Antropologia Culturale - Fabio Dei PDF

Summary

These notes cover the subject of cultural anthropology, detailing its meaning, origins, and research methods. The text explains the different branches of the discipline, including anthropology, ethnology, and demology, and emphasizes the importance of studying culture as a complex system, acknowledging its links with biology. Furthermore, it details the evolution of the discipline, with a focus on the historical context that shaped cultural anthropology. Finally, the notes explore modern approaches to fieldwork and the importance of the concept of cultural diversity.

Full Transcript

lOMoARcPSD|19209268 ANTROPOLOGIA CULTURALE - FABIO DEI Antropologia (Sapienza - Università di Roma) Studocu is not sponsored or endorsed by any college or university Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) ...

lOMoARcPSD|19209268 ANTROPOLOGIA CULTURALE - FABIO DEI Antropologia (Sapienza - Università di Roma) Studocu is not sponsored or endorsed by any college or university Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 FABIO DEI ANTROPOLOGIA CULTURALE CAPITOLO 1 1. COSA SIGNIFICA M-DEA/01 M-DEA = DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE le discipline demoetnoantropologiche si dividono in 3 principali insegnamenti: - Antropologia culturale, che studia l’uomo e le culture umane ponendo l’accento su ampi approcci di tipo teorico e comparativo - Etnologia, che si riferisce a studi settoriali su specifici popoli e culture in ogni parte del mondo - Demologia, (Folklore) che studia la cultura popolare e tradizionale nella nostra stessa società Si tratta di 3 scienze sociali che hanno per OGGETTO lo studio dell’uomo e delle culture umane nelle loro articolazioni etniche (etnologia) e nelle loro espressioni popolari (demologia/folklore). Quando parliamo di cultura in antropologia non si intendono solo i prodotti del lavoro intellettuale come l’arte, la letteratura e/o la scienza. Per CULTURA intendiamo il complesso degli elementi non strettamente biologici attraverso i quali gruppi umani si adattano all’ambiente e organizzano la loro vita sociale. Es: attrezzi da lavoro, linguaggio, forme della parentela, valori, credenze, pratiche quotidiane, istituzioni sociali, modi della comunicazione. In realtà, elementi culturali e biologici sono strettamente correlati e spesso difficili da prendere in considerazione separatamente; tuttavia le due discipline continuano a lavorare senza troppi contatti (aspetti biologici: Antropologia Fisica o Antropologia [senza specificazioni]). L’antropologia culturale, a differenza delle scienze naturali, non può prescindere dalla sua stessa storia in quanto gli studi e gli sviluppi teorici del passato hanno valore sempre attuale e giocano un ruolo cruciale in qualsiasi approccio antropologico, anche moderno. 2. LE ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE Sul piano istituzionale l’Antropologia Culturale si costituisce negli ultimi decenni dell’800. Ci sono, tuttavia, pareri discordanti rispetto all’origine della disciplina intesa come scienza autonoma. Alcuni antropologi fanno corrispondere la sua nascita a: - La “Societé des observateurs de l’homme”: progetto di fine ‘700 di stampo illuministico che consisteva nella documentazione sistematica delle culture cosiddette “primitive”. - 1871: nascita ufficiale della disciplina con il libro ​Primitive Culture di ​Edward B. Tylor che definisce il campo di studi di questa nuova scienza. - C’è chi sostiene che la vera antropologia culturale sia nata solo nel XX secolo, con quella metodologia di ricerca sul campo che diverrà distintiva della disciplina. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 L’antropologia Culturale nasce prima all’interno della SCUOLA EVOLUZIONISTA BRITANNICA e poi in Europa e negli Stati Uniti. Siamo nel periodo di: - POSITIVISMO: ​un movimento ​filosofico e ​culturale​, nato in ​Francia nella prima metà dell'​Ottocento​, per certi aspetti simile all'​illuminismo​, di cui condivide la fiducia nella ​scienza e nel ​progresso scientifico​-​tecnologico​, e per altri affine alla concezione ​romantica della ​storia che vede nella progressiva affermazione della ​ragione​ la base del ​progresso e dell’evoluzione sociale​. Questa corrente di pensiero, trainata dalle ​rivoluzioni industriali e dalla ​letteratura a esso collegata​, si diffonde nella seconda metà del secolo a livello ​europeo e mondiale influenzando anche la nascita di ​movimenti letterari​ come il ​verismo​ in ​Italia​ e il ​naturalismo​ in Francia; - fiducia nella scienza e nel progresso; - sviluppo inarrestabile del CAPITALISMO: ​il capitalismo è un sistema economico in cui ​imprese e/o privati cittadini possiedono ​mezzi di produzione​, ricorrendo spesso al ​lavoro subordinato per la produzione di ​beni e ​servizi a partire dalle ​materie prime lavorate, al fine di generare un ​profitto attraverso la ​vendita degli stessi. Tale produzione, basata sulla ​domanda e sull'​offerta nel ​mercato generale di tali ​prodotti​, è nota come ​economia di mercato​, contrapposta all'​economia pianificata​, caratterizzata invece da una pianificazione centrale da parte dello ​Stato​. Sotto il capitalismo le decisioni economiche sono del tutto decentralizzate, ovvero nate sulla base di libere e volontarie iniziative dei singoli ​imprenditori​; - trionfo del NAZIONALISMO: movimento politico e ideologico, sorto e diffusosi in quasi tutti i maggiori stati europei tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, che, sotto la spinta di un patriottismo aggressivo e in una visione politica conservatrice e autoritaria, si prefiggeva l’esaltazione e la difesa della nazione, la tutela della sua unità etnica (di qui la denigrazione e più tardi la persecuzione degli ebrei), e soprattutto l’incremento della sua potenza, tramite l’espansione territoriale, l’imperialismo coloniale e l’egemonia culturale; - COLONIALISMO: definito come l'espansione di una nazione su territori e popoli all'esterno dei suoi confini, spesso per facilitare il dominio ​economico​ sulle risorse. Il termine indica anche, in senso stretto, il dominio coloniale mantenuto da diversi Stati ​europei su altri territori extraeuropei lungo l'​età moderna e indica quindi il corrispettivo periodo storico, cominciato nel ​XVI secolo​, contemporaneamente alle ​esplorazioni geografiche ​europee​, assumendo nel ​XIX secolo il termine di ​imperialismo​, e formalmente conclusosi nella seconda metà del ​XX secolo​, con la vittoria dei ​movimenti anti-coloniali​. I ceti dominanti europei si sentono la punta di diamante della civilizzazione proiettata verso il futuro, separata dai popoli “primitivi” per via della modernizzazione. In questo contesto l’Antropologia nasce come “la scienza di ciò che l’Europa si è lasciata alle spalle”, di ciò che non ha superato lo spartiacque della modernizzazione. Nasce il concetto di “​primitivo​”: di quei gruppi che non sono stati toccati dalla modernità, che sono rimasti fermi ad uno stadio evolutivo precedente e che sono al tempo stesso oggetto del dominio e della violenza coloniale. Nelle stesse società occidentali i ceti subalterni, come il mondo contadino, vengono visti come “primitivi” che sopravvivono nella società moderna. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 L’antropologia culturale è, fin dall’inizio, “schierata” dalla parte dei primitivi contro il razzismo biologico che ne afferma l’inferiorità congenita e contro il dominio coloniale che ne fa un puro oggetto di amministrazione. Si schiera contro i pregiudizi etnocentrici che assolutizzano la nostra versione dell’umanità e distorcono quella degli altri in forma caricaturale. Tuttavia questo dominio coloniale ha influenzato a fondo le stesse categorie epistemologiche della disciplina, arrivando a parlare di “violenza epistemologica”: la relazione col colonialismo sarà un elemento di tensione che percorrerà l’intera vicenda del pensiero antropologico. 3. VOCAZIONE PER LA DIVERSITA’ Al giorno d’oggi, nel contesto della globalizzazione, è chiaro che gli antropologi non possono più considerarsi le avanguardie della cultura “moderna”. Ci troviamo in un contesto sociale in cui i confini con l’alterità (=diverso da ciò che è autoctono) ed il concetto di cultura non sono ben definiti. Tuttavia sussiste nell’antropologia culturale una vocazione per lo studio delle differenze culturali. Questa caratteristica viene espressa in vari modi: - Claude Lévi-Strauss​ utilizza il concetto dello “sguardo da lontano” ; - Clyde Kluckhohn quello di “​giro ​lungo​” (rispetto al “giro breve” delle forme di conoscenza che non si pongono il problema del confronto); L’attenzione per la diversità sta alla base della vocazione intrinsecamente critica dell’antropologia nei confronti della propria stessa società e cultura: è attraverso il confronto con l’altro che l’antropologo ripensa in modo critico alcuni dei fondamenti stessa della sua vita sociale; rivede sotto una luce diversa quello che gli è familiare e che, in quanto tale, passa solitamente inosservato. E’ ciò che ​Ernesto De Martino chiamava ​scandalo etnografico​: l’incontro-scontro con una diversità che ci costringe a rivedere i nostri sistemi categoriali in un processo di costante ampliamento della nostra consapevolezza storiografica. 4. LA RICERCA SUL CAMPO Nel ‘900 viene introdotta la ricerca sul campo (​fieldwork​) come elemento imprescindibile per lo studio antropologico. Prima del Fieldwork si parlava di “antropologia da tavolino”: gli antropologi si servivano dei dati empirici (= che appartengono all’esperienza diretta) raccolti dai viaggiatori per analisi teoriche e comparazioni. La raccolta dei dati, dunque, veniva effettuata da persone con diversi ruoli e competenze: missionari, funzionari coloniali, viaggiatori; persone quasi sempre senza una preparazione scientifica che però erano in contatto con lontane culture e ne avevano scritto. La nascita del ​fieldwork è legata a nomi dei grandi padri dell’antropologia novecentesca come ​Franz Boas (USA) e ​Bronislaw Malinowski (Inghilterra). Quest’ultimo, in ​Argonauts of the Western Pacific (1922)​, definisce questa nuova figura dell’antropologo, che unisce agli studi teorici l’esperienza di vita diretta a contatto con il soggetto di studio, coniando l’espressione “​osservazione partecipante​”. In questo senso l’etnografo assume la posizione di ​mediatore culturale​. questo metodo prevede una permanenza prolungata, di minimo 1 anno, condotta a stretto contatto con gli indigeni tagliando i rapporti con altri occidentali, imparando il linguaggio locale e la vita sociale nel suo complesso: aspetti economici, politici, strutture della parentela, pratiche religiose. Questo nuovo tipo di approccio, quindi, studia le culture in una dimensione “​olistica​”: la cultura è un tutto, Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 le cui varie componenti stanno in un rapporto strettissimo e non possono essere isolate, neppure descrittivamente. Nei nostri tempi il ​fieldwork malinowskiano non è sopravvissuto. La singola località non può più essere unità privilegiata di analisi, vista la velocità e la facilità della circolazione di persone e culture a seguito della globalizzazione. Oggi, quindi, si parla di etnografie “multisituate” sempre più spesso. 