee. Il ventennio 1848-66 segno un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare: cioè di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo l’arbitro indiscusso della vita politica. Il sistema parlamentare non era pero sinonimo di democrazia: in Gran Bretagna molti poteri spettavano ancora alla Camera dei Lords, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia. La stessa Camera dei Comuni, o Camera elettiva, era espressione di uno strato piuttosto ristretto della popolazione e alla corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell'identità nazionale, che si manifesto pienamente nel corso del lunghissimo regno della regina Vittoria (1837-1901). La riforma elettorale rappresento in questo periodo il principale oggetto di dibattito nella vita politica britannica. Nel 1865 William Gladstone, alla guida dei liberali, presento un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto; la resistenza dell’ala moderata del partito provoco pero la caduta del governo e il ritorno al potere dei conservatori che sotto la spinta di Benjamin Disraeli assunsero l’iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone. (Reform Act: varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale ammettendo lavoratori urbani). Ma nelle elezioni del 1868 i conservatori furono sconfitti e Gladstone ritorno al potere a capo di un governo decisamente orientato in senso progressista (fino al 1874 riforme su istruzione pubblica, esercito, amministrazione pubblica e ruolo chiesa anglicana). La stagione delle riforme non fu interrotta dal ritorno al potere dei conservatori nel 1874. Disraeli diede una decisa priorità alla politica coloniale, seguendo il clima bismarckiano, ma cerco anche il consenso delle masse popolari con importanti provvedimenti in materia di assistenza ai lavoratori. L’esperimento del conservatorismo popolare si concluse nel 1880 quando Disraeli, criticato per alcuni insuccessi coloniali e per la questione d’Oriente, lascio il potere a Gladstone che allargo ancora il corpo elettorale e si dedico alla risoluzione della questione irlandese. L’Irlanda vide aggravare le sue condizioni alla fine degli anni ’70 in conseguenza della crisi del mondo agricolo che scateno movimenti nazionali e azioni terroristiche condotte dall’ala estremista e repubblicana. Per fronteggiare Gladstone tento dapprima la strada della riforma agraria (Land Act), ma poi si convinse che l’unico vera soluzione stava nella concessione all’Irlanda di un’ampia autonomia politica. Ma il suo progetto di Home Rule (autogoverno) falli e provoco la caduta del governo. All’altro estremo d’Europa il primato dell’arretratezza spettava indubbiamente all’Impero russo. All’inizio degli anni ’50 più del 90% della popolazione era occupato nell’agricoltura e oltre 20 milioni di contadini erano soggetti alla servitù della gleba. L’organizzazione del lavoro agricolo era fondato sui mir: comunità di villaggio in cui contadini, subordinati ai proprietari cui dovevano fornire un canone, coltivavano un terreno controllati da assemblee di capifamiglia. L’impero zarista era inoltre l’unico assolutamente privo di istituzioni rappresentative, schiavo di un singolare immobilismo sociale e politico. Sulla questione si opponevano i pensieri di occidentalisti (che vedevano nell’adozione dei modelli politici occidentali una speranza di risollevarsi) e slavofili (che si schieravano contro il razionalismo e l’individualismo della cultura occidentale, richiamandosi alle tradizioni dei popoli slavi, alla religione ortodossa e alle antiche istituzioni comunitarie). Gli occidentalisti intravidero uno spiraglio quando nel 1855 sali al trono imperiale Alessandro II. Il nuovo zar inizio il suo governo varando riforme per modernizzare burocrazia, scuola, sistema giudiziario ed esercito. Ma la riforma di gran lunga più importante fu l’abolizione della servitù della gleba grazie alla quale i servi acquistavano libertà personale con il diritto di riscattare le terre che coltivavano trasformandosi in piccoli proprietari. Ma questa iniziativa deluse le aspettative con molti contadini che rinunciarono all’acquisto delle terre (terre più piccole di quelle che coltivavano prima e prezzi troppo alti per il riscatto). La delusione dei contadini sfocio in vere e proprie ribellioni che portarono dunque ad un nuovo appesantimento del clima politico e inasprimento della censura e dei controlli polizieschi. Questo accentuo la frattura tra il potere statale e la borghesia colta. Le giovani generazioni si divisero tra nichilisti (individualismo anarchico e pessimista) e populisti. 6. I NUOVI MONDI: STATI UNITI e GIAPPONE Intorno alla metà del XIX secolo gli Stati Uniti erano un paese in crescente espansione, benché attraversato da forti differenze tra le diverse zone. Esistevano infatti tre diverse società ciascuna col suo sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni culturali. C’erano innanzitutto gli stati del Nord-Est, sede delle prime colonie britanniche e nucleo originario dell’Unione. Era la zona più progredita, più ricca e industrializzata (influenzata dal capitalismo imprenditoriale), dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), dove si concentravano i commerci con l’Europa e dove principalmente si indirizzava l’ondata migratoria. Quella degli Stati del Sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista, che fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone in cui lavoravano milioni di schiavi neri. A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi agricoltori e allevatori di bestiame che