Dispense sullo Shintō e sulle tradizioni religiose del Giappone PDF
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Sapienza Università di Roma
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Le dispense trattano lo Shintō e le tradizioni religiose giapponesi, analizzando il concetto di spazio sacro e la sua relazione con l'ecosistema, e le caratteristiche distintive della cultura giapponese. Si esaminano i concetti di ordine, caos, e l'interazione tra gli esseri umani e le divinità.
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SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA DIP. ISTITUTO ITALIANO DI STUDI ORIENTALI - ISO CATTEDRA DI RELIGIONI E FILOSOFIE DELL'ASIA ORIENTALE L-OR/20 DISPENSE SULLO SHINTŌ E SULLE TRADIZIONI RELIGIOSE...
SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA DIP. ISTITUTO ITALIANO DI STUDI ORIENTALI - ISO CATTEDRA DI RELIGIONI E FILOSOFIE DELL'ASIA ORIENTALE L-OR/20 DISPENSE SULLO SHINTŌ E SULLE TRADIZIONI RELIGIOSE DEL GIAPPONE1 LO SPAZIO La definizione dello spazio sacro in una cultura è sempre interdipendente con il relativo ecosistema. Il concetto di spazio sacro, come quello di spazio profano, si basano entrambi sulla stessa logica culturale. Nel corso dell'evoluzione umana si è passati da una percezione dello spazio dinamica, determinata dal sorgere dei cacciatori-raccoglitori, a una statica. Nella prima prevalgono concetti astrali e una concezione originalmente caotica dell'universo e del mondo, fino alla comparsa di eroi civilizzatori che trasformano il caos in una dimensione controllata e vivibile. Per quanto riguarda il Giappone, sono giocoforza le isole a determinare la concezione del mondo come l'unica possibile. All'inizio questo mondo è caotico, ma poi grazie all'azione del dio Susanoo, in seguito alle prove iniziatiche che egli deve sostenere per diventare un eroe fondatore, il mondo assume un aspetto pacifico. L'azione ordinatrice svolta nel corso dei secoli dalla cultura giapponese è incentrata sulla coltivazione del riso, nella fattispecie di un tipo detto bagnato; quando questa si sostituisce alla dimensione di caccia e raccolta, a partire dal 300 a.C., compaiono anche nuove tecnologie, quali la ceramica e l'arte di fondere i metalli. Dunque è la risaia, TA, che qualifica lo spazio e che lo rende controllato e controllabile in maniera utile e positiva. A questa si aggiunge il ruolo dell'acqua, che opportunamente incanalata e dosata diventa strumento essenziale per la vita. L'equilibrio necessario alla realizzazione di raccolti conduce poi a un concetto altrettanto fondamentale di ordine fisso: le risaie si sviluppano prima di tutto in senso orizzontale e poi in quello verticale. 1 Queste dispense sono state elaborate in base al testo di Massimo Raveri Itinerari nel sacro. L'esperienza religiosa giapponese, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2006, a cui si rimanda per gli opportuni riferimenti. 1 L'intensità, sia delle coltivazioni che dei villaggi rurali (buraku) posti al centro delle coltivazioni, rappresenta la modalità preferita. Il luogo abitato e la campagna circostante, considerati come un insieme unico, rappresentano il SATO, ossia ciò che è dentro, l'interno, il controllato, il definito, la dimensione degli esseri umani. Per contro la montagna, YAMA, rappresenta quell'aspetto del mondo che è incontrollato, impervio, difficile, inospitale, la dimensione della natura che viene rivestita di simboli e concetti specifici. Il termine YAMA è associato alla morte, alla sepoltura, agli spiriti dei morti, al mondo non umano in genere. Questa non umanità è tuttavia mediata dall'acqua che scende dalla montagna e che la investe di positività, perché permette la vita. Come in tutte le culture a sfondo sciamanico, la montagna rappresenta l'asse del mondo, il punto di contatto fra il cielo e la terra, e fra gli dèi e gli esseri umani. Ciò è dimostrato in Giappone dal ritrovamento di reperti quali specchi e gioielli, detti MAGATAMA che venivano utilizzati dalle sciamane come supporto per la trance estatica. Nella tradizione degli YAMABUSHI (coloro che si sono ritirati sulle montagne) propria del movimento dello SHUGENDO, che si consolida verso la fine del XII secolo, la montagna rappresenta il vero fulcro della vita e delle attività ascetiche e iniziatiche, anche per gli uomini santi detti HIJIRI, e dunque di liberazione spirituale. Già in epoca Heian (794-1185) questa distinzione spaziale era ben definita attraverso i concetti di ARA (selvatico, selvaggio, imprevedibile, pericoloso) e NIGI (ordinato, adattato, pacifico), ove il primo è il regno dei morti, degli spiriti, degli dèi, della solitudine, e del timore reverenziale, mentre il secondo è "coltivato", quindi posto sotto il controllo dell'essere umano. Il rito più emblematico relativo a questa distinzione spaziale è quello detto OKONAI; durante questo rito, nella notte del primo giorno dell'anno, i capi villaggio salgono fino alle pendici della montagna, e sul limitare della foresta delimitano lo spazio sacro. Qui può entrare solo il TOYA, il capo villaggio, tenendo in mano due statue di divinità, una maschile ed una femminile, le quali rappresentano rispettivamente il dio della risaia e la dea della montagna. Egli le congiunge simbolicamente, cospargendole di sake, bevanda degna di essere offerta agli dèi, determinandone l'unione ierogamica. In seguito tutti fanno offerte mentre un officiante recita le formule liturgiche, i NORITO. Troviamo già qui due elementi importantissimi che compaiono nella cultura non solo sacra ma anche sociale del Giappone: il primo riguarda l'identificazione di tutto ciò che è "selvatico" con la donna e di tutto ciò che è "ordinato" con l'uomo; l'altro è il ruolo di determinazione dell'esistenza o meno degli dèi da parte degli esseri umani. Tuttavia la dicotomia che esiste fra i due spazi non è considerata ineluttabile e da mantenersi a tutti i costi; anzi, è concepita come una interazione dinamica e mediata che attraverso parametri codificati considerati giusti e appropriati porta all'equilibrio mediato e all'armonia - altri due concetti fondamentali nella cultura giapponese. 2 Per questo il santuario, JINJA, di un villaggio è costruito al limitare della foresta, ossia nel punto di confine fra le due dimensioni. Il santuario in generale, a differenza di come noi lo intendiamo in occidente, non è la residenza della divinità bensì il luogo di incontro fra la divinità e gli esseri umani; questo è un concetto molto importante da tener presente. Un altro luogo importante per le stesse ragioni è l'imboccatura della prima risaia, ossia il punto più alto della coltivazione dove l'acqua scende dalla montagna. Qui, in primavera, i contadini piantano i GOHEI (bastoncini di legno con carta o stoffa intrecciata), che simboleggiano la presenza del dio, e fanno offerte di cibo e di fiori. Quando le cerimonie si svolgono nello spazio di un villaggio, il punto di partenza è quello della casa del capo villaggio, considerato spazio sacro della comunità, da cui si dipartono le processioni che salgono fino al limitare della foresta e che hanno lo scopo di dare il benvenuto alla divinità per condurla in basso, racchiusa nel suo palanchino detto MIKOSHI. Il luogo sacro è sempre ben definito; ma è uno spazio anomalo, perché non appartiene né alla dimensione degli dèi, o spiriti, né a quella degli esseri umani; è come una camera di decompressione, necessaria affinché le due dimensioni non si contaminino a vicenda e non entrino in contatto diretto, se non in modo assolutamente voluto e controllato. Per delimitare uno spazio sacro e indicare un punto in cui le divinità possono essere contenute e rivelate si fa uso di corde di paglia intrecciata, SHIMENAWA; queste possono essere poste attorno ad alberi, rocce, cascate, e anche attorno alla casa del capo villaggio. L'accesso allo spazio sacro da parte dell'essere umano è sempre ascendente e regolato e ordinato da percorsi fissi, obbligati, e da divieti precisi; innanzi tutto vi è il TORII, il portale, e poi il luogo di purificazione lustrale dove si svolge il rito del MISOGI. Esiste una precisa gerarchia e normativa di avvicinamento agli elementi sempre più "interni" del santuario, ossia quelli più vicini alla divinità; le donne con il ciclo mestruale in corso, o le persone che hanno sperimentato un lutto recente in famiglia non hanno accesso al santuario, ma devono fermarsi nel piazzale antistante la costruzione centrale, detta SHINDEN; qui possono penetrare i capifamiglia, che però devono fermarsi nella grande sala; solo i KANNUSHI, i sacerdoti, hanno accesso all'altare dove è nascosto il ricettacolo della divinità, lo YORISHIRO, che rimane invisibile ai più. La discesa della divinità nel tempio invece non è regolata; il tempio ingloba la foresta, la sua parete retrostante è posta verso la collina; ciò indica che il tempio è ancora parte dell'ARA, del selvatico; il punto più alto a cui l'essere umano può accostarsi è quello spazialmente più basso per la divinità, che la divinità non può oltrepassare; solo il sacerdote può spingersi fino a questo punto limite, mentre la divinità può uscirne ed essere accolta nello spazio umano del villaggio solo se racchiusa nel palanchino sacro (mikoshi); anche la sua presenza nella dimensione umana è limitata e codificata, e si conclude con il rinvio in processione verso il punto di congiuntura. 