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Questo documento è un documento accademico sull'evoluzione della moda attraverso la storia, includendo la storia del costume e della moda nell'Università di Bologna. Contiene un'analisi del costume e della moda in varie civiltà dal passato.

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lOMoARcPSD|44760323 Civiltà della moda Storia del Costume e della Moda (Università di Bologna) Scansiona per aprire su Studocu Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Ester Trocino (e...

lOMoARcPSD|44760323 Civiltà della moda Storia del Costume e della Moda (Università di Bologna) Scansiona per aprire su Studocu Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Civiltà della moda Cap I. Dalle leggi suntuarie alla moda L’avvento della moda interruppe una tradizione di consolidate abitudini nel modo di vestirsi e nel significato che esso aveva. Le organizzazioni sociali in cui la foggia dell’abito non era soggetta a frequenti cicli di cambiamento è detta costume; quella in cui la regola era la rapida sostituzione dei modelli vestimenti è detta moda. La moda può essere considerata un’istituzione sociale ed un sistema di regolazione, la cui sanzione è la disapprovazione o la ridicolizzazione. Dunque il primo elemento essenziale è il costante cambiamento, più o meno rapido, delle fogge; il secondo consiste nella facoltà degli individui di seguire tali avvenimenti senza limitazioni normative. (Georg Simmel). “Mito delle origini” —> René Konig ha individuato quattro fasi di diffusione della moda, la prima risalirebbe nelle civiltà primitive della preistoria e in quelle arcaiche altamente sviluppate dall’Egitto, della Persia, della Grecia, di Roma e in quelle dell’India, della Cina, del Medio ed Estremo Oriente. L’attenzione crescente per l’abbigliamento usato per identificare e distinguere le persone diventa una prassi. Tale dinamica viene consolidata nelle civiltà mediterranee. Ad Atene le norme suntuarie erano contenute nel corpus promulgato da Solone nel VI secolo a.C. L’obiettivo era regolare le cerimonie funerarie e il ruolo assunto in esse dalle donne. Servivano a limitare l’ostentazione e il lusso nelle doti, nei matrimoni e nell’abito. La legge romana Lex Oppia si focalizza sulla limitazione delle ostentazioni da parte delle donne. Successivamente alla Lex Oppia le restrizioni normative agli eccessi nei banchetti divennero centrali nelle norme suntuarie romane; ci furono interventi mirati a salvaguardare la funzione dell’abito come indicatore dello status sociale o fu proibito indossare capi di abbigliamento mutuati dai costumi dei barbari. Nel mondo greco l’abbigliamento era imperniato su tre capi fondamentali: - Il peplo —> Veste drappeggiata ricavata da un telo quadrangolare e realizzata in due versioni, quella aperta su un fianco e quella chiusa. - Il chitone —> Ricavato dalla sovrapposizione di due teli distinti, dei quali si cucivano i lembi superiori, che andavano a poggiare sulle spalle e quelli che coprivano i fianchi, lasciando lo spazio per le braccia in finte maniche. Sia peplo che chitone potevano essere stretti in vita. - L’himation —> Mantello indossato sul peplo o chitone, drappeggiato. 1 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 La variante lunga del chitone, quella ufficiale e da cerimonia, era capo fondamentale del vestiario maschile. L’abbigliamento era completato dall’himation, il mantello lungo, o da quello più corto, il clamide. Per il periodo che va dal VI secolo a.C alla tarda ellenistica il sistema vestimentario greco rimane invariato. La matrona romana indossava una stola, una sorta di toga drappeggiata sui fianchi e stretta da una cintura, sotto la quale si indossava una semplice tunica. Sopra la stola si portava una palla, lungo mantello ai piedi. Il cittadino romano vestiva la toga, con diversi colori i quali indicavano la condizione di chi la indossava: porpora per i consoli trionfatori e poi per gli imperatori, bianco per i candidati alle cariche pubbliche, nero per il lutto, banda porpora per le massime autorità. Indossavano una semplice e corta tunica, indossata sotto la toga per i cittadini e come abito quotidiano del popolo minuto. Il tutto era completato dal mantello, con o senza cappuccio, che si avvolgeva sulla toga o sulla tunica. Il collegamento tra abito e condizione sociale, sia maschile che femminile, è centrale nell’epoca romana. Anche le matrone possedevano abiti distinti in base alla condizione (vedova, adultera, madre, spose, zitelle) e in più i gioielli indicavano l’appartenenza ad uno status elevato. Nel corso dei secoli influssi orientali e il contatto con le popolazioni barbare contaminarono i costumi tradizionali greci e romani. Le variazioni furono però un processo lento e graduale. Il declino del sistema vestimentario avviene tra il III secolo e il VI secolo, quando le vesti drappeggiate si limitavano agli usi cerimoniali e furono sostituite dai capi barbari, proibiti nelle norme suntuarie del IV secolo. Tale trasformazione segna una profonda discontinuità con la tradizione classica ma, il radicale cambiamento, si ha intorno al 1340 quando furono introdotte importanti innovazioni nelle acconciature, nelle calzature e nella foggia degli abiti. Ci fu una notevole differenziazione tra abiti maschili e femminili, data soprattutto dal nuovo modo di tagliare i vestiti e dalla presenza dei bottoni. Le antiche e solide consuetudini furono messe in repentaglio dall’ondata di innovazioni che portarono stravaganza e lusso sfrenato. I moralisti, appunto, colpivano gli aspetti giudicati indecenti dell’abbigliamento; le cortissime tuniche maschili e gli abiti fascianti femminili in uso nella seconda metà del ‘300. I tratti distintivi dello stile che si affermò furono la ricerca dello sfarzo e la passione per l’eccesso. Il mutamento della foggia del Trecento influenza l’intero sistema vestimentario, raggiungendo lo strato sociale inferiore. Nel corso del XIV secolo si fece nuovamente ricorso a leggi suntuarie, non mirate a delimitare gli spazi di appartenenza dei ceti sociali, ma a riclassificare i segni esteriori dei ranghi, in base al nuovo modo di vestire. Nonostante le innovazioni del XIV 2 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 secolo rappresentano un punto di svolta importante, esso non è ancora radicale, in quanto permanevano una serie di condizionamenti istituzionali che vincolavano l’abbigliamento ad una funzione identificativa e rappresentativa. Ciò non rappresenta quello che Simmel intende per moda, ovvero l’imitazione. L’avvento della moda è un processo che non si dipana nel tempo con un moto regolare bensì con accelerazioni seguite da un periodo di stasi necessari alla società per “metabolizzare” i cambiamenti. Fino al ‘500 l’abbigliamento continuò ad essere considerato un preciso segnale di appartenenza ad un ceto sociale ma anche un indicatore di età, professione. L’abito non aveva solo funzione indicativa della condizione sociale ma anche delle tradizioni delle diverse comunità. L’abito viene considerato un mezzo di comunicazione e di rappresentazione dell’appartenenza è testimoniato dalla fortuna editoriale dei trattati illustrati sull’abbigliamento. Cesare Vecellio in “Habiti antichi e moderni di tutto il mondo” rappresenta le tradizioni vestimentarie delle varie località. L’opera contiene alcune notazioni dalle quali traspare l‘attenzione dell’autore per il ritmo di cambiamento degli stili vestimentari. Dalla gerarchie vestimentarie si riflette la gerarchia dei colori: Il nero è il colore dominante nell’abbigliamento, soprattutto maschile, del ceto elevato. Nel corso del XVI secolo le attenzioni dei legislatori e delle leggi suntuarie si focalizza sul contenimento delle ingenti spese che le famiglie nobili sostenevano. L’intento è quello di salvaguardare la nobiltà inferiore dalla rovina per le eccessive spese necessarie a mantenere uno stile di vita adatto allo status. Le leggi suntuarie erano inadatte allo scopo che si erano prefissate in quanto non facevano altro che aumentare il desiderio delle cose di cui il popolo voleva farne uso. Nella seconda versione del 1598 Vecellio avverte la mutazione degli abiti femminili. Fondamentali sono le condizioni economiche nelle quali è stato possibile evidenziare il cambiamento. Tra il 1500 e il 1650 la disuguaglianza tra poveri e ricchi aumentò notevolmente: i