popolavano gli Stati dell’Ovest. Fu proprio l’Ovest a costituire il pomo della discordia, e al tempo stesso l’elemento risolutore nel contrasto che, a partire dalla metà del secolo, oppose il Nord industriale e il Sud schiavistico. L’idea stessa della schiavitù mal si conciliava con la mentalità democratica diffusa fra le popolazioni del Nord; ma era anche incompatibile con la filosofia di un capitalismo moderno e con la sua esigenza di disporre di una manodopera mobile e di un mercato interno in espansione. Su queste premesse si inserì l’acutizzarsi dello scontro sulla schiavitù legato alla possibilità di introdurla nei territori di nuova acquisizione. L’estensione dell’economia delle piantagioni ai nuovi territori era richiesta dai piantatori del Sud, che volevano allargare la coltura del cotone alle terre vergini, dove i rendimenti erano più alti; ma incontrava forti opposizioni nell’opinione pubblica del Nord e fra i coloni dell’Ovest, che chiedevano terre a buon mercato, o addirittura in uso gratuito, per diffondervi la coltivazione dei cereali. Lo scontro sulla questione della schiavitù fece sentire i suoi effetti anche in campo politico dove la scena fin da allora dominata dal partito democratico vedeva l’ascesa del nuovo Partito repubblicano. Qualificandosi in senso decisamente antischiavista e accogliendo nella sua piattaforma politica sia le rivendicazioni degli industriali (dazi doganali più alti), sia quelle dei coloni dell’Ovest (distribuzione gratuita dei terreni demaniali), il nuovo partito conquistò un seguito sempre crescente. La vittoria del repubblicano Abraham Lincoln alle elezioni presidenziali del ’60 fece precipitare il contrasto tra Nord e Sud. Nonostante Lincoln avesse negato, nella sua campagna elettorale, qualsiasi intenzione di abolire la schiavitù dove essa già esisteva, undici Stati del Sud decisero tra il dicembre ’60 e il maggio ’61 di staccarsi dall’Unione e di costituirsi in una Confederazione indipendente che ebbe come capitale Richmond in Virginia. La secessione, imposta da una minoranza intransigente a una popolazione incerta e divisa, non poteva non suscitare la reazione del potere federale. Non vi era dunque alternativa alla guerra civile (1861-65), che ebbe inizio nell’aprile 1861 quando le forze confederate (ossia i secessionisti del Sud) attaccarono la piazzaforte di Fort Sumter, nella Carolina del Sud, occupata dall’esercito unionista. Scegliendo la strada dello scontro, i confederati facevano assegnamento sulla migliore qualità delle loro forze armate. Ma speravano anche in un intervento a loro favore della Gran Bretagna, che era la principale acquirente del cotone del Sud e non vedeva di buon occhio i programmi protezionisti dei repubblicani. Gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante superiorità numerica della loro popolazione e sul maggior potenziale economico. Dopo i primi successi sudisti la guerra si concluse il 9 aprile 1865 con la vittoria dell’esercito unionista che occupava buona parte del Sud. Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un fanatico sudista. Per vincere questa lunga e cruenta guerra, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse economiche ma anche mobilitare tutte le energie politiche disponibili, spingendosi oltre i loro programmi iniziali. Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente ai cittadini che ne facessero richiesta quote di terre del demanio statale. L’anno dopo fu decretata la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud (anche per favorirne l’arruolamento nell’esercito unionista). Ma la rivoluzione democratica implicita nell’esito della guerra di secessione fu ben lontana dal compiersi interamente: la legge del ’62 sulle terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra, e gli schiavi acquistarono libertà ma le loro condizioni economiche non migliorarono più di quelle dei servi della gleba russi. La vittoria nordista e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, ne poterono cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud fu sottoposto a un regime di vera e propria occupazione militare che scateno una reazione di rigetto da parte dei sudisti che si espresse in forma di lotta clandestina. Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli anni ’70, significo anche il ritorno all’indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione di fatto. Negli ultimi decenni dell’800, gli Stati Uniti conobbero un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell’Ovest: intorno al 1890 la conquista del West poteva considerarsi compiuta, la frontiera coincideva ormai con la costa del Pacifico e la nazione americana aveva raggiunto l’estensione attuale. Vittime principali della corsa all’Ovest furono le tribù dei pellirosse, che si videro restringere progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potevano muoversi liberamente. Sempre in questo periodo la popolazione statunitense aumento quasi del doppio (da 39 a 62 milioni) grazie anche all’afflusso di immigrati provenienti dall’Europa e alla politica di porte aperte attuata dal governo federale per soddisfare il bisogno di manodopera. Sul piano della politica estera, gli Stati Uniti si limitarono per tutto l’800 a una interpretazione difensiva della “dottrina Monroe” con la quale affermavano il loro ruolo di custodi degli equilibri del continente contro qualsiasi ingerenza esterna, senza neppure un grande coinvolgimento nelle vicende dell’emisfero meridionale del continente. Unica eccezione fu l’aiuto dato ai repubblicani messicani contro il tentativo di