Appunti Su Stereotipi E Pregiudizi - Mazzara PDF

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Summary

Questi appunti trattano gli stereotipi e i pregiudizi nella società. Si analizzano le origini di questi fenomeni, i loro diversi tipi e come sono riprodotti. Si discute anche del ruolo della donna nella società e come gli stereotipi influiscono sulle sue opportunità. Gli appunti sono focalizzati sulla disamina di stereotipi e pregiudizi presenti nella cultura.

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APPUNTI MIEI SZPUNAR GIUGNO 2024 STEREOTIPI E PREGIUDIZI – MAZZARA Nella nostra cultura i termini stereotipi e pregiudizi sono termini negativi in quanto associati a fenomeni di razzismo; essi sono applicati anche nelle relazioni quotidiane, ed è così che il nostro modo di pensare (e giudicare la...

APPUNTI MIEI SZPUNAR GIUGNO 2024 STEREOTIPI E PREGIUDIZI – MAZZARA Nella nostra cultura i termini stereotipi e pregiudizi sono termini negativi in quanto associati a fenomeni di razzismo; essi sono applicati anche nelle relazioni quotidiane, ed è così che il nostro modo di pensare (e giudicare la realtà) appare meno elastico di quanto immaginiamo. Le scienze sociali, quali psicologia, sociologia, ecc., si sono interessate all’argomento in quanto solleva due questioni fondamentali per la filosofia: Se è possibile arrivare ad una conoscenza corretta del mondo o se essa è sempre un processo illusorio. Se l’uomo è intrinsecamente buono e quindi i comportamenti negativi derivano da condizioni esterne, o se esso è intrinsecamente egoista, aggressivo e competitivo e quindi la società ha il compito di organizzare e rendere meno cruenta la competizione. CAPITOLO 1: “STEREOTIPI E PREGIUDIZI IN AZIONE” Nonostante la nostra società sia caratterizzata da razionalità e democrazia, gli stereotipi e i pregiudizi sono ampiamente diffusi e convivono con i nuovi valori di razionalità e tolleranza. Stereotipi e pregiudizi si sono, col tempo, trasformati da espliciti e aggressivi, a impliciti e ragionevoli (apparentemente). Cos’è il pregiudizio? Etimologia del termine: “giudizio precedente l’esperienza”, dunque emesso in assenza di dati sufficienti; a causa di questa assenza, si tratta di un giudizio errato (non sempre, idea poi diventata parte del termine). Bacone affermava la necessità di guardare alla realtà liberano lo spirito dagli idola mentis (errori), bisogna invece disporsi come una tabula rasa, in modo da arrivare alla vera conoscenza del mondo. Egli classificò quattro tipi di errori: 1. Idola tribus: errori del genere umano, come il credere che esista un ordine superiore che organizza il mondo in modo armonico, oppure la tendenza a scegliere i dati che confermano le nostre opinioni e a tralasciare quelli che le confutano. In generale, significa lasciarsi influenzare nella valutazione dei fatti da sentimenti, speranza e timori. Si tratta di quelli che oggi si definiscono “errori cognitivi”. 2. Idola specus: sono gli errori del singolo individuo, dipendono dall’esperienza personale, da questa dipende il modo di essere di ognuno e da ciò deriva un particolare modo di guardare alla realtà. 3. Idola fori: errori che dipendono dall’interazione tra le persone, in primo luogo dal linguaggio che costruisce barriere, impedendo così la vera conoscenza. 4. Idola theatri: corrisponde a favole e miti della tradizione che solitamente impongono le proprie spiegazioni. È necessario sostituirle con la scienza sperimentale se si vuole arrivare ad un vero progresso della conoscenza. Ad interessarsi al tema furono anche Galileo, Spinoza, ecc., e fu una delle questioni cruciali del pensiero scientifico moderno. Difatti anche le discipline sociali si sono interessate al pregiudizio, aggiungendone due specificazioni: Il fatto che il pregiudizio si riferisca soprattutto a gruppi sociali. Il fatto che sia solitamente sfavorevole nei confronti di tali gruppi. È secondo queste due accezioni che oggi ci riferiamo al pregiudizio. Esiste, però, un livello di generalizzazione massima del temine che finisce per dire che “tutto è pregiudizio”, e considerarlo una caratteristica del genere umano difficilmente modificabile. In questo senso, esisterebbe anche un valore positivo da associare a pregiudizio, tale livello include anche tanti pregiudizi che non pongono nessun problema sociale. Invece, secondo il livello massimo di specificità, che il pregiudizio viene considerato come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. In entrambi i livelli, il pregiudizio non si limita solo ad una valutazione rispetto all’oggetto, ma orienta concretamente l’azione nei suoi confronti. Cos’è lo stereotipo? Il concetto di stereotipo nasce nelle scienze sociali, ma il termine proviene dall’ambiente tipografico (fine ‘700) per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse. Il primo uso traslato fu in ambito psichiatrico, in riferimento a comportamenti patologici caratterizzati da ripetitività ossessiva di gesti ed espressioni. L’introduzione del termine nelle scienze sociali si deve a Walter Lippmann che sostiene che il rapporto conoscitivo con la realtà non è diretto ma mediato dalle immagini mentali (stereotipi) che ognuno si forma. Queste immagini mentali sono delle semplificazioni grossolane e rigide della realtà, questo è dovuto al fatto che la mente umana è incapace di cogliere le infinite sfumature e l’estrema complessità del mondo. Lippmann ebbe il merito di anticipare alcuni dei punti essenziali delle analisi moderne: il fatto che il processo di semplificazione della realtà sia determinato culturalmente. Come tale, lo stereotipo che fa parte della cultura, viene poi acquisito dai singoli e da loro utilizzato per un’efficace comprensione della realtà. Ha inoltre una funzione di tipo difensivo: tende a mantenere una determinata cultura ed organizzazione sociale, salvaguardando le posizioni acquisite dall’individuo. Lippmann ha inoltre intuito il modo di funzionamento degli stereotipi: questi orientano la valutazione dei dati a partire dalla loro percezione, attraverso gli organi di senso, ed in funzione degli stereotipi stessi. Una delle conseguenze è la riproduzione degli stereotipi, dal momento che le informazioni che li contraddicono vengono tralasciate. È evidente come i due concetti, stereotipo e pregiudizio, siano connessi, tanto da essere confusi tra di loro, ma lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio: l’insieme di informazioni e credenze relative ad una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti (cioè, di orientare la valutazione dei dati in direzione del pregiudizio). Caratteristiche dello stereotipo: un’accezione generale fa riferimento ai processi mentali. Può avere valenza sia positiva che negativa, la seconda si interessa soprattutto alle immagini negative relative ai vari gruppi sociali (le minoranze). Gli stereotipi possono essere definiti in base ad alcune variabili: 1. Il livello di condivisione sociale: uno stereotipo relativo ad un gruppo sociale può più o meno essere condiviso socialmente. Inoltre, lo stereotipo di un determinato gruppo sociale può essere più diffuso rispetto a quello di un altro gruppo sociale che potrebbe essere condiviso solo da un certo sottoinsieme di persone. Per alcune teorie lo stereotipo è la tendenza dei singoli individui ad elaborare i propri stereotipi, per altre teorie invece, perché si possa parlare di stereotipo, è indispensabile un certo livello di condivisione sociale. Il pregiudizio del singolo, allora, può essere considerato proprio la misura in cui egli condivide alcuni stereotipi presenti nella sua cultura. 2. Il livello di generalizzazione: lo stereotipo relativo ad un gruppo sociale può essere esteso a tutto il gruppo oppure si può stabilire di volta in volta se l’individuo che si ha difronte corrisponde o meno allo stereotipo. Alcuni gruppi possono essere percepiti come più compatti di altri. 3. Il livello di rigidità: gli stereotipi possono essere considerati difficilmente mutabili in quanto profondamente legati alla cultura e nella personalità, o possono essere considerati fenomeni casuali facilmente eliminabili una volta individuate le cause. Dunque, l’accezione generale di stereotipo lo considera come l’insieme delle caratteristiche che si associano ad una certa categoria di oggetti, mentre l’accezione specifica che lo considera relativo ai gruppi sociali e che considera anche i gradi di variabili suddette. Facendo riferimento a questa seconda accezione consideriamo lo stereotipo come l’insieme coerente di credenze negative che un certo gruppo sociale condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale. La tendenza a pensare ad agire sfavorevolmente verso un gruppo sociale (pregiudizio) poggia quindi sulla convinzione che quel gruppo sociale o categoria, possieda in maniera omogenea dei tratti che si considerano abbastanza negativi (stereotipo). Questo fenomeno può essere analizzato secondo il: Grado di specificità di tali concetti: possono essere usati per descrivere fenomeni diversi distinguendo da un lato i due processi (stereotipo/pregiudizio), dall’altro i gruppi sociali a cui si riferiscono. Molti ritengono che si possa parlare di un fenomeno unico e quindi la distinzione tra pregiudizio e stereotipo non ha importanza e nemmeno la distinzione fra i pregiudizi di un gruppo sociale e quelli relativi ad un altro. Altri distinguono i due processi e i gruppi sociali a cui si riferiscono e ritengono che possa essere fuorviante parlarne in maniera generale; dunque, si sottolinea la distinzione tra pregiudizio e stereotipo. Nocciolo di verità: anche se ammettere che ci sia un fondo di verità alla base dello stereotipo rischia di supportare discriminazioni sociali, è necessario guardare all’altro riconoscendo le differenze senza per questo associare alle differenze una valutazione negativa. È a partire dal riconoscimento ed accettazione di tali differenze che si può agire al meglio per opporsi allo sfruttamento negativo delle stesse in direzione dell’oppressione sociale ed ottenere che esse si traducano in arricchimento collettivo. Rapporto fra stereotipi e pregiudizi in quanto fenomeni psicoculturali e le variabili sociali, storiche, economiche e politiche: sarebbe errato considerare le varie discriminazioni verso le minoranze solo sulla base di stereotipi e pregiudizi tralasciando il complesso delle dinamiche storico-sociali cui esse sono collegati. Ma è anche indispensabile conoscere le strategie psico-sociali messe in atto da parte di chi agisce e chi subisce gli stereotipi. LA QUESTIONE FEMMINILIE La nostra società combatte apertamente la discriminazione alle donne, ma può ancora considerarsi maschilista per una serie di ragioni. Se si guarda all’ambito dell’occupazione si noterà che il numero delle donne a lavoro è inferiore, inoltre esse occupano in minor misura ruoli di responsabilità e sono distribuite in un numero più ridotto di professioni. A questo, quindi, corrisponde una forte sottovalutazione del ruolo sociale della donna. Al contrario, in ambito pubblicitario, hanno il ruolo di promotrici dei consumi familiari e di sollecitazione erotica dei consumi più tipicamente maschili. Anche quest’ultimo aspetto, nonostante anni di denunce, è rimasto immutato. Molti sforzi sono stati fatti dal punto di vista legislativo, ad esempio riservando alle donne un certo numero di posti direttivi e di responsabilità, come lo si fa per i gruppi svantaggiati. Una battaglia è stata avviata anche sul versante del linguaggio. E se nella società occidentale esiste una coscienza del problema e diversi sforzi sono stati avviati, in altre culture le donne hanno un ruolo estremamente subordinato, con dei risvolti, a volte piuttosto tragici. La subordinazione della donna si appoggia anche sulla riproduzione di stereotipi femminili e maschili, che con mezzi sottili mantengono inalterata la differenza fra uomo e donna. Tali stereotipi vedono le donne come più emotive, gentili, sensibili, dipendenti, naturalmente disposte alla cura; gli uomini al contrario sono percepiti come aggressivi, interessati alla tecnica, competitivi e fiduciosi in sé stessi. Queste immagini propongono le caratteristiche appropriate per sostenere il ruolo sociale dei due