salariati risentivano dell’aumento dei prezzi dei beni agricoli, i ceti abbienti godevano dei ricavi. D’altra parte l’industria tessile si specializza nella produzione di tessuti più leggeri e meno costosi di quelli tradizionali. Tra le produzioni leggere conobbero un notevole successo le basette, saie e sarze. Da un lato vi erano le stoffe confezionate con filato di lana, che si distinguevano in tessuti pettinati, spesso definite rascie, i drappi con finiture che imitavano gli effetti della seta (satins) e stoffe tessute con lana di capra e cammello. Cresce la produzione di tessuti misti. Un ulteriore cambiamento nel corso del XVI è rappresentato dal “la rivoluzione della maglia” ossia la diffusione degli articoli lavorati a maglia che sostituivano il tessuto. Il primo caso di prêt- à-porter sono le calze a maglia. Il settore tessile - abbigliamento nel corso del ‘500 ebbe l’intento di allargare e diversificare l’offerta con prodotti sempre meno costosi per raggiungere una platea più ampia di consumatori. Le leggi suntuarie vengono sostituite da un’istituzione sociale, meno rigida, ma ancora legata al significato di rappresentazione e identificazione dell’abito. Le condizioni che hanno permesso quello 3 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 che viene definito il fenomeno della moda è dato dal “processo di civilizzazione” ossia la definizione di un codice di comportamento. Cap II. Epidemiologia della moda Nel corso del XVI secolo il discorso sulla moda aveva acquistato maturità e consapevolezza superiori al passato: nella prima metà del ‘600 la maggior parte dei commentatori affrontava la questione per denunciare i perniciosi effetti del contagio. Nonostante le numerose critiche, soprattuto nei pamphlet francesi, non era possibile negare che l’abbigliamento contribuiva alla definizione della reputazione e del prestigio dell’individuo. La corte era considerata il focolaio dell’epidemia della moda; la corte di Versailles di Re Sole era il cuore del sistema moda francese. La corte infatti per iniziativa del sovrano, lanciava novità in materia di abbigliamento che diventavano punto di riferimento per i cortigiani e successivamente per il resto della società. Il pubblico femminile ebbe un ruolo fondamentale nella trasmissione delle mode soprattutto con la stampa. Il primo giornale di moda fondato nel 1672 “Le Mercure Galant” da Jean Doneau de Visé. Il periodico trattava argomenti leggeri, rivolti alla “gens de qualité”. Il fondatore della rivista aveva una visione della diffusione della moda di tipo piramidale e gerarchica. Il giornale trattava abbigliamento femminile e maschile, ma tendeva a sottolineare la maggiore importanza che la prima categoria aveva. La Francia e successivamente l’Inghilterra furono terreni fertili per la nascita e lo sviluppo della moda. Rispettivamente in entrambe le corti erano racchiusi gli attacchi dei moralisti, i quali associavano alla moda il concetto di spreco e lusso. I sovrani Stuart adottano uno stile imperniato sull’ostentazione e sullo sfarzo. Gli attacchi erano principalmente di carattere etico-religioso: l’abbigliamento aveva la necessità di rappresentare il rigore morale che ispirava la condotta degli individui. In Olanda la corte degli Orange influenzò i gusti degli olandesi, distaccandosi dal rigore e dalla sobrietà dei costumi neri e avvicinandosi allo sfarzo francese e inglese. In Italia il termine moda compare negli anni ’40 del ‘600 nell’opera di Agostino Lampugnani. L’abito rappresentava un potente mezzo di comunicazione ed era usato come come mezzo dagli arrampicatori sociali per entrare in società. L’abuso dell’apparenza, condannato nel ‘500, diventa un comportamento, ora, largamente diffuso. Nella letteratura l’inganno sociale suscita ironia piuttosto che indignazione. Nel corso del ‘600 la moda diviene un’istituzione sociale. La corte giocò un ruolo determinante nell’evoluzione, in quanto i sovrani si servirono della moda per esaltare lo splendore della corona. Da un lato vi era l’ostentazione e il lusso e dall’altro la moda viene impiegata come strumento di potere. La corte francese di Versailles si impose come centro di elaborazione della moda, che si propagava a Parigi. In Olanda e Inghilterra le fazioni che si opponevano alla monarchia portarono alla definizione uno stile vestimentario alternativo, che si contrapponeva alla moda di corte. Nella stessa corte di Versailles nei salons particuliers furono un punto di 4 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 riferimento per la parte di élite cittadina che non aveva una collocazione di rilievo: elaboravano mode e comportamenti che non richiamavano buon gusto ed eleganza. Per il “Mercure Galant” solo le novità provenienti da corte e adottate dalla gens de qualité erano degne di considerazione. Il flusso del cambiamento in Francia, prendeva le mosse da Versailles, per irradiarsi poi a Parigi e poi alla provincia. Modello di ciò che i sociologi successivamente definiscono come trickle down, ossia il passaggio delle mode dai ceti sociali elevati a quelli inferiori. Dal ‘700 l’interno della società inizio a mutare: Il primo aspetto da considerare è l’indebolimento della corte come sede principale della manipolazione della moda. Con la morte di Re Sole il baricentro della vita mondana si sposta a Parigi. In Inghilterra l’elaborazione delle mode proveniva dalla corte degli Stuart. Il ritorno al trono di un erede della dinastia di origine scozzese riporta in auge i vestimenti improntati al lusso e allo sfarzo, ma con la rivoluzione del 1688 si ritorna alla sobrietà britannica. Il motore della moda diventa la costante ricerca della novità. Nascono le merchandes de modes, le quali trasformavano i clienti, uomini e donne, da signori e signori eleganti da ammirare nella società. Le loro abilità consistevano solo nell’arricchimento del look senza intervenire sulla struttura portante dell’abito. Ricevevano i clienti facoltosi negli hotels particuliers. In Inghilterra un ruolo fondamentale è quello del sarto, artefice della bellezza maschile. La mantua maker confezionava articoli d’abbigliamento per signora. Simile alla merchande de modes era la milliner. L’esigenza di disporre notizie aggiornate e affidabili sulle tendenza di moda permise la moltiplicazione della stampa di moda femminile. Jean Antoine Brun, Lebrun Tossa, tra il 1785/86 pubblicò il “Cabinet des modes”, nel quale non erano solo illustrati vari modelli ma erano presenti riflessioni sul ruolo e la funzione della moda nella società del tempo. La stampa contribuì anche alla netta distinzione tra moda e lusso: l’eleganza non si identificava più con l’ostentazione di tessuti preziosi e gioielli. Di notevole interesse diventa l’attenzione al taglio e alla confezione dell’abito, che rappresentava un indicatore di buon gusto. Nel corso del ‘700 aumentò l’interesse per la biancheria intima; coloro che la lasciavano intravedere mostravano sensibilità per la cura del proprio corpo ed erano ritenuti meritevoli di alta considerazione sociale. La moda diventa un dominio principalmente femminile in quanto, secondo il “Cabinet”, le donne erano alla costante ricerca di artifizi per essere sempre belle. Nella seconda metà del ‘600 scoppia la “guerra della moda” tra Francia e Inghilterra: Re Sole fece della moda uno strumento di potere, permettendo il dominio del gusto francese in Europa. In Inghilterra, Carlo II Stuart cercò di arginare l’imperialismo vestimentario francese. Nel 1866 decise di adottare un abito-modello che non sarebbe mutato nel tempo al quale tutti si sarebbero dovuti adattare. L’abito si componeva di tre elementi —> vest, l’antenato del panciotto, con o senza maniche fino al ginocchio; una casacca lunga al polpaccio ed infine i calzoni. Con questo il sovrano aveva l’intento di proporsi come primo difensore della manifattura nazionale dato che vest era anche l’indumento di lana ed infine voleva 5 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 erigere una barriera che ostacolasse l’influenza del gusto francese. Le altre nazioni europee, come l’Olandae la Germania, riproducevano gli influssi provenienti da Parigi. Nel corso del ‘700 la sobrietà e la modestia presero il posto del lusso e dell’ostentazione come indicatori di buon gusto del gentiluomo. L’abbigliamento inglese era modesto solo in apparenza in quanto era confezionato con materiali di prima qualità. L.S