5. GLI SPECIALISMI DISCIPLINARI l’antropologia tratta un oggetto così ampio e indifferenziato che di solito le specializzazioni si riferiscono a grandi aree (ad esempio i continenti o sub continenti, a cui spesso corrispondono tematiche particolari). Essendo queste aree enormi la ricerca viene sviluppata in aree o regioni specifiche e circoscritte. Per quanto riguarda le FONTI in passato si tendeva a privilegiare le fonti orali in quanto quelle scritte erano considerate irrilevanti in relazione a un’etnografia centrata sul presente. Oggi non si fa più distinzione tra l’approccio sincronico dell’etnografia e quello diacronico della storia: l’antropologia non può fare a meno di considerare la dimensione storica dei suoi campi di studio e quindi le fonti scritte (diari, lettere, letteratura colta e popolare) hanno acquistato un grande valore. Abbiamo, poi, fonti letterarie (dagli anni ’90 si prende in considerazione il contenuto di opere letterarie come fonte etnografica) e fonti iconiche, quali foto e videoriprese. Arte e manufatti, assieme alle fonti iconiche, compongono l’antropologia museale. Combinandosi con altri campi, l’antropologia vede nascere particolari specialismi quali: l’antropologia storica, l’antropologia del mondo antico, l’antropologia linguistica, l’antropologia psicologica, l’antropologia medica, l’etnopsichiatria, l’antropologia filosofica (filosofia morale). 6. LE PARTIZIONI DELLA CULTURA Nonostante l’approccio olistico, esistono dei settori specifici della vita socioculturale su cui lo studioso focalizza per motivi pratici. Alcuni di questi settori sono diventati col tempo delle vere e proprie unità di analisi. - Sistemi di parentela, forme del matrimonio e della vita familiare. - Sistemi economici: attività di scambio e pratiche alimentari. - Sistemi politici (stratificazione sociale) - Linguaggio - Religione, magia, miti e riti - Etnoscienza, ovvero i saperi indigeni naturalistici e cosmologici - Espressione estetica, ovvero artigianato, arte, canti, narrazioni orali, repertori musicali (etnomusicologia) Questi settori vanno considerati anche nel loro mutamento (anche se spesso vengono considerati come statici e l’eventuale mutamento come ulteriore settore di studio) Negli studi odierni si prendono in considerazione come oggetto di studio dei fenomeni contemporanei quali: sport, violenza, turismo, consumo, internet, scuola, migrazioni. 7. A COSA SERVE L’ANTROPOLOGIA - Insegnamento e ricerca - Mediazione interculturale - Cooperazione internazionale - Cura del patrimonio museale Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 - Sfera pubblica (introdurre problematiche e proporre un approccio profondo a tematiche complesse, a livello sociale). CAPITOLO 2: RAZZA, CULTURA, ETNIA Esistono 3 diversi modi di configurare l’identità e la differenza: RAZZA - CULTURA - ETNIA Le diversità razziali, culturali ed etniche sono marcate da collocazione geografica, caratteristiche somatiche, linguistiche e religiose, condivisione di tradizioni e percorsi storico-culturali, da un particolare ethos (temperamento culturale) o atteggiamento verso il mondo. 1. RAZZA L’etimologia del termine è incerta. Nel ‘500 indicava una discendenza, lignaggio o gruppo di parentela. Nel XIX secolo il termine ha assunto l’attuale significato: un gruppo umano caratterizzato da specificità somatiche (= fisiche), intellettuali e comportamentali, che si suppongono fondate biologicamente e trasmesse per via ereditaria. Nell’Ottocento si afferma come nozione ed è alla base di riflessioni come quella del conte ​de Gobineau (​Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, ​1856), vera e propria dottrina razzista basata su: - Biologizzazione delle differenze culturali - Gerarchizzazione rigida delle razze umane, che vede la razza bianca ai vertici (superiorità evidente anche da fattori estetici quali bellezza e proporzioni delle membra) - Orrore per la mescolanza e, di conseguenza, visione degenerativa del progresso. la storia implica mescolamenti tra razze, dovuti all'imperialismo stesso, che alterano la purezza della specie. Per questo greci e romani erano più puri rispetto alla civiltà attuale dell’Europa, in quanto razzialmente più puri. Questa visione esclude la possibilità di evoluzione e perfezionamento delle razze “inferiori”. nulla può essere modificato. il destino di ciascun gruppo umano dipende dalla razza di appartenenza. Oltre al pessimismo reazionario e alla visione degenerativa di Gobineau nel razzismo 800esco fa strada un altro filone che affonda le sue radici nel positivismo e nel retaggio illuminista: l’evoluzionismo, che trae le sue origini dalle teorie di Darwin. L’evoluzionismo conferma la ​teoria monogenetica​, secondo la quale tutta l’umanità ha un’origine comune. Se, però, siamo tutti uguali, le differenze riscontrabili dipenderebbero allora dalla una maggiore capacità di adattamento, da una supremazia sul piano della legge per la sopravvivenza. tutto questo, dunque, confermerebbe una gerarchia legittimata per di più da una legge naturale e, quindi, che tale differenziazione vada mantenuta in quanto funzionale all’evoluzione umana. Questo tipo di pensiero si radicalizza trovando un supposto sostegno nella biologia e dando vita al cosiddetto ​razzismo ​progressista​, come nel caso di ​Francis Galton che formula i principi dell’eugenetica (​teorie e pratiche miranti a migliorare la qualità genetica di una certa popolazione)​, secondo cui la selezione naturale può essere guidata geneticamente favorendo la trasmissione dei caratteri “superiori”. Queste teorie sono alla base di eventi catastrofici quali le esperienze di “biologia razziale”: esperienze di sterilizzazione forzata di individui considerati svantaggiati o disadattati, supposti portatori di geni deboli o difettosi. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 manifestazione estrema di biologia razziale (ma non unica manifestazione del secolo) è stata l’eutanasia hitleriana, che ha portato all’eliminazione fisica di centinaia di migliaia di “inadatti” e devianti. altra manifestazione estrema è stata la Shoah. I pregiudizi 900eschi sono il frutto degli assiomi 800eschi: infatti nel corso dell’800 la conoscenza scientifica ha soppiantato altre forme di autorità, quali la tradizione e la religione, nella determinazione delle gerarchie e delle ineguaglianze tra gli umani. tali gerarchie sono, però, molto più rigide che in passato, in quanto le differenze naturali non si possono modificare, al contrario di quelle religiose. Nel caso della Shoah lo spostamento da un antiseminismo di tipo religioso ad uno di tipo “scientifico” è stato determinante per generare la catastrofe. il pregiudizio religioso, infatti, trovava un limite almeno teorico nella conversione al cristianesimo. Riassumendo, la vicenda contemporanea del concetto di razza si può leggere nella matrice progressista e illuminista della modernità: nello sviluppo tecnologico, nell’aspirazione a creare un ordine nuovo e un uomo nuovo, nei tentativi di creare la felicità e l’ordine di cui la felicità aveva bisogno. 2. CULTURA Il concetto scientifico di cultura si sviluppa nella seconda metà dell’800. Per CULTURA si intende l’insieme di tutte quelle pratiche, usi, consuetudini, e conoscenze che una comunità possiede e attraverso le quali si adatta all’ambiente e regola le proprie relazioni sociali. L’Antropologia culturale 800esca è in qualche modo influenzata dalle teorie razziste. Pur non facendo dipendere le differenze culturali da differenze razziali l’antropologia culturale si spiega la diversità culturale presupponendo un unico processo di evoluzione intellettuale dell’intero genere umano, che però viaggerebbe a velocità diverse. I popoli “primitivi” sono da definirsi tali in quanto si trovano ad uno stadio evolutivo precedente al nostro, sebbene cronologicamente contemporanei. Questo giustificherebbe in qualche modo il colonialismo. Compito dei colonizzatori è educare le civiltà primitive ed aiutarle a crescere. All’idea di “primitivo” viene associata, quindi, quella di “bambino” che va educato, talvolta anche ricorrendo a metodi severi, se necessario: una vera e propria variante culturalista del razzismo. Nel Novecento, dati lo sviluppo della ricerca sul campo (fieldwork), una nuova sensibilità etnografica e il crollo di alcune certezze positivistiche dell’800, l’antropologia culturale sviluppa la critica all’etnocentrismo: alle pretese, cioè, della cultura europea di valere da metro di giudizio assoluto per tutte le altre. Si introducono i temi della pluralità e della relatività della cultura. Il ​relativismo culturale sostiene che laddove si generano giudizi negativi sull’alterità è solo per incapacità di comprendere, e che non si può giudicare una cultura dal suo esterno; l’immagine di una gerarchia piramidale di gruppi umani che procedono a velocità diverse si sostituisce a quella di un mondo suddiviso in una pluralità di culture ben distinte e di uguale dignità. Ogni cultura, dal suo interno, ritiene di essere giusta e di possedere la verità rispetto alle altre, e questa prospettiva etnocentrica è naturale, universale e funzionale alla coesione interna del gruppo. La sua esasperazione porta, però, alla discriminazione. Il progresso viene visto in questa chiave come capacità di controllare il proprio etnocentrismo. (questo pensiero verrà sostenuto anche da Levi-Strauss) L’antropologia moderna, in definitiva, è un progressivo approfondimento della critica all’etnocentrismo. Dopo gli eventi della seconda guerra mondiale e il tentativo di Hitler di instaurare un ordine del mondo su base razziale, il termine “razzismo” assume una connotazione negativa (laddove fino agli anni 30 veniva Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 usato in senso positivo come sinonimo di politiche progressiste di miglioramento della specie umana e difesa delle popolazioni superiori dalla contaminazione) e non può più essere accettato, ma idee e pratiche razziste sopravvivono ad oggi espresse in termini diversi. 3. ETNIA Il termine ETNIA ,oggi, indica gruppi umani accomunati da differenze pre-politiche, nel senso di indipendenti rispetto alle suddivisioni politiche in Stati. Il termine nasce in Grecia (ethnos) e si diffonde in epoca classica e cristiana con accezioni discriminatorie, per indicare i “diversi”. Ad oggi il termine ETNIA definisce un gruppo che condivide elementi culturali quali la lingua, la religione, certi usi e costumi. Tuttavia, un implicito carattere discriminatorio esiste laddove usiamo l’aggettivo “etnico” in riferimento a realtà minoritarie all’interno di uno Stato e che non corrispondono mai alla “grande cultura” dominante. Nella definizione di etnia e della sua applicazione pratica si realizza la tendenza alla ​reificazione o essenzializzazione​, ovvero la tendenza a circoscrivere in maniera troppo definita i gruppi umani e le relative culture. Se poteva avere una giustificazione nel passato, questa tendenza non è più applicabile alla complessità del mondo moderno; Si vede però rafforzare l’identità etnica come strumento e giustificazione di conflitti, quando in realtà il discorso etnico, i sentimenti di appartenenza, il senso delle differenze sono la conseguenza e non la causa dei conflitti. 4. RAZZISMO DIFFERENZIALISTA Il ​neo-razzismo differenzialista o ​fondamentalismo culturale non parla più di razze e differenze naturali secondo un’accezione “hitleriana” del termine “razzismo”. Oggi si parla di culture o etnie, per indicare le radici che tengono insieme un popolo e lo distinguono da altri. Si accetta cioè il relativismo culturale come opposto dell’etnocentrismo: in un presunto clima di apertura mentale tutte le culture del mondo hanno uguale dignità e importanza. Allo stesso tempo per mantenere identità culturali precise e distinte bisogna riaffermare l’antica esigenza xenofoba (= avversione\paura dello straniero), onde evitare mescolanze. L’importanza della preservazione è stata sostenuta anche da ​Lévi- Strauss: ​la diversità culturale, per lui, è il bene massimo da preservare, poichè è dalla compresenza di molte culture diverse che è consentito il progresso. Massimo pericolo per la contemporaneità sono il caotico mescolamento e l’omologazione culturale. 