sessi. Da notare, inoltre, che questa immagine è spesso condivisa da gran parte delle donne. Qui può rientrare il tema del cosiddetto “nocciolo di verità” e la discussione può includere da un lato le determinanti biologico-evolutive della differenza fra i sessi, e dall’altro i processi di socializzazione che a partire dalla più tenera età fanno in modo che il maschio e la femmina si adattino a ricoprire i ruoli che ad essi sono assegnati. IL PREGIUDIZIO ETNICO-RAZZIALE È l’ambito in cui il pregiudizio è più diffuso anche se meno esplicito e convive con i valori universalmente accettati di tolleranza e uguaglianza. Negli anni ’60 c’era la segregazione razziale, oggi pochi assumono posizioni di aperta intolleranza razziale. Ma a fronte di tali preoccupazioni formali il processo di integrazione è fallito. Il “nuovo razzismo” si caratterizza per essere: Simbolico: si sostiene che, dato che gli ostacoli formali alla parità sono stati rimossi, qualsiasi favoritismo verso le minoranze sarebbe ingiusto e discriminatorio nei confronti della maggioranza. In altre parole, si afferma che le politiche a favore delle minoranze creano una "discriminazione al rovescio". Avversivo: questo si manifesta quando le persone, pur non potendo conciliare il loro sentimento di ostilità verso il diverso con i valori moderni di tolleranza, assumono un atteggiamento di disagio e cercano di evitare situazioni in cui si trovano a contatto con le minoranze. In pratica, si prova un senso di disagio che porta alla fuga o al distanziamento dalle minoranze, piuttosto che a un confronto diretto o a espressioni esplicite di razzismo. È il pregiudizio più difficile da combattere perché chiama in causa processi psicologici basilari e la distorsione della percezione e valutazione: si può rilevare una tendenza diffusa a sopravvalutare il ruolo delle caratteristiche etniche (un esperimento ha mostrato che una stessa azione criminale viene percepita come più aggressiva se compita da soggetti di colore). Solo il fatto di sentire il bisogno di comunicare informazioni sull’appartenenza etnica della persona con cui si viene in contatto è indice della sopravvalutazione di quel tratto rispetto agli altri. Il risultato di tali atteggiamenti sul piano sociale si traduce in fenomeni di risegregazione, mentre a livello concettuale si traduce in pregiudizio differenzialista: ossia, sottolineando il valore autonomo di ogni cultura, ma riconoscendo un’inconciliabile differenza, si ritiene che proprio per salvaguardare la ricchezza propria di ogni cultura, è indispensabile che esse rimangano separate, questa si traduce in una politica segregazionista e di chiusura all’immigrazione. La sopravvalutazione del fenomeno fa prevalere un certo allarmismo che finisce per giustificare azioni discriminatorie. Si è infatti assistito molto spesso ad espressioni come “io non sono razzista ma…” seguito da valutazioni pseudo-soggettive che tendono a razionalizzare l’ostilità verso gli immigrati e a sostenere come inevitabili interventi di fatti discriminatori. Le persone tendono a esagerare il ruolo degli immigrati nei crimini, anche se spesso questi crimini sono commessi da persone del posto. Questa percezione distorta influenza l'opinione collettiva, cioè ciò che la maggioranza delle persone pensa. In Italia, c'è una situazione di segregazione, dove gli immigrati sono separati e non trattati allo stesso modo degli italiani. Non c'è un conflitto aperto, ma nemmeno un tentativo illuminato di accettare le differenze. Gli immigrati sono considerati inferiori e non hanno lo stesso status sociale degli italiani. I CARATTERI NAZIONALI Un’altra espressione del pregiudizio etnico in cui gli stereotipi hanno importanza è il tema dei cosiddetti caratteri nazionali. L’idea alla base è che i diversi gruppi nazionali siano caratterizzati da un’omogeneità di disposizioni comportamentali tanto da far parlare di uno specifico carattere della nazione. Tra gli stereotipi più diffusi troviamo che i tedeschi sono rigidi, che i francesi sono narcisisti, ecc. Bisogna riconoscere che queste affermazioni contengano un “nocciolo di verità” in quanto gli stereotipi sono stati costruiti per esprimere tendenze che sono in certa misura reali. Il problema è il confine tra stereotipo come strumento di previsione e controllo della realtà e stereotipo come ostacolo all’interazione, che sta nell’esasperazione di due caratteristiche tipiche dello stereotipo: la generalizzazione (le caratteristiche tipiche del gruppo sono distribuite nel gruppo in modo omogeneo e quindi applicabili anche ai singoli) e la rigidità (le caratteristiche sono coerenti, organiche e stabili nel tempo e nello spazio). Se un certo livello di generalizzazione consente di fare delle previsioni, un livello eccessivo allora non fa cogliere le sfumature individuali. Se un certo livello di coerenza è necessario per permettere l’interpretazione degli altri, uno eccessivo invece esclude la comprensione delle differenze con cui i singoli tratti possono presentarsi ed impedisce di cogliere le trasformazioni che i tratti subiscono nel corso del tempo. Si chiama in causa uno dei temi cruciali delle scienze umane: il rapporto tra l’individuo con le sue particolarità irripetibili e l’ambiente socioculturale. La corrispondenza tra l’individuo ed alcuni tratti nazionali, sposta l’analisi su: La forza dei processi di socializzazione che producono cultura. Il rapporto di causazione esistente tra l’individuo e la cultura (una cultura plasma l’individuo che riproduce una cultura ed un tipo di società). L’aspetto pratico riguarda le problematiche che possono sorgere nel rapporto con gruppi nazionali diversi dal proprio: laddove si percepisce l’altro come espressione di una cultura antietnica alla propria, l’interazione sarà ostacolata da un’ostilità di fondo. L’ANTISEMITISMO È un fenomeno che intreccia cause storiche e cause psicosociali. Lo sterminio degli ebrei si è avuto anche con la complicità di persone “normali” che hanno trovato ragioni per considerare accettabile quello che stava accadendo. In ciò hanno avuto un ruolo moto rilevante stereotipi e pregiudizi: si riconosce un insieme di ragioni di tipo economico e politico, e ragioni di tipo culturale e psicologico. Gli ebrei si sono trovati a svolgere, nelle varie società che li hanno accolti, funzioni che hanno finito con il rafforzare l’idea di gruppo distinto caratterizzato da certi specifici tratti. L’ISOLAMENTO La stessa religione ebraica governa vari aspetti della vita civile e dell’interazione fra le persone, il che rende difficile l’integrazione con persone di religioni diverse. Rispetto a questa auto-identificazione come gruppo distinto, si sono attivate alcune dinamiche psicosociali che ribadiscono i confini e contribuiscono a delineare elementi di identità collettiva, portando anche all’elaborazione di una serie di credenze atte a sostenere e a giustificare l’emarginazione. Agli inizi del IV secolo d.c. quando il cristianesimo diventa predominante e i gruppi ebraici diventarono bersaglio di persecuzione, gli fu vietata la propaganda religiosa e la partecipazione alla vita pubblica. Tali esclusioni si sono succedute fino al periodo dell’emancipazione legale, verso la fine del ‘700; tale emancipazione ha contribuito non solo a creare l’identità del popolo ebraico, ma anche a caratterizzarlo in chiave socioeconomica e psicologica. LO STEREOTIPO DEGLI EBREI IN RAPPORTO ALLA LORO STORIA Per molto tempo le uniche attività consentite agli ebrei erano il prestito di denaro e il commercio, considerate di livello inferiore nel Medioevo. Col passare del tempo, però, la struttura mondiale cambiava e lo scambio di merci diventò un'attività centrale. Quindi, per via di questo, in seguito si è affermato uno dei tratti principali dello stereotipo che riguarda gli ebrei: l'amore per il denaro e l'avidità. Questi sono uno dei più potenti motivi di ostilità nei loro confronti; inoltre, la loro solidarietà di gruppo è sempre stata vista come elemento di disgregazione delle diverse unità culturali. È nata col tempo la convinzione che gli ebrei riescano sempre a impadronirsi nei gangli vitali delle società. A questi elementi si aggiungono le componenti psicologiche dello stereotipo, ovvero le caratteristiche di personalità che farebbero da sostegno a queste azioni e permetterebbero loro la scalata sociale (l’acutezza intellettiva, la vigliaccheria, ecc.). In questo modo nei secoli è cresciuta la percezione degli ebrei come corpo estraneo alla società e la questione ebraica è stata percepita come un problema importante. Un caso emblematico fu l'Italia durante il fascismo, nonostante ci fossero solo 40.000 ebrei, negli anni che precedettero e seguirono le leggi speciali del 1938, il problema ebraico sembrò essere diventato il primo dei mali nazionali. Sartre sostenne che l'antisemitismo, oltre a ragioni di tipo economico, storico e politico, dipendesse anche da rappresentazioni e costruzioni simboliche. Oggi c'è il riemergere dei luoghi comuni e dei pregiudizi nei confronti degli ebrei, in concomitanza con le decisioni politiche assunte dallo Stato di Israele nel Medio Oriente ritenute condannabili. Ancora una volta, quindi, si è riproposta la visione degli ebrei come un tutto unico e di conseguenza ciascun ebreo è responsabile anche delle azioni degli altri. LE MARGINALITÀ SOCIALI Alcuni stereotipi relativi a gruppi sociali sono abbastanza innocui e svolgono la funzione di anticipazione della conoscenza sociale senza che ciò si traduca in una svalutazione dell'altro; altri hanno invece assunto la valenza di vero e proprio pregiudizio negativo. GIOVANI ED ANZIANI L'età è un altro tratto che spesso viene usato per identificare le persone e al quale sono associati degli stereotipi. Si guarda ai presunti difetti dei giovani con benevolenza e gran parte dei loro tratti vengono assunti nella nostra società come modello di comportamento; proprio per questo orientamento culturale definito “giovanilista” gli anziani sono considerati in maniera complessivamente negativa. Il pregiudizio che viene loro rivolto li considera troppo soggetti a pregiudizi, rigidi e ostinati e per nulla aperti all'innovazione, vengono considerati incompetenti e quindi posti ai margini del sistema produttivo e dei processi di elaborazione e circolazione delle idee. DISABILITÀ FISICA E MENTALE Le persone portatrici di handicap fisici hanno visto una sempre maggiore accettazione formale grazie a vari provvedimenti legislativi e si sono ritrovati ad avere uno status di categoria protetta. Vengono percepiti come categoria nell'interazione sociale. Vengono inoltre visti, oltre che come diversamente abili, anche come più fragili, troppo emotivi e volubili. Si tende inoltre a manifestare imbarazzo che si giustifica con il non sapere come comportarsi, ma che in realtà esprime il disagio della loro presenza. Per quanto riguarda invece i malati mentali, l'atteggiamento nei loro confronti varia in base alla cultura e nella nostra vengono percepiti come minacciosi e fastidiosi, anche se hanno conquistato lo status di malato, quindi di persona da curare. OMOSESSUALI E TOSSICODIPENDENTI Omosessuali e tossicodipendenti sono categorie spesso associate perché entrambe considerate devianti rispetto alla morale, a favore del piacere, corruttrici e pericolose dal punto di vista sanitario e sociale. C'è una similarità anche nei tratti sociali che vengono loro attribuiti: debolezza psicologica e scarsa maturità personale. Se però la percezione degli omosessuali era un po’ migliorata nel tempo grazie alle numerose battaglie intraprese, lo scoppio dell'AIDS ha annullato alcuni di questi risultati. Probabilmente, proprio in quanto percepiti come categoria a rischio AIDS, sono associati ai tossicodipendenti. Per i tossicodipendenti lo stereotipo propone i caratteri di fragilità psicologica e di uno scarso valore della persona. Questa generalizzazione però annulla i percorsi particolari che possono aver condotto l'individuo a quella situazione. CAPITOLO DUE: “LE SPIEGAZIONI” Vediamo uno schema di classificazione delle diverse spiegazioni distinte secondo due coppie, ordinario o eccezionale e individuale o sociale, queste spiegazioni possono anche intrecciarsi tra di