I Promessi Sposi (PDF)
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Alessandro Manzoni
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This is a digital edition of Alessandro Manzoni's *I Promessi Sposi*. The introduction discusses the author's choices, and the meticulous nature undertaken in assembling this text. It discusses the historical context of the book and the use of historical resources as evidence.
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Alessandro Manzoni I promessi sposi www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so- stegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia (pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!) htt...
Alessandro Manzoni I promessi sposi www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so- stegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia (pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!) http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: I promessi sposi AUTORE: Manzoni, Alessandro TRADUTTORE: CURATORE: Marchese, Angelo NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: 9788890359774 DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/libri/licenze/ TRATTO DA: I promessi sposi / Alessandro Manzoni ; a cura di Angelo Marchese. - Milano : A. Mondadori, 1985. - XXXIII, 818 p. ; 21 cm. - (Scrittori italia- ni di ieri e di oggi). CODICE ISBN FONTE: non disponibile 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 25 maggio 1996 2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 marzo 1998 3a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 25 aprile 2002 4a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 maggio 2013 2 INDICE DI AFFIDABILITA': 2 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima DIGITALIZZAZIONE: Fabio Ciotti, [email protected] REVISIONE: Marco Calvo, http://www.marcocalvo.it/ Manlio Flora, [email protected] IMPAGINAZIONE: Catia Righi, [email protected] PUBBLICAZIONE: Catia Righi, [email protected] Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associa- zione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque vo- glia collaborare, si pone come scopo la pubblicazio- ne e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono di- sponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/ Aiuta anche tu il "progetto Manuzio" Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradi- mento, o se condividi le finalità del "progetto Ma- nuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuo sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra biblioteca. Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/aiuta/ 3 Indice generale INTRODUZIONE..........................................................7 CAPITOLO I................................................................13 CAPITOLO II...............................................................38 CAPITOLO III..............................................................57 CAPITOLO IV.............................................................78 CAPITOLO V...............................................................99 CAPITOLO VI...........................................................120 CAPITOLO VII..........................................................140 CAPITOLO VIII.........................................................166 CAPITOLO IX...........................................................195 CAPITOLO X.............................................................223 CAPITOLO XI...........................................................254 CAPITOLO XII..........................................................279 CAPITOLO XIII.........................................................298 CAPITOLO XIV........................................................319 CAPITOLO XV..........................................................341 CAPITOLO XVI........................................................363 CAPITOLO XVII.......................................................384 CAPITOLO XVIII......................................................406 CAPITOLO XIX........................................................426 CAPITOLO XX..........................................................446 CAPITOLO XXI........................................................465 CAPITOLO XXII.......................................................485 CAPITOLO XXIII......................................................502 CAPITOLO XXIV......................................................526 4 CAPITOLO XXV.......................................................561 CAPITOLO XXVI......................................................580 CAPITOLO XXVII....................................................601 CAPITOLO XXVIII...................................................622 CAPITOLO XXIX......................................................651 CAPITOLO XXX.......................................................671 CAPITOLO XXXI......................................................688 CAPITOLO XXXII....................................................712 CAPITOLO XXXIII...................................................737 CAPITOLO XXXIV...................................................764 CAPITOLO XXXV....................................................792 CAPITOLO XXXVI...................................................810 CAPITOLO XXXVII.................................................837 CAPITOLO XXXVIII................................................856 5 I promessi sposi di Alessandro Manzoni 6 INTRODUZIONE "L'Historia si può veramente deffinire una guerra illu- stre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in batta- glia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualifica- ti Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'inge- gno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo rica- mo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è le- cito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rim- bombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuina- mente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi dia- boliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signo- 7 re, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'al- tri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissi- mo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tra- mutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana mali- tia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti He- roi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché de- scriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiu- na della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versa- ti, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi ac- cidenti..." "Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e 8 l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?" Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. "Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel cor- so della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposi- to, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, co- stui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabi- le, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir roz- zo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio ca- rattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son 9 troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venu- to sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani". Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rima- nersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era par- sa bella, come dico; molto bella. "Perché non si potreb- be, pensai, prender la serie de' fatti da questo manoscrit- to, e rifarne la dicitura?" Non essendosi presentato alcu- na obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l'origine del presente libro, esposta con un'inge- nuità pari all'importanza del libro medesimo. Taluni però di que' fatti, certi costumi descritti dal no- stro autore, c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam vo- luto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale inda- gine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbatte- vamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fosse- ro realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla. 10 Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del no- stro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto. Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifar l'o- pera altrui, s'espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, sia- mo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'in- dovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzio- ne di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sa- rebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le muta- no. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d'uno stesso genere, nascevan tutt'e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insie- me, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di rac- capezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un li- 11 bro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pen- siero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d'un altro, potrebbe parer cosa ridi- cola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo. 12 CAPITOLO I Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogior- no, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago ces- sa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua di- stendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scen- de appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somi- gliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna to- sto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta gioga- ia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e 13 il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qual- che parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al ter- ritorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già consi- derabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegna- van la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, ac- carezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche mari- to, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e allegge- rire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una al- l'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tan- to elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sem- pre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove 14 una lunga distesa di quel vasto e variato specchio del- l'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spie- gano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette ca- povolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiu- me, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in luci- do serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'o- rizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vet- ta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevol- mente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute. Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, te- nendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un 15 piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli oc- chi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgen- ti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sem- pre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva di- ritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva ver- so il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non ar- rivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nel- l'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vi- cinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcina- tura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al con- fluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzo- 16 lata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pi- stole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora flori- dissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contesta- bile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Genera- le di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente infor- 17 mato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabon- di, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffini- sce tutti coloro essere compresi in questo bando, e do- versi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo fore- stieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od aven- dolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbia- no a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'al- tre ordinazioni, prescrive: Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, an- corché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla cor- da et al tormento, per processo informativo... et ancor- ché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di 18 bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si trala- scia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere ob- bedita da ognuno. All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e si- cure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran vo- glia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bra- vi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustris- simo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Ve- lasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente in- formato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predeces- sore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e rube- rie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fau- tori loro... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accre- 19 scendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, per- ché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determi- nata che questa sia l'ultima e perentoria monizione. Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccel- lentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran nume- ro di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmen- te estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decem- bre 1600, una nuova grida piena anch'essa di severissi- me comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onni- namente eseguite. Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir ca- bale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d'una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre del- l'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed Eccellen- tissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, 20 Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest'effetto, spe- dì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi visse- ro ancora per ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellen- tissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figue- roa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non es- sendo essi morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Ec- cellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e ri- pubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 otto- bre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento. Né fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle po- steriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accennere- mo soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Du- que de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de' bravi tuttavia. Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, 21 coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un trat- to avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mos- se di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne su- bito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato con- tro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, an- che in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvici- navano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, gi- rando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la fac- cia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, per- ché i momenti di quell'incertezza erano allora così peno- si per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Af- frettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compo- 22 se la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci sia- mo; e si fermò su due piedi. – Signor curato, – disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia. – Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, al- zando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. – Lei ha intenzione, – proseguì l'altro, con l'atto mi- naccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sul- l'intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di ma- ritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! – Cioè... – rispose, con voce tremolante, don Abbon- dio: – cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune. – Or bene, – gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai. – Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impa- ziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... – Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a de- cidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne 23 sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende. – Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevo- li... – Ma, – interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o... – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... – un'al- tra bestemmia. – Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor cu- rato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam ga- lantuomini, che non vogliam fargli del male, purché ab- bia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente. Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire... – Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe an- cora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su que- sto avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo si- gnor don Rodrigo? – Il mio rispetto... – Si spieghi meglio! –... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza –. E, 24 proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se fa- ceva una promessa, o un complimento. I bravi le prese- ro, o mostraron di prenderle nel significato più serio. – Benissimo, e buona notte, messere, – disse l'un d'es- si, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscan- sarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. – Signori... – cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aper- ta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere. Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser di- vorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluvia- vano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se 25 non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condan- na: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ri- pubblicate e rinforzate di governo in governo, non servi- vano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impo- tenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessa- zioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di que- sti. L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gri- de non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con ge- losia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e in- sultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmen- te, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accade- va in effetto; e, all'apparire delle gride dirette a compri- mere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse sen- za forza propria e senza protezione; perché, col fine d'a- 26 ver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, pri- ma di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che impegnas- se a difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia po- tente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di que- gli stessi ch'eran deputati a farle eseguire, alcuni appar- tenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne di- pendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazio- ne, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta at- taccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'e- secuzione immediata, quando fossero stati intraprenden- ti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrifi- carsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'es- sere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costo- ro eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un im- properio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa dispera- 27 ta, vendessero la loro inazione, o anche la loro conni- venza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa. L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni mo- mento, d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e com- pagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero ve- gliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la no- biltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mer- canti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in con- fraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oli- garchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognu- na l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principal- mente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguar- darsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercita- 28 va un potere, a cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procac- ciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualun- que non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo si- stema particolare. Don Abbondio, assorbito continua- mente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'ado- perarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutrali- tà disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobi- li, fino alle questioni tra due contadini, nate da una paro- la, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due conten- denti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli era 29 volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma per- ché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepoten- ti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e ca- pricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, co- stringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche. Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi sen- za alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sa- peva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un ta- 30 glio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Que- sto chiamava un comprarsi gl'impicci a contanti, un vo- ler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severa- mente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predi- cava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non accadon mai brutti incontri. Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è rac- contato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolac- ce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare in- vano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'an- ni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. "Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche co- stui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per 31 non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! ve- dete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbascia- ta..." Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pen- sieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d'un'occa- sione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udi- to applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in 32 una compagnia fidata, chiamò subito: – Perpetua! Per- petua! –, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e far- gli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sino- dale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche. – Vengo, – rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così lega- to, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. – Misericordia! cos'ha, signor padrone? – Niente, niente, – rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. – Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è avvenuto. – Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire. – Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura 33 della sua salute? Chi le darà un parere?... – Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino. – E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! – disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare. – Date qui, date qui, – disse don Abbondio, prenden- dole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votando- lo poi in fretta, come se fosse una medicina. – Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? – disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi vo- lesse succhiargli dagli occhi il segreto. – Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita! – La vita! – La vita. – Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai... – Brava! come quando... Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, – signor padrone, – disse, con voce commossa e da commovere, – io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo... Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia 34 di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiate- rebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohi- mè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua pro- ferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Ab- bondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spallie- ra della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: – per amor del cielo! – Delle sue! – esclamò Perpetua. – Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio! – Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto? – Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone? – Oh vedete, – disse don Abbondio, con voce stizzo- sa: – vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a do- mandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell'im- piccio, e toccasse a me di levarnela. – Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi... – Ma poi, sentiamo. – Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di pol- so, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse 35 una bella lettera, per informarlo come qualmente... – Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe? – Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mo- strare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, ap- punto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... – Volete tacere? – Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... – Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggiana- te? – Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non co- minci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. – Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbon- dio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E s'al- zò, continuando: – non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me. – Mandi almen giù quest'altro gocciolo, – disse Per- petua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. – Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così di- 36 cendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una pic- cola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà? – e altre simili lamentazioni, s'avviò per sa- lire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro ver- so Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono len- to e solenne: – per amor del cielo! –, e disparve. 