Mercier accredita all’Inghilterra una notevole qualità dei manufatti rispetto alla concorrente Francia. Sempre nel corso del ‘700 mentre i ceti elevati adottano uno stile sobrio, le classi medie e popolari partecipano al gioco della moda. Nasce lo stile “Macaroni”, caricatura dell’eleganza, versione esagerata della moda continentale, adottata da giovani dall’atteggiamento effeminato. Riguardo la moda maschile l’Inghilterra detiene il primato ma anche riguardo la robe a l’anglaise dell’abbigliamento femminile si ha un riscontro positivo. Nella seconda metà del 18esimo secolo lo stile inglese è modello a cui si ispiravano tutte le società europee. La penetrazione del vestiario inglese si verificò nell’abbigliamento maschile con la diffusione del redingote (dall’inglese riding-coat: capospalla dal taglio sportivo concepito per cavalcare), fazzoletto annodato al collo, calzoni di pelle, stivali, cappello tondo. Anche le donne dell’alta società francese adottorano il redingote. Nel 1786 il “Cabinet des modes” diventa “Magasin des modes nouvelles francaises et anglaises”. Anche in Italia avviene la contaminazione della moda Inglese/Francese. Nell’ultimo quarto del 18esimo secolo si adottano i termini redingotto e frack. Nelle società europee del ‘700 l’ostentazione e il lusso erano soliti di occasioni importanti, non più della quotidianità. La stessa regina Maria Antonietta lanciò un modello di abito femminile semplice, chiamato chemise a la reine, abito di mussola bianca con maniche al gomito o al polso, scollatura tonda e stretto in vita con un nastro o una cinta. Si parla di trickle up, ovvero le classi abbienti mutuavano le fogge del vestiario plebeo. Dalla seconda metà del 17esimo secolo fino alla fine del ‘700 si verifica quella che viene definita “rivoluzione dei consumi”, ossia una lievitazione della propensione ai consumi. Tutta l’Europa occidentale ne fu colpita, ma il fenomeno partì dall’Inghilterra. L’ambito emergente fu quello dell’abbigliamento. Gregory King, tentò per primo un stima della domanda interna del vestiario. Tra ‘600 e ‘700 la propensione allo shopping aumentò abbattendo le differenze tra ceti sociali: nelle aree rurali era aumentato il consumo di tele per fare camicie di nastri e stoffe. I domestici furono tra i primi a diffondere gli stili vestimentari tra i ceti inferiori ispirandosi al guardaroba dei padroni. In Francia l‘epoca di Re Sole e la Rivoluzione fu contrassegnato da una costante tendenza all’incremento del numero e alla diversificazione dei capi di vestiario a disposizione del ceto popolare. Secondo L.S Mercier il popolo parigino rinunciava a beni alimentari per assicurarsi un eccellente capo vestiario. In Spagna ed in Italia l’incremento del guardaroba si verificò nella seconda metà del ‘700. In Inghilterra fu la classe media ad avviare il processo di 6 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 consumo e, successivamente, influenzò gli altri ceti. Frequente era il ricorso al banco dei pegni. L’industrious revolution si identificava il progressivo e crescente orientamento delle famiglie al mercato , sia per ricavarne moneta, sia per possedere beni. Il contesto economico che ha favorito lo sviluppo della moda è, come già detto, la domanda, ma soprattutto l’offerta, ossia dalla grande varietà delle soluzioni proposte alla platea. L’evento che rivoluzionò il mercato di tessuti fu l’avvio dell’importazione di tessuti di cotone dall’India. Usata già in Europa nel Medioevo, ma nei tessuti misti. Inizialmente le cotonate indiane furono considerate delle curiosità e non divennero moda per l’abbigliamento: attorno alla metà del Seicento le tele furono usate da una ristretta elite per l’arredo domestico e la biancheria della casa. Nei primi anni ’60 del ‘600 calicoes, chintzes e indiennes entrarono a far parte del guardaroba del europei, inizialmente nella confezione di vestaglie. Successivamente comprese svariati capi di vestiario. Le tele bianche furono usate per la confezione degli articoli di biancheria personale o per la casa, quelle con brillanti fantasie stampate per l’arredamento e l’abbigliamento esterno. L’offerta era talmente ampia che potevano usufruire tutti. Daniel Defoe notò come il successo delle tele di importazione misero a repentaglio la produzione di prodotti locali come seta, lana e in parte lino. I produttori continentali nel 18 secolo ottennero provvedimenti che ne proibissero l’importazione e ne limitassero il consumo. La reazione fu quella di stimolare la crescita di cotonifici nazionali, primo ondata del processo di industrializzazione. I fustagni furono impiegati nella confezione dei capispalla maschili destinati alla popolazione popolare e benestante; la pelle, adottata per i calzoni (Il giovane Werther). I cotonifici nazioni si specializzarono nella produzione di articoli da biancheria personale, le camicie a quadri o a righe, ma soprattutto nella produzione di un elemento divenuto fondamentale nell’abbigliamento femminile, il fazzoletto. Le importazioni dall’Oriente misero in crisi il mercato della seta, che subì le importazioni di cotone indiano ma anche di tessuti serici cinesi e indiani. Le importazioni avevano introdotto i consumatori europei al gusto per l’Oriente. I setaioli lionesi della Grande Fabrique svilupparono la potenzialità del faconne: tessuti realizzati da esperti artigiani. Le soluzioni grafiche e iconografiche erano ispirate all’Oriente. Per difendere la loro posizione i lionesi tendevano ad alleggerire i tessuti, rendendoli più fragili e più economici. Per questo motivo ci furono innumerevoli citazioni sulla scarsa qualità dei tessuti francesi. La moda nel ‘700 ha dato priorità alla novità rispetto alla robustezza. IL panorama dell’offerta fu arricchito tra ‘600 e ‘700 dagli enormi progressi compiuti nel settore della maglieria. William Lee inventore del telaio a calze, rese disponibili per i consumatori capi a maglia non soltanto in quantità crescente, ma anche in tipologie diversificate per avere una vasta gamma alternativa. L’articolo haut de gamme di maglieria erano le calze di seta, il cui prezzo diminuì nel ‘600, accanto a calze lavorate con lana e cotone, queste ultime le più pratiche ed economiche. Le calze diventarono 7 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 uno tra i populuxe goods, ossia quegli articoli che erano appannaggio dei più facoltosi adesso erano a disposizione di tutti. Negli ultimi decenni del ‘700 la produzione della maglieria si estendeva alla confezione di mutandoni, gilet, maglie e calzoni. Gli esordi del ready-to-wear risalgono alla fine del ‘500, am al vera incubatrice dello sviluppo del mercato dell’abito confezionato fu la domanda di vestiario standardizzato per l’esercito. In Inghilterra nel corso della guerra civile per le uniformi del New Model Army avevano adottato un primordiale sistema di definizione delle taglie, sia per indumenti che per le scarpe. Nel panorama inglese il ready-to-wear assunse un importanza elevata, riuscendo a ricoprire l’abbigliamento femminile e maschile. A Parigi esempi di prêt-à- porter erano riscontrabili presso il sarto Dartigalongue che nel 1770 pubblicizzava il suo negozio con abiti confezionati di ogni tipo e taglia. In Inghilterra il commercio dell’abbigliamento pronto si confondeva con la vendita dell’usato. Del commercio di abiti usati se ne occupavano i rigattieri, ma anche mercanti ebrei, che in alcune città assunsero un ruolo chiave, o i banchi di pegno. I venditori si rifornivano in diversi modi: acquistavano direttamente, prestavano su pegno, ricettavano vestiario rubato, svuotavano magazzini degli ospedali. La clientela era costituita dalle classi popolari, soprattutto dai servi, i quali investivano la paga per scarpe o parrucche usate. Nel corso del ‘700 l’offerta di prodotti che consentiva di vestire alla moda aumentò in volume e si differenziò dal punto di vista qualitativo e di prezzo. La cosiddetta “rivoluzione dei consumi” è spiegabile dalla spinta generata dal settore commerciale. Londra e Parigi rappresentarono il terreno fertile per questo sviluppo. Nelle capitali si formarono delle aree urbane dedicate allo shopping, nelle quali si allineavano negozi di moda. A Londra le direzioni si snodavano verso Piccadilly e St. James. I negozi erano finemente arredati, ma elemento centrale era la vetrina, via maestra per accedere a desiderio dei consumatori. A Parigi il commercio