loro: Le spiegazioni che vedono il pregiudizio come un processo ordinario: alla loro base c'è la naturalità, quindi la constatazione della loro diffusione in tutti i tempi e della difficoltà a contrastarli. C’è l'universalità della preferenza per i propri simili e l'avversione per gli estranei. Inoltre, la mente umana ha la necessità di ridurre e organizzare in modo più semplice l'infinità di dati e di stimoli ambientali sui quali opera. Le spiegazioni che vedono pregiudizi e stereotipi come un processo eccezionale e in questo senso controllabili, l'accento viene posto sulle condizioni in qualche modo eccezionali nelle quali questi fenomeni si attivano e soprattutto sulla possibilità di controllare queste condizioni grazie ad un preciso progetto sociopolitico. Spiegazione a carattere individuale che mettono l'accento sull'individuo e sulla sua essenza biologica e psicologica nei processi che l'hanno portato a essere quello che è. Vengono chiamati in causa, le selezioni naturali e i processi di funzionamento della mente, le strutture di personalità e le motivazioni. Spiegazioni a carattere sociale che spostano l'accento sull'interazione fra gli esseri umani. Qui si collocano le spiegazioni sociopolitiche che chiamano in causa anche i rapporti economici e di potere tra i gruppi sociali, ma anche quelle che, restando su un terreno psicoculturale, cercano le ragioni dell'ostilità interpersonale nei rapporti fra i singoli e nelle dinamiche di gruppo. LE BASI ORDINARIE DI STEREOTIPI E PREGIUDIZI 1. SPIEGAZIONI INDIVIDUALI Gli stereotipi e i pregiudizi sono comportamenti comuni e non sono solo colpa di poche persone, ma di tutti. Questo significa che dobbiamo essere sempre attenti a non avere questi atteggiamenti. Tuttavia, pensare che siano naturali e inevitabili può portare a non fare nulla per cambiare la situazione. Anche se ci sono motivi naturali per cui abbiamo stereotipi e pregiudizi, il modo in cui li mostriamo dipende molto dalla società in cui viviamo. Le regole sociali, la cultura, l'economia e la politica influenzano quanto questi atteggiamenti portano a comportamenti discriminatori. IL FONDAMENTO BIOLOGICO DELL'OSTILITÀ CONTRO I DIVERSI La spiegazione sociobiologica fa leva sull’istinto biologico della lotta per la sopravvivenza comune a tutti gli animali. Questo istinto spinge a riconoscersi come parte di un gruppo di simili, un dato sufficiente ad attivare l'ostilità nei confronti dell'altro. Stereotipi e pregiudizi sono un modo sofisticato con il quale l'essere umano esprime questo istinto con lo scopo di sottolineare i confini delle appartenenze. Ci sono alcune teorie che ritengono che dalla selezione naturale siano stati sviluppati con forza due istinti: l'istinto competitivo volto alla delimitazione del territorio e l'istinto cooperativo volto all'esplorazione. L'apertura e il successo evolutivo dipendono dal bilanciamento di entrambi. Però i fenomeni culturalmente e socialmente complessi come il pregiudizio non possono essere spiegati con la sola predisposizione biologica, le basi “naturali” del pregiudizio possono essere viste piuttosto come una predisposizione. LA NECESSITÀ PSICOLOGICA DI SEMPLIFICARE IL MONDO (CATEGORIZZAZIONE) Nel 1954 Gordon Allport ne “La natura del pregiudizio” descriveva i processi naturali sui quali il pregiudizio si basa. L'idea di base è che il sistema cognitivo, di fronte alla complessità del mondo, ha come necessità quella di ridurre e semplificare la massa delle informazioni da trattare. C'è un raggruppamento di queste informazioni in categorie. Sappiamo che anche i concetti che sono alla base del pensiero, del linguaggio e della comunicazione si basano sulla capacità di astrazione e semplificazione, in base alle quali raggruppiamo i vari oggetti in classi e diamo loro un nome valido per tutti gli oggetti inclusi in quella classe. Mentre a livello sociale la categorizzazione porta a raggruppare gli altri in base ai possibili criteri e in funzione delle necessità del momento, attribuendo poi ai singoli membri del gruppo le caratteristiche che definiscono l'intera categoria. Questo è un processo inevitabile. Questo processo mentale di conoscenza del mondo può essere applicato in termini di stereotipi e pregiudizi. Succede quando ai tratti che in origine definiscono una categoria, se ne aggiungono altri di tipo psicologico e riguardanti la personalità, finendo per diventare parte della definizione. Ad esempio, è ragionevole aspettarsi che un ingegnere sappia progettare e conoscere la matematica. Non è del tutto illogico pensare che in base alla sua formazione, al suo lavoro, abbia una personalità pragmatica e razionale, piuttosto che romantica o idealista. Diventa un elemento di stereotipo negativo pensare che per questo la persona sia scostante e non generosa. Questa estensione delle caratteristiche oggettive a quelle soggettive ha a che fare con le modalità di funzionamento e i limiti del sistema cognitivo. L'essere umano ha necessità di fare velocemente delle previsioni; porci di fronte all'altro come una “tabula rasa” implicherebbe che la conoscenza diventi un processo lungo e rischioso, per questo attiviamo un processo di “inferenza” che ci porta a intravedere la corrispondenza tra certi tratti immediatamente rilevabili e certe caratteristiche più nascoste del soggetto. Questo permette di orientarci nella scelta delle interazioni e non giustificano eventuale uso distorto dell'inferenza. Nel caso di stereotipi e pregiudizi, infatti, si tende a collegare in maniera illegittima delle caratteristiche oggettive di appartenenza sociale con caratteristiche personali. Un'altra caratteristica di stereotipi e pregiudizi associati ai gruppi sociali è la forzatura dell'omogeneità della categoria, è un errore che fa sì che anche i tratti psicologici associati di solito a quelli fisici e sociali, vengono estesi a tutta la categoria. È importante rendersi conto che l'individuo che ci si trova di fronte, può essere, per vari motivi, anche molto diverso dal profilo caratteristico. Ma molto spesso questa generalizzazione indebita è usata proprio per marcare confini, sancire disuguaglianze e confermare un certo sistema di relazioni sociali. 2. SPIEGAZIONI SOCIALI IDENTITÀ PERSONALE E IDENTITÀ SOCIALE Alcune spiegazioni ritengono che stereotipi e pregiudizi siano il risultato di processi psicologici che si attivano nell'interazione tra l'individuo e il contesto sociale e che porterebbero a una tensione automatica fra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi. Questi processi riguardano l'effetto dell'appartenenza sociale nella formazione dell'identità dell'individuo. Per identità definiamo l'immagine che ognuno ha di sé stesso, che è la sintesi complessa di una certa immagine che ognuno ha della propria storia personale, di opinioni riguardo le proprie capacità, di aspettative verso il futuro e del proprio posto nel mondo. L'identità, quindi, è il risultato di un continuo confronto sociale. L’individuo impara a valutare sé stesso in relazione agli altri, e questi altri non sono considerati singolarmente ma raggruppati in categorie sociali. In definitiva dalla conoscenza del mondo sociale, diviso in categorie, l'individuo trae informazioni anche su sé stesso, ricavando buona parte dell'immagine che ha di sé, dell'immagine che ha del proprio gruppo, degli altri gruppi e dei rapporti complessivi fra i gruppi. Dato lo stretto legame fra l'identità personale e l'appartenenza sociale, l'individuo applica ai gruppi di cui fa parte le tecniche di miglioramento dell'autostima che solitamente usa per sé stesso: questo viene definito favoritismo di gruppo. Vediamo alcuni esperimenti, tra cui quelli di Caroline e Mauzer Sherif, che suddivisero in gruppi, in modo casuale, dei ragazzi che frequentavano il campo estivo. L'esperimento mostrò come la sola suddivisione in gruppi sia sufficiente perché si attivi in automatico favoritismo per le ingroup e ostilità per l'outgroup (e questo anche prima che gli sperimentatori introducessero elementi di competizione). Fu constatato che l’ostilità per l'outgroup poteva essere ridotta tramite la collaborazione dei gruppi per il raggiungimento di scopi comuni. Un altro esperimento era quello dei “gruppi minimali” di Henri Tajfel per studiare quali fossero le condizioni minime perché si innescasse il favoritismo di gruppo. In un esperimento, degli studenti adolescenti sono stati divisi in due gruppi. Ogni studente sapeva a quale gruppo appartenesse, ma non conosceva chi fossero gli altri membri del proprio gruppo. Ogni studente doveva poi decidere come distribuire delle risorse (probabilmente denaro) scegliendo tra diverse opzioni di distribuzione. Le opzioni di distribuzione riflettevano tre diverse strategie: 1. Massimo profitto comune: fare in modo che tutto il gruppo di studenti ricevesse la maggior quantità possibile di risorse complessive. 2. Massimo profitto per il proprio gruppo: assicurarsi che il proprio gruppo ricevesse il maggior numero di risorse possibile. 3. Massima differenza tra i gruppi: puntare a ottenere la maggiore differenza tra le risorse del proprio gruppo e quelle dell'altro gruppo, indipendentemente da quanto ricevesse effettivamente il proprio gruppo. L'esperimento ha mostrato che gli studenti tendevano a scegliere principalmente le strategie 2 e 3. Quando si trattava di aumentare la differenza tra i guadagni dei gruppi, gli studenti erano disposti a ridurre le risorse per il proprio gruppo, purché la differenza rispetto all'altro gruppo rimanesse alta. Questa tendenza a identificarsi con un gruppo e a favorirlo nel confronto con gli altri sarebbe per certi aspetti basilare. Stereotipi e pregiudizi non sarebbero altro che la manifestazione nelle immagini, nel linguaggio e nei comportamenti, del favoritismo per il proprio gruppo, del quale l'individuo è del tutto inconsapevole. Ciò non significa giustificare pregiudizi e stereotipi. Spiegare i processi psicologici che li causano è una cosa, mentre usarli è un'altra, perché questo coinvolge sempre fortemente fattori sociali e culturali. Per esempio, il fatto che una persona favorisca il proprio gruppo (ingroup) dipende anche da come la cultura vede quel gruppo. APPARTENENZA SOCIOCULTURALE ED OSTILITÀ VERSO L'ALTRO Sentirsi parte di una comunità significa anche dare e ricevere costante conferma del proprio modello culturale. La conseguenza è una tendenza universale all’etnocentrismo che ritiene che la cultura di appartenenza dalla quale si valutano tutte le altre (considerate inferiori) sia il centro dell'universo. Ogni cultura sviluppa accorgimenti per mantenere l'identità collettiva, e fra questi accorgimenti vi è anche la ricerca e la sanzione di un comune nemico. L'identità di gruppo viene esaltata e si irrigidiscono gli stereotipi riguardanti l'altro gruppo. Conseguenza dell’etnocentrismo è il fatto che le usanze del gruppo diventano un imperativo per il singolo, l'individuo si trova infatti soggetto a quelle che Boas definì “tirannìa dei costumi”: vincolato alla propria cultura non può che comportarsi come essa prescrive, e pensare come essa pensa. L'individuo ha bisogno di una potente struttura di simboli condivisi per ritenere che sia moralmente giusto combattere il diverso con la violenza. Con questo si vuole dire che non possiamo spiegare i conflitti tra gruppi etnici solo con stereotipi e pregiudizi e allo stesso tempo, non possiamo ignorare come questi conflitti avvengono nella vita di tutti i giorni, concentrandoci solo sulle spiegazioni storiche. PROSPETTIVA DELLA COSTRUZIONE SOCIALE DEL PREGIUDIZIO Stereotipi e pregiudizi sarebbero in qualche modo sedimenti di conoscenza e di memoria collettiva, una sorta di archivio storico, in definitiva. In questo senso l'attenzione si sposta dal perché al come e ci si concentra sulle modalità di produzione e riproduzione sociale, vera causa della loro diffusione. Gli approcci costruzionisti dicono che la realtà è in qualche modo la sua rappresentazione; esiste solo in quanto definita e descritta (ad esempio, la categoria degli omosessuali non esiste in quanto tale, esiste solo perché è stata definita da altri in quanto categoria). Quindi grande rilevanza viene attribuita alle pratiche comunicative e viene posta attenzione