3 Questo schema si mantiene anche per i santuari di città e di pianura. Il mare ha le stesse connotazioni simboliche delle montagne; per questo i templi sono posti sulle rive. In alcuni luoghi, però, non esiste lo SHINDEN, perché in realtà è proprio la montagna stessa e la distesa del mare il santuario (cfr. Isola di Miyajima). A tal riguardo, anche se le forme architettoniche relative ai santuari si sono evolute, non si riscontra mai un cambiamento totale dallo schema fondamentale, che è il seguente: uno spazio quadrato, delimitato da SHIMENAWA, con al centro il SAKAKI (cleyera japonica), il sempreverde sacro allo Shintō, decorato con strisce di carta bianca, specchi e gioielli, detti MAGATAMA. Solitamente in questo spazio, dove in origine poteva entrare solo la sciamana, si svolgeva il rito di possessione divina, detto KAMIGAKARI. La possessione divina è descritta nei testi antichi come un'unione sensuale con la divinità, e la sciamana viene detta sposa del dio. E' importante reiterare che la grande sala del santuario non funge da luogo di preghiera per i fedeli bensì rappresenta il luogo di incontro rituale in cui i capifamiglia e il sacerdote consumano le offerte insieme alle divinità, che sono fondamentalmente il sake e il riso (così come avviene nel matrimonio shintō per l'unione dei due sposi). Il ricettacolo della divinità è importante non perché è invisibile ai più: è ciò che lo delimita a renderlo sacro, a stabilirne l'aurea di mistero e di distanza dal mondo comune. Due concetti sono fondamentali al riguardo: quello di OKU, che indica qualcosa di inaccessibile, di intimo, racchiuso, segreto e nascosto, dove si manifesta il potere sacro; e quello di UTSUBO, ovvero la qualità di racchiudere e contenere una forza divina; quindi, anche se il termine "utsubo" ha il significato di vuoto, in realtà indica anche un "pieno", ossia uno spazio animato da una divinità. Anche le rocce possono essere "vuote", nel senso che crescono e sono vive; lo stesso dicasi per la caverna in cui gli asceti meditano, che simboleggia una matrice in cui la gestazione verso la liberazione o l'illuminazione può avere luogo. Per questo il vuoto nella cultura giapponese non ha una connotazione negativa ma rappresenta un'enorme potenzialità. Si confronti ad esempio la meditazione zazen fatta fissando un muro bianco, oppure i giardini di ghiaia pettinati sempre in maniera diversa e impeccabile. La potenzialità di questo vuoto è quella di offrire l'opportunità a diverse prospettive di essere percepite. MA è il concetto che esprime questa potenzialità spazio-temporale: è lo stacco, l'intervallo, lo spazio che esiste fra le cose, il silenzio in musica che può far evocare note multiple e variegate, le cose non dette, che spesso sono più pregnanti e cariche di significato di quelle espresse, il vuoto che permette all'illuminazione di sorgere, e così via; tutto ciò trova espressione nella musica giapponese come anche ad esempio nel teatro NO. 4 Nella montagna possono essere presenti due tipi di templi; il primo, detto SATOMIYA, è collegato al SATOYAMA, la parte di foresta e di montagna appena al di sopra dei campi di riso, che appartiene al villaggio. Il secondo è detto OKUMIYA, ed è collegato con la zona fisicamente superiore alla prima, detta OKUYAMA, simboleggiata in primis dalla cima della montagna. Il SATOYAMA è il mondo propriamente dei mostri e degli spiriti dei morti inquieti. Chi abita questa zona, come i boscaioli, i cacciatori, i minatori, è rivestito delle stesse connotazioni ambigue e negative della zona stessa. Questi gruppi di individui, che sono oramai esigui, conducono una vita nomade o seminomade, e parlano un idioma che per certe caratteristiche è simile a quello degli AINU. Nell'idea generale di architettura prevale il senso dell'effimero e dell'impermanente; tuttavia, proprio perché l'esperienza religiosa giapponese accondiscende a questa realtà, riesce di fatto a superarla, utilizzando le dinamiche stesse della precarietà: la ricostruzione ogni venti anni del santuario di Ise in un luogo limitrofo, oppure la distruzione del palazzo imperiale e lo spostamento della capitale alla morte del sovrano in tempi antichi sono esempi di questa condizione. Al concetto di precarietà si aggiunge quello fondamentale per l'esperienza culturale e religiosa del Giappone di purezza (MAKOTO) sia fisica sia spirituale, di integrità, di sincerità, di chiarezza, di dimensione sostanziale ed essenziale. All'interno della macrodistinzione fra spazio ARA e spazio NIGI, ossia nel NIGI, troviamo una ulteriore e simile distinzione, vale a dire quella dello spazio coltivato, detto TA (risaia), e quella dello spazio non coltivato, detto NO (selvaggio); NO sono tutti gli spazi aperti, deserti, brulli e desolati o acquitrinosi; il NO è lo specchio del SATOYAMA, dove il folklore popolare colloca gli spiriti GORYO, i morti vendicativi. Esiste dunque una simmetria dello spazio che viene sperimentata dall'interno; ma è la sua asimmetria che ne accentua il senso di percorso evolutivo, un itinerario che può essere interiorizzato allo scopo di incentivare una positiva trasformazione interiore volta alla serenità e all'equilibrio. Si prendano ad esempio i giardini. I giardini sono NIGI, sono sempre organizzati in modo che la natura non venga forzata ma assecondata, perché la natura è rivelatrice dell'assoluto. I giardini sono come i paradisi, dove ci si può progressivamente avvicinare all'Assoluto. Il giardino è il locus della spiritualità dove si può superare con serenità, in un processo tutto interiore, l'immanenza della propria condizione di esseri vulnerabili. 5 La posizione del villaggio invece è ambivalente: essa rappresenta sì un luogo di scambio e comunicazione ma soprattutto il luogo "interno" in cui ci si isola e ci si difende. Anche in Giappone ritroviamo ai bivi steli di pietra che rappresentano una coppia di divinità della fertilità, oppure fra i sentieri dei campi statue del TA no KAMI, il dio del territorio, che ha una sagoma fallica e sorridente. Come si può dedurre, il simbolismo sessuale è unito al concetto di salvezza, protezione e salvaguardia. Il DO SO JIN; il dio del fallo e del cammino, indica sia l'inevitabilità nel dover percorrere un certo indirizzo che i rischi che ne conseguono, e per questo è posto in luoghi topici allo scopo di controllarli e per mediarne le energie ambigue. Nel villaggio, il vero OKU, ossia lo spazio sacro, è determinato dalla casa del TOYA, che viene scelta di volta in volta ogni anno, per riprodurre e sacralizzare la ciclicità del tempo. Le demarcazioni spaziali si spingono fino alla struttura della casa, che si compone di spazi specifici, sempre determinati dalle funzioni sociali, in un rifiuto di isolare il singolo dal restante nucleo famigliare, e che comporta zone di purezza, HARE, e zone contaminate oppure contaminanti, KEGARE. La padrona di casa si definisce OKUSAN; e l'oku vero e proprio della casa diventa la camera da letto dei coniugi perché rappresenta il luogo più intimo e il luogo in cui durante determinate cerimonie solo il Toya e lo sciamano possono entrare per comunicare con le divinità. Per sfuggire alla rigidità dell'ordine spazio-temporale costituito esiste un modo, che è rappresentato dal pellegrinaggio. Uno dei più famosi itinerari tocca ottantotto templi sparsi in varie zone: è quello stabilito da KUKAI (774-835), conosciuto con il nome postumo di KOBO DAISHI, fondatore della scuola SHINGON, ossia della scuola esoterica del Buddhismo giapponese che ha sede a Koyasan. Durante i pellegrinaggi si possono assumere atteggiamenti diversi da quelli assunti durante la quotidianità oppure durante i matsuri; pur tuttavia, questi comportamenti "devianti" sono anch'essi codificati, ossia è noto e codificato come e quale atteggiamento deviante si potrà intrattenere in tale circostanza. IL TEMPO Il concetto principale da tenere a mente è quello della ciclicità del tempo e delle espressioni ad esso collegate, che includono tutti i riti di passaggio legati all'individuo nonché quelli relativi all'anno. Primi fra questi sono quelli legati alla coltivazione del riso, che vanno dall'inizio della coltivazione fino al momento del raccolto quando le prime spighe di riso vengono offerte alle divinità per poi essere spartite fra i capifamiglia durante un banchetto nel tempio. Questo rito, detto NIINAMESAI, è il più importante di tutti. Ricordiamo che è nella forma di questo rito antico che ciascun nuovo imperatore consacrava la sua ascesa al trono. 6 Altri riti maggiori sono quello celebrato in inverno a capodanno, detto OSHOGATSU, e quello collegato al ritorno dei morti, l'OBON, che si celebra in estate, entrambi momenti in cui il lavoro è ridotto al minimo. A questi si aggiungono le feste e i relativi MATSURI di primavera e di autunno, ma ve ne sono anche altre, di carattere meno pubblico, che sono legate al ciclo della luna, nella fattispecie quelle di inizio lunazione, di luna piena e di luna calante, quando è compito delle donne presentare offerte agli antenati ed alle divinità tutelari. I RITI LEGATI ALLA VITA Questo ordine di riti corrisponde ai vari passaggi della vita in senso biologico e alle relative fasi che sono corredate da obblighi, doveri e divieti. Il rito di passaggio serve a creare, attraverso il simbolismo, una forma di aggregazione che è connessa al nuovo stato, alla nuova condizione; questi proiettano la persona sempre e solo in avanti; nei riti la dimensione che appartiene al passato non è contemplata. A volte il rito consiste semplicemente nell'indossare un nuovo Kimono, come quando dalla pubertà si raggiunge l'età adulta; il passaggio rappresentato da questo rito non complesso in realtà è immediato, quasi non permettesse ripensamenti, né tantomeno li contempla come possibili. Inoltre, quando si presenta una condizione di impurità oppure di anomalia come la vedovanza, la malattia, il parto e così via, l'ambiguità legata a questi stati viene risolta isolando gli individui, negando loro una posizione, forse si potrebbe dire anche un'identità all'interno del tempo, fintantoché tale condizione è superata attraverso azioni e cambiamenti di stato (ad esempio,l'isolamento cessa con il finire dei tempi del lutto, quando ci si risposa, quando si guarisce e si è di nuovo sani). Tali passaggi sono determinati non soltanto da questioni biologiche o fisiologiche ma anche dalle condizioni sociali e dalle categorizzazioni che le compongono, come pure dal sempre crescente grado di responsabilità che l'individuo deve assumere all'interno della società e della famiglia nel corso della vita adulta. Alla nascita fisica corrisponde pertanto una nascita sociale. Diversi momenti sono così collegati alla ritualità, come quello dell'assunzione del nome il settimo giorno dopo il parto, e la "vera" nascita a livello ufficiale dopo 31-33 giorni, quando i bambini vengono presentati al tempio shintō vestiti di rosso. Seguono poi quello del primo anno e dei compleanni, che in Giappone non vengono solitamente celebrati nel giorno corrispondente alla nascita bensì all'inizio dell'anno da tutti i nati sotto lo stesso animale. Anche questo dimostra una precisa volontà di aggregazione. 