5. COME RICONOSCERE IL NEO-RAZZISMO Pierre-André Taguieff​ individua 3 atteggiamenti comuni del pensiero razzista: - Categorizzazione essenzialista degli individui: la riduzione di un individuo a rappresentante qualsiasi del suo gruppo di appartenenza: questo crea un giudizio aprioristico e totalizzante su un individuo a cui sono associati immediatamente tutti gli stereotipi della categoria. - Stigmatizzazione: esclusione simbolica basata su stereotipi negativi. A queste persone vengono attribuiti difetti congeniti, impurità, tare e\o qualità pericolose, fino a sfociare nella mixofobia, cioè Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 la paura della mescolanza e dell’ibridazione, con l’ossessione di un contagio metaforico o reale. (simile al linguaggio hitleriano e dell’antisemitismo nazista) - Barbarizzazione: convinzione che certi esseri umani non siano civilizzabili. Si tratta del più alto grado di distanziamento ed esclusione dall’altro: l’altro è barbaro e quindi non solo diverso, non riconosce i valori fondamentali e, di conseguenza, rappresenta l’antitesi della civiltà. Questo atteggiamento potrebbe sfociare in xenofobia e genocidio. 3 comportamenti pratici che seguono al pensiero razzista sono: - Segregazione, discriminazione, espulsione - Persecuzione, violenza essenzialista (cioè rivolta verso una categoria in quanto tale) - Genocidio Nell'approcciarsi ad un’analisi dell’atteggiamento razzista bisogna tener conte del fatto che esso ha tutta la complessità e la profondità di “un’esperienza vissuta”, nella quale esperienze personali di vita, emozioni e passioni, credenze, interessi economici, convinzioni politiche, ragioni e impulsi irrazionali, influenza della cultura di massa e dell’immaginario sociale si legano in un groviglio difficile da districare. (​Albert Memmi​). 6. I PARADOSSI DELL’ANTIRAZZISMO a) L’antirazzismo tende a porsi in un atteggiamento razzista quando si approccia alle teorie razziste e a chi le sostiene. L’analisi retorica di un discorso comune antirazzista, ad esempio, è permeata da posizioni a loro volta stereotipate, essenzialiste, basate su pregiudizi e stigmatizzanti. b) Attraverso strumenti analitici troppo forti e categorici l’antirazzismo tende a vedere razzismo ovunque, mentre atteggiamenti di pregiudizio inconsci o impliciti dovuti a connotazioni simboliche legate alla storia di una cultura non possono essere considerati razzisti. 7. ABBANDONARE L’IDENTITA’ CULTURALE? Riconoscere un modello di comune umanità caratterizzato da principi universali sembra la via d’uscita dal razzismo, ma l’universalismo ha in sé un paradosso: stabilire dei principi universali senza porre limiti al particolarismo, rispettando la diversità e senza assumere punti di vista etnocentrici. CAPITOLO 3: ETNOCENTRISMO, RELATIVISMO, DIRITTI UMANI 1. LA RAGIONE E I COSTUMI Nella storia della filosofia si fa presente un atteggiamento definito “GIRO LUNGO”: l’idea che per capire la nostra stessa ragione occorra ampliare lo sguardo, passare attraverso quanto ci è meno familiare. In quest’ottica i costumi dei popoli lontani non ci appariranno più strani, bensì cruciali elementi dell’impresa filosofica. Proprio i viaggi e le scoperte geografiche hanno nutrito questa riflessione. Il pensatore che più di tutti anticipa la moderna sensibilità relativistica è Michel de Montaigne (1533-1592), che sostiene che è la consuetudine a stabilire cosa è vero o valore assoluto. Particolarmente interessante il suo saggio sul cannibalismo come pratica culturale piuttosto che espressione di un furore bestiale e preculturale; un atto che si può contrapporre alle ben più grandi barbarie delle torture che gli europei infliggono ai corpi vivi di nemici o condannati. Quanto ci appare come verità o valore assoluto è dunque frutto della convenzione o della consuetudine. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 2. RELATIVISMO EPISTEMOLOGICO L’antropologo ha la missione di descrivere l’umanità in tutte le sue forme. Di conseguenza l’antropologia sta dalla parte del “giro lungo”. Allo stesso tempo questa disciplina, almeno inizialmente, è radicata nella mentalità positivista e nei suoi assunti universalistici, che sono agli antipodi rispetto allo scetticismo di Montaigne. Questo rappresenta proprio la storia della tensione culturale dell’antropologia: un atteggiamento scientifico radicato nel positivismo che tuttavia si confronta con “il giro lungo”. Nel ‘900 la cultura scuote le vecchie certezze praticamente in tutti i campi: ad esempio in psicoanalisi la coscienza razionale viene subordinata alle oscure profondità dell’inconscio freudiano, e l’antropologia stessa riceve maggiori consensi per via del fascino del tema del “primitivo dentro di noi” (così come l’inconscio freudiano). In questo clima di novità subentra la critica al positivismo: l’idea di una razionalità pura e universale si scioglie. Il sapere scientifico non è più un continuum di progressive scoperte, bensì una discontinuità di rivoluzioni. Il progresso scientifico è comprensibile non più sulla base di un metodo di validità assoluta ma sulla base di condizioni storico-antropologiche che hanno carattere pratico e non epistemologico. La prospettiva del RELATIVISMO EPISTEMOLOGICO afferma di non pretendere di possedere aprioristicamente criteri universali di razionalità prima di accostarsi alla diversità delle culture e delle epoche storiche. Crisi epistemologica legato al relativismo: i ​filtri della percezione attraverso i quali conosciamo l’altro sono infatti storicamente e culturalmente mutabili. Porre i fatti su un piano teorico (passando attraverso il linguaggio e la cultura) li sottopone alla possibilità di “​falsificazione​” (​Karl Popper​), anche nel caso di discipline scientifiche. In questa prospettiva i relativisti sostengono che le possibilità di comprensione esistono, ma solo su un piano pratico, non come riconoscimento teorico di tratti minimi comuni e universali. Non è negli obiettivi dell’antropologo giudicare un sistema o fede come vero/falso (​Peter Winch​). 3. RELATIVISMO ETICO Nel dibattito sul “relativismo” il termine viene usato da chi critica questa posizione dimostrandone l’assurdità attraverso l’estremizzazione dei suoi principi. I relativisti, d’altro canto, non negano criteri comuni o punti di contatto fra culture ed epoche storiche, bensì che essi non possano prescindere (=lasciare da parte) il raffronto antropologico. Un tipo di relativismo sostenuto in modo esplicito e consapevole è stato il RELATIVISMO ETICO. Sostenuto dalla scuola americana di ​Franz Boas e dai suoi allievi che lo pongono a sostegno di politiche di tolleranza, eguaglianza e diritti dei popoli, in contrapposizione all’etnocentrismo. Tra gli esponenti maggiori di questa corrente ​Melville Herskovits elabora, nel 1960, un’efficiente definizione di relativismo culturale: secondo esso “i giudizi sono basati sull’esperienza e l’esperienza è interpretata da ogni individuo nei termini della sua propria inculturazione. Perfino i fatti del mondo fisico sono visti attraverso lo schermo della cultura, così che la percezione del tempo, dello spazio, del peso è mediata dalle Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 convenzioni di ogni gruppo.” Come membro della American Anthropological Association propone il suo Statement on Humans Rights in occasione della redazione della Dichiarazione dei diritti umani da parte dell’ONU, che non viene accettato, perché in quella sede le diseguaglianze erano poste come ostacolo. In merito a questo, negli anni ‘50 ​Lévi-Strauss ebbe un rapporto complesso con le organizzazioni umanitarie. Contro l’ideologia razzista scrisse su incarico dell’UNESCO ​Razza e storia​, in cui sostiene che la comune umanità si ottiene attraverso le differenze culturali e non malgrado esse, e che per questo l’omologazione culturale è vista come un pericolo (come denuncerà anche nel suo libro più famoso “tristi tropici”) sebbene dal contatto abbiano origine fattori creativi e di crescita molto positivi. Questo punto di vista lo porta a scontrarsi con le stesse organizzazioni umanitarie: in una conferenza negli anni ‘70 sosterrà ulteriormente la sua tesi, trovando proprio nella chiusura particolaristica fonte di creatività. 4. ANTROPOLOGIA E DIRITTI UMANI Le posizioni di ​Lévi-Strauss e di ​Herskovits possono essere assimilate a una VISIONE ESSENZIALISTA rigida e di chiusura: le culture vengono viste come entità stabili e nettamente definite che incombono in modo totale sugli individui, quasi de-responsabilizzandoli rispetto alle loro scelte. Questa visione è stata ormai superata dalla sensibilità antropologica moderna, che invece mantiene un atteggiamento di ​sorveglianza critica rispetto alle tendenze etnocentriche nella definizione dei diritti: quanto si pretende universale è in realtà occidentale. La questione diventa problematica quando si tratta specialmente di diritti dei bambini e delle donne. é importante lottare per i diritti umani ma bisogna rimarcare la differenza di prospettive: relativizzare certi usi riconoscendone la legittimità sembrerebbe voler giustificare pratiche barbare, ma il rischio di imporre una visione occidentale di “essere umani” è alto. Caso emblematico è quello dei diritti sui bambini. La visione del bambino come creatura indifesa da proteggere e tenere fuori dalle dinamiche dure della vita reale è un atteggiamento sviluppatosi nelle società occidentali del XX secolo: opulente e con un basso tasso di natalità. Riflettendo una visione di vita familiare completamente volta a garantire al bimbo benessere e felicità l’impegno umanitario parte dunque da una concezione “occidentale” del bambino di tipo “straight-18”. In una società, come quella africana, in cui la metà della popolazione ha meno di vent’anni, lo status di adulto avviene molto prima del compimento del 18esimo anno. Di conseguenza cambia la loro concezione di “bambino”; la volontà di creare una norma universale ha cancellato le particolarità locali rendendo i loro modi di intendere l’infanzia inumani. Altro esempio è l’intervento sui “bambini soldato” in Sierra Leone, resi non punibili dalle organizzazioni internazionali in quanto minorenni. Questo determina dinamiche di guerra che hanno peggiorato la situazione (​Rosen​, 2005); Ultimo esempio è la lotta cieca contro l’INFIBULAZIONE o l’escissione del clitoride (le mutilazioni genitali femminili), che non tiene conto delle conseguenze sociali che queste pratiche implicano (​Carla Pasquinelli in merito sostiene le proposte di “riduzione del danno” come la Sunna, rito alternativo indolore); inoltre chi sostiene queste lotte lo fa sempre da una posizione etnocentrica ed egemonica rispetto a culture e usi che ritiene subalterni. CAPITOLO 4: RICERCA SUL CAMPO ED EVOLUZIONE DEI METODI ETNOGRAFICI Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 1. “ANTROPOLOGIA DA TAVOLINO” L’antropologia ai suoi albori, quella 800esca degli antropologi vittoriani, utilizzava raccolte di dati (preesistenti o meno) per comparare culture e individuare i punti ad esse comuni, estrapolando i singoli sistemi dal loro contesto (ad es. ​James G. Frazer​, ​Il ramo d’oro​”, testo più famoso dell’antropologia evoluzionista). Non ponendosi domande relative al contesto, gli studiosi sono caduti in semplificazioni e pregiudizi, e il fondamento empirico dei loro studi (cioè i fatti che raccoglievano) si è rivelato ingenuo e inutilizzabile. Spesso la rielaborazione da parte dello studioso dei dati provenienti da “informatori sul campo” (appositamente forniti di strumenti per la rilevazione “oggettiva”) assumeva le caratteristiche di un lavoro letterario che si allontanava dall’auspicata immagine scientifica degli studiosi successivi: l’etnologia descrittiva e quella comparativa dovevano essere tenute rigidamente separate al fine di non rovinarle entrambe. 