egemonia francese in Messico(1864-67). L’isolamento della Cina dal resto del mondo fu violentemente interrotto, alla meta dell’800, dalla pressione esercitata, dopo le due guerre dell’oppio (1839-42 e 1856-60), dagli Stati europei (soprattutto dall’Inghilterra), che imposero al paese l’apertura al commercio straniero. Diverse furono invece, in Giappone, le conseguenze dell’impatto con l’Occidente. Anche qui fu la costrizione a permettere, dopo i “trattati ineguali” del 1858, la penetrazione economica delle grandi potenze. Ma l’umiliazione subita spinse i grandi feudatari e i samurai a una rivolta contro lo shogun, che di fatto esercitava il potere di sovrano assoluto relegando l’imperatore ad un ruolo puramente simbolico. La restaurazione Meiji (1868) si risolse in una modernizzazione accelerata dell’intera società giapponese: una rivoluzione dall’alto che coinvolse l’economia e la legislazione, il sistema politico e i rapporti sociali, e che consenti al Giappone di compiere in pochi anni la transizione dal feudalesimo allo Stato moderno. 7. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE L’ultimo trentennio dell’800 vide una profonda trasformazione economica: seconda rivoluzione industriale. La crisi di sovrapproduzione del 1873 dette inizio ad una fase di rallentamento dello sviluppo durata oltre un ventennio. La prolungata caduta dei prezzi che le si accompagnò era però conseguenza soprattutto di profonde trasformazioni organizzative e innovazioni tecnologiche. Vari fattori, tra cui la diminuzione dei prezzi e l’acuirsi della concorrenza internazionale, portarono allo sviluppo delle grandi concentrazioni produttive e finanziarie e a una stretta compenetrazione tra banche e industrie. Si affermava contemporaneamente nei vari Stati una politica di appoggio all’economia nazionale attraverso il protezionismo e una maggiore aggressività sul piano dell’affermazione economica all’estero, che fu tra le principali cause della politica di espansione coloniale seguita dalle maggiori potenze. Gli effetti più gravi della caduta dei prezzi si ebbero nell’agricoltura. Qui i progressi tecnici rimasero limitati ad alcune aeree europee più sviluppate. Diverso, invece, perché privo di tali squilibri, il rilevante sviluppo agricolo degli Stati Uniti, i cui prodotti a buon mercato inflissero un durissimo colpo alla più arretrata agricoltura europea. Di conseguenza nelle campagne d’Europa aumentarono la conflittualità sociale e l’emigrazione (soprattutto quella transoceanica che conobbe un vero e proprio boom). Anche la crisi agraria spinse in direzione di politiche doganali che proteggessero la produzione nazionale della concorrenza estera. Nel complesso, comunque, il calo dell’agricoltura in rapporto al complesso delle attività economiche fu comune a tutti i paesi industrializzati. Caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu la stretta integrazione fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e attività produttive. Il rinnovamento tecnologico si concentrò nelle industrie giovani: chimica, elettrica, dell’acciaio (la prima rivoluzione industriale del secolo precedente era stata invece dominata da cotone e ferro). Soprattutto gli sviluppi della chimica aprirono nuove prospettive un po’ in tutti i settori produttivi: dalla produzione di alluminio a quella di prodotti intermedi (come acido solforico e soda) con impieghi estesissimi, dalle fibre tessili artificiali ai nuovi metodi di conservazione degli alimenti. L’invenzione del motore a scoppio e la produzione di energia elettrica furono tra le caratteristiche salienti della seconda rivoluzione industriale. L’energia elettrica, in particolare, forniva una nuova importante forza motrice per gli usi industriali, e rivoluzionava – anzitutto con l’illuminazione – la vita quotidiana. Questo periodo vide anche la trasformazione scientifica della medicina dovuta a quattro fattori: prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste; identificazione dei microrganismi; progressi della farmacologia; nuova ingegneria ospedaliera. I progressi della medicina e dell’igiene, sommandosi allo sviluppo dell’industria alimentare, determinarono in Europa una riduzione della mortalità. Nonostante il calo delle nascite verificatosi nei paesi economicamente più avanzati, si ebbe così un sensibile aumento della popolazione 8. IMPERIALISMO e COLONIALISMO Vari fattori determinarono, negli ultimi decenni dell’800, quella corsa alla conquista coloniale che costituì il più caratteristico tratto dell’imperialismo europeo. Vi fu certamente la spinta esercitata dagli interessi economici (ricerca di materie prime a basso costo e di sbocchi per i prodotti industriali e i capitali d’investimento), ma non meno importante fu l’affermarsi di tendenze politico- ideologiche che affiancavano a un acceso nazionalismo la fede nella missione civilizzatrice dell’uomo bianco. Nel corso della sua espansione coloniale, l’Europa portò in tutto il mondo l’impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne porto la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall’uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene. Soprattutto nell’Africa nera, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri. Dal punto di vista economico, l’esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo depauperamento di risorse materiali e umane, insomma di un vero e proprio sfruttamento coloniale. Tuttavia gli effetti della conquista non furono sempre e solo negativi: sul piano economico, essa significo anche, in molti casi, un inizio di modernizzazione, sia