7 Terzo, quinto, e settimo anno sono altresì importanti e sono sempre collegati a una visita al tempio. Quelli della transizione dalla pubertà alla maturità sono molto fondamentali, e hanno lo scopo, oltre che di suggellare il momento di passaggio, di fomentare una consapevolezza dell'importanza della collaborazione di gruppo, che attraverso le varie prove a cui i giovani si sottopongono rinnova l'energia della società stessa. Il matrimonio è un tipo di passaggio ancora più significativo per ragioni facilmente concepibili; come è noto, la coppia si scambia la coppa di sake e ne offre alla divinità che diventa sia testimone che intermediario dei due; ciò che forse non è invece così evidente a noi occidentali è l'importanza del ruolo del mediatore che permette la combinazione del matrimonio, perché egli o ella è anche garante dell'unione; prova ne è, che la persona in questione sede fra gli sposi durante il banchetto. Una volta che la coppia ha avuto il primo figlio non si celebrano più cerimonie per la coppia, perché si ritiene che essa abbia assolto il suo compito fondamentale. All'età di sessanta anni si celebra una festa, quella della vecchiaia, in cui di nuovo la persona indossa vesti colorate come se ciò comportasse un ritorno alla condizione di bambino, che come quella dell'anziano, è scevra di responsabilità sociali e anche di divieti. Al compimento del settantesimo anno di età si celebra un'ulteriore festa, che in un certo qual modo prelude a quella che sarà la condizione di antenato. A tal riguardo, come vedrà più avanti, i riti funerari sono in un certo qual modo speculari a quelli di passaggio compiuti dall'individuo durante la vita. E' interessante notare che il culto degli antenati dura fino al trentatreesimo anno dalla morte; in seguito non si celebrano più riti in memoria e il nome dell'antenato viene cancellato. Tutte le condizioni "anomale" quali gestazione, parto, ciclo mestruale, morte, malattia, e lutto sono considerate impure proprio perché sono "anomale" a livello sociale; per questo vengono relegate in una dimensione di isolamento temporale in cui lo stato di impurità è associato al concetto di non-esistenza. Ciò che è impuro non può essere tempo perché il tempo è vita ciclica. Sono le donne a vivere principalmente questa condizione di atemporalità e a doversi sottoporre a riti di purificazione in ognuna delle circostanze topiche, per poter essere riammesse "nel tempo", nella condizione pura - anche se è proprio grazie a questi momenti di impurità che la ciclicità della vita famigliare e sociale in senso lato può essere garantita. Ricordiamo l'esempio mitologico di Izanami, che muore mettendo al mondo il dio del fuoco e poi discende negli inferi. A tal riguardo, non si tratta di rifiuto delle anomalie bensì di capacità di gestirle allo scopo di controllarle affinché esse non portino scompiglio nel sistema; ciò dà vita a una forma di fissità 8 sociale che in qualche modo e soprattutto a livello rurale nega il divenire e non è priva di effetti a volte molto pesanti (suicidi scolastici, ma anche il sorgere delle Nuove Religioni). SACRO E QUOTIDIANO La ciclicità o circolarità del tempo a livello annuale e stagionale vale anche per il giorno, nel quale si distinguono l'aspetto oscuro e quello luminoso. Le danze sacre, KAGURA, si svolgono all'imbrunire, perché il buio, la notte, sono il tempo della divinità. Mezzanotte è il suo culmine, è il momento più segreto, quello dell'incontro con la divinità; per contro, il tempo della luce, il giorno, con mezzogiorno come suo culmine, è il tempo degli esseri umani. Ritroviamo qui il concetto di separazione funzionale, necessaria affinché le due dimensioni possano interagire in maniera armoniosa e produttiva. Tuttavia non è il tempo che crea l'azione, ma l'azione che crea il tempo, e in particolare l'azione rituale, quella codificata; ciò avviene soprattutto a livello rurale. Esiste una scansione del tempo legata agli eventi naturali e una legata alle attività economiche; ma non esiste priorità né soluzione di continuità né dicotomia fra queste due istanze, proprio in virtù della circolarità attribuita al tempo. Un dato importante va considerato a proposito del dono, sia inteso nel senso di offerta alle divinità che a livello sociale; nella tradizione culturale e religiosa giapponese emerge che l'offerta di un dono comporta necessariamente l'obbligo di contraccambiarlo; per questo una divinità non può esimersi, dopo aver ricevuto offerte, dal proteggere o favorire la comunità; come pure un individuo non può esimersi dal contraccambiare un dono quando ne riceve. CALENDARIO E DIVINAZIONE È noto il significato politico relativo al potere connesso ai computi del calendario e a quelli emerologici, ossia legati ai singoli giorni. L'arte divinatoria è da sempre stata legata al potere, e così come in Cina, anche in Giappone la preparazione degli almanacchi non era separata dall'attività divinatoria. In giapponese divinazione si dice URANAI; tale termine riporta a un senso di interno, di segreto. La divinazione può avvenire attraverso numerosi mezzi, dal Libro dei Mutamenti, alle scapole di cervo, i tronchi di bambù, le incrinature del ghiaccio, i corvi. Oppure da segni estemporanei, come la prima persona che si incontra, la prima cosa vista, il primo suono o parola uditi. La divinazione unisce il passato e il futuro nel presente. Nella divinazione non esiste l'idea di vero o 9 falso ma quella di verosimile e, soprattutto, di possibile. Essa non utilizza il principio della causa-effetto bensì quello dell'analogia. La verità è un concetto determinato dalle scelte politiche e culturali. Si confronti il maestro Zen DOGEN (1200-1253), per il quale il tempo è la buddhità in tutte le sue manifestazioni – su ispirazione del principio ontologico buddhista secondo il quale la buddhità non può essere scissa dalle istanze relative. Il mondo fenomenico è manifestazione dell'Assoluto. In termini Shintō, si aderisce alla natura perché quest'ultima è una espressione dell'Assoluto, perché spirito e materia sono coalescenti; di conseguenza, ogni aspetto della vita è sacro e santo, è della stessa natura dell'Assoluto. Da qui l'importanza del concetto di IMA, ora, adesso, ma anche dell'apprezzamento dei benefici terreni o benefici pratici derivanti dalle pratiche religiose (GENSEI RIYAKU). Il tempo lineare, contrapposto a quello ciclico e circolare, è prerogativa delle istituzioni e del potere; è connesso alla scrittura e non alla mitologia orale che differisce da quella scritta perché a differenza di quest'ultima non sancisce esclusivamente scelte prestabilite e funzionali. Anche in Giappone ritroviamo esempi di millenarismo, come quello promulgato da Nichiren (XIII sec.), e quello professato dalle Nuove Religioni con un capo carismatico - solitamente una donna con capacità estatiche - che si contrappongono al potere governativo e pretendono di liberare i seguaci dai vincoli del tempo normale proponendo una rinascita dell'umanità, una nuova felicità. LA MORTE Per lo Shintō non è la morte in sé a essere considerata un fenomeno contaminante, perché non è un fenomeno ambiguo bensì molto definito; ciò che si considera contaminante è il processo di decomposizione del corpo. In realtà lo Shintō mostra un'attenzione precisa al fenomeno della morte e a tutto ciò che ad essa si correla; ciò è comprovato da rituali specifici e da interdizioni riguardo al contatto e così via. Anche in Giappone il corpo sociale stabilisce la percezione che si può o si deve avere del corpo fisico tramite precise scelte culturali; in questo senso, poiché è il corpo vivo che interessa l'evolversi della società, il cadavere viene negato in quanto presenza. Di solito non si considera il corpo come un aspetto senziente di sé ma come un oggetto posseduto a disposizione della mente. Nella tradizione giapponese il rapporto fra percezione del corpo e percezione della società è interdipendente; e come avviene per i Taoisti, il corpo diventa in ultima analisi un simbolo di riferimento per comprendere e interpretare il macrocosmo in termini di società o ancor più di universo, come dimostrato ad esempio da espressioni metaforiche quali "il corpo dello stato" o 10 della nazione (kokutai), il quale nell'ottica delle politiche nazionalistiche viene giocoforza identificato con quello dell'imperatore, con tutte le conseguenze simboliche e ideologiche che ne possono derivare. PUREZZA E IMPURITÀ Per lo Shintō non è la fede la condizione essenziale di comunicazione con la divinità bensì la purezza, sia quella rituale, che consiste in un preciso compimento del rito nel rispetto di tutte le sue norme, sia quella quotidiana, che comporta svariate prescrizioni fisiche, geografiche e culturali; il tenersi lontano dalle impurità è la conditio sine qua non per vivere e contribuire al mantenimento dell'armonia naturale e divina. A tal riguardo, tutto ciò che contribuisce a minare l'integrità del corpo è considerato impuro (kegare) perché minaccia tale integrità e, per esteso, anche quella della società. Per questo ad esempio gli orifizi sono considerati pericolosi e sono considerate impure le varie secrezioni che ne possono fuoriuscire; praticamente quasi tutte lo sono (sangue, sangue mestruale, pus, sudore, sputo, vomito, escrementi), tranne un paio, lacrime e liquido seminale, e il sangue all'interno del corpo perché non si vede quindi è neutro, ma soprattutto perché circola all'interno dei confini del corpo. Perché queste secrezioni sono giudicate impure? Perché non rimangono entro confini precisi e stabiliti, perché portano scompiglio, disordine, perché "sfuggono" al controllo. Tuttavia bisogna tener presente che a questa considerazione di impurità non è associato un senso del peccato. Infatti il rito lustrale (misogi) rappresenta semplicemente ciò che è, vale a dire una purificazione: l'acqua purifica, fa scivolare via tutto ciò che non pertiene ai "confini" del corpo. In ultima analisi si ripresenta il confronto fra i concetti di ARA, selvaggio, disordinato, e di NIGI, ossia pacifico, ordinato e così via. Nella mitologia il dio Susanoo è l'emblema della ribellione a tutto ciò che è ordinato e "coltivato", un aspetto che invece è espresso dalla figura della sorella Amaterasu, che rappresenta lo status quo; è interessante notare come in questo caso lo status quo sia incarnato da una figura femminile, visto che nella società è proprio la donna a essere oggetto e soggetto di numerose prescrizioni di impurità; come se a un livello mitologico tale ribaltamento fosse non solo ammesso ma anche giustificato. 