2. MALINOWSKI E LA NASCITA DEL MODERNO “FIELDWORK” Nel XX secolo si arriva a sostenere che osservazione e interpretazione scientifica sono inscindibili, a partire dalla scuola nordamericana di ​Franz Boas e quella di Cambridge con ​William H.R. Rivers​. Ma è con Bronislaw Malinowski (polacco trasferitosi a Londra tra il 1914 e il 1918) e il suo lavoro sulle isole Trobriand del 1922 intitolato “​Argonauti del Pacifico Occidentale​” che si arriva alla MONOGRAFIA ETNOGRAFICA, che da allora in poi sostituirà il format del trattato comparativo, ormai obsoleto. Questo testo definisce i caratteri della nuova ricerca etnografica e della nuova figura dell’antropologo, sia teorico che ricercatore, che deve estraniarsi rispetto alla sua cultura di origine per lasciarsi coinvolgere nella cultura oggetto di studio (​decentramento e ​coinvolgimento personale​, ovvero “osservazione partecipante”). Questo nuovo approccio consente l’accesso a dati di diversa qualità e permette di raggiungere l’obiettivo etnografico di “afferrare il punto di vista dell’indigeno” (Malinowski); prevede inoltre un approccio olistico: una cultura dev’essere osservata come un tutto. I singoli dati etnografici - comportamenti, norme, valori, tratti di cultura materiale ecc - non si intendono se considerati separatamente gli uni dagli altri. La cultura è un’entità organica in cui ogni parte dipende da ogni altra e sta all’antropologo capire le relazioni tra le varie parti. Questo principio toglie valore al comparativismo evoluzionista, che pretendeva di accostare singoli frammenti estratti e isolati. L’etnografia privilegia, d’altra parte, una dimensione sincronica (presente etnografico) nel suo voler rappresentare una certa cultura come sospesa in un eterno presente, ponendo in secondo piano i processi di mutamento storico. 3. L’EPOCA D’ORO DELLA RICERCA SUL CAMPO In ​Argonauti del Pacifico Occidentale viene trattato il caso del fenomeno del dono cerimoniale del ​kula. L’opera Malinowskiana diventerà lo standard antropologico dagli anni ’20 ai ’70 del XX secolo: - immersione intensiva e di lunga durata sul campo - osservazione partecipante - privilegiamento della dimensione olistica e di quella sincronica - scrittura monografica La fase empatica dell’osservazione partecipante e quella scientifica di rielaborazione dei dati si fondono nello spazio discorsivo della scrittura. Si creano così aree di specializzazione che quasi mai appartengono a più di uno studioso, in quanto Malinowski stesso insiste esplicitamente sull’importanza di non sprecare tempo coi “restudies”, ma di cercare di “salvare” il maggior numero possibile di gruppi etnici “vergini” dal Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 rapido mutamento che minaccia la persistenza delle culture tradizionali. La somma di tante indagini partecipanti e monografiche finisce per generare una sorta di banca dati che fa tornare in auge l’analisi comparativa che però, a questo punto, andrebbe fatta tra i sistemi culturali nella loro organicità, così come presentati dalle monografie. E’ il progetto (ancora in corso) fondato negli anni ’30 dallo statunitense ​George P. Murdock col nome ​Human relations area files, ​che ha la sua forza nell’analisi statistica e la sua debolezza nel carattere banale e superficiale delle ipotesi proposte. Attualmente il format più diffuso tra gli antropologi è quello della ​raccolta di saggi che attorno ad un problema comune presentano una serie di casi etnografici da contesti storici e geografici anche molto distanti tra loro, nella convinzione che i casi possano illuminarsi a vicenda. 4. TRADIZIONI MINORITARIE (nei paesi non anglofoni) Francia: capostipite dell’etnologia francese è ​Marcel Mauss, (morto nel 1950) teorico comparativista che tuttavia diede forte impulso alla ricerca empirica scrivendo, per altro, un ​Manuale di etnografia​. I suoi allievi danno il via alla tradizione di ricerca sul campo con la missione Dakar-Gibuti (studio dei Dogon, che vivevano nell’attuale Mali) guidata da ​Marcel Griaule e a cui partecipa perfino ​Michel Leiris​, scrittore surrealista autore di ​L’Africa fantasma. La partecipazione di Leiris ci fa capire il ruolo dell’etnologia ​in Francia: uno spazio condiviso con scienza, arte e letteratura. I movimenti d’avanguardia sono particolarmente interessati alle culture “primitive” per quello che sembrerebbe un loro più autentico rapporto con il sacro e l’inconscio. Griaule prende le distanze dal modello di ricerca anglo-americano: per lui comprendere una cultura significa porsi come uno studioso-allievo, che lascia ad un saggio locale il compito di istruirlo rispetto alla cosmologia e alle concezioni della vita che caratterizzano un determinato popolo. Anche l’opera successiva di Levi-Strauss, Tristi Tropici, si allontanerà dalla monografia di tipo malinowskiano sviluppando il metodo strutturale. Folklore: con l’introduzione del modello anglo-americano di ​fieldwork le strade di ricerca etnologica e folklorica si separano, acquisendo differenze sostanziali per quanto riguarda: - il campo di lavoro, in quanto per la demologia non si parla di superare i confini di un altro mondo; - gli obiettivi; - le fonti, che sono prevalentemente fonti scritte, materiali d’archivio e, più in generale, reperti della cultura materiale; - nel profilo teorico (che resta basso nel folklore e si concentra su piste filologiche). Il folklore trova attenzione nel dibattito antropologico solo in casi specifici quali quelli di ​Arnold Van Genep (francese che introduce la categoria dei “riti di passaggio”), ​Vladimir Propp (russo che elabora l’analisi morfologica delle fiabe) ed ​Ernesto de Martino (che combina in modo innovativo impianto antropologico, ricerca sul campo, rilevazione folkloriche e analisi storica). 5. LA DECOLONIZZAZIONE E LA SVOLTA RIFLESSIVA Con la decolonizzazione i popoli iniziano a rivendicare il loro diritto di essere soggetto della propria storia e guardano con sospetto agli antropologi, portatori del punto di vista dei dominatori; gli antropologi, a loro volta, acquisiscono maggiore consapevolezza degli aspetti politici del proprio lavoro e, più in generale, della complessità epistemologica della disciplina. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Frantz Fanon propone nel suo lavoro del 1961 ​I dannati della terra un atteggiamento nuovo che riconosce l’azione dei meccanismi coloniali anche nelle soggettività dei colonizzati e riscuote un grande successo (prefazione di Jean Paul Sartre). Per sciogliere questi nodi epistemologici cambia il modo di scrivere etnografico: la classica monografia, impersonale e distaccata, non appare più soddisfacente. Negli anni ‘70 si producono testi dialogici (= che si svolgono in forma di dialogo) e l’antropologo mette in scena anche la complessità della propria posizione di ricercatore e di scrittore. I ​Diaries d​ i ​Malinowski​, pubblicati nel 1967, diventano emblema di questo nuovo modo di guardare al lavoro etnografico e manifestano pubblicamente l’inesistenza del mito dello studioso sul campo che, simile ad un camaleonte, è perfettamente in sintonia con l’ambiente che lo circonda dimostrando di essere al tempo stesso empatico, paziente e cosmopolita, riconoscendo finalmente il carattere di finzione, intesa come costruzione letteraria, dei testi etnografici. Questa prospettiva matura nell’ambito dell’antropologia interpretativa di ​Cliffort Geertz​, e negli anni ’80 viene assunta dal movimento ​Writing Culture (dal titolo del loro libro-manifesto di ​Clifford e ​Marcus​, 1986). Questo movimento propone di sperimentare diversi stili narrativi, come ad esempio l’etnografia riflessiva, che tematizza la soggettività del ricercatore; l’etnografia dialogica o polifonica, che pone al centro della narrazione gli aspetti affettivi del rapporto etnografico; si comincia a parlare di aspetti dell’esperienza etnografica che fino ad allora erano sempre stati rimossi dai resoconti: lo shock culturale, le esperienze sessuali e quelle straordinarie (visioni e percezioni extrasensoriali). 6. PROSPETTIVE ATTUALI DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA LA RICERCA ETNOGRAFICA E’ CAMBIATA CON LA DECOLONIZZAZIONE E CON LA SVOLTA RIFLESSIVA. Con la globalizzazione scompare definitivamente l’oggetto etnografico classico delle “culture primitive” già compromesso dalla decolonizzazione: non esistono più le condizioni di separatezza fra porzioni di umanità che erano alla base della disciplina e del fieldwork. Per la ricerca antropologica di oggi le sfide sono: - seguire i movimenti su scala transnazionale degli stessi soggetti che cerchiamo di comprendere (etnografie multisituate); - prospettiva di una “net ethnography”, intesa come etnografia della rete, ovvero di tutte quelle relazioni che sfuggono alla classica tecnica di osservazione etnografica: social network, comunità virtuali, scambio in rete; - ricerca applicata al servizio pratico di organizzazioni internazionali, uso pubblico e istanze militanti; - obsolescenza della ricerca “pura” fatta sul campo, in quanto oggi ogni cultura è in grado di interpretare se stessa antropologicamente (antropologia indigena); - muoversi anche all’interno della propria cultura mostrando le articolazioni tra ​tra locale e globale; - cambiano le categorie classiche dell’antropologia per dare spazio ai problemi della contemporaneità: parentela, religione e rituale restano importanti ma all’interno di un discorso più ampio che si occupa di guerre, violenza, diritti umani, sviluppo sostenibile, movimenti migratori. - antropologia museale e visuale in crescita; - nuovo canone di scrittura in cui l’etnografo mette in scena le circostanze della ricerca e le questioni della propria soggettività. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 CAPITOLO 5: PARADIGMI TEORICI 1. LA SCUOLA EVOLUZIONISTA (= metodo comparativo) L’antropologia culturale nasce nel clima dell’evoluzionismo darwiniano. L’evoluzionismo antropologico ha come obiettivo quello di risalire alla scoperta dell’origine delle forme culturali che sono oggi osservabili, che si aprono dal momento in cui per la prima volta l’uomo ha impiegato utensili per la caccia, ha disciplinato la riproduzione regolamentando la parentela e ha iniziato a comunicare attraverso un linguaggio. Per gli antropologi di fine ‘800 questa impresa scientifica appariva come un’indagine poliziesca in cui da tracce sparse bisognava risalire ad una storia coerente. L’antropologia si avvaleva, a tal fine, del METODO COMPARATIVO, che implica il presupposto del PRINCIPIO UNIFORMISTA: gli antropologi mettono a confronto dati incompleti provenienti dai più disparati contesti geografici e temporali in quanto considerati parte di un unico disegno. L’evoluzione è uniforme nel senso che tutte le culture seguono lo stesso processo evolutivo, tuttavia non tutte viaggiano alla stessa velocità. Ci sarebbero specie arcaiche che mostrano nel presente storico i tratti di precedenti fasi evolutive, detti SOPRAVVIVENZE. 