pure finalizzata agli interessi dei dominatori; su quello culturale, alcuni paesi con tradizioni e strutture politico-sociali più solide riuscirono a difendere la loro identità ovvero ad assimilare aspetti della cultura dei dominatori; sul piano politico, infine, la colonizzazione, a più o meno lunga scadenza, favori il formarsi di nazionalismi locali che avrebbero alimentato la lotta per l’indipendenza. Agli inizi dell'età dell’imperialismo, gli europei avevano già numerosi possedimenti in Asia. Più importante di tutti, l’India, soggetta dal ‘700 alla dominazione della Gran Bretagna e affidata al controllo della Compagnia delle Indie, una compagnia privata che agiva pero come una diretta emanazione del governo inglese. A meta ‘800 il territorio controllato dalla compagnia era vastissimo: si estendeva su buona parte dell’area oggi occupata da India, Pakistan e Bangla Desh offrendo ampi sbocchi di mercato per i manufatti provenienti dalla Gran Bretagna, verso la quale esportava grandi quantità di te e cotone. I tentativi inglesi di avviare un prudente processo di modernizzazione, diffondendo la lingua inglese e la cultura occidentale e combattendo alcune delle pratiche più barbare della religione induista, provocarono in più di un caso reazioni di stampo tradizionalistico-religioso, cui il governo britannico rispose con una sanguinosa repressione e con la riorganizzazione della colonia sotto diretta amministrazione della corona (soppressa la Compagnia delle Indie, il paese passo sotto la diretta amministrazione di un viceré). L’apertura del canale di Suez, nel 1869, diede nuovo impulso alla penetrazione europea in Asia. La Francia, per concorrenze ed emulazione nei confronti della Gran Bretagna, penetro in Indovina (abitata ai tempi da popolazioni di religione buddista e suddivisa in una serie di regni di cui i più importanti erano Annam, Siam e Cambogia). Nel 1862 i francesi occuparono la Cocincina, ossia la parte meridionale del Regno dell’Annam e, l’anno dopo, imposero il protettorato alla Cambogia. In una seconda fase (anni ‘80), dopo una guerra biennale con la Cina (1883-85), la Francia riuscì ad estendere il suo protettorato a tutto l’Annam. In risposta la Gran Bretagna, per evitare che la Francia giungesse a ridosso dell’India, occupo il regno di Birmania. La Francia rispose assicurandosi il Laos. Quanto al Siam, Gran Bretagna e Francia si accordarono per mantenerlo indipendente, come Stato-cuscinetto. Se sul fianco orientale dell’India, la Gran Bretagna doveva guardarsi dalla Francia, su quello nord-occidentale doveva preoccuparsi della Russia (che seguiva due direttrici di espansione: una verso Siberia ed Estremo Oriente, l’altra verso l’Asia centrale). La colonizzazione russa della Siberia, ebbe un decisivo impulso già a partire dagli anni ’30, fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo dell'autorità statale: nei primi cinquant’anni dell’800 la Siberia vide più che raddoppiata la sua popolazione e notevolmente incrementare le attività produttive e commerciali. Si accentuava nel frattempo la spinta della Russia a consolidare le proprie posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico. Il governo zarista ritenne invece opportuno rinunciare all’Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il territorio, il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista economico e militare, fu cosi venduto nel 1867 agli Stati Uniti per sette milioni di dollari. Nel 1891, quasi a sancire il completamento di uno sterminato impero che si estendeva senza soluzione di continuità dall’Europa al Pacifico, fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana. In Asia centrale, l’Impero zarista riuscì a incamerare, fra il 1876 e il 1885, l’intera regione del Turchestan. Nella zona compresa fra il Turchestan, il regno dell’Afghanistan e il Pakistan settentrionale, Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a lungo, in una sorta di guerra per procura combattuta attraverso le tribù locali. Nel 1885 le due potenze giunsero ad un accordo, con cui si definivano le frontiere tra il Turchestan e il Regno dell’Afghanistan, che veniva mantenuto indipendente, ma assegnato alla sfera di influenza inglese. Anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero inglobati negli imperi coloniali (Fiji, Salomone, Marianne agli inglesi, la Nuova Guinea divisa tra tedeschi e inglesi). Ma intanto nell’area del Pacifico si andavano affacciando due nuove potenze con ambizioni egemoniche: Giappone e Stati Uniti. Il Giappone si affaccio prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica in Asia. Nel 1894, in seguito a contrasti che avevano per oggetto la Corea, uno stato fin allora vassallo della Cina, i giapponesi mossero guerra all’Impero cinese e lo sconfissero per terra e per mare, dando una prima prova della loro efficienza bellica. La Cina dovette rinunciare ogni influenza sulla Corea e cedere al Giappone vari territori, fra cui l’isola di Formosa. Le potenze occidentali cercarono da un lato di contenere i successi del Giappone, dall’altro profittarono dell’ennesima sconfitta della Cina per ritagliarsi nel paese nuove zone di influenza economica. La prospettiva di uno sgretolamento dell’Impero provoco per reazione la nascita di un movimento conservatore, nazionalista e xenofobo che si proponeva la restaurazione integrale delle antiche tradizioni imperiali (rivolta dei boxers). Nati essi stessi da una rivoluzione anticoloniale, gli Stati Uniti d’America non potevano seguire il modello del colonialismo all’europea, tradendo gli ideali di libertà