anche alla pratica retorica. Infatti, stereotipi e pregiudizi acquistano forza a causa del modo specifico in cui si usa la comunicazione persuasiva. Vengono esaminate in dettaglio le argomentazioni che di volta in volta sono usate a sostegno di certe interpretazioni dei fatti di gruppo, e tramite queste si costruisce un modo collettivo di rapportarsi ad eventi significativi. LE CAUSE ECCEZIONALI DI STEREOTIPI E PREGIUDIZI Questa prospettiva, quindi, è deresponsabilizzante in quanto stereotipi e pregiudizi sarebbero legati a circostanze casuali. In questo caso le manifestazioni di ostilità vengono considerate come comportamenti giusti, dovuti a ragioni oggettivamente valide. È ciò che accade nel cosiddetto “pregiudizio ragionevole” (“non sono razzista, ma…”). LE MINORANZE COME CAPRO ESPIATORIO Le minoranze costituiscono un bersaglio sostitutivo contro il quale l'individuo scaglia la propria tensione psichica frustrata. Questa teoria della “frustrazione-aggressività” è stata elaborata da John Dollar si ritiene che l'individuo agisca sempre sulla spinta di una tensione psichica che si attiva quando egli si propone uno scopo e se lo scopo non è raggiunto, in presenza di una frustrazione, la tensione rimane insoddisfatta e può accumularsi, creando uno stato di disagio che viene risolto rimuovendo la causa della frustrazione. Se ciò non è possibile, si verifica la dislocazione dell'aggressività: si dirige verso altri bersagli, solitamente più deboli, che sono capri espiatori. Questo modello viene smentito perché non sempre la frustrazione conduce all'aggressività. Un'altra spiegazione, infatti, chiama in causa il processo psicologico della proiezione, l'individuo proietta su altri le pulsioni e le caratteristiche negative che non si possono accettare della propria personalità. Su alcune minoranze sarebbero poi proiettati non tanto gli istinti negativi che si rifiutano in sé, ma il controllo e la manipolazione che si avvertono esercitati ai propri danni da parte del super-io e contro i quali si vorrebbe potersi scagliare. La conseguenza a queste spiegazioni è che richiedono un'analisi differenziata per ognuno dei pregiudizi, in quanto ciascuno risponderebbe a precise istanze psicodinamiche. LA PERSONALITÀ AUTORITARIA “La personalità autoritaria” è uno studio condotto da Adorno. Esiste una struttura caratteriale tipica delle persone inclini all'antisemitismo, espressione di una sindrome di personalità chiamata “personalità autoritaria”. Questa è caratterizzata, oltre che dall'antisemitismo, anche dal conservatorismo socio- economico, dall'etnocentrismo marcato e da tendenze antidemocratiche di tipo prefascista, si realizza attraverso una serie di comportamenti: totale fiducia nei valori tradizionali, conformismo, immagine negativa dell'essere umano che porta a vedere ovunque pericoli e minacce, sottomissione dell'autorità, ostilità verso gruppi esterni, verso i devianti e i marginali, eccessiva preoccupazione per la dimensione sessuale, marcata rigidità mentale, totale accettazione degli stereotipi, visione per forti contrapposizioni ed in definitiva una percezione distorta della realtà. La causa è la debolezza dell'Io, dovuta a forse a percorsi di socializzazione e all'interazione avuta con i genitori; questa sindrome si ripropone infatti di generazione in generazione. LE CONDIZIONI DI CONFLITTO E DI CONFRONTO (A LIVELLO SOCIALE) Stereotipi e pregiudizi sono strumenti di conflitto fra gli esseri umani. TEORIA DEL CONFLITTO REALE Secondo la teoria del conflitto reale, l'ostilità fra i gruppi sarebbe maggiore quando gli obiettivi di un gruppo sono apertamente in contrasto con quelli dell'altro; all'aumentare del livello di competizione fra i gruppi aumenta il favoritismo dell’in-group e peggiora l'immagine dell'out-group. LA DEPRIVAZIONE RELATIVA La “deprivazione relativa” si riferisce alla tendenza umana a valutare la propria condizione e il proprio livello di felicità confrontandoli con diversi parametri: I. Alla propria situazione precedente, ossia la tendenza a valutare la propria felicità in base a come era la propria vita in passato. II. A quella che si considera la situazione ideale. III. Al confronto con gli altri e alla percezione di ingiustizia o disuguaglianza. Se una persona ritiene che gli altri simili a sé abbiano una vita più facile o ottengano più facilmente ciò che desiderano, potrebbe provare risentimento o insoddisfazione nei confronti della propria condizione. In sintesi, secondo questo concetto, le persone tendono a valutare la propria felicità e soddisfazione confrontandola con il proprio passato, i propri obiettivi e le condizioni degli altri, influenzando così la percezione del proprio benessere. E per via dei processi di identificazione con il gruppo di appartenenza, queste valutazioni non vengono fatte solo a livello individuale, ma estese anche al proprio gruppo. Le ricerche hanno dimostrato che, quando le persone si sentono privati di qualcosa rispetto agli altri, diventano molto infelici e cercano di scaricare questa insicurezza non solo sul gruppo che ritengono responsabile, ma anche su gruppi più deboli (ad esempio, si è visto che le ostilità verso le minoranze sono aumentate in periodi in cui c'è stata una rapida crescita economica seguita da un'improvvisa depressione, creando uno squilibrio tra il livello di vita attuale e quello sperato). Inoltre, si è riscontrato che nei contesti di interazioni tra diversi gruppi etnici, le ostilità e i pregiudizi sono più evidenti tra coloro che pensano che il proprio gruppo sia svantaggiato rispetto a un altro, piuttosto che tra coloro che si sentono personalmente svantaggiati. CAPITOLO 3: “LE STRATEGIE DI DIFESA” Lo stereotipo è caratterizzato dalla sua rigidità, che deriva dalla sua capacità di riprodursi attraverso diversi meccanismi legati ai processi mentali e alla comunicazione sociale. Conoscere questi meccanismi può aiutare a contrastare la riproduzione degli stereotipi. LA TENDENZA ALLA CONFERMA DELL’IPOTESI (L’EFFETTO PIGMALIONE) Noi non ci poniamo di fronte alla realtà in modo libero da ipotesi. Tali ipotesi dovrebbero poi essere soggette a verifica durante l'interazione e qui si presentano due possibilità: la smentita o la conferma. Infatti, una volta formulata una certa ipotesi, essa ha il vantaggio di essere psicologicamente presente e di conseguenza le informazioni che confermano l'ipotesi risultano più evidenti in quanto possono essere inserite all'interno di uno schema interpretativo già attivo. Inoltre, le informazioni che smentiscono lo stereotipo sono rilevate con maggiore difficoltà e anche dimenticate più facilmente. Quindi compito importante delle azioni mirate a ridurre gli stereotipi è fornire uno schema interpretativo alternativo allo stereotipo che consenta di rilevare le informazioni che altrimenti sarebbero state trascurate. Le aspettative con cui ci poniamo di fronte alla conoscenza dell'altro fanno sì che essi realmente rispondano a queste alternative (ad esempio, se mi aspetto che il mio interlocutore sia freddo, probabilmente avrò nei suoi riguardi un atteggiamento che provocherà quella risposta). Questo fenomeno viene definito autoadempimento della profezia. I pregiudizi possono anche modificare l'immagine che i soggetti bersagliati hanno di sé, con conseguente possibile calo dell'autostima. Questo fenomeno è stato studiato in ambito scolastico, in riferimento al rapporto tra le aspettative degli insegnanti e il rendimento degli allievi, a fine anni ‘60 da Rosenthal e Jacobson, chiamato effetto Pigmalione. In seguito ad un esperimento condotto all'interno di un gruppo scolastico, i ricercatori notarono che laddove gli insegnanti avevano manifestato aspettative di rendimento molto alte da parte di alcuni studenti (sulla base dei risultati falsati del test del QI) tali studenti (che in realtà avevano ottenuto risultati nella media al test del QI) alla fine dell'anno avevano avuto un rendimento da potenziali geni. Quindi le aspettative degli insegnanti avevano portato ad avere un atteggiamento di incoraggiamento e di fiducia nei confronti degli studenti, spingendoli a migliorare. In molte ricerche, infatti, si è visto come uomini e donne tendono a comportarsi in modo conforme alle aspettative del ruolo sessuale. Altre ricerche hanno combinato le aspettative di rendimento con quelle di genere, mentre un altro campo è quello relativo all'età (se si ritiene che gli anziani siano meno efficienti, si daranno loro minori occasioni di mantenersi in efficienza). Queste ricerche mostrano la necessità a non irrigidirsi troppo nelle proprie convinzioni; e dal punto di vista di chi è soggetto agli stereotipi, la presa di coscienza delle proprie caratteristiche personali, la coscienza di sé in quanto persona e in quanto gruppo, è il più potente fattore di protezione rispetto all'autoadempimento dei pregiudizi. Questo autoadempimento ha molto a che fare anche con il contesto nel quale l'interazione avviene, ad esempio, un maggiore effetto di autodempimento si ha quando il soggetto bersagliato ritiene di poter trarre qualche vantaggio dal suo adeguarsi alle aspettative. E questo risiede, ad esempio, nel compiacere la persona che ha maggiore potere sociale; oppure maggiore autoadempimento sia quando il soggetto entra in una nuova situazione sociale (es. una nuova classe), e ha quindi la necessità di farsi accettare dal gruppo e soprattutto dalle persone più influenti del gruppo. QUALI STRATEGIE PER LA CONVIVENZA La relazione con il diverso è fondata su basi di natura sociale e culturale che hanno a che fare con fattori di tipo storico, economico, politico e con la dimensione della relazione fra gruppi. TRE FORME DI RAPPORTO CON IL DIVERSO 1. Assimilazione: ovvero il gruppo maggioritario ingloba quello minoritario in modo che esso rinunci alla sua differenza e riconosca come superiori i modi di vita e la cultura della maggioranza. 2. Fusione: detto “melting pot”, dall'incontro dei gruppi c'è una sintesi globale e migliore dei singoli componenti di partenza, ciascuna diversità possiede elementi positivi e queste diversità non siano tali da impedire una fusione. 3. Pluralismo culturale: mantenere le differenze valorizza ognuna di esse in quanto possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo, che trae forza dalla coesistenza di culture diverse. Quest'ultima presenta delle difficoltà perché innanzitutto richiede continuo esercizio di tolleranza nella vita quotidiana, ed è un grande sforzo istituzionale per adeguare le strutture alle esigenze delle diverse culture. A queste difficoltà sono connessi alcuni rischi: I. Il pregiudizio differenzialista: il rispetto delle differenze si trasforma nel rifiuto del contatto. È la tendenza a focalizzarsi sulle differenze tra gruppi di persone, anziché sulle somiglianze e sulle possibilità di confronto e arricchimento reciproco. Questo atteggiamento può portare a una separazione netta tra gruppi, con conseguente ghettizzazione fisica e mentale. II. Il relativismo spinto: sostiene che non esistono valori morali assoluti e che la validità di un valore dipende dalla cultura in cui si trova. Questo può portare all'accettazione e alla difesa di pratiche culturali che potrebbero essere considerate immorali o ingiuste in altre culture. Tuttavia, quando si tratta di eventi come la violazione dell'integrità fisica e mentale delle donne, ci sono principi fondamentali che dovrebbero essere riconosciuti universalmente come irrinunciabili, indipendentemente dalla cultura in cui ci si trova. PROGETTARE UNA BUONA INTERAZIONE Una delle strategie di intervento più diffuse è favorire il contatto fra i diversi. Per essere efficace, l'interazione deve essere lunga, approfondita e soddisfacente. Inoltre, è necessario fornire un quadro interpretativo entro il quale inserire le nuove informazioni che si acquisiranno. È utile che il rapporto con il diverso sia cooperativo e che i soggetti in interazione abbiano uno status simile. Cruciale è il supporto istituzionale e culturale (l'interazione deve avvenire in più contesti). Quando ciò si verifica, si è notato un'effettiva riduzione degli stereotipi. Un'altra strategia è quella del color-blind, quindi ignorare espressamente ogni differenza tra gli