della moda appare localizzato sulla Rive Droite con epicentro nella rue Saint-Honoré. Nel ‘700 il Palais Royal divenne il cuore della vita elegante dell’alta società. I negozi più frequentati erano i merciai, ovvero coloro che vendevano articoli di moda, ma soprattutto le merchandes de modes; la vetrina di Rose Bertain era la più ricercata. Si sviluppano innovative tecniche di vendita: l’uso di bambole vestite alla moda scomparve bensì nel ‘700 le invenzioni sull’abbigliamento passavano attraverso la carta stampata, giornali di moda. I periodici dal 1730 e i quotidiani dal 1760 rappresentavano un importante canale di diffusione delle informazioni e quindi di pubblicità. Altro strumento furono le tradecards, fogli a stampa con incisioni che promuovevano nuovi prodotti o particolari articoli. I cataloghi misero a frutto le potenzialità della rappresentazione visiva. Gli slogan che accompagnavano le immagini richiamavanao l’attenzione del lettore sul prezzo modico e fisso, sulla qualità e sulla novità. In Inghilterra la diffusione della stampa non interessò solo la capitale ma si interessò anche ai centri minori. La capillarità della vendita e della circolazione dei prodotti spettava ai venditori porta a porta i quali erano ormai specializzati, praticando la vendita a credito ed 8 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 accettando il pagamento a rate. La quantità dei progressi è data principalmente dall’affermazione di una vera e propria cultura dello shopping, che influenzava tutti i ceti. Le classi meno abbienti facevano ricordo ad abiti usati, riciclati, ma la vera novità stava nell’utilizzo di accessori, i popoluxe goods che conferivano tratti distintivi al look senza comportare un’eccessiva spesa. Nel corso del ‘700 lo stretto collegamento tra moda e lusso perde valenza e non è possibile escludere l’esistenza di subculture, ovvero di una “moda popolare”. Le nuove figure nate nel mondo della moda, merciai, merciaie, milliners e merchandes de modes si erano interposte tra la fase produttiva, sarti e tessitori e quella commerciale, venditori di tessuti. I sarti si trovarono tra i costruttori di look e l’affermazione dell’abito confezionato, che spingeva molti a mettersi alle dipendenze di imprenditori. Un altro cambiamento fu la massiccia presenza della figura femminile. Il dominio della moda che si espanse in Europa colpì anche le colonie, soprattuto quelle inglesi in America settentrionale. Le forme di abbigliamento erano differenti per la necessità di adeguarsi all’ambiente —> il clima caldo meridionale impediva l’utilizzo di corsetti per le donne e parrucche per gli uomini. In ambito militare nel 1750 G. Washington fece adottare alle truppe i “gambali indiani” per assicurare una migliore protezione agli arti inferiori e un “indian dress” in sostituzione all’uniforme. I coloni americani si adeguavano facilmente ai costumi inglesi, anche grazie alle notevoli importazioni dalla madrepatria: pezze di lana, tele di cotone puro, drappi di seta. La maggior parte dei consumatori acquistava i tessuti e poi si rivolgeva ad artigiani locali, alcuni si recava a Londra per gli acquisti e G. Washington ordinava capi di vestiario direttamente ai sarti londinesi. La crescente disponibilità di prodotti provenienti dall’Inghilterrà stimolo la passione per la moda. Dal 1766 circa quando Benjamin Franklin fu chiamato al Parlamento di Londra, iniziava a muoversi l’idea di un’America autarchica, in cui anche l’abbigliamento e i materiali erano frutto della laboriosità nazionale. Lo stesso B. Franklin offrì il suo contributo con l’esempio personale esibendosi come campione del nuovo stile vestimentario della giovane repubblica: abito semplice, niente parure, né cipria, né cappello di pelliccia. Esempio di difesa dei caratteri identitaria attraverso la definizione di un costume nazionale, fu messo in atto in Scozia. Passato alla storia come abito tradizionale degli abitanti delle Highlands, il kilt, confezionato con tessuti tartan di varie combinazioni per distinguere l’appartenenza ai vari clan. Il binomio kilt-tartan diventa il simbolo dell’identità scozzese. Durante la Rivoluzione Francese si idealizzò il progetto di adottare un costume nazionale. La questione della valenza politica dell’abito assume rilevanza nel momento del decreto degli Stati Generali i cui rappresentanti dovevano indossare un segno di identificazione e di distinzione. Nell’ottobre del 1789 la gerarchia delle appartenze venne abolita e fu bandito l’anno successivo ogni segno esteriore che conferisse distinzione al 9 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 rango di nascita. Nel 29 ottobre 1793 un’assemblea legislativa rivoluzionaria dichiara formalmente la libertà di vestiario, purché confacenti al proprio sesso. La coccarda tricolore francese consacrata il 17 luglio 1789 quando Luigi XVI apparve in pubblico nel 1792 divenne simbolo della nazione stessa e scattò l’obbligo di indossare un dischetto di stoffa tricolore. Segno distintivo di appartenenza politica più che di identità nazionale era il berretto frigio o il cappello della libertà. Si diffuse dal 1792 in concomitanza con i nuovi soggetti della vita politica, i clubs. L’abbigliamento da sans- culotte divenne il costume adottato dai sostenitori dei movimenti radicali. L’identità giacobina si distinse per l’utilizzo del berretto frigio e del costume dei sans-culotte. Con la caduta di Robespierre si mise fine al progetto dell’eliminazione della moda. Dal 1789 si rafforzò la tendenza alla semplificazione degli stili vestimentari sia in ambito femminile che maschile. L’abito femminile aveva adottato linee semplici ed essenziali: erano scomparsi i vari tipi di armatura che sostenevano le gonne, tessuti lisci e le tinte unite avevan sostituito elaborati tessuti decorati. L’abbigliamento maschile accolse la contaminazione con l’abbigliamento da lavoro, partendo innanzitutto dall’adozione dei pantaloni lunghi e dei capelli corti al posto delle parrucche. L’epoca del Direttorio accentuò la semplicità vestimentaria adottata anni prima: le robes a la chemise ora sono a l’antique o a la grecque. Incroyables e merveilleux erano etichettati gli elegantoni dell’alta società che ostentavano forme di ricercatezza ridondante, richiamante il gusto vistoso dell’ancient regime. L’inarrestabile diffusione della moda tra ‘600 e ‘700 è definita epidemia: ossia un contagio che si verifica tra nazioni, stati ma anche pericolosamente tra ceti. La moda essendo un’istituzione sociale fu soggetta ad un’evoluzione che ne adattò la fisionomia ai mutamenti della società: si passò da una espressione diretta dello stile cortigiano con l’ostentazione del lusso ad una moda intesa come manifestazione del buon gusto individuale, da una moda guidata dalle scelte del sovrano e della nobiltà. La moda assume un ruolo decisivo anche in ambito economico. Dalla seconda metà del ‘600 comincia a prendere forma “un’offensiva dell’offerta” che mirava a raggiunger strati sempre più ampi di consumatori con articoli di moda a prezzi competitivi. La situazione del contagio della moda, ritenuto trickle up, quindi “a trazione cortigiana”, dal ‘600 in poi si parla di trickle up e di mode popolari, con circuiti di propagazione propri. I cambiamenti comprendevano le metropoli europee, Francia ed Inghilterra, mentre negli altri paesi si procedeva con più lentezza. 