11 IL CADAVERE Alcune forme di impurità sono considerate avventizie, ovvero non assolutamente tali, proprio perché possono essere eliminate o soprassedute; infatti dopo un periodo di lutto, un parto, una malattia etc., ossia quando una determinata condizione "ambigua" si è conclusa, si può tornare a socializzare. Il cadavere, invece, dal momento che costituisce una condizione assoluta e definitiva, rappresenta il massimo dell'impurità. E' importante ricordare che non è la morte in sé a essere considerata impura bensì la condizione di cadavere, perché il cadavere si putrefa, e quindi rappresenta, in senso lato, anche una disgregazione e una dissoluzione del corpo sociale. Da un punto di vista culturale e nel suo processo di dissolvimento il cadavere rappresenta una trasformazione, un mutamente dell'ordine. Per questo va "eliminato", anche non nominandolo verbalmente e non raffigurandolo. Per questo tutte quelle figure che hanno a che fare con esso devo essere altrettanto negate e passate sotto silenzio: è il caso dei BURAKUMIN, che vengono altresì definiti HININ, non-uomini, oppure ETA, esseri immondi. Non si può avere alcuna relazione con questi fuori-casta, e con nessuno che per qualsivoglia ragione sia divenuto tale. Già in epoca Heian (794-1185) i fuori-casta vivevano in luoghi selvaggi e appartati, oppure in quartieri specifici che non venivano neppure riportati sulle mappe e non erano registrati nei comuni. Per contro, una corrente del buddhismo tantrico - che sembra sia stata fondata nel XII secolo da un monaco della scuola Shingon, e che sembra sia rimasta attiva fino alla seconda metà del XV secolo quando i suoi testi vennero dati alle fiamme oppure occultati dalla scuola Shingon - professava il diretto contrario di quanto detto sopra; ovverosia, ricercava la realizzazione spirituale attraverso il superamento del concetto di puro e impuro, e considerava anzi appropriato ignorare le accettate norme di purezza. Gli adepti di questa scuola vivevano nei cimiteri, non usavano vestiti e si cospargevano il corpo con le ceneri della cremazione, portavano ornamenti fatti di ossa umane, praticavano la meditazione sul cadavere, forse proprio sedendo sullo stesso, cucinavano con la legna delle pire, con il grasso disciolto, mangiavano nei crani, offrivano il cibo ai cani (animali considerati impuri) prima di mangiarlo, praticavano riti di unione sessuale con donne che dovevano essere fuori-casta, come le prostitute, e solo durante il ciclo mestruale. Questo genere di atteggiamenti si ritrova in India nei gruppi noti come Shivaiti Kāpālika (letteralmente, portatori di teschio [kapāla]) e nei Sādhu, asceti itineranti anch'essi devoti a Shiva. Si riteneva, e si ritiene ancor oggi, che questo tipo di asceti possedesse poteri sovrumani, quali la capacità di leggere il pensiero, di guarire malattie ed epidemie, di produrre esorcismi efficaci. 12 RITI DI SEPARAZIONE DAI DEFUNTI In Giappone se ne praticano di diversi; essi non sono affatto complessi, a volte si tratta semplicemente di gesti, ma in questa semplicità è racchiusa una dichiarazione definitiva di separazione dai defunti, una dichiarazione incontrovertibile del loro stato, volta ad aiutare, culturalmente e psicologicamente, i vivi soprattutto, ma anche a stabilire i defunti nella loro nuova condizione. Il defunto viene posto in una camera a parte, viene purificato con l'acqua e il sale (cosa che si fa anche per le madri e i neonati), gli vengono ritualmente chiusi gli occhi, la bocca e le orecchie, il volto viene coperto da un panno bianco (il bianco è come in Cina il colore del lutto), per impedirgli simbolicamente qualunque interazione con i vivi; viene chiamato una volta per nome a voce alta, per sottolineare il silenzio dell'assenza. La testa è rivolta nella direzione infausta del Nord, i paraventi che lo isolano sono rivoltati, sopra il corpo viene posto un abito rovesciato; gli si offre una ciotola di riso ma con le bacchette piantate in mezzo (non è questo il modo di mangiare delle persone vive); gli si offre acqua fredda, che per sua natura è culturalmente ara, selvatica e incontrollata, a differenza delle bevande e dei cibi cotti e riscaldati che sono indice di ordine e di controllo; si frantuma la tazza preferita dal defunto per il tè. Le preghiere rituali servono anch'esse a confermare la separazione fra le due realtà. Al defunto viene assegnato un nome postumo. La bara viene fatta uscire da una porta laterale della casa, la si fa ruotare varie volte, e prima di giungere al luogo di sepoltura si compiono percorsi circonvoluti; il corpo viene cremato e le ceneri poste dentro un contenitore di pietra. La processione torna a casa per una via diversa; tutti gli oggetti funerari vengono bruciati; le persone e la casa sono purificate con l'acqua e il sale; tutti questi sono accorgimenti che servono a rendere definitiva la separazione. Dal punto di visto mitologico, la morte inizia con Izanami quando dà vita al dio del fuoco; simbolicamente, dunque, è la morte che permette la vita. Quando il dio Izanagi si reca negli inferi perché non accetta la separazione dalla sua consorte, compie un "errore" mitologico: si volta per guardarla anche se gli era stato proibito di farlo, anzi, era proprio quella la condizione stabilita dalla dea affinché il suo ritorno nel mondo dei vivi potesse essere realizzato. Osservando con orrore la vergogna del suo stato, Izanagi interrompe la soluzione di continuità fra vita e morte, e grazie a questo orrore si separa, ossia stabilisce mitologicamente la separazione fra i due mondi, determinando l'ordine culturale. LA DOPPIA SEPOLTURA In questo contesto si inserisce il rito della doppia sepoltura, la quale viene tuttora praticata in alcune zone del Giappone. Essa consiste di due fasi: la prima è di tipo precario e disordinato e tutti gli oggetti utilizzati devono essere deperibili; il cadavere è avvolto soltanto in un sudario e 13 viene sepolto in un luogo a parte nel cimitero; in questo modo il processo di putrefazione viene accelerato. Quando questo è terminato, la salma viene riesumata, ossia lo scheletro rimasto viene riesumato, pulito, le ossa vengono lavate, a volte imbiancate, e vengono poste in un'urna che reca il nome inciso in maniera indelebile. Questa seconda fase indica ordine e stabilità. La vera sistemazione definitiva è quella che si compie allo scadere del trentatreesimo anno di lutto, quando le ossa vengono cremate e poste nell'urna comune degli antenati di famiglia, protetti dalle statue dei Buddha. Il lutto più stretto, che si conclude dopo sette giorni, comporta varie restrizioni quali l'interruzione dell'attività lavorativa, l'interruzione dei rapporti sociali e il divieto di costruirne dei nuovi. Il quarantanovesimo giorno segna la fine del lutto. In generale questo periodo si conclude in maniera definitiva con il sopraggiungere del primo OBON, che cade ogni anno a metà agosto. L'OBON è un momento importante di passaggio per le anime dei defunti, perché grazie ai rituali, ai fuochi, e alle offerte, le anime diventano nuovi buddha (Niibotoke) e iniziano il processo di aggregazione con gli antenati della famiglia. Durante i primi 100 giorni le attività religiose nei confronti dei defunti sono più intense e sono volte principalmente a favore dell'anima del defunto per garantirle il passaggio da una condizione impura a una condizione pura e divina. GLI ANTENATI Secondo la cultura giapponese esistono svariate classi di spiriti nell'aldilà; in questo contesto i vivi instaurano diverse forme di rapporti a seconda del tipo di spiriti implicati. La classe degli antenati è la classe più augusta; e come in molte culture, il ruolo svolto da questi ultimi è quello di produrre aggregazione e favorire l'identità dei gruppi, dei clan. E' infatti la famiglia il vero fulcro dei riti degli antenati. In Giappone non tutti i defunti possono assurgere al livello di antenati: lo diventano solo i capifamiglia (insieme alle loro consorti) che si sono sposati e che hanno avuto un figlio, a sua volta incaricato di proseguire la discendenza e di assicurare attraverso le azioni rituali nei confronti degli antenati che questi ultimi si prodighino nella protezione e nella guida della famiglia. I fratelli che non diventano capifamiglia non possono divenire antenati, e anzi rappresentano una distinta categoria di anime dette "morti senza legami". Il culto degli antenati è un dovere. Serve a sancire la gerarchia garante dell'ordine, della stabilità, e della continuità della famiglia. In questo contesto si possono riconoscere due forme di cerimonie: una in cui si pregano gli antenati affinché questi ultimi aiutino la famiglia; e un'altra in favore dei defunti stessi, soprattutto di coloro che non sono diventati antenati, come i figli cadetti, oppure i figli morti prematuramente il cui destino è rimasto incompiuto, allo scopo di 14 aiutarli a evolversi spiritualmente e in qualche modo proteggerli. In quest'ultimo caso i rituali sono brevi e non elaborati, anche per non permettere il loro permanere nella memoria della famiglia. IL GIUDIZIO DEI DEFUNTI Uno dei temi che si ritrovano nei racconti medievali è quello del ritorno da viaggi nell'aldilà. In questi racconti si parla anche del modo in cui il defunto viene giudicato per le proprie azioni in vita. A intercedere per il defunto compare una figura molto popolare e importante in genere per il Buddhismo, vale a dire quella del Bodhisattva Jizo (sanscr. Kshitigarbha), il quale si erge a difensore delle anime e svolge anche un ruolo nei riguardi dei bambini abortiti. Il suo ruolo si contrappone a quello di Emma (YAMA), il re degli inferi, che è un guerriero, mentre Jizo è un monaco; è interessante notare la contrapposizione di queste due figure e dei loro caratteri, feroce e spietato il primo, mite e soccorrevole il secondo; a volte tale contrapposizione è in realtà diventata una fusione, come nel caso dei monaci guerrieri buddhisti del monte Hiei, che è la sede del tempio Enriakuji della scuola Tendai fondato dal maestro Saicho nel 788. Questa scuola promulgava gli stessi insegnamenti della scuola Tiantai cinese, la quale basava i propri insegnamenti sui dettami del Sūtra del Loto, elementi Zen e Vinaya, ossia di disciplina monastica, ed esoterici. Se lo spirito del defunto indugia invece di proseguire per la propria strada è necessario l'intervento di uno/una sciamana, onde evitare le possibili calamità che potrebbero scaturire da questo indugio, quali il rischio che decida di ritornare provocando malattie, incidenti e altre morti, e i relativi e conseguenti rischi di contaminazione. Lo sciamano o esperto dell'estasi riesce a scorgere il defunto, lo avvicina, lo convince ad accettare la sua guida, finché non viene accolto dai parenti e ad essi affidato. In questo caso sono le sciamane cieche, dette ITAKO, oppure ICHIKO, oppure KUCHIYOSEMIKO, che si occupano di questo delicato passaggio. Le sciamane si recano nella casa del defunto e di notte, al buio,e nei recessi più intimi della casa, svolgono la sessione. Questa inizia con una invocazione ai Kami, ai quali si richiede protezione; viene poi invocata l'anima dell'antenato più importante della famiglia affinché questi vada incontro al defunto e ne diventi la guida nell'aldilà. La sciamana forza l'anima del defunto a entrare in lei affinché il defunto possa parlare per suo tramite ed esprimere ai famigliari ancora in vita i suoi crucci e i suoi desideri; una volta che i famigliari promettono che cercheranno il più possibile di soddisfarlo, lo spirito si rasserena, dà consigli su come comportarsi, fa predizioni. 