su cui si era costruita la nazione americana. Gli americani praticavano dunque una sorta di “imperialismo informale” fondato essenzialmente sull’esportazione di merci e di capitali e su un controllo prevalentemente indiretto dei territori. L’espansionismo statunitense si esercito in due direzioni: la prima verso il Pacifico, la seconda verso l’America Latina. La prima manifestazione della nuova politica di potenza degli Stati Uniti si ebbe con l’intervento a Cuba dove, dal 1895, una violenta rivolta scateno la dura repressione dei dominatori spagnoli che suscito vivaci reazioni nell’opinione pubblica ma soprattutto preoccupazione per le piantagioni di canna da zucchero. L’affondamento, nel febbraio 1898, di una corazzata americana nel porto dell’Avana, porto cosi alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia alla tutela degli Stati Uniti. La Spagna fu inoltre costretta a cedere Portorico e l’intero arcipelago delle Filippine. Sempre nel ’98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall’annessione delle isole Hawaii, un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Fu in Africa che l’espansione coloniale si verifico con la velocità più sorprendente, portando nel giro di pochi decenni (1870 1/10 colonizzato –1900 9/10 colonizzati) alla conquista quasi completa (sotto forma di colonie o protettorati) di tutto il continente. I primi atti della nuova espansione, che contribuirono ad innescare la corsa alla conquista, furono l’occupazione francese (già padrona della vicina Algeria) della Tunisia, nel 1881, e quella inglese dell’Egitto (fondamentale per la Gran Bretagna dopo l’apertura del canale di Suez) nel 1882. Negli anni ’70, sia l’Egitto che la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione che avevano finito pero col dissestare le finanze dei due paesi e col far salire a livelli altissimi il debito nei confronti delle banche europee. Per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Inghilterra, principali paesi creditori, scelsero la strada dell’intervento militare. La prima a muoversi fu la Francia che trasse pretesto da un incidente avvenuto nella primavera del 1881 alla frontiera con l’Algeria per inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato. Nell’estate del 1882, in seguito allo scoppio di moti antieuropei ad Alessandria (ripercussioni legate alla nascita di un forte movimento nazionalista guidato da Arabi Pascià), il governo inglese, presieduto da Gladstone, invio in Egitto un corpo di spedizione che sconfisse le truppe guidate da Arabi Pascià e assunse il controllo del paese. Da allora l’Egitto, pur conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto una semicolonia britannica. Ben presto gli inglesi si ritrovarono impegnati nel vicino Sudan, vastissimo territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal profeta Mohammed Ahmed che lancio le tribù sudanesi in una guerra santa contro le forze angloegiziane, sconfiggendole a più riprese, conquistando nel 1885 la città di Khartum e fondando un proprio Stato che gli inglesi sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898. L’azione unilaterale dell’Inghilterra in Egitto provoco il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio, e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell’Africa nera. I primi contrasti si delinearono nel bacino del Congo dove re Leopoldo II del Belgio si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di importanti giacimenti minerario nel Katanga, il sovrano belga cerco di consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull’Atlantico trovando pero l’opposizione del Portogallo. La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale convocata a Berlino per iniziativa di Bismarck (1884-85) che oltre a dare una prima sanzione alla spartizione dell’Africa, codifico le norme che avrebbero dovuto regolarla anche nell’avvenire. Il principio adottato fu quello della effettiva occupazione, come unico atto a legittimare il possesso di un territorio (anche se non fece altro che lasciare margini di incertezza e accelerare la corsa all’occupazione di territori economicamente e strategicamente interessanti). In concreto la conferenza riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sullo Stato libero del Congo e gli assegno un piccolo sbocco sull’Atlantico. In Africa occidentale, la Germania si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun; l’Inghilterra ebbe il controllo del basso Niger, mentre la Francia si assicuro il possesso dell’altro corso del fiume. Partendo da questa regione i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in gran parte desertici, che si estendevano dall’Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo al Mediterraneo (in pratica tutta la zona nord-occidentale del continente). La Gran Bretagna concentro invece le sue mire sull’Africa sudorientale, importante per il controllo dell’Oceano Indiano. L’obiettivo era quello di saldare i possedimenti inglesi a sud dell’equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi un dominio ininterrotto dall'estremità meridionale a quella settentrionale del continente. Questo disegno, pero, si scontrava con la presenza della Germania che dal 1885 si era assicurata il controllo del Tanganika, a sud del lago Vittoria. Il contrasto fu regolato da un accordo nel 1890: l’Inghilterra riconobbe l’Africa orientale tedesca, rinunciando al sogno del dominio “dal Capo al Cairo”, ricevendo in compenso l’Oceano Indiano, e ottenendo di tener lontana la Germania dalla regione dell’alto Nilo, considerata essenziale per il