37 CAPITOLO II Si racconta che il principe di Condé dormì profonda- mente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sa- peva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione ribal- da, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un parti- to, che non volle neppur mettere in deliberazione. Con- fidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! – Non si lasci scappar parola... altri- menti... ehm!– aveva detto un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar quell'ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; "e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi 38 di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose". Ru- minò pretesti da metter in campo; e, benché gli paresse- ro un po' leggieri, pur s'andava rassicurando col pensie- ro che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. "Vedremo, – di- ceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore ad- dosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo". Fermato così un poco l'animo a una delibera- zione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fu- ghe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo sve- gliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un mo- mento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all'idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel para- gone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo mo- mento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s'alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di po- ter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v'andò, con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall'adole- scenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la profes- 39 sione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abi- le operaio non potesse cavarne di che vivere onestamen- te. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l'emigrazione continua de' lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, face- va sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimaneva- no in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un pode- retto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizio- ne, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era dive- nuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tem- po di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto e misterioso di don Ab- bondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. "Che abbia qualche pensiero per la testa", argomentò Renzo tra sé; poi disse: – son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa. – Di che giorno volete parlare? – Come, di che giorno? non si ricorda che s'è fissato 40 per oggi? – Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. – Oggi, oggi... abbiate pa- zienza, ma oggi non posso. – Oggi non può! Cos'è nato? – Prima di tutto, non mi sento bene, vedete. – Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica... – E poi, e poi, e poi... – E poi che cosa? – E poi c'è degli imbrogli. – Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere? – Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de' rimproveri, e peggio. – Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla cor- da, e mi dica chiaro e netto cosa c'è. – Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola? – Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa, – disse Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto ciò che s'aveva a fare? – Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far pe- 41 nare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi po- veri curati siamo tra l'ancudine e il martello: voi impa- ziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne an- diam di mezzo. – Ma mi spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, come dice; e sarà subito fatta. – Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti? – Che vuol ch'io sappia d'impedimenti? – Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,... – cominciava don Abbondio, contan- do sulla punta delle dita. – Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch'io faccia del suo latinorum? – Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa. – Orsù!... – Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V'è salta- to il grillo di maritarvi... – Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l'attonito e l'adirato. – Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vor- rei vedervi contento. – In somma... – In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge 42 non l'ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimo- nio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricer- che, per assicurarci che non ci siano impedimenti. – Ma via, mi dica una volta che impedimento è so- pravvenuto? – Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet... – Le ho detto che non voglio latino. – Ma bisogna pur che vi spieghi... – Ma non le ha già fatte queste ricerche? – Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico. – Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare... – Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho faci- litato ogni cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io. – E che vorrebbe ch'io facessi? – Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l'eternità: abbiate pazien- za. – Per quanto? "Siamo a buon porto", pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, – via, – disse: – in quindici giorni cercherò,... procurerò... – Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s'è fissato il giorno; il giorno 43 arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici gior- ni! Quindici... – riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l'avesse interrotto, prendendogli l'al- tra mano, con un'amorevolezza timida e premurosa: – via, via, non v'alterate, per amor del cielo. Vedrò, cer- cherò se, in una settimana... – E a Lucia che devo dire? – Ch'è stato un mio sbaglio. – E i discorsi del mondo? – Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa fu- ria, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana. – E poi, non ci sarà più altri impedimenti? – Quando vi dico... – Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma riten- ga bene che, passata questa, non m'appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco –. E così detto, se n'an- dò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un'occhiata più espressiva che ri- verente. Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la pri- ma volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e im- picciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato in- sieme e impaziente, que' due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se 44 avesser avuto paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell'accen- nar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stet- te il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzan- do gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l'uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attac- car discorso con essa. – Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sa- rebbe stati allegri insieme. – Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo. – Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m'ha impastocchiate certe ragioni che non ho po- tuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi. – Oh! vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padro- ne? "L'ho detto io, che c'era mistero sotto", pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: – via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuo- lo. – Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo. 45 – È vero, – riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi sospetti; e, cercando d'accostarsi più alla que- stione, – è vero, – soggiunse, – ma tocca ai preti a trattar male co' poveri? – Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa. – Chi è dunque che ci ha colpa? – domandò Renzo, con un cert'atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta. – Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualchedu- no. Pover'uomo! se pecca, è per troppa bontà. C'è bene a questo mondo de' birboni, de' prepotenti, degli uomini senza timor di Dio... "Prepotenti! birboni! – pensò Renzo: – questi non sono i superiori". – Via, – disse poi, nascondendo a sten- to l'agitazione crescente, – via, ditemi chi è. – Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parla- re, perché... non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la cor- da, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt'e due –. Così dicendo, entrò in fretta nell'orto, e chiuse l'uscio. Renzo, rispostole con un salu- to, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro del- l'orecchio della buona donna, allungò il passo; in un mo- 46 mento fu all'uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l'aveva lasciato, ve lo trovò, e corse ver- so lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati. – Eh! eh! che novità è questa? – disse don Abbondio. – Chi è quel