Lezione 4-10 Copertino 2 PDF
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This document introduces the discipline of demoetnoantropologia, analysing its components like demos, ethnos and anthropos. It explores how different cultures interpret diseases and healthcare with examples from various regions like Syria, Tunisia, and Morocco. The document discusses the concept of cultural differences, their significance, and the methodology employed by anthropologists in understanding varied human societies.
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1.1 INTRODUZIONE ALLA DISCIPLINA. Le disciplinee demoetnoantropologiche, indicate molto spesso con l’acronimo DEA, riuniscono ben 3 parole al suo interno, che sono Demos, Ethnos e Anthropos (che analizzeremo ognuna nello specifico successivamente, ma è importante sapere che antropos vuol dire essere...
1.1 INTRODUZIONE ALLA DISCIPLINA. Le disciplinee demoetnoantropologiche, indicate molto spesso con l’acronimo DEA, riuniscono ben 3 parole al suo interno, che sono Demos, Ethnos e Anthropos (che analizzeremo ognuna nello specifico successivamente, ma è importante sapere che antropos vuol dire essere umano, al contrario di antros che significa maschio, demos e ethnos, invece, significano popolo, con due accezioni diverse). Essa è la disciplina che studia gli esseri umani sul campo, attraverso esperienza diretta con essi, cercando di comprendere i modi in cui vivono nei vari contesti di vita. In sintesi, la DEA va quindi ad analizzare la diversità della cultura, della società, della lingua e dei rapporti che essi stessi stabiliscono con gli altri popoli. Le differenze culturali si studiano non principalmente nel nostro contesto, ma in contesti diversi, solitamente non Occidentali. Molti antropologi e antropologhe, in effetti, intraprendono viaggi avventurosi, vivono per anni con popolazioni remote, oppure portano alla luce tesori sepolti, come ceramiche antiche, piante medicinali e manufatti di giada. Gli antropologi, però, vivono anche esperienze pericolose e faticose, alla ricerca di resti fossili dei nostri antenati; altri condividono la vita degli abitanti della Silicon Valley, in California, per sperimentare in prima persona le consuetudini lavorative; altri ancora conducono ricerche per anni in contesti urbani o culturalmente vicini a quelli di provenienza dell’antropologo; altri infine studiano le raffigurazioni della ceramica preistorica per comprendere il significato simbolico oppure osservano il comportamento di primati come gli scimpanzè o gli oranghi nel loro habitat naturale, al fine di comprenderne i sistema di vita. La Siria, per esempio, è un Paese a maggioranza araba, musulmana, che si trova sulla sponda est del Mediterraneo e confina con il Libano, la Giordania e l’Israele. La Tunisia, invece, si trova in un contesto Nord Africano, in Medio Oriente; si parla arabo e sono di religione musulmana. I contesti sono simili, anche se non perfettamente sovrapponibile perché sono due lingue arabe diverse. Entrambi erano anche contesti non democratici, in Siria oggi è presente un’autocrazia, molto simile alle forme di potere dell’Unione Sovietica e del fascismo; c’è stato un tentativo di rivoluzione, ma non è andato a buon fine. La Tunisia, invece, era un’autocrazia, ma nel 2011 c’è stata una rivoluzione per giungere alla democrazia. Tra i principali esponenti dell’antropologia del XX secolo, spicca tra tutti Ernesto De Martino, antropologo napoletano. Egli ha operato nel territorio italiano, tra cui la Basilicata, negli anni 50/60, definendola come ‘’il mondo magico della civiltà lucana’’. Tra i principali oggetti di studio spiccano i rituali funebri, presenti nel suo libro ‘‘Morte e Pianto Rituale’’, e il tarantismo; infatti, nello scatto vediamo rappresentato un rito funebre tipico lucano, al limite tra sacro e profano, che consisteva dapprima in un pianto collettivo per tutti i defunti del villaggio e poi in un pianto individuale, fatto ciascuno per il proprio caro venuto a mancare, come avveniva nell’antica Grecia. I rituali non erano ovviamente circoscritti solo alla morte, ma erano estesi anche a tutte le fasi della vita. Tra le altre pratiche comuni vi erano inoltre la magia e il “fascino”, per curare i mali fisici. Sia i rituali che la magia non coinvolgevano le classi colte, bensì quelle più povere ed isolate: questo punto è fondamentale perché ci fa riflettere sul fatto che esistevano ed esistono tuttora delle differenze culturali tra individui dello stesso popolo, ma appartenenti a classi diverse. La differenza culturale, dunque, si può trovare sia in contesti lontani, con conseguenti differenze sia di linguaggio che di religione, ma si può trovare anche in contesti vicini; ciò che cambia sono i modelli culturali di riferimento (definizione di Demologia, che approfondiremo più avanti). Per esempio, le classi più colte non erano quelle che credevano che per un mal di testa ci si dovesse rivolgere ad un guaritore, che compiva il rituale dell’affascino, ma si rivolgeva al medico. La cultura, come ci dice la sua definizione (insieme di comportamenti e credenze appresi e condivisi) è infatti costituita da stili di vita, di modi di vivere, di modelli per affrontare il mondo e anche per capire gli stati di salute e malattia. Ernesto De Martino, come accennato precedentemente, è noto anche