individui, trattando tutti esattamente allo stesso modo. Quando è stata attuata, negli anni ‘80, questa strategia ha ottenuto un progresso rispetto ai tempi, oggi però è piuttosto inefficace; infatti bisogna ricordarsi che il confronto con le diversità non avviene quasi mai su un piano di parità e un trattamento egualitario finisce per sottolineare l'inferiorità dell'altro. Un'interazione che ignori tutte le differenze non fornisce un quadro interpretativo per le differenze stesse, le quali, evidenti in ogni caso, tenderanno essere spiegate tramite gli stereotipi. Inoltre, questa strategia non tiene conto del bisogno di riconoscersi in un sistema che passa attraverso una valorizzazione positiva della propria cultura ed un confronto con gli altri gruppi. Il confronto con le diversità è necessario, bisogna trovare solo il modo giusto di affrontarlo, una soluzione è individuare diverse dimensioni lungo le quali effettuare questo confronto. Ognuno riconosce che il proprio gruppo è migliore solo sotto certi aspetti, mentre l'altro gruppo è superiore in altri. Il requisito di questa è la disponibilità alla tolleranza, è la convinzione che sia possibile e giusto che esistano differenti modi di vedere il mondo e di essere. Elemento positivo di questa strategia è la generalizzazione delle esperienze positive che porta ad una riduzione del pregiudizio e ad un miglioramento delle relazioni fra i gruppi. CONCLUSIONE: STEREOTIPI E PREGIUDIZI Stereotipi e pregiudizi, in conclusione, derivano da: I limiti del sistema cognitivo che ha l'esigenza di semplificare la realtà e di avere sempre delle aspettative. Il bisogno di appartenenza mischiato a motivazioni biologiche e culturali, che spinge a riconoscersi in un gruppo di simili e all'avversione verso gruppi estranei. Ragioni di tipo storico e sociale che di volta in volta definiscono la posizione e le funzioni di ciascun gruppo minoritario, e lo stato complessivo dei rapporti tra i gruppi di una determinata società, nonché la situazione delle relazioni interetniche ed internazionali. Se si vuole ridurre gli stereotipi e promuovere la comprensione tra le persone di culture diverse, è necessario anche affrontare le radici strutturali di questi problemi. Solo eliminando le cause strutturali delle ostilità verso altre culture si potranno davvero ottenere progressi. Gli interventi sociali e istituzionali devono quindi tener conto non solo dei fattori psicologici e sociali, ma anche delle cause più profonde legate alla struttura della società. LE COMPETENZE INTERCULTURALI NEL LAVORO EDUCATIVO – REGGIO CAPITOLO 1: “COMPETENZE INTERCULTURALI ED ESPERIENZA PROFESSIONALE” L'interesse nei confronti delle problematiche interculturali è aumentato sulla spinta del fenomeno migratorio. Il concetto di “competenza” ha interessato ambienti come quello del lavoro, della vita sociale e dell'istruzione. Secondo la Boterf la competenza è “sapere in atto” che si manifesta in un “determinato contesto”, è una qualità del soggetto di attingere alle risorse personali per affrontare le situazioni di vita quotidiana, sociale e personale. In ambito scientifico le definizioni di competenza sono molte. Oggi la "competenza" è vista come un'idea centrale che guida decisioni politiche e strategie, e influisce concretamente su vari settori, compresa l'istruzione. Si individuano diversi elementi che hanno contribuito alla nascita della diffusione della competenza come valore descrittivo e interpretativo di realtà diverse dell'agire sociale: La trasformazione dei modi di produzione, che hanno visto l'imporsi di condizioni nelle quali i processi di lavoro sono soggetti a continui cambiamenti e avvengono in contesti di incertezza e rischio e inoltre diventano sempre più relazionali, rendendo le conoscenze essenziali. Questa evoluzione del lavoro ha modificato le condizioni di vita delle persone andando ad offrire opportunità ma anche a creare discriminazioni nella società. Anche le professioni sono cambiate, diventando sempre più basate su conoscenze, abilità pratiche e atteggiamenti adeguati (fare, saper fare, saper essere). Anche l'istruzione è stata influenzata da questi cambiamenti. Oggi, con la facilità di accesso alle informazioni, è importante che le persone sappiano usare le conoscenze in modo personale e siano in grado di affrontare situazioni nuove e complesse. Quando si cerca di capire meglio cosa significa "competenza", emergono alcune difficoltà. Una di queste è la tensione tra il fatto che la competenza è qualcosa di personale e soggettivo e la necessità di avere degli standard per poterla confrontare e valutare (anche con l'autovalutazione). Un'altra difficoltà è bilanciare il bisogno di descrivere le competenze in modo astratto con la necessità di mantenere un legame con situazioni concrete e reali. È anche interessante capire come le competenze si sviluppano. Secondo una ricerca di McCall, Eichinger e Lombardo, le competenze si sviluppano in proporzioni diverse: il 70% attraverso l'esperienza lavorativa, il 20% tramite interazioni sociali al di fuori del lavoro, e il 10% attraverso processi formativi di carattere formale. Anche se i numeri esatti possono variare, possiamo dire che le competenze si sviluppano attraverso la pratica quotidiana. Tuttavia, semplicemente fare delle cose non basta per sviluppare vere competenze, che richiedono anche conoscenza e atteggiamenti adeguati. Possiamo affermare che le situazioni e il concreto agire offrono l'opportunità di maturare apprendimenti che costituiscono l'esperienza personale del professionista e il sapere effettivo delle persone; quando gli apprendimenti vengono agiti in pratica, si configurano poi come competenze. La competenza, quindi, è la capacità di utilizzare il sapere in situazioni differenti e di adattare i saperi alle necessità. L'esperienza non coincide con le competenze, ma permette che esse si sviluppino in essa. Per riconoscere la competenza serve uno sforzo attento di osservazione, di interrogazione che l'individuo deve rivolgere a sé stesso. È necessario oggettivare l'azione compiuta e poterla rivedere grazie al distacco che la descrizione narrativa permette (ad esempio il professionista che riguarda il proprio lavoro costruisce la propria esperienza professionale che è data da una profonda rivisitazione di quanto ha vissuto), così il soggetto porta fuori e coltiva le proprie risorse, costruendo anche la competenza stessa. Il rapporto tra esperienza e competenza: la formazione delle competenze avviene grazie alla realizzazione di esperienze dirette fatte in situazioni concrete. La rilevanza delle tematiche interculturali (dovuta ai flussi migratori) ha sollecitato la ricerca intorno alle competenze che ai professionisti devono sviluppare per svolgere in maniera efficace i loro compiti. Nel 1970 gli studi si sono concentrati sulle differenze nelle terminologie, ovvero “competenze interculturali”, “efficacia interculturale” e “adattamento interculturale”, successivamente è emersa la natura multidimensionale delle competenze interculturali. Poi dagli anni ‘90 sono stati prodotti modelli concettuali che si concentrano sul processo di costruzione della conoscenza interculturale e Spitzberg e Changnon hanno proposto una distinzione tra cinque tipi di modelli: I. Modelli compositivi: identificano gli elementi che costituiscono le competenze. Sono liste delle abilità che sono necessarie nell'interazione competente. II. Modelli co-orientativi: identificano i risultati della comprensione interculturale o delle sue varianti. III. Modelli di sviluppo: enfatizzano la dimensione temporale delle interazioni culturali (come variano nel tempo, il loro contributo nel tempo). IV. Modelli di adattamento: considerano più di un soggetto nel processo e si concentrano sull'indipendenza di questi molteplici soggetti. V. Modelli di percorso casuale: utilizzano set identificabili di concetti che variano dal più distante al più prossimo. Una delle caratteristiche più importanti della competenza è la dinamicità, in quanto la competenza in ambito interculturale si presenta con gradi diversi di maturazione e padronanza da parte del soggetto. Il modello “DMIS” elaborato da Bennet sostiene che la sensibilità interculturale va da stadi a prevalenza etnocentrica (quindi negazione, il soggetto vive condizioni di resistenza alla diversità culturale) a stadi di carattere etnorelativo (quindi accettazione, adattamento e integrazione). Grazie al modello di Bennett sono stati elaborati delle strategie volte allo sviluppo delle competenze interculturali, che inizia proprio dal riconoscimento dello stadio nel quale l'individuo si trova nel momento in cui intraprende il percorso formativo interculturale; poi queste strategie vanno ad osservare, durante la formazione, l'evoluzione e l'apertura alle differenze culturali. La caratteristica della dinamicità riguarda anche possibili fenomeni di convertibilità all'apertura alle diversità. La padronanza della competenza interculturale varia in considerazione delle diverse condizioni temporali, soggettive e sociali. Un altro aspetto importante è la connessione tra competenze di comprensione culturale e competenze comunicative. Quando ci si concentra sulla comprensione culturale, si cerca di capire le differenze culturali e le difficoltà che ne derivano. Quando invece si pone l'accento sulla comunicazione, si punta a saper entrare in contatto e comunicare con persone di culture diverse. La ricerca sulle competenze interculturali e il loro utilizzo nella formazione è molto influenzata dai cambiamenti sociali, economici e culturali causati dalla globalizzazione. Oggi, le competenze interculturali si trovano tra la pedagogia e le sfide della cittadinanza. Le Boterf afferma che la competenza è un insieme dinamico di conoscenze e abilità, e che riguarda una padronanza in determinati ambiti professionali. Le competenze interculturali si basano su elementi generali della professionalità. Questo approccio è presente in vari modelli, come quello di Deardoff, che sottolinea l'importanza alla base delle competenze interculturali delle capacità su cui si costruiscono conoscenze, comprensioni e capacità specifiche, come ascoltare, osservare e interpretare. Secondo Deardoff, da queste basi si sviluppano i risultati interni ed esterni della competenza interculturale. Si parla di competenze interculturali quando si hanno insiemi di conoscenze e abilità specifiche, che richiedono altre competenze ma hanno caratteristiche distintive proprie. Capire cosa sono e come si sviluppano le competenze interculturali aiuta a comprendere meglio l'importanza e il valore del lavoro educativo in un mondo culturale sempre in evoluzione. CAPITOLO 2: “LA DIVERSITÀ CULTURALE NEI RACCONTI DELLE PARTICHE DI INSEGNAMENTO” Una ricerca ha chiamato in causa alcuni insegnanti della scuola dell'infanzia, i quali devono ricostruire la loro esperienza di intercultura in classe attraverso una situazione che ha come protagonista il bambino di “un'altra cultura”. PROBLEMATICHE La società democratica moderna ha come caratteristica principale la pluralità e la diversità, quindi bisogna sviluppare un pensiero dell'eterogeneità. L'individuo è visto quindi come il produttore della sua cultura e non come prodotto di una cultura (ha quindi un ruolo attivo). Nasce l'esigenza di andare a rivedere il concetto stesso di cultura; partendo da Abdallah-Pretceille che è andato a sviluppare una teoria del rapporto con l'altro in un contesto eterogeneo (paradigma dell'alterità). Le culture sono trasmesse dagli individui il quale sono portatori di cultura. Le culture, quindi, acquistano senso nella relazione: noi non ci troviamo a che fare con la cultura solo nel suo complesso, ma con dei frammenti di questa che si mostrano in maniera diversa a seconda dei contesti e dei soggetti. Quindi possiamo affermare che l'individuo è colui che costituisce la cultura e che va ad attribuire alla cultura un senso in base ai contesti nei quali si trova. Non possiamo comprendere l'altro se non entro in relazione con lui, devo comunicare con l'altro per arrivare a essere in grado di capire ciò che sta spiegando, “mettendo in scena” (considerando/mostando) la sua cultura. Dunque, il paradigma dell'alterità di