10 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Cap IV. Artisti della creazione e industriali della confezione Negli ultimi dieci anni del ‘700 il confronto tra la moda parigina e quella londinese si conclude con l’egemonia della moda anglosassone, la quale si era imposta in Europa e nella stessa Francia. Il modello di eleganza maschile inglese combinava una struttura vestimentaria “standardizzata” —> abito a tre pezzi (invenzione di Carlo II Stuart nel 1666). La Rivoluzione Francese e l’epopea napoleonica successiva congelarono il primato inglese, che ritornò nell’800 con la figura del dandy. L’ostentazione marcata di una particolare ricercatezza nel vestire apparteneva a gruppi che miravano a distinguersi: Incroyables, Merveilleuses, Muscadins. Il dandy, nei primi anni del 19 secolo, da Thomas Carlyle era descritto nella accezione di ossessionato dall’eleganza più che stimolato dal bisogno di stupire. Capostipite dei dandy fu George Brummel, il quale contribuì alla costruzione del mito dell’eleganza maschile. Attenzione particolare fu data alla biancheria, considerata miglior indicatore dell’igiene personale del gentiluomo. L’eleganza era praticabile e riconoscibile solo da coloro che erano in possesso della giusta competenza. Il West End, considerato il terreno di coltura in cui si sviluppò l’esperienza del dandismo, era anche lo scenario ideale per l’esibizione, il confronto, la competizione e l’emulazione. Il modello inglese di eleganza maschile ebbe forma compiuta quando l’abito a tre pezzi, confezionato con stoffa pregiata e tagliato con maestria sartoriale, venne associato al colore nero. Membri della vecchia aristocrazia ed esponenti della borghesia furono accomunati da quella che divenne l’uniforme dell’uomo di prestigio. Il concetto di perfetto gentiluomo non derivava più dalla nobiltà natale bensì veniva acquisita per merito. La prima ondata di anglomania in Francia risale al ‘700, ma la Rivoluzione e poi il ritorno della monarchia con Napoleone riportano i costumi pomposi tipici francesi. La seconda ondata di anglomania si ebbe nel 1815, con la Reggenza, questo perché moltissimi intellettuali rientrarono dall’esilio in Inghilterra, contaminando la società con il mito del dandismo. Balzac con il Trattato della vita elegante si propose divulgatore della filosofia di Brummel. Anche in Francia la semplicità assoluta era data dal colore nero, e nella seconda metà del secolo l’abito nero divenne uniforme del gentiluomo. Anche in Italia si diffonde il gusto inglese, conta diffusione dagli anni successivi alla Restaurazione del completo nero. L’eleganza maschile era data dal modello dell’abito a tre pezzi —> la tenuta da giorno prevedeva un capospalla, chiamato redingote, con lunghezza variabile in base alla condizione sociale di appartenenza, diventa poi la classica giacca. Sotto il redingote si indossava il gilet, per il quale era possibile azzardare con numerose fantasie. Segno distintivo dell’eleganza era la cravatta, più specificamente il modo in cui veniva annodata. La culotte, definitivamente scomparsa, lasciava posto ai pantaloni più o meno aderenti in base al periodo. A protezione del freddo veniva usato un mantello, ma nel corso dell’800 divenne popolare il paletot. Il soprabito Mackintosh, dal nome del chimico scozzese che lo inventò, aveva un tessuto impermeabile. Per le occasioni 11 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 formali era di rigore l’abito nero di panno rifinito in seta, frac combinato con gilet e cravatta. Nel corso del 19 sec si parla di “Grande Rinuncia maschile”, della quale si è molto discusso, in quanto l’uomo non avrebbe rinunciato alla moda, bensì ne avrebbe scelto una particolare declinazione. Gli stili vestimentari femminili invece erano in contrasto con l’austerità maschile. Si parla perciò di femminilizzazione della moda. Nel corso dell’800 la diversità tra l’abbigliamento femminile e maschile fu maggiormente enfatizzata. T. Veblen, primo studioso moderno del consumismo, identifica la funzione della donna come quella eminentemente decorativa, di “illustrare” il tenore di vita del marito. Con la Restaurazione viene superato il modello austero e classico della moda degli anni del Direttorio e dell’impero, modelli che richiamavano l’Età classica. Nel 19 secolo tornarono i corsetti che costringevano il corpo e le ampie armature che gonfiavano il volume della gonna. Ampiezza e lunghezza della gonna, altezza e compressione del giro vita, profondità della scollatura e forma delle maniche erano gli elementi che costituivano la silhouette femminile. Tra i 1830-1859 si affermò definitivamente la crinolina circolare, alla quale succedette quella ovale a metà del 1860; tra il 1867-1890 una riduzione con l’avvento della tournure, alla quale si accompagnava uno strascico. Ciò che segnò l’evoluzione della moda femminile nell’800 fu l’istituzione dell’Haute Couture di Parigi. Nonostante la Riv. Francese e le vicende Napoleoniche tentarono di attenuare la diffusione del fenomeno moda francese, questo irradiò l’europa grazie all’abilità delle marchandes de modes e le modistes. Fu però un inglese a porre le basi della nascita dell’H.C: Charles F. Worth indrodusse epocali cambiamenti; Worth lavorò a Parigi presso un rinomato negoziante di stoffe e di articoli di abbigliamento confezionati, Gagelin. Ciò gli permise di entrare in contatto consuma clientela appartenente all’alta società. Ebbe l’idea di presentare i capi confezionati da una modella e questa intuizione gli permise di lavorare nel 1850 per conto suo. Nel 1851 la maison Gagelin era presente all’Esposizione Universale di Londra, nel 1853 Worth divenne socio di Gagelin. Nel 1858 apre la sua maison con il collega Otto G. Bobergh. Divenne commissario di abiti della principessa di Metternich, dell’imperatrice Eugenia, al zarina di Russia e la regina Elena. Worth fu celebrato dalla stampa europea, ma anche dalla stampa americana di “Harper’s Baazar”. Con Worth le maison parigine governavano il sistema della moda con i grandi nomi dell’alta sartoria femminile. Il rapporto sarto-cliente fu completamente rovesciato: la sua ascesa confinò le altre figure professionali (merciers e merchandes de modes) ed in più rese subalterno il rapporto del cliente con il sarto. Per di più l’alta moda femminile era in mano a sarti uomini. Il sarto perde la semplice funzione di tailleur ma diventa couturier. Non solo sarto bensì un artista della moda. Seguendo l’esempio di Worth, Jeanne Becker esordì con la maison Jaquin, la prima casa di H.C ad aprire filiali all’estero: Londra, Madrid, New York e Buenos Aires. Le sorelle Callot aprono nel 1885 la loro maison, menzionata da Proust in Alla ricerca del tempo perduto. 12 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Con Paul Poiret l’H.C fece un ulteriore salto di qualità grazie all’introduzione di ulteriori innovazioni. Fu l’artefice della definitiva consacrazione del couturier-artista con l’apertura della sua maison nel 1903. La moda è parte integrante della cultura artistica dell’epoca e, in quanto tale, forma dell’espressione della sensibilità estetica contemporanea. Nel 1911 fonda a Parigi la Scuola di arti decorative “Martine”. Tra le grandi capacità del couturier una fu quella delle innovative forme di comunicazione: egli si rivolse all’illustratore Paul Iribe per realizzare un album con i suoi modelli rappresentati. Pointer fu il primo ad allargare le attività della casa di moda dalla sartoria ai prodotti cosmetici, accumulati dal medesimo marchio. I due capisaldi dell’alta moda posso considerarsi: Worth che ha permesso l’abolizione della crinolina e Poiret con l’abolizione del busto. La sua prima collezione presentava infatti abiti dalle linee dritte e semplici dalla vita alta che rievocano lo stile dell’epoca del Direttorio, senza corsetto. L’H.C svolse un ruolo decisivo nell’organizzazione della moda: le maison dell’alta moda si configuravano come una rete di laboratori della creatività applicata agli articoli di lusso, che si imposero come istituzione che deteneva il potere di definire i canoni del buon gusto e dell’eleganza. Dall’inizio del 20 secolo l’alta moda parigina divenne un business internazionale organizzato attorno agli eventi delle modelle, le mannequins, che indossavano gli abiti delle collezioni secondo un calendario stabilito. Nel corso dell’800 si afferma definitivamente il settore dell’abito confezionato. Iniziano ad emergere le prime commesse di abbigliamento confezionato con il servizio di taglie standardizzate per il servizio militare. Le innovazioni portate dalla Rivoluzione Industriale, trasformarono il settore tessile generando un aumento delle produttività che inizialmente interessò il cotone e successivamente le altre fibre. La discesa del prezzo favorì la nascita e la diffusione di attività manifatturiere specializzate nella confezione di abiti pronti per la clientela popolare. L’offerta in larga scala di abiti confezionati in Francia fu disponibile dal 1830. Pierre Parissot nel 1824 apre il negozio di tessuti nel quale è possibile acquistare capi confezionati a prezzi modici. Inizialmente l’offerta era limitata ad abiti da lavoro. L’industria della confezione non aveva nulla di industriale, ad eccezione dello sfruttamento di migliaia di operai e operaie che lavoravano a domicilio. Questa forma organizzativa fu definita sweating system, che costituì l’assetto tipico adottato dalle