15 Stando a recenti ricerche antropologiche, sembrerebbe che le Itako non controllino effettivamente l'estasi ma che fingano uno stato di dissociazione. Tuttavia rimane il fatto che esse continuino a svolgere un ruolo prettamente sciamanico che per l'appunto consiste nel guidare le anime dei defunti. In ogni caso il tirocinio degli aspiranti esperti dell'estasi, come pure quello degli asceti di montagna è sempre rigorosissimo: esso comporta l'apprendimento dell'uso di strumenti del mestiere, quali l'arco e il koto, varie privazioni psicofisiche (cibo, sonno, solitudine), preghiere intense e recitazioni protratte che sono tutte volte a creare una condizione di rottura con la realtà "normale" e a stabilire gli adepti in una condizione di purezza che dovrà comunque essere costantemente rinnovata. L'esperienza iniziatica è sempre un'esperienza di consapevolezza della morte nei suoi aspetti più profondi. E' in realtà una morte a tutti gli effetti: lo sciamano o la sciamana muore dal suo stato psicofisico che lo accomuna agli altri esseri umani per rinascere come un essere nuovo, protetto dagli stessi spiriti o demoni da cui subisce le varie prove, e guidato da questi. Ma anche se il suo ruolo di confine è indispensabile alla serenità psichica soprattutto dei vivi, lo sciamano rimane sempre un emarginato sociale sia in senso positivo, perché il suo ruolo è di utilità, ma soprattutto in senso negativo, perché il suo potere lo rende pericoloso, e anche per questo è considerato un fuori-casta. I MORTI INQUIETI Secondo la tradizione giapponese esistono esseri che per casualità oppure per diretto volere si vedono negato l'accesso al paradiso. Sono questi gli esseri morti malamente, che hanno odiato o amato troppo la vita. Fanno parte di questa categoria i bambini morti uccisi, che al giorno d'oggi vengono definiti MIZUKO, bambini-acqua, come per identificarne la qualità effimera, e i MUENBOTOKE, ovvero coloro che sono morti senza avere una discendenza. Questi ultimi, poiché in vita sono rimasti soli, sono considerati privi di legami sociali, e rimangono tali anche nell'aldilà, proprio perché non hanno lasciato nessuno che potesse occuparsi del loro futuro da defunti. I bambini-acqua e gli spiriti senza discendenza sono simili in quanto accomunati dalla loro dimensione di liminalità, di distanza dalla famiglia. L'unica differenza consiste nel fatto che ove i primi non hanno potuto avere una famiglia, i secondi non l'hanno voluta. Entrambi rappresentano un fallimento nei confronti della società, anche se il primo caso è involontario. Oltre a queste due categorie ne esiste un'altra, quella dei GORYO, gli spiriti di persone morte di morte violenta a causa di un'ingiustizia, di una colpa, oppure di un desiderio, che li ha raggiunti 16 in un momento specifico legato alla loro condizione (molti di questi sono divenuti leggende, alcuni persino dei Kami). Dal punto di vista delle convenzioni sociali la loro morte è considerata inevitabile; eppure allo stesso tempo si ritiene che il loro destino non si sia compiuto del tutto, e che sia comunque un destino ingiusto. Il folklore in realtà non li fa morire completamente ma li fissa in quel momento temporale in cui sono morti, e li vede come fantasmi che perseguitano ossessivamente i fautori della loro morte. Essi rimangono, inquieti, nelle località in cui sono deceduti, senza alcun desiderio di lasciar andare e di muoversi nel cammino ulteriore della loro anima. Anche se le persone vive hanno paura di questi spiriti, in realtà li compatiscono perché li ritengono privi di colpe. Ciò nonostante essi ossessionano i vivi come fantasmi; si dice che possano entrare nel cadavere di un defunto e rianimarlo, si nutrono di rifiuti, sono pieni di odio, di risentimento, di desiderio di vendetta, mandano maledizioni, causano epidemie, possono arrivare a possedere una persona in vita e consumarla fino a ucciderla. I relativi riti si svolgono d'estate, come il mushi okuri (l'espulsione simbolica degli insetti nocivi), che è di fatto un rito esorcistico. Secondo la dottrina buddista tutti questi spiriti risiedo in uno dei tre livelli inferiori della sfera della trasmigrazione, e nella fattispecie in quella dei Preta, gli spiriti affamati (GAKI). Da un punto di vista psicologico si potrebbe dire che essi raffigurino e rappresentino il senso di frustrazione dovuto alla non realizzazione dei desideri legati all'esistenza, ma anche dell'inutilità di perseguirli per via della loro inconsistenza illusoria. Le storie dei fantasmi si sono diffuse con successo a partire dalla metà del XIX secolo, sia a livello di racconti che a livello di rappresentazioni teatrali ediconografiche. E ciò non è un caso perché storicamente quel periodo rappresenta un momento di crisi della cultura tradizionale giapponese relativa al declino dell'èra Tokugawa (1600-1868). D'estate le storie di fantasmi si raccontano per rendere il caldo più sopportabile… L'estate è anche il tempo dei morti, celebrato con l'OBON. La società in prima istanza li nega, li rifiuta, li esclude e li tiene a distanza. Le offerte compiute nei loro riguardi sono minime e separate da quelle per gli antenati o altri spiriti benevoli; non si officiano culti giornalieri, non esistono tavolette corrispondenti; l'altare per le loro offerte è separato e posto al di fuori dall'abitazione. Esiste tuttavia un rito specifico di esorcismo per questi spiriti che si compie alla vigilia del primo giorno di primavera: si tratta del SETSUBUN, durante il quale il capofamiglia esorcizza la casa da eventuali presenze malefiche lanciando negli angoli oscuri dell'abitazione azuki rossi benedetti dai sacerdoti dei templi Shintō, e recitando la formula "Oni wa soto, fuku wa uchi" (che i mostri escano, e che la fortuna entri). In quella stessa notte si compie nel tempio un rito comunitario detto ONIYARAI, durante il quale alcune persone entrano indossando maschere orripilanti inscenando scompiglio. Queste rappresentazioni simboliche degli spiriti inquieti 17 vengono esorcizzate da un monaco buddhista abbigliato come un bodhisattva, il quale li allontana grazie al potere della verità del Dharma e a quello purificante e annientatore del fuoco. Ciò nonostante, visto che tali spiriti pretendono un riconoscimento, pena svariate calamità, è necessario che la società stabilisca un modo per effettuarlo. Tale riconoscimento avviene tramite uno scambio equo. Poiché con la loro attitudine essi portano disordine e confusione, è necessario ristabilirli nell'ordine; per gli spiriti senza discendenza si rende necessario accoglierli, dunque trattarli come veri e propri antenati, far loro offerte degne di questi ultimi (sake e non acqua, riso cotto e non crudo); ai Goryo, gli spiriti vendicativi, si deve offrire simbolicamente ciò che non hanno potuto ottenere in vita, come ad esempio onori postumi, così da pacificarli e far sì che invece di spiriti problematici diventino protettori e garanti di successo, innalzandoli al livello di giovani Kami (Wakamiya) oppure di Tenjin (divinità celesti). A tal riguardo in epoca Heian (794-1185) il rituale considerato di gran lunga più efficace era quello della recitazione del nenbutsu, il nome di Amida, grazie al quale i defunti venivano condotti nel paradiso di Amitābha, il Buddha della Luce Infinita. Accanto a questa usanza si venne a creare quella di una danza collettiva estatica per la salvezza delle anime, detta Nenbutsuodori. Danze di questo tipo si praticano ancora oggi, come ad esempio il Jizobon del Mibu Dera di Kyoto. Anche se questi riti sono di derivazione buddhista, la pratica delle danze per la pacificazione degli spiriti inquieti si ritrova già in epoche precedenti e costituisce una prassi molto antica. In qualche modo gli spiriti, che sono sempre interpretati da bambini e asceti, ossia da figure marginali per la società, vengono coinvolti nelle danze, placati da offerte, purificati con acqua calda, e poi salutati prima dell'alba dopo che hanno promesso benevolenza, protezione etc. Anche in questo caso l'ARA può entrare nel NIGI, ma solo in una condizione di trasformazione eccezionale e controllata dell'ordine sociale e comunitario. I CULTI DEL RIMORSO A partire dalla seconda metà del XIX secolo si è cominciato a diffondere in Giappone un culto per onorare e placare gli spiriti dei bambini abortiti; questo culto è noto come il MIZUKO KUYŌ. In epoca Tokugawa (1600-1868), anche se l'infanticidio era diffuso ed era definito con il termine MABIKI, che letteralmente ha il significato di 'sfoltire', non esistevano forme di culto per i bambini morti. I bambini non desiderati venivano soppressi subito dopo il parto e poi dimenticati. La madre li affidava alla misericordia del Bodhisattva Jizo affinché li aiutasse con una rinascita migliore. 18 La restaurazione Meiji diede un impulso all'ideologia nazionalista e all'ideale di solidità dello stato basata sulla solidità delle famiglie patriarcali, e soprattutto di quelle prolifiche che aiutavano il Giappone a crescere e divenire potente e industrializzato, scopo questo che doveva soprassedere a qualunque esigenza della vita privata oppure di quella della famiglia stessa. In questo modo la famiglia-nazione ideale era sacralizzata, cosa che avvenne anche per l'imperatore e per il suo ruolo. Questo ideale nazionalistico e imperialista fu alla base delle guerre di espansione che il Giappone condusse nei confronti della Russia, della Cina, e della Corea. Contemporaneamente all'ideale della famiglia-modello sorse quello della "buona moglie e saggia madre", la quale - seguendo un'ideologia di stampo confuciano - doveva essere patriottica nonché devota e fedele, nell'ordine, al padre, al marito e, da vedova, al figlio. La sua unica preoccupazione doveva essere quella di produrre figli e prendersi cura della casa. La maternità veniva presentata come un grande valore morale, una fonte di orgoglio, di identità, di lealtà verso l'imperatore. Ne consegue che qualunque tentativo di porre fine a gravidanze o il disfarsi di figli non voluti, soprattutto se maschi, equivaleva a una sorta di tradimento nei confronti dell'imperatore e della nazione. Il discorso religioso venne riformulato per adattarsi alla nuova ideologia imposta alle donne. Il Bodhisattva Jizo assunse, con la connivenza dei sacerdoti, un ruolo primario. A livello popolare Jizo, insieme a Kannon, è considerato vero esempio della compassione e della misericordia. All'inizio Jizo vegliava sui sei regni dell'esistenza per soccorrerne gli esseri, difenderli una volta morti e così via. In seguito egli divenne il protettore dei vivi, in particolare degli esseri umani nascituri, e per estensione un protettore della fertilità. In epoca Tokugawa il bambino non era raffigurato, non aveva neppure una tavoletta sull'altare, era dimenticato e basta. In seguito venne raffigurato come un'entità melanconica e solitaria; per questo ricevette la definizione di MIZUKO: come l'acqua, il feto non è solido, e non potrà mai diventarlo, quindi rimarrà evanescente. Dopo gli anni '70 il culto dei bambini-acqua si diffonde moltissimo. I templi buddhisti gestiscono i riti legati a questo culto, e ve ne sono alcuni molti famosi per questo. I Mizuko vengono raffigurati come dei piccoli Jizo in terracotta, le statuette vengono poste sulle colline del tempio