controllo dell’Egitto. Ma proprio in questa regione gli inglesi si trovarono in rotta di collisione con i francesi che, nella loro avanzata, si erano spinti fino al Sudan. Nel settembre 1898, un contingente dell’esercito britannico si incontro con una colonna francese che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L’incontro rischio di trasformarsi in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili, ma il governo francese, non preparato a una guerra, acconsenti di ritirare le sue truppe e ad accantonare le sue mire sulla regione (sancendo di fatto una distensione nei rapporti franco-inglesi). All’inizio del ‘900, la spartizione dell’Africa era pressoché completa. Oltre alla piccola repubblica di Liberia restavano indipendenti solo l’Impero etiopico e, ancora non per molto, Libia e Marocco. Gli avvenimenti che portarono alla colonizzazione dell’Africa australe meritano una considerazione particolare. I boeri, discendenti degli agricoltori olandesi che nel XVII secolo avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza, erano caduti sotto la sovranità dell’Inghilterra al tempo delle guerre napoleoniche. Molti di loro, per sfuggire alla sottomissione, fuggirono verso nord dove fondarono le due repubbliche dell’Orange e del Transvaal. Ma la scoperta di nuovi giacimenti di diamanti e oro in queste due regioni (1885-86), risveglio l’interesse della Gran Bretagna che con Cecil Rhodes attuo una politica aggressiva. I boeri, temendo una ricolonizzazione e vedendo minacciato il carattere patriarcale e contadino della loro società si ribellarono. Nell’ottobre 1899 Paul Kruger, presidente del Transvaal, dichiaro guerra all’Inghilterra. I boeri combatterono con grande tenacia, ottenendo anche qualche successo, ma furono sconfitti nel maggio 1902. Nonostante i boeri condussero, anche dopo la sconfitta, una lotta di resistenza il governo britannico riuscì a realizzare una politica di pacificazione: Orange e Transvaal ottennero uno statuto di autonomia e, unite alla Colonia del Capo, diedero vita all’Unione Sudafricana. 9. STATO e SOCIETA nell’ITALIA UNITA Al momento dell’unità, l’Italia era abitata da circa 22 milioni di abitanti con un tasso medio di analfabetismo del 78%, con punte del 90% nel Mezzogiorno e nelle isole. L’agricoltura era l’attività economica nettamente prevalente nel paese; si trattava di un’agricoltura per lo più povera, caratterizzata da una grande varietà negli assetti produttivi: aziende agricole moderne nella zona della Pianura Padana (con le prime aziende capitalistiche che conciliavano agricoltura e allevamento dei bovini), mezzadria nell’Italia centrale (con terre di piccole e medie dimensioni che garantivano il mantenimento della famiglia che viveva e lavorava sul fondo e il pagamento del canone in natura dovuto al padrone), latifondo nel Mezzogiorno e nelle isole (dove si viveva di una agricoltura povera e polverizzata in piccolissimi appezzamenti e di un altrettanto povera pastorizia). La condizione di vita dei contadini era generalmente ai limiti della sussistenza fisica. Questa realtà di arretratezza economica e disagio sociale era assai poco conosciuta dalla classe dirigente. Il 6 giugno 1861, poche settimane dopo la proclamazione dell’unita, moriva a Torino a soli cinquant'anni il conte di Cavour. Il gruppo dirigente che eredito le redini del paese (piemontesi della vecchia maggioranza della Camera subalpina, moderati lombardi, emiliani e toscani) prosegui sostanzialmente l’opera di Cavour (politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme energicamente accentratrice, decisamente liberista in campo economico e laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa) pur senza il suo carisma e la sua genialità. Nei primi parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si collocava dunque a destra e come “Destra” venne definita nel linguaggio corrente. In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra – quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi – si era infatti autoesclusa dalle istituzioni del nuovo Stato in quanto non ne riconosceva la legittimità. Un fenomeno analogo si verifico sull’altro versante dello schieramento politico: la sinistra democratica. I mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all'attività politica ufficiale. Sui banchi dell’opposizione in Parlamento sedevano, assieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese, quei patrioti mazziniani e garibaldini che, in numero sempre crescente, decidevano di inserirsi nelle istituzioni monarchiche, sia pure per cambiarle. Nei primi anni dopo l’unita. La Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: il suffragio universale, il decentramento amministrativo e soprattutto il completamento dell’unita, da raggiungersi tramite la ripresa dell’iniziativa popolare. La sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita (gruppi piccolo e medio-borghesi, operai e artigiani del Nord) e, col passare degli anni venne allargando la sua base, fino a includere una serie di componenti eterogenee unite più che altro dall’avversione alla politica della Destra. Non bisogna dimenticare che Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un “paese legale” assai poco rappresentativo del “paese reale”. La legge concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini che avessero compiuto i venticinque anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno. Questo suffragio ristretto esasperava il carattere oligarchico e personalistico della vita politica e, come inevitabile conseguenza, accentuava l’isolamento della