imprese che producevano abiti confezionati. Nel 1840 l’abito pronto conobbe miglioramenti qualitativi: il sistema delle taglie fu perfezionato, il taglio divenne più preciso, l’assemblaggio più accurato. I sarti che lavoravano su misura risentirono della diminuzione della clientela. L’abito confezionato era un prodotto indirizzato al pubblico maschile. Era troppo complesso per l’epoca immaginare una produzione seriale dell’abito femminile. La diffusione dell’abito confezionato ricevette un ulteriore impulso grazie alla comparsa dei grandi magazzini, nuova forma di distribuzione commerciale. Tra le grandi novità ci fu l’esposizione del prezzo, il prezzo fisso e l’entrata 13 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 libera, i saldi, le varie forme di pubblicità. Le “cattedrali del consumo” erano allo stesso tempo il simbolo e il portato del grande sviluppo demografico e del riassetto urbanistico che trasformarono il modo di vivere della metropoli francese. In questo contesto nacque la macchina da cucire: proposta da Thimonier nel 1829, ma bloccata dall’opposizione dei sarti, fu introdotta dal 1850 nella versione elaborata di Singer. Ebbe un grande successo inizialmente solo nelle aziende impegna nella confezione di divise per l’esercito (azienda Godillot). L’abito confezionato intorno al 1865 diventa un bene possibile alla classe operaia. In inghilterra l’abito pronto maschile iniziò a diffondersi intorno al 1830, in seguito alla produzione dedicata all’esercito, alla marina, alle scuole e alle livree per la servitù. La produzione era concentrata a Londra, nell’East End. Tra gli imprenditori che si affermarono nel settore dell’abito pronto ci fu Hyam Hyam; in seguito si specializzò anche la ditta E. Moses & Son. L’avvento del nuovo dispositivo, la macchina da cucire, permise di rendere più efficiente lo sweating system. Le prime macchine da cucire erano efficienti nelle cuciture che si sviluppavano in linea retta, quindi erano utili nella confezione di pantaloni ordinari, mentre giacche e cappotti continuavano ad essere cuciti a mano. Negli ultimi decenni dell’800 ci furono dei miglioramenti. Alla diffusione rapida dell’abito pronto maschile, non corrispondeva una eguale diffusione dell’abito pronto femminile: Morrison Cohen fu il primo imprenditore nella confezione femminile. Nel 1895 aprì la sua prima fabbrica di mantelli nell’East End. Elemento fondamentale nell’industrializzazione fu la scoperta di tessuti innovativi: il materiale impermeabile, scoperto da Mackintosh ebbe successo, ma di breve durata. I primi impermeabili erano pesanti, rigidi e puzzolenti. Con la scopetta del processo di vulcanizzazione fu possibile sfruttare la gomma. Fine ‘800 i nuovi imprenditori si interessarono alla crescente produzione di soprabiti impermeabili. In Italia le prime testimonianze di abbigliamento pronto risalgono al 1823, a Milano e si tratta di intersezioni sulle quali si poteva sapere dove fosse possibile trovare articoli di vestiario confezionato. I fratelli Bocconi furono i fondatori del primo grande magazzino italiano. Nell’ambito dell’abbigliamento pronto un settore che fornì i più antichi esempi di articoli ready-made era la maglieria. Dal primo processo di maglieria, nel ‘500, la lavorazione a maglia aveva ottenuto notevoli progressi tecnici e si era diffusa in tutto il continente. Il telaio inventato da William Lee, fu adottato ovunque. Prodotto tipico della maglieria furono le calze di seta, esibite sotto i calzoni a culotte. I perfezionamenti del telaio di Lee permise diverse realizzazioni di tipi di maglia: a coste, incatena, più elastiche della classica trama. I cambiamenti del vestiario maschile spinse l’industria della maglieria ad aggiornare gli orientamenti produttivi con l’avvento dei pantaloni, che coprivano i polpacci oscurando il ruolo delle calze. I primi articoli di maglieria esterna, verso la fine del secolo, furono le giacche di lana spencer. La maglieria diventa disponibile su basta 14 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 scala per rispondere alla crescente domanda dei consumatori. La costante tensione al miglioramento qualitativo (taglio, vestibilità, finiture) trasformarono gli articoli delle origini, destinati ad uso quotidiano dei lavoratori, a capi indossati dai ceti intermedi. Determinante fu l’introduzione di sistemi di misura standardizzati: fondamentale fu l’invenzione del metro da sarta, strumento di misurazione flessibile. Con questo era possibile ottenere il più ampio sfruttamento delle pezze di tessuto, riducendo al minimo i tagli inutilizzati e dall’altro graduare con precisione la scala delle taglie. La prima manifattura di abito confezionato americana fu dello United States Army Clothing Establishment a Philadelphia nel 1812. Negli USA come in Europa la figura del confezionista era una figura imprenditoriale nuova. Gli imprenditori americani capirono che dovevano soddisfare da un lato la richiesta di vestiario di qualità e a basso costo, ma anche un haute de gamme per attrarre gli acquirenti interessati all’abbigliamento di qualità. Il sistema delle taglie migliorò notevolmente grazie alla numerose misurazioni prese ai soldati nel corso della guerra civile. Agli inizi del ‘900 grazie alle nuove opportunità di lavoro e studio riservate alle donne, furono reperibili abiti confezionati femminili. Le linee vestimentarie erano semplificate: il cavallo di battaglia della produzione fu l’accoppiata camicetta-gonna. Nel 1910 l’industria offrì ogni genere vestimentario femminile. Nel corso del 18 sec cominciava a farsi strada l’idea che il confort non era necessariamente alternativa all’eleganza. Questa attenzione fu sollecitata a partire dall’abbigliamento femminile che per secoli è rimasto vincolato ad elementi che hanno reso la postura e l’andamento impraticabile (crinoline, faldee, corsetti) e che finalmente, grazie anche alle innumerevoli innovazioni mediche, iniziava a slegarsi da queste imposizioni. La femminista americana A. Bloomer nel 1852 lanciò una nuova tipologia di abito femminile, chiamato bloomer, formato da una tunica che arrivava alle ginocchia serrata in vita da una fascia, sotto la quale si indossavano dei pantaloni all’orientale. Dal 1881 nascono diverse associazioni con l’obiettivo di promuovere un tipo di abbigliamento che combinasse salvaguardia della salute, bellezza e comodità. Un ulteriore ambito fu quello dello sport per il quale erano richiesti capi di abbigliamento pratici che non ostacolassero il movimento e l’esercizio fisico. L’abbigliamento femminile sportivo fu sicuramente ripreso dai modelli di vestiario maschile. Paul Poiret nella H.C, oltre ad innovare notevolmente la silhouette femminile, sperimenta una contaminazione tra alta moda e industria: “industria di lusso”. L’alta moda era sinonimo di buon gusto ed esclusività, mentre l’abito pronto aveva il pregio della grande distribuzione, che permetteva di raggiungere grandi masse di consumatori: l’una aspirava al fascino dei grandi numeri, l’altra aspirava una qualificazione superiore. Nel ‘900 inizia l’epoca della moda per tutti. 15 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Cap V. Mode per tutti Gabrielle Chanel, contribuì a portare l’H.C nella modernità del ‘900. Fu considerata l’inventrice dell’abbigliamento della donna moderna, che lavorava e che necessitava di abiti pratici e confortevoli, che permettessero il movimento. Lanciò abiti semplici dritti, tra cui il modello detto “abitino nero”, completi con giacca e gonna a pieghe o dritta, che arrivava prima al polpaccio, poi dal 1920 al ginocchio, pantaloni e soprattutto maglie di jersey di lana. Tale semplicità si coniugò con il nuovo taglio di capelli, detto alla “garconne”. Ciò non significava che l’alta moda fosse a disposizione di tutti, ma che, la stessa, si declinava in altri modi, più sobri. (Poiret definì lo stile di Chanel “povertà di lusso”). M. Vionnet, ad esempio, cercò, come Chanel, proposte innovative he combinavano l’emergente praticità al gusto estetico, con l’ispirazione alla semplicità delle architetture vestimentarie dell’antichità classica. J. Patou si dedicò alla creazione di abbigliamento sportivo. In Italia, Elsa Schiaparelli trattava, a Parigi, articoli di maglieria con fibre innovative e fantasie che riprendevano motivi lanciati dai movimenti artistici dell’epoca. Innovativo fu un maglione che riproduceva l’effetto di