oppure in piccoli tempietti urbani. A volte si vedono le statuette ricoperte di cappellini, di mantelline… Il fatto che i bambini siano raffigurati come piccoli Jizo appare inquietante, perché indurrebbe a confondere le due immagini, ossia quella del Bodhisattva che salva e quella del bambino salvato. Il culto ai Mizuko viene, anzi deve essere reso dalle donne, e solo ed esclusivamente da queste 19 ultime. I mariti, i fidanzati, gli amanti non vi rientrano minimamente; questo sempre a sottolineare quanto la società sia patriarcale e discriminante nei confronti delle donne. A volte si vedono mucchietti di sassolini davanti alle statuine, sempre messi dalle mamme. Si racconta che i bambini, per passare il tempo in attesa di poter guadare il fiume che li separa dalla nuova rinascita, giochino in un silenzio grigio, che provino a costruire stūpa, e che così facendo possano guadagnare meriti per poi reincarnarsi; ma vi sono sempre demoni in agguato che glieli distruggono e ritardano la loro liberazione da quello stato di limbo. I bambini, pazientemente, riprovano… La mamma di solito lascia nel tempio una Ema, la tavoletta di legno che da un lato è decorata con disegni simbolici e dall'altro reca scritti i suoi desideri e le sue speranze (le Ema sono oggetti votivi di uso comune). In questo caso, invece di ricordare ogni giorno al dio la preghiera o la richiesta fatta, la madre si rivolge direttamente al bambino, scrivendo frasi tipo "Gomen" (scusami) e simili. La madre è costretta a compiere il culto perché è stato inculcato che se lo si trascura il bambino diventerà vieppiù arrabbiato e compirà la sua vendetta sulla madre in primis e sulla famiglia poi, specialmente suoi nuovi figli. L'idea di un bambino vendicativo si è sviluppata solo a partire dai decenni scorsi, prima non esisteva. I depliants esplicativi dei templi dedicati a questo culto elencano fino a venti tipi di calamità che si potrebbero abbattere: incapacità di concepire, di trovare un consorte, malattie come i tumori, incidenti. Questo tipo di culto - che è quanto di più lontano si possa immaginare dal principio di compassione insito nel Buddhismo Mahāyāna - non fa altro che alimentare il senso di colpa e di inadeguatezza della donna, non rende accettabile il dolore e la lacerazione che la donna prova per aver abbandonato o anche perso un proprio figlio, ma rende il tutto ancora più angoscioso, rende più pesanti gli obblighi. Il dolore non viene né rimosso né rielaborato: rimane lì tutto il tempo. Ogni quindici giorni della sua vita, la donna officierà questo culto e rivivrà tutto da capo. Il bambino-acqua è incompleto, indifeso, dipende in tutto dalla madre. Tutto ciò è basato sul concetto di TATARI, la maledizione inviata dagli spiriti insoddisfatti oppure dagli dèi. La donna non è solo colpevole degli eventi negativi che potrebbero interessarla ma anche di quelli che potrebbero colpire il resto della famiglia. Anche se nel frattempo nella dimensione postindustriale e con l'accesso all'educazione superiore le generazioni si sono distaccate dalla tradizione e l'eguaglianza fra i sessi è sancita dalla costituzione, alcuni principi rimangono attivi, come quello secondo cui la donna debba occuparsi 20 della cura della casa e dei figli. Solo la maternità giustifica la sessualità femminile. L'aborto è un fallimento del proprio ruolo all'interno della società. Visto che i medici sono restii e fornire metodi di contraccezione e che parlare di sessualità è ancora tabù, il metodo contraccettivo di gran lunga più usato è quello dell'aborto, che costituisce un affare redditizio per le cliniche; esso fu parzialmente legalizzato già dal dopoguerra mentre un emendamento del 1952 lo considerava da prescriversi a discrezione del medico, il quale non era tenuto a giustificare la propria decisione a livello civile o penale. LA FIGURA FEMMINILE Come è noto nel Giappone arcaico il ruolo della donna, incentrato su principi matrilineari, era preminente. Negli annali della dinastia cinese WEI (III d.C.) e in quelli degli HAN posteriori (scritti nel V d.C.) si possono identificare informazioni al riguardo, particolarmente nei primi in cui si parla di un regno di isole detto YAMATAI governato da una regina di nome Himiko o Pimiko. Molto presto, già nel V-VI secolo d.C., in tardo Yamato (300-645 d.C.), la sua posizione cambia. Questo cambiamento è sancito nei miti. Amaterasu viene confinata nella pianura alta del cielo, il Takamagahara, mentre Susanoo, anche se viene espulso dal cielo, diventa un eroe ordinatore e il precursore della società patriarcale che ha inizio con il leggendario imperatore Jimmu (Kojiki). Il testo dei rituali dell'epoca Engi, l'Engishiki (X sec.), a sua volta sancisce l'impurità della donna a causa del sangue (mestruale, di parto, di perdita della verginità). La donna è inerentemente impura per via di questo; si veda la separazione nei villaggi durante le mestruazioni e l'esclusione dai riti perché per via della sua inerente impurità può in qualche modo contaminarne l'efficacia. Il ruolo spirituale della donna è quello di sciamana, un ruolo marginale e controllato, un ruolo di mediazione con il mondo dei morti. Oppure ella deve per forza partecipare a un rito, come nel caso delle MIKO, che però sono ragazze vergini quindi non donne nel vero senso della parola (si confronti a tal riguardo la rappresentazione della figura della donna nei manga). La donna rappresenta l'ARA, il selvaggio, la confusione, l'emotività (Yama no Kami); l'uomo il NIGI, la vera fertilità, la purezza, l'ordine. Nei miti, Izanami abortisce perché è lei la prima a manifestarsi sensualmente; la vita inizia solo quando questo errore viene riconosciuto ed emendato ovverosia quando è Izanagi a compiere il primo passo. Izanami è la dea dei morti, Izanagi il dio dei vivi. La donna bella, intelligente, sensuale, indipendente, forte è sicuramente posseduta da un mostro, il famigerato e temibile spirito-volpe (Kitsune). Tutto ciò deriva dal timore, dalla sanzione sociopolitica patriarcale che non vuole ammetterne neppure la complementarietà. L'associazione simbolica avviene anche a livello cromatico: il bianco è il colore della purezza (le macchine degli Yakuza sono bianche); il rosso è il colore delle emozioni, 21 della sessualità sterile, è il colore dei Kimono delle ragazze che non si sono ancora sposate, oppure delle Geishe o delle Itako, le sciamane. SUICIDI RITUALI In tutta l'Asia Orientale è noto il sistema del dono di parti del corpo o dell'immolazione rituale; l'origine di queste pratiche è da ricollegarsi al Sūtra del Loto, in particolare al Capitolo 23, in cui si esalta il valore della prima delle Sei Perfezioni, quella del dono (le altre cinque sono etica, pazienza, vigore, assorbimento meditativo, conoscenza. La catarsi di chi immola parte di sé oppure tutto se stesso ha una funzione di purificazione universale, perché i meriti che si acquisiscono possono essere dedicati alla salvezza di tutti gli esseri senzienti. Questo concetto sofisticato è forse un non troppo lontano parente dell'idea antica di sacrificare una persona per il bene di tutti. In Giappone la codificazione del suicidio avviene in epoca Tokugawa (1600-1868), ma il significato è esattamente opposto: lo si fa per se stessi, per risolvere una situazione senza via di scampo, per lavare l'umiliazione oppure la vergogna di un errore o di una colpa commessi senza intenzionalità e, paradossalmente, anche per il troppo attaccamento alla vita; il seppuku, volgarmente noto come harakiri, restituisce la dignità perduta a chi lo compie, ne esalta il MAKOTO, la purezza interiore, l'innocenza; è un gesto di sfida nei confronti della società ma anche della morte stessa. AUTOMUMMIFICAZIONE Primi casi XII secolo, ultimi nei primi del 1900. Astensione dai cereali (cf. Taoisti), solo prodotti di conifere, fino al digiuno completo, seppelliti vivi in un loculo con un solo tubo per respirare, riaperto dopo tre anni; se il corpo era intatto l'asceta era diventato un MIIRA, ovvero una mummia vivente, un illuminato nel proprio corpo. Questo è un essere ambiguo, perché non è né davvero morto né davvero vivo; può suscitare ammirazione per la sua impresa. Il corpo del MIIRA porta la purezza nella morte perché il corpo rimane integro, non si decompone, ossia scavalca quella fase di transizione verso la decomposizione che viene considerata contaminante e impura. Si dice che il MIIRA ritornerà in vita dopo anni per salvare gli esseri. Stando alle scritture e anche a quanto enunciato dal Buddha storico, tali forme estreme di ascetismo non favoriscono la realizzazione totale. 22 IL POTERE La presenza dei Kami si ritrova in tutti gli aspetti della vita delle persone e della natura. Le divinità si distinguono in divinità celesti o Amatsukami, le quali risiedono nell'Alta Pianura del Cielo detta Takamagahara. Queste divinità hanno un carattere antropomorfo e sono al centro delle narrazioni mitologiche. Prime fra tutte Izanami e Izanagi, la coppia mitica creatrice del mondo. Abbiamo poi Amaterasu-ōmikami, la dea che splende nel cielo, progenitrice dell'umanità e in particolare del clan di Yamato, ovvero quello legato alla dinastia imperiale; altra divinità di spicco è costituita dal fratello di quest'ultima, Susanoo, dio preposto all'ordine e alla pacificazione della terra. Oltre alle divinità mitologiche esiste un gruppo di Kami minori per importanza ma non per questo meno venerati; si tratta dei Kunitsukami, ossia le divinità della natura. Fra queste spicca la divinità della montagna e dei boschi, Yama no Kami, che è femminile, ed è considerata molto potente, la sua potenza si dispiega in tutti gli aspetti ARA che ne costituiscono anche il campo di azione e il suo territorio. L'aspetto del divino che non corrisponde all'ambiente selvatico è in relazione all'essere e alle sue attività, in particolare quelle agricole; infatti la figura principale al riguardo è rappresentata dal Ta no kami, il Kami che protegge le risaie. Questo Kami è raffigurato in forma antropomorfa con una pancia e un aspetto benevolo e saggio che ricorda quello del sorridente Buddha Milofo (si può vedere a Via Ferruccio 8, al tempio buddhista cinese; la statua è stata portata direttamente dal sud della Cina (Zhejiang). Il Ta no Kami è un Kami ordinatore; visto dal retro assume una forma chiaramente fallica; egli rappresenta e integra in sé la fertilità associata alla virilità, elemento questo che si riscontra in tutte le società di stampo patriarcale. Esistono altre due divinità che rassomigliano al Ta no kami, Ebisu e Daikoku, le divinità della prosperità e della fortuna. Inari è il Kami del riso. Il suo culto è molto popolare in tutto il Giappone; i suoi messaggeri sono le volpi bianche, dette Kitsune, entità volubili nel loro conferire prosperità oppure miseria alla gente. Dato che nei tempi antichi si utilizzava il riso al posto del denaro per gli scambi commerciali, non stupisce il fatto che Inari sia poi divenuto il Kami del commercio, con tutto ciò che ne consegue a livello sociale e di potere. Viene poi l'Ujigami, il Kami tutelare del clan, del villaggio, divinità-antenato di tutti coloro che lo abitano. I suoi "figli", ossia i membri del villaggio, vengono detti ujiko e rappresentano i suoi figli terreni. L'Ujigami incarna l'identità specifica del villaggio e anche la sua autonomia; per questo i suoi culti vengono officiati soltanto da persone che hanno un vero e proprio rapporto di parentela con la comunità locale. 