Abdallah-Pretceille prende in considerazione l'intercultura come un incontro di culture: la relazione avviene tra individuo e individuo, piuttosto che tra cultura e cultura. Nell'educazione interculturale gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale, come attori competenti che hanno un potere di agire sulle strutture. Bisogna riconoscere che per spiegare la relazione educativa che gli insegnanti hanno con i bambini di “un'altra cultura” sono indispensabili i significati che loro stessi danno alla loro pratica e la loro capacità di decodificare gli elementi di contesto. Shon sostiene che il “sapere dell'azione” non si insegna, ma si costruisce a contatto con le situazioni problematiche della vita quotidiana; questo sapere poi viene fuori grazie alla conversazione riflessiva dei professionisti con la situazione stessa (all’analisi che fanno di quella situazione). METODOLOGIA È stato attuato un approccio per racconti di pratiche: il racconto di pratiche è la narrazione di una situazione-problema incontrata dall'insegnante che permette l'accesso all'agile dell'insegnante collegato alla sua interpretazione dell'esperienza. Il racconto, quindi, descrive la realtà sociale così come è percepita dall'insegnante, per fargli narrare un evento singolare legato alla sua vita professionale. L'analisi è stata fatta per mezzo della Grounded Theory (è un metodo di ricerca qualitativa che sviluppa teorie direttamente dai dati raccolti attraverso l'osservazione e l'intervista, piuttosto che testare ipotesi preesistenti), essa si distingue dagli altri metodi di analisi qualitativa ed è stato ritenuto importante per questa ricerca. Tutti gli insegnanti potevano essere selezionati per la ricerca, ma in realtà dovevano corrispondere a un certo profilo: dovevano già avere un'esperienza di pratica nella scuola dell'infanzia ed avere già incontrato una sfida simile (questo per assicurarsi una certa omogeneità all'interno del campione); alla ricerca hanno partecipato insegnanti che provenivano da 18 differenti scuole. È stato visto che gli insegnanti raccontavano la propria esperienza in modi diversi, ciascuno ha scelto di mettere in evidenza aspetti personali e significativi per loro. Inoltre, il loro modo di raccontarsi e di mettere l'accento su alcune questioni risultava essere dipendente dal messaggio che volevano poi trasmettere: in una situazione problematica, gli insegnanti identificavano il significato del problema in modo coerente con il loro messaggio. Dopo la stesura dei racconti è stata fatta l'analisi, quindi si va ad analizzare ciascun racconto e il narratore diventa il ricercatore. L'obiettivo della ricerca era definire come gli insegnanti interagivano con culture diverse, quindi era necessario un'analisi trasversale dei racconti. Bisognava andare oltre la coerenza interna dei racconti tra il messaggio trasmesso e il modo di “mettersi in scena”; l'analisi era condotta da una sensibilità teorica che permetteva di vedere i racconti come testimonianze di un rapporto con l'agire e con l'altro di “un'altra cultura”. Sono emersi i concetti vettori attraverso i quali i ricercatori erano in grado di posare lo sguardo complessivo che era necessario per definire un’alterità in azione. I 20 raccolti sono stati riuniti in 7 gruppi che rivelavano 7 rapporti diversi con l'agire interculturale. Giddens e Abdallah-Pretceille hanno teorizzato su come un attore competente si relaziona con l'altro di una cultura diversa. Gibbens valorizza il sentimento di competenza, mentre Abdallah-Pretceille valorizza la relazione intersoggettiva: è emerso il fatto che competenza e intersoggettività andavano di pari passo, più gli insegnanti testimoniavano un riconoscimento dell'altro, più rivelavano un sentimento di competenza. RISULTATI I risultati dell'analisi dei raccolti sono stati articolati in 7 tappe, ognuna affrontate secondo tre livelli di teorizzazioni. Prima di tutto sono riportati i prototipi relativi ad ogni livello secondo la logica messaggio- intreccio e dopo vengono riportati i commenti interpretativi che tengono conto del rapporto con l'agile interculturale dell'insegnante. Prima tappa: l'importanza, secondo l'interlocutore, di considerare una questione come prioritaria. Nel prototipo Cecile racconta di aver vissuto una situazione problematica di un'altra cultura, ma approfitta di questa per far passare un messaggio pedagogico che le preme di più. Emerge, quindi, che non parla del rapporto con l'altro. Questo racconto chiarisce che per i docenti l'intervento interculturale non costituisce per forza una priorità all'interno dei problemi che incontrano e che, per l'insegnante, approcciare l'intercultura significa situarla in relazione ad altre sfide che trova nella sua pratica. Seconda tappa: l'importanza di farne un problema specifico o di quanto un rapporto con l'altro sia standardizzato. Nel prototipo che testimonia l'emergere della seconda tappa, Eva non vuole considerare il bambino come “differente culturalmente”. Non prendendo atto di questa specificità del bambino, secondo lei bisogna considerarlo come gli altri; quindi, c'è una negazione dell'idea stessa della differenza culturale: Eva tratta il problema come fosse un problema pedagogico, quindi non consente ai ricercatori di evidenziare un rapporto con l'altro di “un'altra cultura”. Terza tappa: l'importanza di responsabilizzarsi. Nel prototipo che testimonia l'emergere della terza tappa, Francine non si impegna in modo serio nei riguardi del bambino di un'altra cultura, giustificando il suo intervento tirando in causa le risorse carenti del sistema educativo. Non attribuendosi responsabilità, quindi dimostra che non c'è impegno possibile nel rapporto con l'altro con il bambino di un'altra cultura. Quarta tappa: l'importanza di una competenza legittimata o di quanto il rapporto con l'altro è deviato dei genitori. Nei prototipi che hanno testimoniato l'emergere della quarta tappa Diane e Mylene vivono delle situazioni nella quale c'è un tentativo da parte di altre figure, come i genitori, di immischiarsi nella loro zona per agire; in queste situazioni loro investono le loro energie sui genitori e non sono in grado di stabilire un rapporto con il bambino di un'altra cultura. Emerge l'importanza per l'insegnante di avere uno spazio in cui la loro competenza viene riconosciuta. Quinta tappa: l'importanza di quando il rapporto con l'altro è intercettato dalla cultura. Nei prototipi, Anne Marie e Florence sostengono che i problemi incontrati sono problemi di cultura, tutto si svolge come si comportamenti del bambino fossero filtrati in funzione della differenza culturale che gli insegnanti gli attribuiscono, quindi l'azione degli insegnanti è rivolta più verso la cultura del bambino che verso il bambino stesso e i suoi specifici problemi. Sesta tappa: l'importanza di delimitare il suo spazio di intervento o di quanto il rapporto con l'altro si incarna in una relazione funzionale Nei prototipi gli insegnanti scelgono uno spazio dove ci si sente abilitati a esercitare il proprio potere d'azione, in questa zona si riesce ad avere una relazione con il bambino di un'altra cultura. Settima tappa: l'importanza di quando il rapporto con l'altro si incarna in una relazione intersoggettiva. Nei prototipi Elise e Sylvie prendono atto della specificità culturale del bambino, rendendo possibile una relazione; oltre a riconoscere la propria competenza, gli insegnanti ne riconoscono una anche al bambino, permettendogli di agire davvero con lui. DISCUSSIONE DEI RISULTATI Analizzando i risultati, quindi, alcune pratiche hanno mostrato meno alterità in atto rispetto ad altre: ad esempio, in confronto alla prima tappa, la seconda mostra un passaggio iniziale importante verso l'alterità in atto. La seconda tappa, insieme alle altre (esclusa la prima), ha in comune il fatto che gli insegnanti sono interessati all'altro, sono interpellati da lui; quindi, hanno in comune la “preoccupazione dell'altro”. Dalla quarta tappa c'è un secondo passaggio, qui si vede che gli insegnanti si procurano la possibilità di agire nei confronti del bambino di un'altra cultura, andando ad esercitare il potere d'azione all'interno dei limiti del loro controllo riflessivo, abbiamo una “conquista dell'altro” e non solo una preoccupazione. La settima tappa segna poi un altro passaggio verso l'alterità in atto. Gli insegnanti sono in grado di agire con l'altro, cioè, riconoscono il proprio potere d'azione e quello del bambino, abbiamo l' ”incontro con l'altro”. Questi tre passaggi permettono di definire l'alterità in atto come un percorso: 1. Preoccupazione per l'altro. 2. Conquista dell'altro. 3. Incontro con l'altro. Per capire cosa caratterizza l'alterità in atto ci si sofferma sulla settima tappa e si confronta con quelle precedenti: vediamo la settima tappa confrontata con la seconda; a differenza dell'insegnante della seconda tappa, che uniforma le differenze, quella della settima tappa prende atto delle differenze dei bambini di cui parlano. Si va verso l'invenzione di una soluzione che si adatta sia al bambino e sia al contesto in cui il bambino è inserito. Le soluzioni sono l'effetto di una conciliazione tra quello che i bambini devono fare come tutti gli altri e il trattamento particolare che la differenza esige. Mettiamo a confronto invece la settima tappa con gli insegnanti della terza tappa. Qui si identifica un secondo fattore presente dell'alterità in atto: nella terza tappa l'insegnante giustifica il suo non intervento a causa della carenza di risorse del sistema educativo, facendo ricadere la responsabilità dei bambini sul sistema. Nella settima tappa, invece, l'insegnante si appropria delle risorse del sistema educativo messe in campo per l'altro. Mettiamo a confronto la settima tappa con la quarta e qui si identifica il terzo fattore presente dell'alterità in atto, che presuppone il riconoscimento di competenze sia degli insegnanti che dei genitori. Nella quarta tappa, infatti, i genitori sono visti dall'insegnante come dei vincoli; invece, nella settima tappa i genitori rappresentano una risorsa nel rapporto che l'insegnante spera di creare con il bambino. Mettiamo a confronto la tappa con la quinta tappa, per identificare un quarto fattore presente nell'alterità in atto, che presuppone un'attenzione elevata nel modo in cui l'altro mobilità la sua specificità culturale. Infatti, nella quinta tappa le insegnanti condividono il fatto di vedere i bambini dei quali parlano come delle culture con le quali le loro entrano in contatto. Invece, nella settima, i bambini diventano produttori di cultura, stabilendo una relazione intersoggettiva con i bambini, tenendo conto della loro differenza culturale. Mettiamo a confronto la settima tappa con la sesta e identifichiamo un quinto fattore presente dell'alterità in atto che presuppone una sensibilità alla persona e al contesto nella relazione con l'altro. Infatti, nella stessa tappa le insegnanti restringono il loro spazio intervento non entrano nella storia di ogni bambino, mentre nella settima tappa le insegnanti concedono uno spazio di intervento ampio e modulabile in funzione delle situazioni. CAPITOLO 3: “LA RICERCA SULLE COMPETENZE INTERCULTURALI DI INSEGNANTI ED EDUCATORI” Questa ricerca condotta dall'equipe dell'Università Cattolica di Milano e poi ripresa anche da altre università, ha lo scopo di elaborare modelli teorici e metodologie per la formazione delle competenze interculturali. Il tema della “competenza” è stato affrontato con una prospettiva di carattere interculturale, quindi si fonda sull'idea di “cultura” intesa nei suoi aspetti più dinamici e soggettivi e sull'idea di “cittadinanza” volta a creare una coesione sociale e non a sottolineare le differenze. Il lavoro di ricerca è nato con lo sforzo di rintracciare nel lavoro di insegnanti e educatori delle competenze interculturali che fossero effettivamente esercitate. La ricerca è volta a: Comporre il quadro delle competenze necessarie al lavoro interculturale dei professionisti dell'educazione. Elaborare i metodi di ricerca che andassero a sviluppare queste competenze in vari contesti. Sono stato individuate tre principali competenze: 1. Comprensione delle culture. 2. Riduzione del pregiudizio. 