una sciarpa annodata al collo con una lavorazione trompe-l’oeil. Tra le due guerre il rapporto tra couturier e movimenti artistici contemporanei diventa sempre più intenso. Tra le innovazioni ci furono quelle delle strategie di comunicazione. Vionnet commissionò un progetto grafico che andò dal logo della maison all’intestazione delle fatture. Logo, firma e impronta digitale comparirono sulle etichette dal 1922 per distinguere i capi originali dalle copie che iniziavano a circolare. J. Patou aveva intuito che i campioni dello sport sarebbero divenute icone della società. Scelse infatti dei professionisti come testimonial della maison. I couturier avevano compreso che era fondamentale l’estensione dall’abbigliamento femminile ai prodotti per la bellezza delle donne. Nel 1921 ci fu il successo di Chanel n°5. Chanel era attratta anche dalla bigiotteria, per questo venne creato un laboratorio di progettazione insieme ad un disegnatore italiano. I primi passi di un prêt-à-porter iniziarono negli anni ’20, quando Vionnet commissionò alla ditta Eva Boex di Parigi la produzione in serie dei modelli della casa. Il primo a lanciare una linea di pret-a-porter fu Lelong nel 1934 con l’etichetta “Lelong Edition”. Il pret-a-porter poteva rappresentare un modo per entrare nel mercato americano dei grandi department stores, per soddisfare la domanda degli strati più alti della società. Il rapporto tra Parigi e Usa è biunivoco: Parigi era la capitale del lusso e l’America la riteneva punto di riferimento per l’abbigliamento femminile, dall’altro gli Stati Uniti rappresentavano un tipo di mercato differente da quello Europeo. L’ascesa di Hollywood rappresentò una vera forma di attrazione. I rapporti tra il cinema americano e le couturieres parigine non fu intenso: Chanel, chiamata nel 1931 ad Hollywood, non riuscì a comprendere le necessità del nascente Star System. 16 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 L’occupazione nazista in Francia non aiutò lo sviluppo dell’alta moda: I nazisti volevano infatti dislocare le maison parigine a Berlino e Vienna tra il 1940-1941, ma il “finto collaborazionismo” di Lelong evitò che accadesse. Alla fine del conflitto l’H.C dovette rilanciarsi ma la scarsità di tessili, rese il lavoro complesso. Lelong organizzò nel 1945 “il Theatre de la Mode” una mostra di bambole vestite da 40 couturiers per comunicare il ritorno dell’alta moda. Grandioso successo lo ebbe Christian Dior, il quale propone un’interpretazione della moda femminile che, da un lato, rappresentava un deciso cambiamento rispetto al fuso severo degli anni della guerra e dall’altro, rievocava il fascino antico dell’H.C come creatrice di ineguagliabili capi di lusso. Dior presentò la prima collezione nel 1947, chiamata “New Look” (Dall’esclamazione della giornalista Carmen Snow in “Harper’s Bazaar”). La linea “a corolla” prevedeva la reintroduzione del corsetto e di una gonna lunga al polpaccio che si allargava a corolla. Una concezione di eleganza lontana da quella di Chanel fatta di praticità e comfort. Nel 1948 Dior apre una filiale per la produzione di pret-a-porter di lusso per il mercato americano. Dior iniziò a cautelarsi nei confronti di potenziali plagi, depositando il proprio marchio in tutti i paesi coinvolti dalla licenza. In secondo luogo si occupava della costante qualità degli articoli, in modo da scongiurare un ritorno d’immagine negativo. Nel 1957 quando Dior morì furono i proventi dei contratti di licenza a salvaguardare le sorti dell’azienda. L’industria confezionista non disponeva ancora delle competenze ne dell’esperienza necessarie per soddisfare appieno le esigenze delle consumatrici francesi, si fece quindi strada l’idea di affidarsi a “consulenti del gusto”. Tra queste spicca la principessa Ghislaine de Polignac, assunta nel 1952 per costruire lo stile pet-a-porte delle Galeries Lafayette. La crescita qualitativa degli articoli di abbigliamento pronto cominciava a mettere in discussione che solo l’H.c potesse vestire la donna elegante. Nel corso degli anni ’50 l’H.C è visto come surrogato dell’alta moda, non un settore in grado di evolversi autonomamente. L’H.C incontra difficoltà economiche —> si va incontro alla società che inizia a confrontarsi con le manifestazioni giovanili tra gli anni ’50 e ’60 che daranno vita a forme di subculture. L’innovativa cultura giovanile si sviluppò in Inghilterra; tra queste spunta Mary Quant, che nel 1955 apre la sua boutique in King’s Road nella quale offriva capi confezionati con materiali semplici dai colori brillanti per incontrare le esigenze dei nuovi consumatori. La minigonna fu una sua invenzione. Le boutique diventano luogo di socializzazione ma anche di contaminazione culturale. Negli anni ’60 la boutique si diffuse ovunque, affermandosi come istituzione della moda contemporanea. La novità rinfrescò anche l’abbigliamento maschile: da quella che fu definita “la grande rinuncia maschile” l’uomo tornava ad occuparsi del proprio abbigliamento con scelte originali. John Stephen nel 1957 api la boutique da uomo a Londra. Nel 1966 Londra fu definita swinging london, straordinario mix di stravaganza e tradizione. In Francia l’ondata dei movimenti giovanili fu colta da couturiers come YSL, Paco Rabanne, Andre Courreges e 17 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Pierre Cardin, i quali si lasciarono contaminare dalle nuove forme estetiche portando al tramonto nel 20 sec l’H.C. Pierre Cardin nel 1959, già affermato couturier lancia una collezione maschile indossata da studenti e una collezione di prêt-à-porter. YSL dopo aver lavorato nella maison Dior, apre la sua nel 1961 con Pierre Berge. Da un lato riteneva che l’H.C fosse nettamente distinta dal prêt-à-porter e dall’altro prestava attenzione ai fenomeni artistici e di costume emergenti nella società contemporanea. La considerazione che H.C e prêt-à-porter fossero due ambiti distinti non portava alla svalutazione dell’ultimo, bensì alla concezione che necessitasse di un approccio diverso, anche più stimolante. L’influenza con l’arte contemporanea si palesa nella collezione del 1965 “Mondrian”. Di innovazioni rivoluzionare si ha, nel 1966, lo smoking femminile. L’alta moda doveva adeguarsi o estinguersi. La donna di riferimento non è più l’aristocratica francese, bensì la donna moderna che non intende spendere un capitale per l’abbigliamento. Da qui la necessità di inventare linee più semplici e pulite facendo sempre più ricorso alla maglieria e ai pantaloni. Meno maisons più griffe. La parola stile negli anni ’60 fece i conti con la moda. Il createur de mode, totalmente estraneo al mondo dell’alta moda era latore di uno stile. Dettare la moda non era più una prerogativa dei couturiers bensì numerose sollecitazioni provenivano da quella che veniva chiamata “strada”. Con il tramonto dell’H.C tramonta anche la centralità di Parigi. Il successo della moda italiana fu palese già dal suo esordio sulla scena nazionale in occasione della prima sfilata tenutasi a Firenze nel 1951. Giovanni Battista Giorgini fu l’artefice dell’evento. Nel primo dopoguerra, fermamente convinto del valore del Made in Italy, progettò una presentazione di modelli italiani da far sfilare al museo di Brooklyn, ma i costi eccessivi fecero accantonare il progetto. Successivamente pensò di invitare buyers e stampa americana che si trovavano già in Europa per le collezioni parigine a prolungare il soggiorno a Firenze, dove avrebbero assistito ad una sfilata di modelli italiani. Il primo appuntamento fu in villa Torrigiani il 12 febbraio. Le grandi sartorie italiane (Le sorelle Fontana, Pucci) portarono in totale 180 modelli. La sfilata fu un successo per la novità creativa e per il costo contenuto dei modelli. La seconda sfilata si tenne nel gennaio del 1952 e, dato ormai il notevole successo, la più importante si tenne nella sala bianca di Palazzo Pitti nel luglio 1952. Firenze era ormai capitale della moda italiana. Le sfilate successive legarono la moda italiana al gusto rinascimentale della location. Giorgini comprese che la clientela americana apprezzava la “moda boutique” ovvero una linea di abbigliamento elegante da giorno, raffinata, ma pratica e non formale come l’alta sartoria. Pionere della moda boutique fu Emilio Pucci. Il successo della moda boutique portò alla crescita il settore degli accessori. Le iniziative di Giorgini diedero slancio non solo al settore della moda, ma più in generale al “Made in Italy” trasformando radicalmente l’idea del paese all’estero. Salvatore Ferragamo, alta moda, fu ambasciatore del gusto italiano negli Stati Uniti. Il successo italiano però dovette far fronte con il consolidato e storico successo dell’alta moda francese. 