2. VERSO UNA TEORIA SOCIALE DELLA CULTURA A cavallo tra ‘800 e ‘900 all’evoluzionismo si affianca il DIFFUSIONISMO. EVOLUZIONISTI: basandosi sul principio uniformista ritengono possibile la POLIGENESI: fattori simili possono svilupparsi anche in luoghi e tempi diversi. DIFFUSIONISTI: partono dall’assunto della MONOGENESI: fattori simili testimoniano un’origine comune, si cercano dunque i grandi centri di irradiazione culturale ricostruendo i processi di circolazione e scambio tra popoli. ​Franz Boas​, critico nei confronti dell’approccio generalizzante dell’evoluzionismo, rientra nella corrente diffusionista; piuttosto che cercare leggi generalizzanti egli si dedica allo studio storico del caso specifico (da qui la definizione “​particolarismo storico​” che sarà attribuita alla sua scuola). Questi indirizzi non tenevano però in conto la ​teoria sociale come elemento fondante la nozione di cultura, posta invece al centro del lavoro della scuola francese di ​Emile Durkheim (detta appunto sociologica), di cui fecero parte ​Marcel Mauss​, ​Robert Hertz ed ​Henri Hubert​. La tesi centrale della ​scuola sociologica è che la società influenza e determina la soggettività e le emozioni degli individui, funziona secondo meccanismi oggettivi di cui spesso gli attori sociali non sono consapevoli benché ne siano influenzati: può coglierli, però, lo sguardo scientifico. Celebre sarà il suo studio sul suicidio del 1897, una pratica che sembrerebbe essere attribuita ai recessi della psiche individuale ma che in realtà si rivela fortemente legata a situazioni sociali particolari, al di là dei punti di vista delle singole persone che vi sono implicate. A mediare tra individuo e società vi sono i concetti di ​coscienza collettiva e ​rappresentazioni collettive attraverso i quali la società influenza ai suoi livelli più profondi il pensiero e l’esperienza individuali. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 In ​Le forme elementari della vita religiosa,​ (1912) nel definire i confini tra sacro e profano, ​Durkheim indica l’esperienza collettiva come elemento di identificazione del sacro, poiché essa viene riconosciuta come “al di sopra”, è immortale e onnipresente come la società e trascende la limitatezza spazio-temporale del singolo. Allo stesso modo il totem delle religioni degli aborigeni australiani, che rappresenta l’antenato originario di un clan o gruppo, è in realtà la personificazione della coscienza collettiva. Il rito, performance che permette di esperire (=sperimentare) la collettività, è l’interfaccia tra l’individuo e la società. Dopo la morte di ​Durkheim​, nel 1917, sarà ​Mauss a portare avanti le teorie della scuola continuando a dimostrare l’origine storico-sociale di aspetti fondamentali delle pratiche umane. 3. FUNZIONALISMO (Antropologia sociale = Metodo Malinowski + Teorica Radcliffe-Brown) Nei primi decenni del ‘900, sulla scia dell’approccio sociologico di Durkheim e dello sviluppo della ricerca sul campo, l’antropologia britannica intraprende lo studio dei ​nessi funzionali tra i vari elementi che compongono la cultura, mettendo al centro l’organizzazione sociale e ridefinendosi, in opposizione all’evoluzionismo, in termini di “antropologia sociale”. L’orientamento teorico che ne deriva è chiamato FUNZIONALISMO: lo studio della funzione delle parti che compongono la società. Non ci si chiede più come abbia avuto origine un certo tratto culturale, ma ci si domanda a cosa serva in relazione all’equilibrio del sistema entro cui è compreso. Il funzionalismo si basa sull’analisi olistica di società catturate in una sorta di immobilità sincronica. Dipinge la società e le culture come sistemi volti a proteggere se stessi dal conflitto, dal cambiamento e, di conseguenza, dalla storia. I ricercatori di questo periodo studiano popolazioni colonizzate che vivono in un tempo immobilizzato dal dominio dei colonizzatori occidentali. Anche ​Malinowski nell’ultima parte della sua carriera (1936) si concentra sulla natura funzionale della cultura. Tuttavia interpreta il funzionalismo in modo un po’ diverso rispetto a Durkheim: per Malinowski ogni tratto culturale risponde a determinati bisogni dell’uomo: morali, materiali o psicologici. Ad esempio, la magia e la religione rispondono al bisogno di rassicurazione e controllo dell’ansia che caratterizza le società con un basso grado di presa tecnologica sull’ambiente. Dopo la partenza in Gran Bretagna di Malinowski, il funzionalismo si radicherà negli aspetti più legati al pensiero di ​Durkheim​. Alfred R. Radcliffe-Brown​, in particolare, sosterrà che l’antropologia si occupa non di persona astratte che hanno dei bisogni ai quali la cultura risponde, bensì persone concrete che hanno un intreccio di relazioni sociali e fanno parte di società particolari. Ogni componente contribuisce per preservare l’insieme. La funzione di qualsiasi pratica culturale è, quindi, di garantire la continuità della struttura sociale; i riti sono meccanismi di trasmissione e perpetuazione di valori sociali e morali. Tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60 una schiera di studiosi dimostrerà come esistano strutture sociali di gruppi di piccole dimensioni così coesi da non aver bisogno dello Stato di tipo moderno, cioè senza istituzioni politiche centralizzate volte a regolare conflitti interni e a garantire la continuità delle forme organizzative. Lo studioso ​Edward E. Evans-Pritchard autore di studi africanisti sugli Azande, illustra chiaramente come elementi culturali come la stregoneria abbiano funzione di controllo delle dinamiche sociali tra individui. A partire dagli anni ‘50, con l’avvio della decolonizzazione, gli studiosi sviluppano la consapevolezza della debolezza del funzionalismo, che consiste nel suo definire rapporti statici e atemporali. Gli stessi funzionalisti riconosceranno l’importanza di reintrodurre la dimensione storica negli studi Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 antropologici e addirittura alcuni indirizzi della stessa antropologia sociale britannica incentreranno i propri lavori sul mutamento e i conflitti intesi non come fasi di disturbo, bensì come fattori creativi e di sviluppo. (Scuola di Manchester: ​Max Gluckman​, ​Victor Turner​). 4. STRUTTURALISMO (Lévi-Strauss - Tristi Tropici) A partire dagli anni ’50 lo strutturalismo toglie la scena al funzionalismo. Esso è legato in antropologia alla figura del francese ​Claude Lévi-Strauss​, di formazione filosofica e sociologica. Si trovò in Amazzonia negli anni ‘30, impegnato in ricerche sulle popolazioni indigene. Rifugiato negli USA durante l’occupazione nazista in Francia, tornò in patria nel 1948 e pubblicò l’opera “​Le strutture elementari della parentela”​, gettando le basi di una visione STRUTTURALE della cultura: la sua ricerca è volta a individuare il principio che genera le forme di parentela nelle varie culture, non la loro classificazione. Lévi-Strauss sostiene che come il linguaggio si genera non su base esperienziale ma rispondendo a forme preesistenti e pre-linguistiche della mente umana, così anche la cultura si genera nei suoi vari aspetti secondo una sintassi universale umana, schemi mentali comuni che denomina “strutture”, categorie dello spirito umano che non sono illustrabili se non attraverso l’analisi della loro azione sul reale. Per esempio, nel caso della parentela, la norma universale che proibisce l’incesto è il punto di partenza di ogni relazione di parentela. Dall’incesto si sviluppano poi le strutture elementari, sistemi che prescrivono i coniugi possibili, e poi ci saranno delle strutture complesse laddove nella scelta del coniuge interverranno criteri ulteriori quali, per esempio, la condizione economica o l’amore, una condizione che ci sembra decisiva ma che in realtà è valorizzata solo dalle società moderne e individualistiche. Ogni sistema culturale, secondo ​Lévi-Strauss​, parte dalla contrapposizione basilare tra natura e cultura, così come egli riscontra nell’ampio corpus dei miti indigeni dell’Amazzonia: essi seguono una logica concreta in cui elementi dell’esperienza comune (es. animali e piante) si pongono come simboli matematici all’interno di un codice binario. Gli elementi dell’esperienza diventano simboli solo quando vengono contrapposti ad altri elementi, fino ad arrivare alla fine della catena, dove troveremo l’immancabile dicotomia natura – cultura. Questa prospettiva restituisce valore al mito e questo metodo influenzerà moltissimo la nascente disciplina della semiologia o semiotica e i suoi approcci alla cultura di massa contemporanea. (Scienza generale dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto comunque simbolico.) In Inghilterra inizialmente si guarda con sospetto al nuovo orizzonte strutturalista, ma esso verrà poi adottato da vari studiosi tra cui ​Mary Douglas che cercherà di integrarlo alla cornice sociologica della tradizione Durkheimiana. Lo strutturalismo è l’ultimo grande e compatto paradigma teorico del secolo. Ciò che viene dopo verrà spesso definito come “post-strutturalismo”: non una teoria alternativa, semmai una frammentazione degli approcci che si accompagna ad una diffusa sfiducia nelle grandi teorie totalizzanti. 5. ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA (Geertz) Tra i maggiori indirizzi dell’antropologia del ‘900 va annoverato l’​approccio interpretativo dell’americano Clifford Geertz​ (1926-2003), noto per il testo intitolato “interpretazione di culture” (1973). L’approccio interpretativo di Geertz si contrappone allo strutturalismo e al marxismo, contrastando l’idea che l’antropologo abbia il compito di scoprire strutture nascoste che determinano il comportamento umano e che descrivere queste strutture nascoste implichi l’uso di un linguaggio oggettivo, che prescinde da quello usato dagli stessi attori sociali. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Geertz riparte dall’osservazione partecipante di ​Malinowski per quanto riguarda il ricreare il punto di vista dei nativi; e dal particolarismo storico di ​Boas​, secondo il quale non si possono elaborare leggi e regole generali in campo culturale. Nel suo libro ​Interpretazione di culture la cultura è vista come un complesso sistema di segni, assimilabile a una grande e intricata ragnatela di significati che l’uomo stesso ha tessuto e in cui si muove. A differenza delle complesse strutture di ​Lévi-Strauss le ragnatele sono imperfette, fragili e volubili, pronte a rompersi in ogni momento. Quando si parla di “interpretazione” si intende, secondo l’ermeneutica filosofica (​la metodologia dell'interpretazione dei testi scritti)​, una comprensione possibile ma sempre imperfetta. Inoltre, mentre per Lévi-Strauss l’oggetto dell’antropologia sono gli aspetti della cultura che si possono facilmente modellizzare (parentela, testi e miti), secondo ​Geertz l’oggetto dell’etnografia sono “forme di vita”, realtà complesse e irriducibili a schemi cognitivi o a una razionalità descrittiva; la loro descrizione (=raccolta dei dati, già problematica a livello interpretativo) è necessariamente “densa”. Geertz prevede un approccio letterario alla scrittura etnografica con lo scopo di trasmettere e restituire al lettore la profondità di eventi e cose. L’antropologia rientra a pieno titolo, secondo questa prospettiva, nell’ambito umanistico. Per Geertz l’antropologia è prima di tutto etnografia: una forma di descrizione densa (thick description) che non si ferma all’esteriorità delle cose o degli eventi ma cerca di cogliere la profondità dei loro significati contestuali. Un esempio efficace per spiegare la Thick Description è quello dell’occhiolino: una descrizione esigua definirebbe un occhiolino come una “leggera contrazione della palpebra dell’occhio” (​thin description​). In realtà sappiamo che un occhiolino può nascondere svariati significati: può essere un tic nervoso, un ammiccamento o un segno di intesa tra amici ecc. Per stabilire il significato profondo (thick description) dietro a questo occhiolino c’è bisogno che si entri nel contesto comunicativo e nelle sottigliezze delle relazioni tra gli attori sociali. Geertz stesso si oppose all’etichetta di “antropologia interpretativa” vista la sua sfiducia nei confronti delle grandi teorie totalizzanti: il dibattito antropologico dovrebbe muoversi nel libero utilizzo dei vari approcci teorici, senza una necessaria totale adesione ideologica o teorica ad essi, che è quello che avviene anche oggi. L’approccio interpretativo propone non tanto metodi e teorie specifici, quanto una riflessione su cosa significhi