classe dirigente. La preoccupazione quasi ossessiva dell’unita da salvaguardare contro nemici veri o presunti condiziono pesantemente le scelte dei primi governi postunitari. I governanti stabilirono un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e si orientarono dunque verso un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro. La legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e provinciale, varata dal ministero La Marmora, affidava infatti il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina regia e faceva delle province le circoscrizioni amministrative più importanti, ponendole sotto lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo. Fra i motivi che spinsero la classe dirigente a scegliere questa soluzione e ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommo a una diffusa ostilità verso il novo ordine politico, che non aveva portato a nessun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale fare rapidamente causa comune con i conquistatori. Fin dall'estate del ’61, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale erano percorse da bande di irregolari, dove i briganti veri e propri si mescolavano ai contadini insorti, agli ex militari borbonici, ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri. I governi postunitari reagirono con spietata energia, rafforzando in primo luogo i contingenti militari già presenti nel Sud. Nel ’63 il Parlamento approvo una legge che istituiva, nelle province dichiarate in “stato di brigantaggio”, un vero e proprio regime di guerra. Rimasero pero irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Manco ai governi della Destra la capacita o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento: cause legate in gran parte alla mancata realizzazione delle secolari aspirazioni contadine alla proprietà della terra (che né la divisione dei terreni demaniali, né la vendita dei terreni dell’asse ecclesiastico riuscirono a risolvere). Parallelamente all’unificazione amministrativa e legislativa, i governi della Destra storica dovettero affrontare il problema, non meno complesso, dell’unificazione economica del paese. La linea liberista seguita dal governo e lo sviluppo delle vie di comunicazioni (in particolare rete ferroviaria) produsse un’intensificazione degli scambi commerciali che favori lo sviluppo dell’agricoltura e consenti l’inserimento del nuovo Stato nel contesto economico europeo. Nessun vantaggio immediato venne invece al settore industriale, che fu anzi nel complesso penalizzato dall’accresciuta concorrenza internazionale. Fu importante l’impegno della Destra nella creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico (strade e ferrovie). Dopo un ventennio di vita unitaria, l’Italia era senza dubbio una nazione più unita, più avanzata politicamente e civilmente rispetto a quella del 1861. Ma non era un paese molto più ricco di quanto non fosse al momento dell’unificazione e, sotto il profilo dello sviluppo industriale, aveva addirittura perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti. Se in alcuni settori sviluppo vi era stato, esso comunque non era andato a beneficio della stragrande maggioranza degli italiani, il cui tenore di vita non aveva registrato mutamenti di rilievo e, in alcuni casi, era addirittura peggiorato. Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale (esercitata sia attraverso imposte dirette sia attraverso la tassazione indiretta), dettata dalla necessità di coprire i costi dell’unificazione: spese ingenti nel campo delle comunicazioni, dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione e dell’esercito. La situazione si aggravo dopo il ’66 in conseguenza di una crisi internazionale e delle spese sostenute per la guerra contro l’Austria. Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato, che provoco violente agitazioni sociali in tutto il paese. Alla lunga la politica di duro fiscalismo e di inflessibile rigore finanziario avrebbe ottenuto gli effetti sperati (nel 1875 venne raggiunto il pareggio del bilancio statale) ma intanto il fronte degli scontenti si allargava. Il peso di questi malumori sarebbe stato decisivo nel provocare la caduta della destra. Fra i molti difficili compiti che i governi della Destra storica furono chiamati ad assolvere c’era anche quello di completare l’unita, di riunire cioè alla madrepatria quei territori abitati da popolazioni italiane che erano rimasti fuori dai confini politici del Regno: il Veneto, il Trentino e soprattutto Roma e il Lazio. Sulla necessità di portare a compimento l’unificazione erano tutti d’accordo, moderati e democratici: ma mentre i leader della Destra si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all’idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l’occasione per un rilancio dell’iniziativa democratica. I primi governi d’Italia unita cercarono di procedere sulla strada indicata da Cavour (libera Chiesa in libero Stato) avviando trattative informali col Vaticano in vista di una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale, in cambio della rinuncia al potere temporale e del riconoscimento del nuovo Stato. Le proposte cavouriane si scontrarono pero con l’intransigenza di Pio IX, in rotta definitiva col movimento nazionale italiano, e neppure il progetto di Bettino Ricasoli (successore di Cavour) ebbe miglior fortuna. Il fallimento di questi tentativi fini col ridare spazio all’iniziativa dei democratici: nel giugno 1862 Garibaldi rilancio pubblicamente il progetto di una spedizione contro lo Stato pontificio. Ma il disegno, coltivato anche