18 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 Un sussulto nazionalistico si era già registrato verso la fine del 19 sec quando si auspicava ad un “costume nazionale” (l’intento era estremamente politico). Figura chiave fu Rosa Genoni (1867-1954) sarta, ma anche conoscitrice della storia della moda italiana, nonché personaggio di spicco nel movimento per l’emancipazione femminile. Negli anni del dominio parigino la Genoni si distinse per aver promosso l’idea di creare uno stile italiano, indipendente rispetto alla lussuosa H.C. La maggiore semplicità delle forme la trasse dall’eccellenza del gusto degli artisti del Rinascimento. Nel 1906 presentò all’Esposizione Internazionale di Milano una serie di modelli che si rifacevano a Pisanello e Botticelli. Nel 1909 si creò un comitato per una “Moda di pura arte italiana”. Il percorso verso una moda nazionale continua con il fascismo, con intenti però propagandistici, supportandole con la creazione di istituzioni destinate a promuovere la creatività nazionale come l’Ente Nazionale della moda. I futuristi avevano dimostrato interesse per la moda si dagli esordi del movimento (Giacomo Balla con “Il vestito antineutrale”). L’impegno di F. Albanese e Lydia De Liguori fu più consapevole nella costruzione di una “moda nazionale”. Il primo nel 1912 era promotore del gusto nazionale, nel 1917 aveva pubblicato un saggio “Per una moda italiana”, l’anno successivo fu relatore al congresso nazionale fra le industrie dell’abbigliamento. La De Liguoro fece della rivista da lei fondata “Lidel” una campagna per l’affermazione della moda italiana. Nel 1932 fu varato l’Ente nazionale per la mostra permanente nazionale della moda a Torino con lo scopo di coordinare il ciclo produttivo dell’abbigliamento nazionale; nel 1935 l’istituto divenne Ente nazionale della moda. L’ente ebbe il compito di registrare le sartorie, alle quali era presentato l’obbligo di elencare la documentazione fotografica per un quarto dei modelli al fine di ottenere la “marca di garanzia” che attestava la genuina italianità. Nel 1938 venne introdotta la “marca di creazione”, destinata a distinguere le creazioni che si fossero segnalate per l’originalità e per l’italianità. Nell’immediato dopoguerra l’industria tesile sfruttò il sostegno statunitense per porre le basi per il nuovo sviluppo del settore della moda nei decenni successivi. Nella seconda parte degli anni ’40 i buyers americani considerano nuovamente l’artigianato e il manufatto italiano. L’immagine della creatività italiana viene rilanciata nel 1947, anno in cui S. Ferragamo ottenne il Neiman Marcus Award. La visibilità della moda italiana in America fu data anche dalla delocalizzazione a Roma della lavorazione di film americani,in quanto le case produttrici trovarono conveniente lavorare a Cinecittà. Le star americane cominciarono ad apprezzare la sartoria italiana (le sorelle Fontana confezionarono l’abito nuziale di Linda Christian). La moda italiana è imperniata su tre poli: Milano, Firenze e Roma. Ma mancava la consapevolezza che al di là dei successi personali doveva essere considerato il fenomeno nella sua unitarietà. Negli anni ’60 la moda italiana si distingueva in nuclei ben 19 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 precisi: Firenze, sotto la guida di Giorgini fino al ’65 si specializza nella “moda boutique; Roma nell’alta moda; Milano riconosciuta come capitale dell’industria tessile con la creazione del Mitam (Mercato internazionale del tessile per l’abbigliamento e l’arredamento) e Torino con la nascita del Samia (Salone mercato internazionale dell’abbigliamento) nel 1954. Nel ventennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale l’industria tessile italiana compì notevoli progressi: il primo fu l’istituzione del GFT (Gruppo finanziario tessile) creato dai Rivetti. Compresero che il problema principale dell’abito fatto era la vestibilità. Studiarono come le imprese americane risolsero il problema realizzando un’indagine antropometrica mettendo a punto un campione di centoventi taglie che facesse dell’abito pronto una soluzione a tutti i consumatori. La collaborazione tra moda e industria fu l’ambito nel quale si formò la figura che domina la scena i decenni successivi, ovvero lo stilista. Negli anni ’60 anche l’Italia fu colpita dall’ondata della swinging london; Sorsero le prime boutique che offrivano prodotti all’avanguardia, tra cui quella di Elio Fiorucci. Considerato capostipite degli stilisti italiani Walter Albini comincia a disegnare collezioni per numerosi stilisti. Albini aveva compreso che per fare il salto di qualità era necessario il supporto di un’impresa e creò il marchio Misterfox con Luciano Papini. L’altra novità fu spostare le sfilate da Palazzo Pitti di Firenze a Milano. Lo stilista infatti doveva lavorare a stretto contatto con l’industria di riferimento per creare uno stile unico e personale. Con il successo dello stilista l’azienda passò in secondo piano. La prima collezione di alta moda pronta fu presentata nel ’69 a Firenze e ne ’72 nasce Pitti uomo. Già nel ’74 la prima generazione di stilisti, Albini, Versace, Armani, presentano le collezioni a Milano. Gli operatori del prêt-à-porter scelsero Milano come ambiente ideale per crescere. La passerella fiorentina era diventata una forma di presentazione tropo formale e rigida e Milano forniva le condizioni ideali per lo sviluppo del pret-a-porter: la metropoli lombarda era infatti sede di numerosi periodici che si occupavano di moda, oltre ad essere uno dei più noti centri di design europei. Nel ’76 nasce la rassegna Milano Alta Moda e nel ’78 B. Modenese istituisce il Modit (Moda Italiana). In questo costesto furono varate le “collezioni diffusione” che pur essendo realizzate in serie e non essendo alta moda fornivano al consumatore elementi di stile a prezzi contenuti. Max Mara, altro distretto, privilegiava l’identità dell’azienda. In circa un ventennio la moda italiana diventa un sistema. 20 Scaricato da Ester Trocino ([email protected]) lOMoARcPSD|44760323 mercoledì 4 ottobre 2017 New York comincia a spopolare come centro della moda con l’affermazione di stilisti come R. Lauren, Donna Karan, Calvin Klein, grazie ad alcune situazioni favorevoli come la posizione strategica come principale porto per le navi che provenivano dall’Europa, dal vecchio continente infatti arrivavano oltre a filati e tessuti, le informazioni sulle più recenti tendenze della moda europea; e dall’Europa orientale provenivano gli ebrei che costituivano la forza lavoro negli sweatshop. Gli Stati Uniti erano nel 20 sec il paese in cui il fenomeno della moda riscuoteva maggiore attenzione da parte della stampa periodica “Harpeer’s Bazaar” e “Vogue”. La crisi del 29 rappresentò un importante punto di svolta sulla via dell’affermazione di NY come capitale della moda. Fu l’emergente cinema a svolgere una capillare azione di promozione di uno stile americano d’abbogliamento, ispirato alla praticità e al comfort, il cosiddetto sportswear. I modelli dei sarti francesi si rivelarono inadatti al crescente star system hollywoodiano. L’abbigliamento casual fu caposaldo dell’azienda californiana Levi Strauss, inventrice dei blue jeans. Negli anni ’60 NY iniziava ad accrescere e ad essere rinomata come capitale della creatività nel campo della moda. La rivolta giovanile culminata nel ’68 aveva portato a concepimento un processo di trasformazione culturale che costituì un “terremoto” nel mondo della moda. Per la prima volta tra gli obiettivi vi è quello del “consumatore giovane”. Si apre l’epoca dell’abbigliamento informale e pratico con t-shirt, jeans, maglie e felpe. Moriva l’assolutismo della moda, quella parigina. Ormai si innaugurava l’età della molteplicità degli stili, ricchi di contaminazioni. Il sistema della moda è ormai policentrico. Muore anche la visione del trickle down, ma l’espressione efficace per descrivere la situazione del 20 sec è bubble up, ossia con l’irruzione della “moda di strada”. 21 Scaricato da Ester Trocino ([email protected])

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