capire o comprendere una società o una cultura, quali procedure intellettuali sono coinvolte nell’incontro etnografico. CAPITOLO 6: SPIEGARE, COMPRENDERE, INTERPRETARE 1. SPIEGAZIONE E COMPRENSIONE Fin dall’Ottocento esiste una corrente di pensiero che critica il tentativo delle scienze sociali di somigliare quanto più possibile a quelle naturali, servendosi dei metodi naturalistici basati sulla classificazione e la generalizzazione alla ricerca di relazioni causali per poi stabilire leggi di carattere generale. In particolare, il filosofo ​Wilhelm Dithley separa le scienze naturali da quelle che lui chiama “​scienze dello spirito​”, che prevedono il metodo della ​comprensione tramite l’immedesimazione e/o l’empatia in quanto hanno a che fare con comportamenti umani intenzionati che non possono essere semplicemente colti dall’esterno. Nell’APPROCCIO NATURALISTA vengono ammesse l’immedesimazione e l’empatia solamente nella fase di raccolta dei dati, ma il fine ultimo è sempre una rielaborazione oggettiva, che guarda il mondo sociale Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 dall’esterno. E’ questo l’approccio di Durkheim nel suo studio sul suicidio: una pratica che a prima vista sembra legata a motivazioni intime e soggettive finisce per apparire dipendente da oggettivi fattori sociali, che solo un’analisi dall’esterno può individuare. L’empatia viene percepita come importante ma non sufficiente perché se ci si limitasse ad affidarsi solo ad essa lo studio antropologico riprodurrebbe, a sua volta, la limitatezza del punto di vista degli agenti sociali che non sono in grado di cogliere le forze esterne e le reali motivazioni che influenzano il loro comportamento, che a volte sostengono giustificazioni dei loro comportamenti che non sono necessariamente reali (“falsa coscienza”). L’APPROCCIO COMPRENDENTE, dal canto suo, sostiene che il punto di vista del soggetto della cultura e delle pratiche sociali è ​costitutivo delle pratiche stesse e non può essere quindi escluso dal processo conoscitivo. Lo studioso deve, quindi, comprendere e interpretare le interpretazioni degli attori sociali. Nel tentare di comprendere una società e una cultura che non è la sua l’antropologo deve procedere ad un estraniamento rispetto alle proprie categorie culturali. Questo è l’assunto di base della sociologia fenomenologica, che sostiene il principio della sospensione degli assunti di senso comune da parte del ricercatore. In contrapposizione, la tradizione ermeneutica sostiene che lo studioso non possa prescindere in nessun modo dalle proprie categorie culturali. La comprensione avviene inevitabilmente tramite pre-giudizi i quali mutano in fase interpretativa in un rapporto circolare con la diversità definito come “circolo ermeneutico”: non possiamo fare a meno dei nostri pregiudizi ma nel confronto con la diversità ne diventiamo criticamente consapevoli e disponibili ad “andare oltre”, ad “estenderli”. 2. L’ETNOCENTRISMO CRITICO (De Martino) In questo dibattito torna la tensione tra etnocentrismo e relativismo, e nasce l’ ”​etnocentrismo critico​”. Secondo ​De Martino il positivismo presume di utilizzare categorie e leggi generali quando esse in nessun modo possono slegarsi dalla cultura di provenienza ed implicano quindi un’impostazione etnocentrica; bisogna invece che lo studioso ampli il proprio orizzonte storiografico affinché possa includere anche le categorie dell’alterità. L’atteggiamento auspicabile è quello di mantenere presente la separazione tra il proprio orizzonte e quello della cultura che si cerca di comprendere come possibilità storiche di essere uomo, in una suggestiva versione del circolo ermeneutico da lui rivisitato. Questo punto di vista viene criticato perché propone di conoscere l’altro attraverso se stessi mantenendo una posizione autocentrata. Del resto oggi non è più applicabile in un contesto globalizzato in cui la distanza tra “io” e “l’altro” è annullata, spingendo l’antropologia a una rottura con una tradizione umanistica colpevole di violenza epistemologica nei confronti degli “altri”. 3. RETORICHE E POLITICHE DELL’ETNOGRAFIA L’antropologia interpretativa si pone in un piano di mediazione tra un approccio scientifico di per sé limitato (esperienza etnografica, raccolta di dati) e una rielaborazione e restituzione dei dati attraverso il filtro interpretativo della scrittura, che pone lo studioso su un piano autoriale, per molti versi simile a quello di uno scrittore o di un regista. Sarà proprio questa consapevolezza che spingerà Geertz, nel 1988, a dedicare un suo libro al tema dell’ “antropologo come autore” proponendo un'analisi di tipo letterario dei lavori di alcuni esponenti classici della disciplina come Malinowski, Evans-Pritchard, Benedict e Lévi-Strauss. Sempre negli anni ‘80 il tema della scrittura antropologica verrà ripreso da un gruppo di giovani studiosi formatisi nel periodo della decolonizzazione e interessati ad una critica politica dell’antropologia classica. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Il movimento, chiamato ​Writing Culture, propone di mantenere alta l’attenzione nei confronti di queste dinamiche con la consapevolezza e l’elaborazione di una retorica, con lo scopo di “disimparare l’atteggiamento di dominio” che gli occidentali di solito tendono a mostrare. L'antropologia classica viene accusata di aver cercato di dissimulare (=mascherare) il suo ​carattere rappresentativo​ e la sua retorica, facendosi passare per neutrale e reale. In questo ambito è decisiva anche l’influenza di ​Edward Said (studioso americano di origine palestinese morto nel 2003) che nella sua opera “Orientalismo” ha decostruito l’immagine riprodotta in Occidente delle culture mediorientali, che vengono rappresentate spesso come una versione speculare di quelle occidentali usando pregiudizi ideologici, nuclei narrativi, figure retoriche che percorrono costantemente il discorso orientalista e che sono frutto della dominazione che l’Occidente ha esercitato sull’oriente. 4. L’APPROCCIO POST-COLONIALE (antropologia critica) Negli anni ‘80 si diffonde un atteggiamento spesso definito come ​post-moderno​: da un lato viene criticata l’oggettività del sapere storico-sociale, di cui si sottolinea il carattere finzionale; dall’altro si afferma che questo carattere finzionale è sempre connesso a dinamiche di egemonia e subalternità tra le potenze. Si sviluppano varie correnti di pensiero che si riconoscono nella denominazione di ANTROPOLOGIA CRITICA e confinano con l’ambito degli studi post-coloniali. Si tratta di indirizzi neo-marxisti, che però seguono distinzioni di genere ed etnia piuttosto che di classe e poggiano su complesse teorie post-strutturaliste di autori francesi come Focault. Questi indirizzi filosofici rappresentano un progetto che mira a depurare i campi disciplinari dagli sguardi imperialisti che li hanno forgiati. Per l’antropologia critica di impianto neomarxista passare attraverso i significati che gli attori attribuiscono alle pratiche sociali è del tutto irrilevante. Discorsi e sentimenti degli attori sociali rappresentano un livello superficiale; occorre mostrare l’azione delle grandi forze economico-politiche: la ricerca del profitto, la divisione in classi, l’esercizio del potere e la resistenza ad esso. I desideri, le emozioni e i sistemi di significati sono strumenti ideologici inculcati dall’esterno (es. dalla pubblicità) per favorire un dato comportamento. Le differenze culturali altro non sono che configurazioni economico-politiche che producono disuguaglianza e violenza. Insistendo, però, su una struttura ideologica e non “data” delle differenze culturali si rischia che la critica neo-marxista presupponga acriticamente come “dato” un soggetto umano universale e preculturale: universalità che viene inevitabilmente definita in termini etnocentrici, ad esempio con la tendenza a obiettivi utilitaristici. Per quanto riguarda la religione secondo ​Frantz Fanon​, uno dei padri del pensiero post-coloniale, la liberazione dei popoli può avvenire solo attraverso il superamento di sovrastrutture culturali quali fantasie, riti religiosi, la credenza nell’universo dei miti e delle divinità minacciose, che rispecchierebbero l’oppressione coloniale in una sorta di meccanismo compensativo che sposta su questi oggetti fantastici la rabbia e il dolore reali. Solo con l’abbandono della superstruttura magica e il ritorno al reale il colonizzato ritroverà la sua autonomia. Alcuni autori contemporanei criticano l’antropologia parlando di anti-etnocentrismo di facciata: nascondere le realtà dei processi di potere, economici e di dominio sotto il ​velo della cultura​. Nell’ambito di questa critica ​Jean-Loup Amselle muove l’accusa di “​culturalismo​” all’intera storia dell’antropologia. L’antropologia critica e post-coloniale finisce per rovesciare il programma della Writing Culture: l’obiettivo non è più come scrivere la cultura, bensì come scrivere ​contro la cultura, in quanto l’antropologia culturale Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 900esca, con il suo modo di descrivere oggettivamente gli “altri” agisce come un linguaggio del potere che rispecchia e crea disuguaglianza e gerarchia. 5. LA CULTURA E IL POTERE Ancora oggi, a 140 anni dalla nascita dell’antropologia moderna, il principale nodo del dibattito è se considerare o meno la cultura come un costrutto ideologico che accentua la separazione tra noi e gli altri. Benché l’antropologia critica post-moderna abbia le sue ragioni, bisogna tenere in considerazione che una totale decostruzione culturale ridurrebbe gli esseri umani e le società a modelli universali e pre-culturali mossi solo da precise dinamiche economiche e di potere, in una nuova prospettiva etnocentrica. Oggetto dell’antropologia è invece lo studio di quelle differenze soggettive (la cultura), che ​insieme alle dinamiche economiche e di potere costruiscono la realtà umana, considerandole nella loro azione combinata piuttosto che in un rapporto di subalternità. Nel quadro della globalizzazione e delle sue dinamiche di circolazione costante e su larga scala di persone, merci e informazioni è inadatto parlare di identità culturali intese come insiemi isolati, compatti e storicamente immutabili, nei quali gli individui sembrerebbero chiusi come in prigioni. A questo punto l’esplosione di movimenti di autonomia regionale e locale, di autoaffermazione linguistica, etnica, religiosa che caratterizza questo periodo storico può essere spiegata in termini di ideologia o falsa coscienza: ogni gruppo mobilita questioni di appartenenza etnica in modo strumentale per sostenere i propri obiettivi politici ed economici. Tuttavia, sempre secondo Geertz, le differenze non possono essere solo opera di azioni “dall’alto” con scopi politici ed economici (​Geertz​), anzi è la politica a dover fare i conti con esse: ci sarebbe bisogno di una riforma del lessico politico che lo renda meno generalizzante e più sensibile alle sfumature culturali. Geertz a questo punto aggiunge che l’interpretazione antropologica può diventare un utile strumento per affinare la teoria politica, integrando la comprensione dei ​micro- e dei ​macro- contesti​, ovvero la “ragnatela di significati” geertziana e i macro-dispositivi economici e sociali alla base delle condizioni materiali di esistenza che producono ricchezza, povertà, felicità, sofferenza, libertà e oppressione. CAPITOLO 7: FOLKLORE, CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA. 1. ROMANTICISMO E POSITIVISMO Laddove l’etnologia e l’antropologia si occupano dell’alterità esterna, di culture lontane ed esotiche, la demologia e il folklore si occupano dell’alterità interna o dei “dislivelli interni di cultura”. Il campo dell’alterità come oggetto di conoscenza si apre dalla nuova consapevolezza dei ceti colti e dominanti dell’Europa moderna: realizzano di essere l’avanguardia di un processo di sviluppo che procede in modo non uniforme lasciandosi alle spalle molti residui. Da un lato i ceti popolari e incolti suscitano derisione o indignazione per la loro scandalosa arretratezza; dall’altro sono oggetto di ammirazione perché è proprio quell’arretratezza che li manterrebbe puri e lontani dagli artifici del progresso. Lo studio della cultura popolare ha inizio tra 1700 e 1800 tra critica all’arretratezza ed esaltazione nostalgica. Ancora oggi gli studi sulla cultura popolare si innestano su 2 grandi basi: - quella romantica recupera l’espressione popolare (soprattutto orale) per la sua estetica autentica e spontanea e vi individua un elemento di radicamento, unione e fratellanza tra i popoli. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 - quella positivista vi individua le “sopravvivenze” del passato, spesso in modo ambiguo e grottesco (Frazer) Queste tesi hanno il merito di aver concentrato l’attenzione degli studiosi su fenomeni che altrimenti sarebbero passati inosservati. La tradizione italiana può individuare in ​Giuseppe Pitrè​, fondatore della “demopsicologia” come ambito universitario, il primo personaggio di spicco in questo ambito. Egli raccolse una grande quantità di “fatti folklorici” nella ​Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. ​Ogni regione ha le sue raccolte di fiabe, canti, filastrocche, proverbi, ninne-nanne, superstizioni, credenze, medicina popolare. Lamberto Loria, dopo aver viaggiato e raccolto testimonianze, fonda il primo Museo etnografico italiano a Firenze nel 1906 (a cui faranno seguito la Mostra di Etnografia e il Congresso Etnografico di Roma nel 1911). 2. IL FOLKLORE COME SCIENZA E COME POLITICA Il termine ​folklore ha origine in Inghilterra nel 1846 per delimitare l’ambito degli studi popolari con un orientamento quasi nostalgico al passato, nonché una missione di salvataggio nei confronti di un patrimonio che sembra destinato prima o poi a scomparire. in Francia si parla più spesso di Ethnologie francaise, in Germania di Volkskunde e in Italia di “storia delle tradizioni popolari” o “demologia” in ambito scientifico. Esistono inoltre filoni di studio del folklore europeo (Giuseppe Cocchiara 1952). Nel corso del ‘900 antropologia e demologia si separano per campo d’azione, teorie ed obiettivi. Il folklore assume un carattere nazionale e regionale e viene anche utilizzato con scopi politici in ambito dei nazionalismi storici e nei regionalismi, spesso senza reale fondamento storico. Ad esempio il fascismo si è servito largamente del folklore nella creazione di mitologie italiche per costruire consenso popolare servendosi in realtà di “folklorismi”, ovvero celebrazioni, feste e tradizioni inventate e imposte dall’alto sulla base di un generico immaginario popolareggiante. 3. EGEMONIA E SUBALTERNITÀ Gli studi sul folklore subiscono un arresto causato dal fascismo, che lo utilizza in funzione delle istanze nazionaliste, e dall’​Idealismo storicistico di ​Benedetto Croce​, che esclude le forme del folklore e le scienze umane in generale dall’interesse storicistico, considerando la cultura dei ceti popolari come rami secchi dello sviluppo della civiltà umana. Nel secondo dopoguerra la situazione cambia con la pubblicazione della Collana Viola Einaudi che traduce le grandi opere internazionali sulla psicoanalisi, la storia delle religioni e l’antropologia. Un ulteriore impulso arriva dagli studi di Antonio Gramsci sulla cultura popolare. Nei suoi ​Quaderni del carcere Gramsci elabora una sua versione della teoria marxista, vedendo nella cultura e nel folklore il terreno sul quale le classi dominanti esercitano l’egemonia su quelle subalterne. Per Gramsci il folklore non è legato alla tradizione, all’antichità. Si tratta dei frammenti della cultura alta delle classi dominanti che, arrivando in basso, vengono rielaborati diventato cultura popolare, essendo impossibile alle classi subalterne l’accesso alla cultura alta. Gramsci individua nei suoi quaderni gli intellettuali come i principali mediatori dei processi di egemonia culturale e vede tra le classi subalterne una nuova figura di intellettuale, frutto di una volontà di emancipazione. Nella sua opera, ​Ernesto De Martino scriverà a partire dagli anni ’50 tre monografie sui ceti subalterni del mezzogiorno​, ​per dare voce alle plebi rustiche che non possedevano adeguati strumenti comunicativi. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Morte e pianto rituale, Sud e magia, la terra del rimorso​. Egli sostiene che religione e magia popolare (coi loro miti e riti) hanno una funzione di radicamento e di destorificazione, proiettano cioè le classi subalterne in una ​metastoria in cui essi hanno modo di controllare o accettare gli eventi storici e sociali acquisendo sicurezza (“stare nella storia come se non ci si fosse”). ​De Martino​ unisce l’impegno etico alla ricerca. Anche la storia abbandona l’approccio crociano e reintroduce nei suoi studi la dimensione popolare, interrogandosi sui modi di vita dei ceti subalterni in età medievale o moderna, e sulla differenza tra la loro cultura e quella delle classi dominanti: una ricerca difficile ma estremamente affascinante in quanto la cultura popolare, essendo subalterna, non è conservata nella documentazione ufficiale. Occorre dunque intuirne la presenza attraverso tracce e indizi lasciati indirettamente nel discorso egemonico. 4. FOLK REVIVAL Tra gli anni ’50 e ’70 il folklore, da oggetto di interessi specialistici, diventa un apprezzato genere del consumo di massa, simbolo di un’autenticità passata ora minacciato dall’industria, dalla tecnologia e dalla città. Siamo nell’Italia della “grande trasformazione”, del boom economico. In molte aree del mezzogiorno i processi di modernizzazione hanno luogo in maniera più limitata ma anche qui scompaiono l’isolamento territoriale, la perifericità, l’impossibilità di accedere all’istruzione e alle più alte risorse culturali. La modernizzazione, tuttavia, non cancella le differenze di classe. Con il consumo della cultura di massa sembrerebbe non esserci più lineare corrispondenza tra differenze di classe e culturali. In realtà la cultura di massa non è altro che una cultura prodotta industrialmente basata sulla pervasività (=penetrante) dei mezzi di comunicazione, dando una falsa apparenza interclassista. (=cooperazione tra le classi propugnandone un’armonica convivenza). La cultura di massa distrugge l’autonomia individuale portando effetti omologanti e alienanti. Le masse popolari cercano di disfarsi della memoria contadina, vista come un imbarazzante retaggio di arretratezza, ma anziché emanciparsi si imborghesiscono cadendo ancor di più nell’oppressione e nella falsa coscienza. Apparentemente la cultura di massa sembrerebbe il trionfo della democrazia: finalmente la cultura non è più riservata ad una ristretta élite. Di fatto la cultura di massa è una grottesca caricatura di sè stessa. Il suo unico vero contenuto è l’assoggettamento totale dell’individuo al sistema raggiunto con mezzi più morbidi ma forse anche più efficaci dei regimi totalitari. A partire dagli anni ‘70 Il folklore viene spesso difeso come elemento di autenticità e come resistenza alla massificazione omologante (​Pasolini​, ​Scritti corsari ​sul consumismo di massa). In questo periodo la museografia antropologica troverà il suo principale impulso grazie alla collaborazione di studiosi, portatori della tradizione e amministrazioni locali. 5. IL PARADIGMA PATRIMONIALE Le politiche di valorizzazione del territorio e del patrimonio culturale che si sviluppano a partire dal revival folkloristico degli anni ‘70 si riaffermano negli anni ‘90 sotto forma di nozione di memoria e patrimonio. Si rispecchiano nella nascita di istituzioni internazionali come l’UNESCO che, se inizialmente si occupa principalmente di patrimoni fisici, si occuperà in seguito anche di “patrimonio orale e intangibile”, dove per intangibile si intendono: a) tradizioni ed espressioni orali b) arti dello spettacolo Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 c) pratiche sociali, riti e feste d) conoscenza e pratiche concernenti natura e universo e) artigianato Nonostante la sensibilità antropologica, le dinamiche legate all’UNESCO innescano meccanismi d’interesse da parte di istituzioni e gruppi locali, e la concezione di “patrimonio” tende a proporre una visione statica dei fenomeni culturali, bloccandone le dinamiche di mutamento. Le liste, inoltre, tendono a una classificazione di carattere internazionale che vede il folklore come singolo elemento facente parte di un tutto globalizzato. 6. (analisi antropologica di) CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA Nei recenti dibattiti si è discusso molto in merito al concetto di “tradizione”. La tradizione è, oggi, una forma di filiazione inversa: sono i figli a creare i padri, nel senso che sono le dinamiche del presente a decidere quali aspetti del passato occorre ricordare e quali si possono invece dimenticare. Gli antropologi sono critici verso la concezione di “patrimonio” in quanto propone la tradizione come residuo “congelato” del passato, quando in realtà si tratta di una realtà in mutamento che rispecchia le esigenze del presente. Nel contesto della massificazione del folklore lo studioso deve andare a ricercarne l’autenticità negli spazi che la cultura di massa non riesce a toccare (etnografia del quotidiano, delle micro-pratiche, degli aspetti non ufficiali della vita culturale), oppure all’interno della stessa nelle modalità di fruizione, nella decodifica da parte delle classi subalterne laddove si distacca dalle intenzioni prime della codifica egemonica (pratiche di resistenza all’interno del consumo culturale, etnografia del consumo di massa). PARTE SECONDA : TEMI E PROBLEMI DI UN’ANTROPOLOGIA DEL CONTEMPORANEO CAPITOLO 8: VERSO UN’ETNOGRAFIA DEL CONSUMO CULTURALE 1. LA TEORIA CRITICA L’antropologia ha tenuto a distanza il dibattito sul consumo di massa per molto tempo, ritenendolo una pratica anti-culturale. in realtà il consumo di massa è interpretabile come modalità di dominio del tardo capitalismo. Il focus sarà rivolto verso le pratiche di consumo piuttosto che sui prodotti, ponendo l’accento sul problema della cultura popolare all’interno dell’antropologia della vita quotidiana. Nella società industriale i beni materiali e intangibili, come la cultura, vengono prodotti dall’industria e distribuiti al consumatore attraverso il mercato. Spariscono i tratti locali della cultura tipici dei contesti pre-industriali: le fiabe raccontate alle veglie, i canti, i momenti serali di riposo e incontro delle famiglie. Il riconoscimento delle differenze culturali e la linea di frattura fra egemonico e subalterno passa, quindi, all’interno delle pratiche del consumo di massa: nella modalità di accesso al mercato, nella scelta dei beni, nei modi di usarli, di fruirne, di modificarli, condividerli e farli circolare. La Scuola di Francoforte e in particolare ​Theodor W. Adorno riconosce nella cultura di massa la stessa violenza del dominio economico e politico che nasconde. Una teoria critica della società deve studiare la cultura popolare o di massa per metterne a nudo la reale natura di strumento del dominio, che si insinua fino all’interno della sfera soggettiva, nascondendosi dietro all’illusione della scelta, del benessere e del Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 divertimento, nascondendo una grottesca pedagogia repressiva. Le modalità di produzione meccaniche e seriali svuotano la cultura di massa da ogni reale tensione artistica ed estetica. Pretendendo di soddisfare le esigenze del pubblico l’industria culturale plasma, costruisce o si potrebbe dire “muta antropologicamente” il suo pubblico che, sottoposto ad una pressione totalizzante, ha solo l’illusione di una maggiore libertà e autonomia e reagisce in modo passivo e inerte. Quello che rimane è una élite ristretta che detiene i mezzi di comunicazione e una massa indifferenziata che ne è la passiva consumatrice. In questa prospettiva Adorno applica questo tipo di analisi a casi specifici come quello dell’astrologia (immagine di dipendenza dalle stelle/da un sistema economico e politico astratto e impersonale), e della musica jazz (standardizzazione delle formule come specchio dell’assenza di alternative sul piano sociale). La cultura di massa, a dispetto delle sue potenzialità, crea un individuo unidimensionale impoverito ed assuefatto che vive in bolle di realtà in cui viene impedita la visione critica. Anche secondo alcune teorie odierne (​Zygmunt Bauman e la teoria della “società liquida”) le pratiche del consumo hanno un’azione isolante, che recide le reti di relazioni comunitarie tipiche delle società “solide” e isola gli individui. Tuttavia queste teorie non tengono presente il significato che il consumo assume per i suoi praticanti, la sua fase di decodifica, dando per scontato che la coscienza dei fruitori sia passivamente e inesorabilmente plasmata dall’industria culturale. 