dal re e dall’allora primo ministro Rattazzi, vide la dura risposta di Napoleone III che fece capire di essere deciso ad impedire con la forza un attacco contro Roma. Vittorio Emanuele II fu costretto cosi a sconfessare pubblicamente l’impresa garibaldina e a far intervenire l’esercito per bloccare sull’Aspromonte duemila volontari guidati da Garibaldi. Preoccupati di ristabilire buoni rapporti con la Francia, i governanti italiani riannodarono le trattative con Napoleone III e conclusero, nel settembre 1864, un accordo (Convenzione di settembre) in base al quale si impegnavano a garantire il rispetto dei confini dello Stato pontificio, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo decideva di trasferire la capitale da Torino a Firenze. Mentre erano ancora vive le discussioni sulla provvisoria rinuncia alla conquista del Lazio, all’Italia si presento inaspettatamente l’occasione di raggiungere la liberazione del Veneto grazie all’alleanza italo-prussiana offerta da Bismarck che si apprestava ad affrontare la guerra con l’Impero asburgico. La partecipazione italiana fu decisiva per l’esito del conflitto in quanto impegno una parte dell’esercito austriaco e rese quindi possibile la grande vittoria prussiana a Sadowa; ma l’inesperienza delle truppe, alla loro prima prova impegnativa, porto a due sconfitte clamorose contro le forze austriache (sia per terra – Custoza – sia per mare – Lissa – ). Nonostante i gravi insuccessi (che lasciarono pesanti strascichi sul piano finanziario e nell’opinione pubblica) l’Italia, grazie al successo prussiano, ottenne il Veneto dalla pace di Vienna del 3 ottobre 1866. La situazione venutasi a creare dopo l’esito deludente della guerra con l’Austria diede slancio ancora una volta all'attività dei gruppi democratici d’opposizione. Mazzini intensifico la propaganda per una rifondazione repubblicana dello Stato. Garibaldi ricomincio a progettare una spedizione a Roma, puntando sull’appoggio di un’insurrezione preparata dagli stessi patrioti romani, sperando cosi di giustificare il colpo di mano presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare cosi l’intervento francese. Ma i calcoli si rivelarono ancora una volta errati: l’insurrezione a Roma falli per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare, il governo francese invio un corpo di spedizione nel Lazio che sconfisse a Mentana le forze garibaldine. Il problema della conquista di Roma poté risolversi inaspettatamente con la caduta del Secondo Impero, che permise al governo italiano di mandare un corpo di spedizione nel Lazio e di avviare contemporaneamente un negoziato col papa per giungere a una soluzione concordata. Ma Pio IX rifiuto ogni accordo, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane, dopo aver aperto con l’artiglieria una breccia nella cinta muraria che allora circondava Roma e dopo aver sostenuto un breve combattimento con i reparti pontifici, entravano nella città presso Porta Pia, accolte festosamente dalla popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito sanzionava a schiacciante maggioranza l’annessione di Roma e del Lazio. Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma fu effettuato nell’estate dell’anno successivo, dopo che lo Stato italiano ebbe regolato con una legge il complesso problema dei rapporti con la Santa Sede (“legge delle guarentigie” - il Regno d’Italia si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale riconoscendo anche prerogative simili a quelle di un capo di stato: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo). L’invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato si trasformo nel 1874 in un esplicito divieto pronunciato dalla Curia romana e riassunto nella formula del NON EXPEDIT (non giova, non e opportuno che i cattolici partecipino alle elezioni politiche). Nella prima meta degli anni ’70 si verificarono nel quadro politico italiano significativi mutamenti. Aumento il numero dei deputati che non si collocavano né a destra né a sinistra, ma si definivano “indipendenti” o “di centro”. Accanto alla vecchia Sinistra piemontese, guidata da Agostino Depretis, e alla cosiddetta Sinistra storica (ex garibaldini come Crispi) veniva emergendo una Sinistra giovane, espressione di una borghesia moderata, poco sensibile alla tradizione democratico-risorgimentale e attenta piuttosto alla tutela dei propri interessi. Nel frattempo si accentuavano le fratture interne alla Destra che, il 18 marzo 1976, si presento divisa nella discussione alla Camera di un progetto governativo per il passaggio alla gestione statale delle ferrovie. Il governo Minghetti, messo in minoranza, presento le dimissioni e pochi giorni dopo il re chiamo a formare il nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero formato interamente da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell’anno, la Sinistra riporto un nettissimo successo. Con la cosiddetta rivoluzione parlamentare del marzo 1876, si apriva una nuova fase nella storia politica dell’Italia unita. Nel momento in cui arrivo al potere, la Sinistra parlamentare aveva fortemente attenuato la sua originaria connotazione radical-democratica fino ad accogliere nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Il protagonista indiscusso di questa fase politica fu il piemontese Agostino Depretis, già leader della Sinistra all’opposizione, che fu capo del governo per oltre dieci anni (con un intervallo 1878-81). Depretis riuscì a contemperare con molta abilita le spinte progressiste e le tend

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