23 Tutti i Kami posseggono una potenza specifica detta TAMA; questa può essere feroce e distruttiva, nel qual caso è detta ARAMITAMA, oppure calma e benevola, NIGIMITAMA. Spetta all'essere umano stabilirne il controllo attraverso rituali appropriati la cui efficacia è determinata non dal sentimento di chi li officia bensì dalla perfezione formale che avrebbe lo scopo di annullare il sé dell'officiante e di renderlo puro al punto di poter entrare in contatto con la dimensione divina e comunicare con essa. Anche negli esseri umani esiste una potenza, detta TAMASHII, che si potrebbe vagamente far corrispondere al concetto di anima. In ogni caso, uno dei concetti fondamentali della visione Shintō presuppone l'identità fra la realtà divina e quella umana, identità che si stabilisce attraverso la ciclicità temporale: gli esseri umani furono generati da divinità, e un antenato può a sua volta divenire un Kami. Tale identità è sostenuta dalla mitologia attraverso un sentimento di amore profondo per tutte le manifestazioni della natura. E poiché la natura, ossia il divino, non è qualcosa di intellettivo e razionale, lo si può percepire soltanto attraverso un processo di intuizione emotiva e lo svuotamento del sé - anche durante il sonno ad esempio. La diffusione del Buddhismo a partire dal VI secolo d.C. sfida la dimensione religiosa legata al culto dei Kami. Anche se certamente il Buddhismo si diffuse prima di quel tempo per via degli immigrati cinesi e coreani, il primo riferimento scritto lo si ritrova nel Nihonshoki, in cui si riporta che il re di Paekche inviò nel VI secolo un'ambasceria in Giappone che recava doni buddhisti quali una statua d'oro del Buddha storico, testi sacri e oggetti rituali, con la precisazione che questi oggetti e testi svolgevano un compito molto efficace di protezione. Il clan dei Soga iniziò ad adottare il nuovo credo, osteggiato dai rappresentanti del clan Nakatomi, che forniva ufficialmente i sacerdoti responsabili dei rituali Shintō, e da quello dei Mononobe. Il principe Shotoku sancì l'ufficializzazione del Buddhismo anche con la riforma Taika del 645. In questa prima fase i Buddha e i Bodhisattva venivano considerati come divinità straniere ma pur sempre come Kami. L'interazione fra i due sistemi si intensificò nel VII secolo grazie all'opera degli asceti delle montagne, gli UBASOKU, e dei santi itineranti, gli HIJIRI, i quali combinavano in maniera eclettica la tradizione del culto dei Kami, le tecniche estatiche, e le pratiche taoiste di meditazione con pratiche e riti di stampo buddhista. E' a loro che si deve l'integrazione dei due sistemi e l'assimilazione del Buddhismo. Per quanto riguarda la gerarchia sacerdotale e monastica, il punto di connessione fra i due sistemi fu dapprima rappresentato dai cosiddetti JINGUJI, i santuari-templi, che furono fondati dagli asceti e dai capi di vari clan locali. Nel periodo Nara (710-794) i santuari Shintō e i templi buddhisti vennero integrati sotto l'egida della corte. 24 Dal punto di vista del Buddhismo i Kami erano sì entità di una certa rilevanza e potenza, ma pur sempre esseri non illuminati che vivevano ancora nella sfera della trasmigrazione e per questo erano considerati inferiori ai Buddha. Nei summenzionati Jinguji, i monaci recitavano Sūtra e pregavano allo scopo di dedicare i meriti delle proprie azioni ai Kami cosicché questi avrebbero potuto avanzare e stabilirsi sul sentiero del risveglio. Il culto di Hachiman, il dio della guerra e dei metalli, segnò una svolta in questa integrazione: per la prima volta un Kami veniva raffigurato, cosa mai successa fino ad allora, ed era anche presentato come una emanazione, una manifestazione del Buddha della Medicina, in Giapponese Yakushi Nyorai. Il che indica un rimodellamento di canoni simbolici ed estetici indigeni sulla scia di quelli buddhisti. Nel IX secolo, con il fiorire della scuola Tendai, vi fu un ulteriore cambiamento importante in quanto i Kami autoctoni iniziarono a essere considerati come manifestazioni (suijaku) delle forme primeve o originali (honji) dei Buddha e dei Bodhisattva. Questa idea era basata sul concetto di molteplicità degli aspetti della realtà ultima e su quello degli abili mezzi, comparsi secoli prima nel Sūtra del Loto, per cui venerare i Kami equivaleva sostanzialmente a venerare i Buddha e viceversa. Nell'ottica del millenarismo e dell'epoca degenerata, non poteva pertanto ritenersi inesatto il sostenere che i Buddha e i Bodhisattva si manifestassero come Kami allo scopo di aiutare gli esseri umani a superare i loro tormenti e quelli dell'epoca in cui vivevano. Questa nuova impostazione diede vita a due tendenze: la prima, detta del Ryobu Shintō, ossia lo Shintō a due facce, che si sviluppò particolarmente nell'ambito del Buddhismo esoterico o Shingon; l'altra, quella del Sanno ichi jitsu Shintō, si sviluppò sul Monte Hiei all'interno delle scuola Tendai (SAICHO, 767-822), che adottò il Kami locale, ribattezzato SANNO, come divinità tutelare della sua comunità monastica. In questo modo il Buddhismo riusciva a integrarsi perfettamente, adottando e trasformandosi sulla matrice originaria della cultura autoctona. Stando a quanto noto, non si può più sostenere che lo Shintō sia una religione autonoma rimasta identica sin dalle sue origini, e neppure che le due tradizioni religiose rappresentino due forme distinte e separate dell'esperienza religiosa giapponese; non solo perché la loro interazione era sancita a livello istituzionale e dottrinale ma anche perché non esiste soluzione di continuità nel continuum dell'esperienza religiosa giapponese. In tale contesto le corrispondenze e le combinazioni delle varie entità divine non erano affatto create in maniera azzardata ma erano frutto di una precisa logica, la quale tuttavia non era scevra di considerazioni politiche e sociali. Lo stesso si deve dire del Buddhismo, e non solo per quanto riguarda il Giappone. Il Buddhismo in Giappone si è potuto veramente radicare solo compenetrando la tradizione spirituale dello 25 Shintō, cosa che ha portato inevitabilmente a una trasformazione del Buddhismo stesso in chiave locale. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come un sincretismo forse dubbio, in realtà rappresenta un aspetto interessantissimo della cultura e soprattutto dell'esperienza religiosa giapponese, per la quale non esiste un'unica e sola verità che può ergersi al di sopra delle altre. In questo contesto il termine religione, SHUKYO è stato creato solo nel XIX per rendere un concetto occidentale; mentre il termine usato sin dall'antichità era DŌ, in senso di via, percorso, sentiero da seguire per la realizzazione spirituale. Anche l'apporto del confucianesimo è stato determinante nel suo enfatizzare aspetti etici dell'esistenza quali l'onestà, la sincerità, la rettitudine, l'ideale di purezza; ma è stato anch'esso rielaborato e adattato; si pensi, ad esempio, al concetto di pietà filiale che venne unificato alla fede nella divinità degli antenati e alle liturgie buddhiste per la salvezza dei morti. I Kami erano divinità ancestrali legate al potere dei clan, e fungevano da rappresentanti divini di questa élite; stabilire che i Kami erano manifestazioni dei Buddha serviva come espediente politico alle gerarchie di potere per legittimare la propria posizione e per stabilire una unità ideologica nel paese. Ciò nonostante non tutti i Kami divennero Buddha e mantennero la propria identità; e inoltre, i seguaci erano consapevoli della diversità sia religiosa sia cultuale fra le due espressioni. Nel IX secolo divenne chiara l'esigenza di separare i culti per i Kami da quelli buddhisti; questa tendenza - partita dal tempio massimo di Ise - si espanse alla corte e a tutti i santuari imperiali. Essa non era rivolta contro la religione buddhista di per sé ma serviva a rafforzare il principio del potere ereditario, che da sempre era stato legittimato dalla tradizione mitologica e rituale legata allo Shintō, e a difendere l'eredità al trono dalla costante influenza politica dei grandi monasteri e dei loro abati, che spesso appartenevano all'aristocrazia e avrebbero potuto intromettersi nelle questioni di successione. Nel periodo Kamakura (1185-1333) si formarono due correnti legate allo Shintō che servirono a "contrastare" l'avvenuto rinnovamento del Buddhismo: la prima è nota come WATARAI SHINTŌ (XIII), dal nome del suo organizzatore, era localizzata nel tempio di ISE, ed era basata sulla riorganizzazione dottrinale di scritti a carattere rituale e speculativo precedentemente compilati dai sacerdoti del santuario. La seconda corrente ribaltava il concetto dello honji suijaku, determinando che erano i Buddha e i Bodhisattva a essere manifestazioni dei Kami e non viceversa. Questa fu la base per lo sviluppo dello Yoshida Shintō (XV), (famiglia sacerdotale discendente dagli antichi divinatori, gli Urabe); questa corrente stabiliva l'esistenza di uno Shintō essoterico, basato sui testi del Kojiki e del Nihonshoki, e di uno esoterico, basato su scritture rivelate alla 26 famiglia Yoshida. Questa famiglia rimase molto influente fino al periodo Meiji (1868-1912). Durante l'era Tokugawa (1600-1868) fu investita del potere di riorganizzare a livello nazionale i culti e le istituzioni legate ai Kami, e di supervisionarne i santuari. Nel periodo feudale si presentarono anche altre due correnti. La prima sosteneva la similarità fra Shintō e Neo-confucianesimo e reinterpretava la mitologia stabilendo l'identità fra la Via del Cielo e quella dell'Uomo nonché l'identità fra la fede nei confronti dei Kami e la lealtà verso l'imperatore. L'altra fu creata da un monaco della scuola Shingon, Keichu (1640-1701), il quale con i suoi scritti sul Man'yoshu, la più antica collezione di poesie del Giappone, iniziò la corrente detta del KOKUGAKU, ossia degli studi nazionali. Questa corrente fu poi fermamente sostenuta da MOTOORI NORINAGA (1730-1801), il quale incoraggiava il rifiuto della logica razionale confuciana, perché troppo finita rispetto alla realtà divina, a favore di una intuizione del cuore e della purezza dello spirito giapponese. Negli scritti antichi che