3. Costruzione di orizzonti condivisi. L'indagine è volta ad affrontare alcuni argomenti cruciali, cioè: vedere come gli insegnanti e gli educatori esercitano queste competenze nella loro professione, come hanno sviluppato queste competenze e infine come queste competenze potrebbero formarsi e svilupparsi ulteriormente. A questa ricerca hanno preso parte i 45 professionisti, 30 insegnanti della scuola primaria e 15 educatori impegnati in servizi nei quali c'è una grande presenza di immigrati. Le attività di ricerca si sono sviluppate in varie fasi di lavoro: I. Aprile 2010: seminario nel quale è stato costituito il gruppo di ricercatori. II. Maggio/Giugno 2010: i ricercatori hanno analizzato dei documenti per la descrizione delle competenze oggetto di ricerca. Inoltre, alle scuole, insegnanti e servizi educativi è stata presentata la ricerca, con lo scopo di coinvolgere i professionisti interessati. III. Settembre 2010: sono state raccolte le adesioni e sono stati divisi i gruppi di ricerca per “competenza”, quindi 5 gruppi composti rispettivamente da 10 professionisti per gruppo (insegnanti con insegnanti, educatori con educatori) e i ricercatori sono andati a coordinare il lavoro di un gruppo. Il lavoro di ricerca è durato in tutto nove mesi, nel quale sono presenti diverse fasi: C'è stato un primo incontro nel quale ogni gruppo è stato presentato il lavoro e la metodologia. È stato svolto un lavoro autonomo di scrittura di una prima scheda da tutti i professionisti, i quali sono stati supervisionati dai ricercatori. C'è stato un secondo incontro nel quale si è svolta la raccolta e l'analisi dei racconti prodotti e delle relative competenze. È stato svolto un lavoro autonomo di scrittura di una seconda scheda da tutti i professionisti, i quali sono stati supervisionati dai ricercatori. C'è stato un terzo incontro nel quale si è svolta la raccolta e l'analisi dei racconti prodotti e delle competenze e la presentazione di schede di difficoltà. I professionisti hanno portato il loro materiale in versione definitiva, sempre supervisionati dai ricercatori. I ricercatori hanno elaborato una prima raccolta dei materiali definiti di ogni gruppo e hanno condiviso con i professionisti questi materiali. A settembre 2011 c'è stato un seminario interno dell'equipe di ricerca dove c'è stata una prima comparazione e analisi dei materiali raccolti nei vari gruppi. Fino a dicembre 2011 i vari ricercatori hanno lavorato all'analisi dei materiali che erano stati raccolti, concentrandosi sulle competenze e sulle indicazioni per la formazione che erano venute fuori dai gruppi. Sono state realizzate alcune azioni specifiche: a) Un focus group con insegnanti, con lo scopo di ricercare elementi costitutivi della formazione e delle competenze interculturali e l'elaborazione di linee strategiche che permettessero la formazione degli insegnanti e degli educatori a queste competenze interculturali. b) La stesura del report finale della ricerca. Infine, a Febbraio 2013 c'è stato un convegno nel quale sono stati presentati i risultati emersi dalla ricerca. Per quanto riguarda la definizione metodologica della ricerca partiamo da dei riferimenti teorici, ovvero il concetto di competenza, inteso come l'insieme delle conoscenze, delle abilità e degli atteggiamenti che danno la possibilità al professionista di affrontare in maniera adeguata alle situazioni lavorative; e il riconoscimento delle forme che l'apprendimento delle competenze assume negli adulti. Sulla base di questi due, il progetto di ricerca ha cercato di descrivere le modalità attraverso le quali la competenza si esprime e si è cercato di individuare quali sono le modalità attraverso le quali i professionisti sono andati a sviluppare le proprie competenze. Ci sono però alcuni aspetti che rendono questa individuazione complessa, in quanto nella maggior parte dei casi il “saper fare competente” dei soggetti è inconsapevole. Quello che bisogna fare, quindi, è aiutare i professionisti a descrivere e rileggere il proprio agire e a vedersi dall'esterno. L'impostazione metodologica della ricerca ha distinto tre metodi di ricerca: La descrizione e l'analisi della competenza: c'è una valorizzazione della capacità degli individui di descrivere attività lavorative svolte da loro, nelle quali la competenza interculturale fosse subito riconoscibile e argomentabile. Sono presenti delle tecniche che permettono di far emergere gli elementi della competenza. Il venir fuori della competenza nascosta richiede di essere accompagnato, questa funzione di accompagnamento è svolto dai ricercatori che hanno aiutato i professionisti a “guardare al di fuori” delle situazioni che sono state vissute personalmente da loro. L'argomentazione della competenza: dopo che è stata individuata la competenza, dev’essere argomentata, quindi come viene esercitata e come il professionista l’ha acquisita. Si è andato a chiedere ad ogni partecipante della ricerca di scegliere una delle tre competenze citate prima (comprensione delle culture, ridurre pregiudizio e costruzione di orizzonti di condivisi), per poi andare a descriverla e argomentarla. Ogni competenza è stata descritta attraverso il racconto di almeno due situazioni che il soggetto ha realmente vissuto. I soggetti devono riportare in maniera dettagliata l'esperienza vissuta, quello che hanno pensato, le loro emozioni. Dopo si passa poi all'individuazione delle risorse personali attivate da ciascun insegnante per affrontare la situazione. Questa individuazione è stata successivamente precisata e arricchita attraverso il confronto con gli altri partecipanti e con il ricercatore. Si genera un processo riflessivo e di sviluppo di consapevolezza. L'analisi prosegue con l'esplorazione delle difficoltà nell'esercizio della competenza che si sono presentate nelle situazioni narrate. E qui si esprimono considerazioni critiche di quanto vissuto. La descrizione e l'analisi delle competenze esercitate in determinate situazioni da insegnanti e educatori sono state utilizzate per l'individuazione di linee strategiche per la formazione del culturale di insegnanti educatori. L'elaborazione dei materiali raccolti. CAPITOLO 4: “LA COMPETENZA: INTERPRETARE LE CULTURE” Una competenza necessaria per coloro che lavorano in ambito educativo è “l'interpretare le culture”, quindi riconoscere i significati dei comportamenti degli altri e non attribuire qualsiasi comportamento all'origine sociale, etnica e culturale altrui. Il fatto che un determinato comportamento di persone sia collegato alla cultura di appartenenza ci porta a pensare che la cultura sia un qualcosa di rigido, formato da elementi definiti e ben riconoscibili, ma in realtà è tutto il contrario. Si va quindi a utilizzare la cultura come concetto ampio, andando a sostituire di conseguenza questo termine con i termini “tratti culturali” o “formule culturali”. Vediamo tre storie che ci fanno capire proprio il fatto che la cultura è un concetto dinamico e complesso e ci fanno anche capire che le culture per essere comprese hanno bisogno di uno sguardo che non abbia pregiudizio, oltre all'importanza per un educatore di interpretare culture diverse dalla propria. PRIMA STORIA “UN INDOVINO MI DISSE” Questa storia parla di un'educatrice che è a contatto con un ragazzo cinese di 15 anni che frequenta la terza media e che è arrivato in Italia da 2 anni e vive con il padre e il fratello maggiore disabile. Il ragazzo si chiama Jx e si occupa di suo fratello maggiore accompagnandolo al centro di socializzazione adulti. Qui la coordinatrice si rende conto che Jx non capisce molto la lingua italiana e che è molto solo. L'educatrice quindi gli propone un corso individuale che gli permette di rinforzare la conoscenza della lingua italiana e successivamente gli propone anche altre attività che l'avrebbero fatto entrare in contatto con altri bambini per socializzare. A Jx, dopo che l'educatrice aveva avuto un incontro in equipe in quanto il ragazzo rifiutava ogni forma di socializzazione, gli viene presentato il programma, cioè svolgimento di compiti, alcuni uscite a Milano, una gita al mare e una al fiume. L'educatrice nota che il ragazzo quando sente queste parole diventa gioioso, ma dal momento che gli viene detto la modalità per partecipare alla gita, pochi soldi e autorizzazione del padre, il ragazzo diventa nuovamente serio dicendo che non potrà partecipare. L'Educatrice domanda quindi il motivo per cui non può venire e dopo tanto silenzio Jx afferma che non andrà in gita perché non può fare il bagno fino a che non ha compiuto 18 anni; continua a spiegare che da piccolo, in Cina, il padre lo aveva portato da uno stregone, il quale gli aveva detto di non bagnarsi fino a diciott'anni, altrimenti gli sarebbe capitato qualcosa di brutto. E poiché il padre crede davvero in questo, per il suo bene, non gli avrebbe mai dato il permesso. Il ragazzo non sa se fregarsene o credere a quanto detto dallo stregone. Dopo aver sentito questo, in un primo momento l'educatrice era allibita, considerando questo modo per bloccare il divertimento di un ragazzo, ma successivamente si rende conto che non conoscendo molto la cultura cinese non può neanche giudicare duramente la decisione del padre, continuando a sostenere però che questa gita sarebbe stata importante per Jx. L’educatrice propone al ragazzo di andare ugualmente ma che non avrebbe fatto il bagno e in caso si sarebbe bagnato solo i piedi. Jx era entusiasta, ma risponde che il padre non avrebbe mai firmato l'autorizzazione. L’ educatrice pensa che questa sia proprio l'occasione per entrare in relazione e lavorare con il ragazzo e la sua famiglia e chiede al ragazzo di poter parlare con il padre di modo che anche lui fosse a conoscenza di tutte le modalità dell'uscita. Il ragazzo accetta. Questo ci aiuta a riflettere sulle relazioni che ci sono tra famiglie e centro educativo, i quali spesso hanno un punto di vista diverso e che quindi devono trovare un modo per collaborare. Ci fa vedere anche come la differenza di età di persone provenienti dalla stessa cultura possa portare dei soggetti ad interpretare in maniera diversa lo stesso episodio. SECONDA STORIA “DISEGNI COMPROMETTENTI” La protagonista della storia è una facilitatrice linguistica che ogni mercoledì si reca nella scuola per svolgere il suo lavoro nella classe con A, un bambino di 9 anni originario del Ghana, che da pochi mesi è in Italia solo con il papà. In realtà è nato in Italia e dopo aver frequentato la scuola dell'infanzia è tornato in Ghana con la mamma e i suoi fratelli e poi il papà ha deciso di riportarlo in Italia perché voleva dargli una formazione più adeguata. Nel momento che la facilitatrice esce dall'aula con A, per recarsi nella classe dove avrebbero svolto la loro lezione, nel corridoio incontrano l’insegnante di sostegno della classe del ragazzo, che era molto preoccupata chiedendo alla facilitatrice linguistica di parlare in disparte. L'insegnante di sostegno le dice che ultimamente il ragazzo dice bugie, che non si relaziona in maniera corretta con i compagni e che durante l'ora del disegno libero aveva disegnato in maniera dettagliata degli animali che si stavano accoppiando, chiedendo per ultimo il pensiero della facilitatrice linguistica. L'insegnante di sostegno, allarmata, afferma che forse sarebbe il caso di rivolgersi alla psicologa, ma la facilitatrice linguistica, dopo averci pensato un attimo, afferma che prima di avvertire la psicologa e pensare subito che sia presente qualche problema patologico, bisogna capire che questo bambino all'età di 9 anni ha già vissuto tre grossi spostamenti, che gli manca la mamma e che tra poco dovrà ritornare in Africa e che quindi forse è per questo motivo che non coltiva legami di amicizia e che dice bugie. La facilitatrice linguistica avverte la sua referente, la quale le consiglia di parlare con il bambino, di chiedergli come fosse la sua vita in Ghana, come viveva, cosa faceva durante la giornata, ecc., affermando che sicuramente le sue esperienze vissute lì sono diverse da quelle vissute in Italia. La facilitatrice linguistica chiede questo al ragazzo e lui risponde che al suo paese, in Ghana, vive vicino a un fiume e con i suoi amici gioca a fare