2. L’ANALISI SEMIOLOGICA Semiotica e semiologia sono le basi di una teoria generale dei segni che coinvolge anche la cultura popolare e di massa: il cinema, i fumetti, la letteratura, la tv, la moda, la musica pop e la pubblicità sono per i semiologi grandi campi in cui esercitare l’analisi strutturale dei segni, alla ricerca dei significati connotativi (latenti) nascosti sotto la superficie denotativa. Esempio tipico è quello della pubblicità, in cui il contenuto denotativo - ovvero l’invito a comprare un prodotto - è decisamente più debole del suo messaggio connotativo, che si serve di simboli, allusioni e immagini per associare quel prodotto a significati culturali non esplicitamente dichiarati quali ricchezza, status sociale, desiderio erotico, purezza, sicurezza. In genere questa “trasmissione di messaggi” avviene sul piano inconscio. Come l’antropologo anche il semiologo, nello studiare la cultura di massa, dovrà sfuggire all’effetto di familiarità banalizzante che quegli oggetti implicano per chi ci vive dentro, cogliendo le oggettive categorie culturali che li strutturano. Alcuni autori riconoscono, inoltre, un forte legame tra semiologia e psicanalisi. 3. STRATEGIE DELLA DISTINZIONE In alcuni studi, come quello di ​Thornstein Vebler ​La teoria della classe agiata​, si evidenzia come per gli attori del consumo esso abbia non una funzione omologante ma differenziatrice. Si parla di “consumo vistoso” da parte delle classi dominanti: nella storia pre-industriale i ceti superiori si distinguevano dalla plebe evitando occupazioni direttamente produttive e la loro nobiltà e superiorità erano misurabili dalla disponibilità di “tempo da perdere” e passatempi ai quali dedicarsi. Nella società capitalistica odierna, dove per altro le distinzioni tra classi sono meno rigide, l’indicatore del potere e del prestigio diventano proprio le attività produttive e la capacità di accumulare capitale. Nobiltà e prestigio non si conquistano più attraverso il tempo dedicato alle pratiche inutili. La nuova nobiltà si distingue dalla massa per il potere di acquisto, per la capacità di comprare beni di lusso lontani dall’utilità pratica, quindi sempre rimanendo nell’ambito del superfluo e della presentazione pubblica di sé. Questo innesca una logica emulativa nelle classi inferiori che, volendo raggiungere lo stesso prestigio Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 sociale, cercano di accedere agli stessi beni, spingendo le classi più agiate a individuare nuove strategie di consumo che le possano ulteriormente differenziare. Si può quindi pensare che tutto il consumo diventa il campo di definizione delle relazioni sociali, è vistoso e percorso da rapporti di emulazione. Su questa scia si muove anche lo studio del sociologo francese ​Pierre Bordieu “​La distinzione” (1979) che, per spiegare il fenomeno del gusto, dell’apprezzamento estetico e delle preferenze di consumo, introduce il concetto di “habitus”. Il fatto di nascere, crescere e venire educato in un certo ambiente sociale e culturale da come risultato la cosiddetta INCULTURAZIONE. L’HABITUS consiste in una serie di competenze, atteggiamenti, disposizioni che si acquisiscono con questo processo; di solito è ereditario e si modifica molto lentamente e comprende il modo di muoversi, gesticolare, mangiare, vestirsi, le forme del parlare, i gusti, i piaceri estetici e le abitudini linguistiche. Questo capitale culturale (istruzione scolastica + habitus trasmesso dalla propria famiglia) unito al capitale economico dà luogo a quattro tipologie principali: a) ceti ad alto capitale sia economico che culturale; b) ceti ad alto capitale economico ma basso capitale culturale, come ad esempio gli imprenditori arricchiti di recente che tradiscono nel loro habitus un’origine bassa; c) ceti a basso capitale economico e basso capitale culturale (ceti popolari in senso stretto); d) ceti a basso capitale economico e alto capitale culturale (come gli insegnanti). Il gusto nelle scelte di consumo è quindi al centro della lotta di posizionamento e delle strategie di distinzione, che in ultima analisi hanno sempre natura politica. Esso si rivolge “verso il basso”, ovvero mira a demarcare una netta separazione con i gruppi inferiori. Fattore che complica ulteriormente la situazione è la logica della rapida obsolescenza delle mode: ciò che è distintivo oggi sarà fattore stigmatizzante (qualcosa di cui vergognarsi) domani. 4. L’APPROCCIO ETNOGRAFICO (al consumo di massa) A partire dalla decolonizzazione si svuota di significato l’idea di “Noi” che studiamo “Loro”, come anche quella di autenticità. Diventano oggetto della ricerca antropologica le pratiche della quotidianità della nostra stessa società. Alcuni contributi significativi: Mary Douglas​: Nello stile di vita borghese classico individua codici sociali molto rigidi quali la “regola della purezza”: un modello di individuo come “spirito disincarnato” in cui le funzioni organiche vengono nascoste. Inoltre, riconoscere uno spirito moderno di maggiore apertura delle nuove possibilità espressive che puntano sempre sulla presentazione pubblica del corpo come affermazione di appartenenza a un gruppo e distinzione dalla massa. Sul consumo di massa critica le teorie semplicistiche degli economisti sui meccanismi di scelta (razionalità utilitaria, invidia, emulazione, inganno commerciale) e sostiene che l’acquisizione dei beni assume caratteristiche di pratica rituale in quanto essi sono indicatori di categorie culturali. Il consumo diventa un campo di relazioni morali, legato ai sentimenti, ai valori, ai rapporti di potere che costituiscono i legami Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 sociali, per questo va analizzato non solo a livello semiotico ma anche etnografico, descrivendo cioè le pratiche di consumo dal punto di vista degli attori sociali, cioè dei consumatori stessi. Daniel Miller​, con la sua ​Teoria dello shopping​, svolge un lavoro sulle modalità di acquisto e consumo partendo dalla constatazione che fare la spesa sia un atto d’amore, un modo di nutrire sentimenti e legami primari, ponendosi nella tradizione durkheimiana che vede nella costituzione rituale del sacro e del trascendente la base del legame sociale. La stessa ricerca del risparmio non è mai puramente utilitaria: diventa un obiettivo morale, il che avvalora la tesi secondo cui sarebbe riduttivo dire che il consumatore è semplicemente “vittima” della pubblicità: egli ricerca nell’acquisto anche soddisfazione a obiettivi e desideri diversi dalla pura utilità. Conclusioni: 1) i beni di consumo rappresentano un ricco sistema semantico o “cosmologico” (cosmologia= scienza che studia l’universo e tenta di spiegare l’origine dell’evoluzione); 2) i comportamenti di consumo non sono alienanti o individualisti ma rappresentano un campo morale e hanno natura rituale; 3) i consumatori utilizzano i beni in modo attivo e spesso creativo; 4) la ricerca deve passare dall’analisi semiotica dell’oggetto alla descrizione delle modalità di fruizione; 5) questa descrizione ha carattere etnografico. 5. “CULTURAL STUDIES” Nati in seno all’accademia anglosassone negli anni ‘60, questi studi multidisciplinari (che trovano in Stuart Hall uno dei maggiori esponenti) pongono l’attenzione sulle produzioni culturali contemporanee, con un approccio che tratta sia il colto che il popolare in maniera simmetrica. Propongono la rilettura delle teorie marxiste sui rapporti fra la politica, economia e cultura, nonché la rilettura delle nozioni di egemonia e subalternità di Gramsci. Questi studi nascono dalla critica al punto di vista espresso negli anni precedenti dalla scuola di Francoforte e dai filosofi marxisti, i quali insistevano sulla capacità della cultura egemonica di imporsi in ogni strato della società servendosi di scuola, famiglia, stampa e mass media per plasmare i “dominati”. Attraverso la diffusione di testi della cultura di massa il lettore veniva letteralmente ed inconsapevolmente “costruito” a immagine e somiglianza di un “lettore preferito”. I Cultural Studies si discostano da questo punto di vista ponendo l’accento sul cosiddetto RUOLO ATTIVO NEL MOMENTO SUBALTERNO: è vero che, come afferma Gramsci, i gruppi subalterni accedono alla cultura all’interno di condizioni dettate dalle classi dominanti. Tuttavia, vi sono spazi di AUTONOMIA e RESISTENZA che si aprono nel momento in cui i contenuti vengono consumati nell’ambito del subalterno: tra codifica (messaggio massmediale egemonico) e decodifica (fruizione subalterna) ci sarebbe differenza, e quest’ultima non sarebbe passivamente determinata dalla prima. La nozione di subalternità impiegata dai Cultural Studies è un ampliamento di quella gramsciana. In questo caso oltre alle differenze di classe si considerano anche quelle di genere ed etnia, ridefinendo il rapporto egemonico-subalterno nei termini di una contrapposizione tra “la gente” e “il potere”, piuttosto che “ceti abbienti” contro “strati popolari”. Quindi, non basta solo analizzare i messaggi e scoprirne i significati nascosti, ma bisogna anche e soprattutto andare a vedere che cosa ne fa la gente, cioè studiare etnograficamente i modi di fruizione della cultura di massa in particolari ambienti sociali. Perseguendo questo obiettivo, nel 1964 nasce a Birmingham il CCCS (Center for Contemporary Culture Studies), di cui Hall diventerà direttore, che si dedica, tra le altre cose, allo studio della fruizione dei Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 programmi televisivi e alle subculture giovanili. La lettura che ne risulta mostra come in fase di decodifica dei programmi TV, tra i quali vengono analizzati prevalentemente soap-operas e notiziari, il pubblico non è così passivo ed alienato ma, anzi, è in grado di integrare la comunicazione televisiva alla sua sfera culturale rimanendo autonoma, creativa e in grado di riletture ironiche, antiegemoniche e selettive. Lo stesso vale per le subculture: beat generation, mod, rockers, hippy, punk, rasta, hip hop, goth, dark sono tutte risposte all’esperienza sociale dei giovani che riplasmano in modi creativi, come “rituali di resistenza”, quelle pratiche subculturali trasmesse dal mercato e dall’industria culturale dai quali sono fortemente dipendenti. CAPITOLO 9: ANTROPOLOGIA MEDICA - CORPO, SALUTE, MALATTIA 1. LA PROSPETTIVA BIOMEDICA La medicina moderna, quella scientifica, occidentale, ufficiale, si

Use Quizgecko on...
Browser
Browser