egli profusamente commentò, Norinaga scorgeva l'ideale della società giapponese retta da imperatori saggi e basata sull'armonia fra il divino, la natura, e l'umano. I principi della scuola KOKUGAKU riferiti alla sacralità dell'imperatore, al KOKUTAI, il corpo della nazione, e alla Via dei Kami forniranno molto materiale per le successive ideologie nazionaliste. IDEOLOGIA NAZIONALISTA Anche se lo Shintō ha sempre professato ideali di pace e di armonia fra gli esseri umani e la natura e in generale una visione positiva dell'esistenza, nel XX secolo si ritrovò a fungere da base ideologica per le politiche nazionaliste. Nella seconda metà del XIX secolo, dopo ben due secoli e mezzo di isolamento, il Giappone apre le sue frontiere, specialmente nei confronti degli Stati Uniti. In questo contesto si viene a formare una nuova classe dirigente che cerca di emulare a tutti i livelli il sistema occidentale relativo alla modernizzazione. I parametri occidentali vengono presi in considerazione proprio perché a quell'epoca il colonialismo aveva raggiunto il culmine della sua potenza. Nell'era Meiji (1868-1912) la struttura economica del paese si trasforma da agricola in industriale, di fabbrica, le campagne si spopolano, l'urbanizzazione si intensifica, la donna entra nel mondo del lavoro, si formano i partiti politici e così via. In cima al vertice della burocrazia politica e amministrativa si ritrova ora, dopo secoli, la figura dell'imperatore. Uno degli impulsi logici a questa profonda trasformazione è proprio la convinzione che senza una modernizzazione adeguata il paese non avrebbe potuto resistere alla minaccia coloniale. Questa trasformazione economico-politica risultò in una profonda crisi dell'identità culturale giapponese. 27 Molto spesso nel mondo, quando si verificano tali trasformazioni, si assiste a una perdita pressoché totale dell'identità culturale autoctona. Ciò non avvenne in Giappone perché il paese, nonostante le diverse crisi, riuscì a mantenere un contatto con la propria identità culturale originaria che per questo non si disintegrò completamente. A tal riguardo è necessario ricordare che quando si parla di identità culturale ci si riferisce sempre a un fenomeno non statico ma in continuo divenire. Il rischio è che i processi di modernizzazione siano così rapidi da creare confusione a livello culturale - cosa che avvenne a quell'epoca in Giappone. La risposta a tale disorientamento venne trovata nella religione e nelle credenze tradizionali, vale a dire nello Shintō, i cui principi furono reinterpretati in chiave fondamentalista. Dalla fine del XIX secolo l'immagine tradizionale dello Shintō, insieme alla sacralità della figura dell'imperatore, fu utilizzata allo scopo di mantenere la coesione sociale. Ideali basati su concetti quali quello confuciano di WA, di armonia, serviranno per legittimare la gerarchizzazione sociale e l'ubbidienza a quest'ultima; persino le arti marziali (Sumo etc.), così come il Buddhismo Zen, vengono rielaborati e reinterpretati in chiavi specifiche sempre allo scopo di rafforzare la coesione sociale e per creare il senso di una "autentica identità o vera anima giapponese". Due discorsi mitici contribuirono alla creazione di questa idea: il primo era costituito dall'idea del villaggio natio, il villaggio ideale, chiuso, sicuro, simbolo del mondo rurale; il secondo era quello della spiritualità pura legata al villaggio, specialmente quella Shintō. Nonostante il fatto che la dimensione rurale stesse subendo drastici se non a volte drammatici cambiamenti, la retorica del nazionalismo costruì questo mito di pura identità spirituale manipolando le tradizioni e imponendole come religione di stato. E' questo il KOKKASHINTŌ, lo Shintō di stato, che a mio avviso è in realtà quello che più si merita la definizione occidentale di Shintōismo. Tutti i principi legati alla sacralità imperiale, alla discendenza divina del cosmo, e conseguentemente del paese e del popolo di Yamato, vennero reinterpretati e manipolati in una chiave nazionalista e razzista che può riassumersi nel concetto di KOKUTAI, il corpo della nazione, a sua volta identificato con l'imperatore. Tutti gli estranei a questa discendenza, nella fattispecie i cinesi e i coreani, erano considerati inferiori; spettava al Giappone, con la sua discendenza divina, dominare il mondo e salvarlo. Questa visione giustificherà l'espansione economico-militare giapponese in Cina e in Corea. In tale contesto la divinità Amaterasu divenne praticamente l'unica divinità fondamentale; si creò quasi una sorta di monoteismo, in parte per adeguarsi alle religioni dell'occidente, in parte per legittimare il potere dell'imperatore considerato suo discendente. 28 Fu organizzata una chiesa Shintōista, i fedeli dovevano registrarsi come dei parrocchiani ai vari santuari; il Kojiki fu imposto come testo sacro (cosa senza precedenti perché lo Shintō non si è mai basato su testi sacri rivelati) che autenticava la sacralità delle dinastie imperiali; i santuari passarono sotto il controllo del governo; i sacerdoti dovevano sostenere un esame di teologia Shintō e se fallivano venivano dimessi; il Buddhismo divenne il rappresentante spirituale di ciò che è "altro", una religione straniera, e per questo i monaci subirono repressioni e furono costretti a tornare allo stato laico; molti monasteri buddhisti vennero dati alle fiamme. GERARCHIA RELIGIOSA Miyaza. Una organizzazione religiosa e corporativa che comprende le famiglie più antiche e ricche di un villaggio. Il Miyaza controlla e modula il coinvolgimento dei membri del villaggio all'esperienza sacra, fissa il calendario sacro della comunità, ha il diritto di organizzare e celebrare i riti e i matsuri, che paga grazie a rendite terriere, celebra i riti; solo i membri del Miyaza, tutti uomini e tutti capifamiglia, possono invocare la divinità, compiere le offerte e consumarle insieme alla divinità stessa; il Miyaza stabilisce un sistema di separazione perché ha il potere di escludere dalla vita religiosa alcuni gruppi sociali quali le donne, i poveri, i figli cadetti, i nuovi ricchi in un'ottica falsata di unificazione. Il Miyaza accetta la presenza di un sacerdote, il Kannushi, ma lo sceglie solo se è parte del proprio gruppo; venera gli Ujigami nei templi buddhisti, escludendo i monaci o relegandoli a ruoli secondari. In pratica è il vincolo di parentela che stabilisce l'appartenenza al Miyaza e anche la posizione all'interno della gerarchia, che è piramidale; tale gerarchia si riflette anche sui riti, in termini di diritto al compimento di determinate azioni rituali e di maggiore o minore vicinanza all'altare. Tuttavia anche il Miyaza ha subito l'influsso dei cambiamenti economici; mentre prima il diritto di appartenenza era solo di tipo parentale, in seguito questo diritto poté essere acquistato da famiglie ricche nuovamente insediate nel villaggio; si preferì aprirsi a questa soluzione piuttosto che favorire l'ingresso ai figli non primogeniti, onde evitare questioni di successione al potere sia a livello famigliare che nella corporazione stessa. Al giorno d'oggi l'esperienza religiosa collettiva si esplica in tre modalità: la festa, a cui possono partecipare tutti; i riti, che possono essere celebrati solo dal Miyaza; il matsuri, che può essere ufficiato solo dal ramo principale di una determinata famiglia (dozoku). Il concetto di divinità tutelare cambia durante il corso della storia e degli organi di potere che controllano l'esperienza religiosa. L'Ujigami diventa via via divinità tutelare del territorio e spesso si identifica con la divinità delle risaie (Tanokami) o con il dio del focolare (Kojin), per divenire di fatto un simbolo del villaggio che può essere venerato da tutte le componenti sociali e che dunque è interscambiabile e non più unico. 29 VERTICE DEL POTERE Il Toya è al vertice della gerarchia del villaggio; oggi la carica è elettiva, prima avveniva per successione nella famiglia principale. Il Toya è eletto tramite un rito di divinazione (uranai), il più utilizzato dei quali è quello del kayuura, che avviene decifrando le bruciature e le fenditure di canne di bambù riempite di riso e messe a contatto con un fuoco purificato; si chiede il responso all'Ujigami ma in realtà la corporazione ha già preso un accordo di massima per il successore; il responso serve solo a rendere indiscutibile la scelta perché appare come quella voluta dalla divinità. Il rito si svolge nella casa del Toya uscente, con scambio di coppe di sake, conferimento della parte centrale del mochi offerto all'Ujigami affinché venga conservata e rimpastata per l'anno successivo. Il nuovo Toya ha l'obbligo di accettare la carica, pena l'essere bandito dalla corporazione e la confisca dei beni. Egli deve organizzare e sovrintendere a tutte le manifestazioni della vita religiosa del villaggio, compie il rito di purificazione, accende il fuoco sacro, invoca la discesa della divinità, legge i Norito, guida la processione, presenta le offerte. Il Toya deve vivere in una condizione di purezza completa, si deve astenere dal lavoro nei campi per evitare il contatto con il concime, mangia in una stanza separata con cibo cotto a parte su un fuoco purificato, non può mangiare carne, cacciare, indossare abiti di pelle, deve dormire solo, evitare qualsiasi altra forma di impurità come i lutti, i parenti di un neonato, le donne mestruate. La sua casa deve essere rinnovata e viene circondata da uno shimenawa per indicarne la sacralità spaziale. A differenza della carica del Kannushi, che è ereditaria e di lunga durata ed è attualmente legata all'Associazione Nazionale dei Santuari, quella del Toya è limitata a un solo ciclo di coltivazione e allo spazio del villaggio. Il suo compito rituale è imperniato sul culto dell'Ujigami. Il ruolo del Toya è quello di mediazione fra le parti sociali, di definizione delle barriere rituali e dell'accesso al potere. E' il garante dell'unità e dell'armonia del villaggio. Il suo ruolo è in antitesi con quello dello sciamano, che il Toya tollera ma che controlla e regola con varie modalità, celandone l'estasi ai fedeli, inquadrando i responsi secondo un preciso schema di domande, stabilendo l'interpretazione dei responsi, e quali responsi sono degni di essere resi noti. Esiste una sorta di parallelismo fra il Toya e l'imperatore perché entrambi rappresentano, anche se su scale diverse, l'identità del gruppo e della comunità, e in ultima analisi, la continuità. Anche in Giappone, così come in Cina, la tendenza è stata quella di armonizzare il potere politico e quello religioso che si sono legittimati a vicenda durante il corso della storia. In Cina il potere politico dell'imperatore veniva ricevuto tramite il Mandato del Cielo mentre in Giappone questo mandato veniva ricevuto per diritto di nascita. 30