gare di nuoto, a cacciare. Dice anche che la sua famiglia possiede tanti animali da fattoria e che molto spesso è lui che li accudisce. Dopo la lezione la facilitatrice chiama la psicologa interculturale che afferma che in quei posti i bambini sono già considerati adulti a 9 anni e quindi, poiché il bambino li accudiva, era possibile che avesse già visto delle scene di accoppiamento. La facilitatrice avverte l'insegnante di sostegno e insieme decidono di rimanere in contatto e di monitorarlo. Dopo osservazioni durate dei mesi, si è visto che non si è mai ripetuto un episodio come quello del disegno. Questa storia ci dà l'occasione per riflettere su una certa cultura italiana, che è quella dell'allarmismo. TERZA STORIA “INCINTA A 18 ANNI” Questa storia parla di un’educatrice e una coppia di adolescenti italiani. Al centro dove si recano i tuoi ragazzi il venerdì pomeriggio, c'è uno spazio che è dedicato al tempo libero dove i ragazzi scelgono di fare quello che vogliono. Lei ha 16 anni e frequenta il centro da quanto era piccola, anche se ora passa periodicamente per salutare e chiacchierare. Lui è il fidanzato e frequenta il centro da un anno, cioè da quando si è fidanzato. Un venerdì pomeriggio i due ragazzi si recano al centro e lei inizia a dire all'educatrice che avrebbe l'idea di voler prendere la pillola. Così iniziano a parlare anche di argomenti come il consultorio, rapporti sessuali e metodi contraccettivi e del fatto che lei ha difficoltà ad affrontare questi argomenti con la mamma. Nella discussione la ragazza e l'educatrice, con la presenza del ragazzo, iniziano a parlare anche dell'importanza della visita ginecologica, dell'utilità del consultorio, di gravidanza desiderate o no. A tal proposito l'educatrice racconta l'episodio nella ragazza di 18 anni che è rimasta incinta senza che lo volesse, ma che comunque ha deciso di tenere il bambino. La ragazza, con la sua risposta, e cioè che a 18 anni, poiché la ragazza è maggiorenne, non è un problema se rimane incinta, provoca stupore dell'educatrice, la quale cerca di far capire ai due ragazzi che all'età di 18 anni i soggetti sono ancora troppo giovani per diventare genitori e che dovrebbero studiare e che quindi è importante conoscere e fare attenzione durante i rapporti. La ragazza però rimane convinta delle sue idee, sostenendo che a 18 anni possiamo prendere decisioni sulla nostra vita, che siamo responsabili e che proprio per questo motivo è normale e giusto che una coppia decida di occuparsi del proprio figlio e che faccia di tutto per dargli un futuro. L'educatrice si rende conto che è solo lei che è rimasta toccata da questo fatto di diventare mamma a diciott'anni e che in realtà è rimasta colpita anche dalla reazione della ragazza, rendendosi conto che il fatto che gli fa avere un pensiero diverso da quello dei ragazzi è proprio il contesto culturale a cui appartiene. L’educatrice, infatti, è nata e vissuta in un quartiere benestante di Milano e ha frequentato amici appartenenti al suo stesso ceto, i quali davano molta importanza allo studio. Il ragazzo, invece, ha 17 anni, lavora, mentre lei studia. Loro vivono in un quartiere di periferia, in dei grandi palazzi dove alcuni appartamenti sono occupati e sono a contatto tutti i giorni con situazione di disagio. Altra differenza è quella dell'età. Per l'educatrice avere 18 anni significa studiare e uscire con gli amici e diventare mamma a quell'età significa privarsi di molte cose. Per i due ragazzi, invece è una cosa che può succedere e che si può vivere senza tanti problemi o limiti per la persona. L'educatrice infine afferma che a differenza sua, sicuramente loro hanno visto ragazzi a 18 anni incinta. Questa storia mette in luce come persone appartenenti alla stessa cultura, perché tutti e tre italiane, ma vissute in livelli culturali diversi, possano avere diverse idee, riguardo allo stesso episodio. Quello che accomuna queste tre storie sono le situazioni emerse come sfide importanti per gli operatori, che si ritrovano spiazzati. Inoltre, in comune c'è che vengono coinvolti i bambini e famiglie che hanno culture diverse da quelle dell'operatore e il fatto di avere operatori e insegnanti che dal punto di vista interculturale hanno agito in maniera competente. L'operatore regge “l'incertezza della comprensione”, quindi è in grado di mettere da parte il proprio giudizio rispetto alle persone che ha davanti, controllando le proprie reazioni. Inoltre, riconosce come significativo il punto di vista dell'altro, anche quando è differente dal suo. Altro punto importante nella competenza interculturale è rendersi conto che il proprio punto di vista è parziale, ma portarlo avanti lo stesso, andando ad accogliere quello dell'altro. L'operatore riconosce le differenze, ma ricerca gli elementi di somiglianza e le convergenze possibili; quindi, è capace di ascoltare la posizione dell'altro e di prendere gli elementi condivisibili all'interno di un progetto comune, è importante nella competenza interculturale è trovare elementi comuni anche laddove vi sono differenze profonde. Infine, l'operatore cerca di sentire proprie le esperienze altrui per comprendere più a fondo il vissuto dell'altro, quindi calarsi nell'esperienza dell'altro partendo da quella personale. CAPITOLO 5: “LA COMPETENZA: RIDURRE I PREGIUDIZI” La costruzione della conoscenza della realtà si basa su stereotipi e pregiudizi. Margalit Cohen-Emerique sostiene che nelle relazioni i pregiudizi e gli stereotipi vanno a costituire la prima categoria alla comprensione dell'altro come essere diverso. Gli stereotipi sono rappresentazioni che danno origine a generalizzazioni e semplificazioni relative caratteristiche che sono attribuite ad alcuni gruppi. Dagli stereotipi possono derivare i pregiudizi, quindi opinioni prefissate da un gruppo riguardo i supposti comportamenti di un altro gruppo. Tentori afferma che i pregiudizi sono nati da fattori competitivi e affermativi che si trovano all'interno dell'organizzazione sociale, ma anche in virtù di meccanismi psichici che vanno a conferire sicurezza all'individuo. I pregiudizi e gli stereotipi possono diventare pericolosi in quanto diventano territorio fertile per comportamenti discriminatori. Dal punto di vista della competenza interculturale, ridurre i pregiudizi vuol dire depurare il proprio punto di vista, in quanto ogni essere umano è naturalmente portato a generare pregiudizi e stereotipi. L'operatore deve costruire uno “sguardo non pregiudicato”, però questo non è sufficiente, è necessario anche promuovere strategie orientate alla riduzione dei pregiudizi. PRIMA STORIA “SOTTO LA GONNA LE BOMBE” Le protagoniste di questa storia sono due maestre di una scuola primaria. Le maestre si trovano nell'atrio e aspettano che i bambini entrino a scuola. Tra le varie mamme ne è presente una di origine araba, vestita con il velo che lascia scoperto solo il volto, che saluta il suo bambino e lo segue con gli occhi fino a che non vede che è entrato. La maestra afferma che il paese dove vivono guarda con diffidenza gli stranieri e chiacchierando con le colleghe, dice che insegna inglese nella classe del bambino e che questo bambino arabo l'ha riconosciuta come tale e la chiama “inglese”. Dice anche che piano piano il bambino sta accettando la scuola e le sue regole e sta cominciando ad esprimersi in italiano. Un'altra collega interrompe la maestra affermando che le dà fastidio che questa mamma araba venga vestita in quel modo, in quanto le fa paura, sostenendo che sotto gli abiti lunghi portano delle bombe che fanno esplodere causando stragi, e che quindi sarebbe utile rimanessero a casa loro. La maestra rimane allibita dal discorso della collega e da una parte vorrebbe insultarla, ma dall'altra si rende conto che la collega non riesce ad andare oltre i luoghi comuni. Di conseguenza la maestra cerca di spiegare che la signora araba è una mamma come tutte le altre, che saluta il figlio prima dell'ingresso a scuola e che i bambini si sono abituati agli indumenti che indossa la mamma araba. Ma la collega rimane della sua idea. Dopo che ha salutato la collega, la maestra ripensa alla conversazione e sostiene di aver utilizzato delle argomentazioni deboli, in quanto non è riuscita a toccare minimamente le convinzioni della sua collega, sostenendo che avrebbe potuto affermare che ognuno di noi è libero di poter indossare i vestiti che più ci piacciono e affermare che la scuola è responsabile di favorire il dialogo con le famiglie, comprese quelle straniere. La maestra crede che molte delle difficoltà che gli insegnanti trovano nel relazionarsi con famiglie straniere hanno luogo dal fatto che gli insegnanti partono prevenuti nei confronti delle famiglie straniere, giudicandoli a priori. La maestra conclude il suo pensiero dicendo che crede che la sua collega consideri questo fenomeno migratorio come una minaccia alle tradizioni e certezze della nostra società e cultura. In questa storia vediamo che sono presenti due maestre che si confrontano con un pregiudizio nei confronti di una mamma araba. La maestra ci pone di fronte a una domanda fondamentale, ovvero come gestire una situazione in cui viene espresso un giudizio estremo e non disponibile a modificarsi e a confrontarsi. SECONDA STORIA “DIFFICILE NON AVERE PREGIUDIZI” Le protagoniste di questa storia sono un'insegnante della scuola primaria e una mediatrice culturale di nazionalità rumena che stanno iniziando a collaborare. L'insegnante deve parlare con i genitori di un bambino rom e quindi richiede l'aiuto della mediatrice e durante la telefonata l'insegnante riempie la mediatrice di domande riguardanti il ragazzo, in quanto voleva sapere come comportarsi e interagire con lui. La mediatrice inizialmente ha lasciato parlare l'insegnante, ma successivamente l'ha interrotta perché si è accorta che le faceva delle domande specifiche che riguardavano proprio quel ragazzo che la mediatrice non conosceva. L'insegnante rimane allibita, domando il motivo per cui la mediatrice non conosceva questo ragazzo vista la sua provenienza. La mediatrice non riesce a credere che un'insegnante possa pensare una cosa così, chiedendosi cosa potesse trasmettere una maestra che aveva tale pensiero e come un bambino straniero si sarebbe trovato nella sua classe. In seguito, la mediatrice ritiene di dover abbandonare i giudizi che aveva nei confronti dell'insegnante, sostenendo che per conoscersi meglio sarebbe stato utile un incontro. L'insegnante si è accorta di aver sbagliato quando ha posto quella domanda e ha approvato l'incontro, nel quale avrebbero parlato anche dell'intervento di mediazione. Durante l'incontro l’insegnante ha iniziato a esporre alla mediatrice il caso, affermando che il ragazzino era stato inserito in quarta elementare in base alla sua età, in quanto la scuola non aveva un attestato che riportasse il numero di anni di frequenza scolastica del bambino in Romania. Continua il suo discorso dicendo che il ragazzino non va spesso a scuola, che non parla italiano e che i pomeriggi non rientrava. Afferma che le insegnanti avevano il dubbio che il bambino non sapesse proprio leggere e che i genitori non si sono presentati al colloquio. La mediatrice ha intuito che l'insegnante aveva dei pregiudizi nei confronti dei rom (l'insegnante sostiene che i rom puzzano e rubano). La mediatrice ha cercato in qualche modo di far capire all'insegnante che non la pensava così, ma non è intervenuta perché sapeva che il loro colloquio sarebbe finito lì e che di conseguenza il bambino non avrebbe avuto la possibilità di essere aiutato. Dopo aver sentito le parole dell'insegnante, l'obiettivo della mediatrice non era quello di far cambiare idea all'insegnante, ma quello di farle conoscere più da vicino la storia del bambino rom e chiarire alcuni aspetti legati alla loro cultura, facendole capire così che non tutte le persone di origine rom rubano, vivono nelle roulette o non hanno voglia di lavorare. La mediatrice cerca di rendere partecipe l'insegnante nel progetto che stanno facendo per il bambino, affermando che, se l'insegnante avesse conosciuto più da vicino la famiglia, avrebbe potuto non generalizzare più e cambiare un m

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