prepotente, – disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è risoluto d'ottenere una risposta precisa, – chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia? – Che? che? che? – balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava al- l'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca. – Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fat- ti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui? – Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra. – Penso che lo voglio saper subito, sul momento –. E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino. – Misericordia! – esclamò con voce fioca don Abbon- dio. – Lo voglio sapere. – Chi v'ha detto... – No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito. – Mi volete morto? – Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere. 47 – Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita? – Dunque parli. Quel "dunque" fu proferito con una tale energia, l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire. – Mi promettete, mi giurate, – disse – di non parlarne con nessuno, di non dir mai...? – Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui. A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cava- denti, proferì: – don... – Don? – ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti al- l'indietro. – Don Rodrigo! – pronunziò in fretta il forzato, preci- pitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sot- trarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch'era costretto a metterla fuori. – Ah cane! – urlò Renzo. – E come ha fatto? Cosa le ha detto per...? – Come eh? come? – rispose, con voce quasi sdegno- sa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. – Come eh? 48 Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c'entro per nulla; che certamente non vi sareb- ber rimasti tanti grilli in capo –. E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: – avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sa- cro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di boc- ca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch'io vi na- scondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave. – Posso aver fallato, – rispose Renzo, con voce rad- dolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: – posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso... Così dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre que- gli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal 49 canto suo, – giurate almeno... – gli disse. – Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire. – Giurate... – replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante. – Posso aver fallato, – ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d'una questione di letteratura o di filosofia o d'al- tro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna del- le parti non faceva che replicare il suo proprio argomen- to. – Perpetua! Perpetua! – gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non ri- sponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse. È accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel mo- mento, l'ansietà dell'avvenire, fecero l'effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sen- tirsi qualche brivido nell'ossa, si guardava le unghie so- spirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tre- molante e stizzosa: – Perpetua! – La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, 50 le condoglianze, le accuse, le difese, i "voi sola potete aver parlato", e i "non ho parlato", tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all'uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, ri- sponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, – son servito –; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo. Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribi- le. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qua- lunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemi- co d'ogni insidia; ma, in que' momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non era occupa- ta che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto cor- rere alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch'era come una fortezza, guar- nita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v'entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianel- lo sconosciuto non vi potrebb'entrare senza un esame, e ch'egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo cono- sciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai 51 colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i trat- ti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. "E Lucia?" Appena que- sta parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fanta- sie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ri- cordi de' suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madon- na e de' santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all'orrore che ave- va tante volte provato al racconto d'un omicidio; e si ri- svegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con ri- morso, e insieme con una specie di gioia di non aver fat- to altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annun- ziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lu- singa, non era un pensiero che potesse fermarsi un mo- mento nella testa di Renzo. Ma n'era informata? Poteva 52 colui aver concepita quell'infame passione, senza che lei se n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d'averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso! Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s'avviò a quella di Lucia, ch'era in fondo, anzi un po' fuori. Ave- va quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la sepa- rava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S'immaginò che sarebbe- ro amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo! – Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va' su da Lucia, tirala in disparte, e dille all'orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve'... dille che ho da parlarle, che l'aspetto nella stanza terrena, e che ven- ga subito –. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d'avere una commission segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chi- nandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri soprac- cigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca 53 e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d'argento, che si dividevano all'intorno, quasi a guisa de' raggi d'un'aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati al- ternati con bottoni d'oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch'esse, a ricami. Oltre a questo, ch'era l'orna- mento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellez- za, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s'accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all'orecchio. – Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c'è? – disse, non senza un pre- sentimento di terrore. – Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie. – Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – 54 ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno! – Dunque voi sapevate...? – disse Renzo. – Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno! – Che cosa sapevate? – Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m'avete mai detto niente. – Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un mo- mento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch'io abbia ta- ciuto se non per motivi giusti e puri? Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all'orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a ve- der cosa c'era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è am- malato; e oggi non si fa nulla –. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo. Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l'accadu- to. Due o tre andaron fin all'uscio del curato, per verifi- car se era ammalato davvero. – Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all'altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne' loro cervelli, e ad an- 55 nunziarsi tronche e misteriose ne' loro discorsi. 56 CAPITOLO III Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale ango- sciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimen- to, il quale non poteva essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la fi- glia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. – A tua madre non dir niente d'una cosa simile! – Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule. – Parla, parla! – Parlate, parlate! – gridarono a un tratto la madre e lo sposo. – Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! – E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi gior- ni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta in- dietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella di- ceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva 57 affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodri- go dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l'altro signore sghi- gnazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. – Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l'ultimo della filanda. Io raccontai subito... – A chi hai raccontato? – domandò Agnese, andando incontro, non senza un po' di sdegno, al nome del confi- dente preferito. – Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – ri- spose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli rac- contai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese av- viata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura... Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'A- gnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre? Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, 58 sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di que- ste due ragioni però, non allegò che la prima. – E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quel- la voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avu- to torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora! – E che t'ha detto il padre? – domandò Agnese. – M'ha detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, – pro- seguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s'era stabili- to. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo... e que- sta mattina, ero tanto lontana da pensare... – Qui le paro- le furon troncate da un violento scoppio di pianto. – Ah birbone! ah dannato! ah assassino! – gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e strin- gendo di tanto in tanto il manico del suo coltello. – Oh che imbroglio, per amor di Dio! – esclamava Agnese. Il giovine si fermò d'improvviso davanti a Lu- cia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza me- sta e rabbiosa, e disse: – questa è l'ultima che fa quel- l'assassino. – Ah! no, Renzo, per amor del cielo! – gridò Lucia. – No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i po- 59 veri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male? – No, no, per amor del cielo! – ripeteva Agnese. – Renzo, – disse Lucia, con un'aria di speranza e di ri- soluzione più tranquilla: – voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi. – Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e mo- glie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...! Lucia si rimise a piangere; e tutt'e tre rimasero in si- lenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo con- trapposto alla pompa festiva de' loro abiti. – Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non biso- gna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbro- gliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia stu- diato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-gar- bugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dot- tor... Come si chiama, ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia. – Lo conosco di vista, – disse Renzo. – Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d'uo- 60 mo! Ho visto io più d'uno ch'era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzec- ca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, po- veretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lu- cia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Ren- zo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua di- sgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzec- ca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come doves- sero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per mi- 61 naccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e fa- ceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali in- tanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come ac- cade troppo sovente tra compagni di sventura. Giunto al borgo, domandò dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e v'andò. All'entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tiran- do indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sa- pesse ch'egli portava qualche cosa. Capitò appunto men- tre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi –. Ren- zo fece un grande inchino: il dottore l'accolse umana- mente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de' dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d'allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggio- le all'intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s'alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'accartocciava qua e là. Il 62 dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt'anni addie- tro, per perorare, ne' giorni d'apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, ditemi il vostro caso. – Vorrei dirle una parola in confidenza. – Son qui, – rispose il dottore: – parlate –. E s'acco- modò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva gi- rar con l'altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha studiato... – Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore. – Lei m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere... – Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccon- tar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa. – Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minac- ciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale. "Ho capito", disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. "Ho capito". E subito si fece serio, ma d'u- na serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarti- colato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, fi- gliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... 63 appunto, in una dell'anno scorso, dell'attuale signor go- vernatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano. Così dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. – Dov'è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tan- te cose alle mani! Ma la dev'esser qui sicuro, perché è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco –. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: – il 15 d'ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno pas- sato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sape- te leggere, figliuolo? – Un pochino, signor dottore. – Bene, venitemi dietro con l'occhio, e vedrete. E, te- nendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand'espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno: – Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dal- l'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordi- narii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciu- ta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, ecce- tera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, ecce- tera, ha risoluto che si pubblichi la presente. 64 – E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'e- sperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concus- sioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'af- fitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh? – È il mio caso, – disse Renzo. – Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luo- go dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh? – Pare che abbian fatta la grida apposta per me. – Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili vio- lenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre si- mili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... una piccola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E 65 questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, ecce- tera. Ce n'è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizio- ni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Plato- nus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente. Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l'occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato costui", pensava tra sé. – Ah! ah! – gli disse poi: – vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare, in un'occasione. Per intender quest'uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d'ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all'atto d'affrontar qualcheduno, ne' casi in cui stimasser neces- sario di travisarsi, e l'impresa fosse di quelle, che richie- devano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all'arbitrio di Sua Eccel- 66 lenza. Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per co- prire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) in- correre nella pena agli altri contraffacienti imposta. E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubbli- co, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordi- nario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un di- stintivo de' bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si rammenti d'aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto. – In verità, da povero figliuolo, – rispose Renzo, – io non ho mai portato ciuffo in vita mia. – Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se 67 non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà natural- mente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un po- vero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impic- cio: con un po' di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nel- l'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fos- se una testolina, c'è rimedio anche per quelle. D'ogni in- trigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a