per i suoi studi sulla pratica del Tarantismo, condotti sul territorio Salentino nel 1958. Questa pratica consisteva in un sistema di cura ed interpretazioni dei malesseri che colpivano principalmente le donne contadine. Era un modo di reagire del corpo a malori generali, una sindrome culturale di tipo isterico, tipica del sud Italia, con epicentro a Galatina, ad oggi a noi conosciuta come la ‘‘Notte della Taranta’’. Prima di De Martino, lo studio del Tarantismo era stato affidato a medici, biologi, entomologici poiché le persone colpite da questi “malesseri” ritenevano di essere stati morsi da un ragno (la taranta o tarantola, un ragno diffuso in zone mediterranee) o da altri animali comunemente ritenuti velenosi; la “cura” tradizionale era una danza frenetica, un fenomeno definito “esorcismo musicale”, poiché in realtà il divertimento non è altro che una forma di cultura. Tutti gli stili di vita sono appartenenti al presente, dunque alla contemporaneità. Tutt’oggi però esistono ancora gli “etichettamenti”. Per capire meglio il concetto, analizziamo la mappa concettuale qui di fianco. Bisogna guardare alle altre culture non con un senso di disprezzo e arroganza, ma analizzarle dal punto di vista critico e oggettivo. Ad esempio, in Marocco, nei villaggi, a noi potrebbe risultare strano, ma vi sono degli individui che subiscono il “colpo/possessione dello spirito”, che consiste in un malessere come mal di stomaco, mal di testa, parestesia, paralisi e depressione. Recentemente è stato condotto anche un documentario ‘‘The shaman’s touch’’ che analizza proprio i colpi degli spiriti. I rituali curativi sono condotti da specialisti grazie alla musica, alla danza, alle ciaramelle e con la tecnica di trans, cioè con un accesso allo stato di coscienza: ciò che noi definiremmo ‘‘effetto placebo’’. Esso può essere curato solo da degli specialisti grazie alla trans e all’utilizzo di percussioni ripetute con degli strumenti. I “pazienti” colpiti dagli “jinn” (i geni) o dagli spiriti sono coloro che presentano, ad esempio, delle forme di parestesia, ovvero di formicolio continuo, che in casi estremi può portare al blocco di una parte del corpo. Quando si parla di possessione, lo spirito non va guarito ma bisogna entrare in relazione con quest’ultimo, a differenza del cristianesimo dove è presente un forte dualismo tra il bene e il male e quindi nel caso di possessione lo spirito va eliminato attraverso l’esorcismo. Nel caso della religione marocchina non esiste questo forte dualismo, uno spirito può essere benevolo al punto che alcune persone possedute celebrano un matrimonio mistico con queste entità. Stiamo, quindi, parlando di forme di interpretazione di malattie e malesseri che prendono in considerazione aspetti che non sono puramente medici ma che sono religiosi, parliamo quindi di rituali. Nonostante a noi possa risultare strano, queste pratiche hanno degli effetti positivi e portano al miglioramento se non alla cura definitiva del paziente. Ancora, nella Mongolia rurale vi sono gli sciamani (curatori) che, come nel caso del Marocco, attraverso la pratica della trans, quindi lo stato alterato della coscienza, riescono a curare i malati. Noi occidentali, invece, ci riteniamo “più avanzati” perchè ci atteniamo alla medicina moderna, abbiamo delle cure che rientrano nella biomedicina, riteniamo che l’unità fondamentale dell’essere umano sia la cellula (ricerca microbiologica) e che le malattie siano una conseguenza di disfunzioni fisiologiche del corpo. Però, anche nella biomedicina occidentale c’è una componente rituale, pensiamo alle ricette mediche dove è presente una componente di illeggibilità che accomuna una ricetta ad una formula, mantiene il segreto nella cura. Anche l’attesa di un medico presenta una componente rituale, rappresenta l’attesa di una persona autorevole, autorità che sicuramente proviene dagli studi, ma è anche un’autorità in qualche modo spirituale. Ci sono degli studi su diverse persone, soprattutto donne, in Iran che descrivono una serie di sintomi, come “mal di cuore”. Al “mal di cuore” si può rispondere in vari modi, attraverso l’erboristeria, rituali familiari o anche attraverso la visita medica. Sappiamo, però, che quest’ultima può risultare costosa: una donna affetta da mal di cuore, nel momento in cui viene accompagnata da suo marito, suo padre, o l’uomo che detiene il potere economico, alla visita sta accedendo alla possibilità della guarigione già solo essendo presa in carico da un investimento di tempo e di denaro. Come possiamo notare, la parola Demoetnoantropologia è l’insieme di tre parole derivanti dal greco: demos-ethnos-anthropos. 1.Demos, ovvero popolo. Per gli antichi greci, il demos era la parte della popolazione, non aristocratica, che viveva all’interno delle poleis, ovvero le città-stato, da cui deriva la parola politica. All’interno di esse vi era, come detto poco prima, la divisione in classi, quindi vi erano aristocrazia e, per l’appunto, il demos, ovvero il “basso” popolo, che non apparteneva alle classi più egemoni. La principale fonte economica era l'agricoltura (15 mila anni fa, gli esseri umani erano solo cacciatori nomadi e raccoglitori, che si dedicavano alla caccia e alla pesca, mentre con la scoperta dell’agricoltura, i popoli sono diventati sedentari). Era proprio il demos a occuparsi degli ampi territori di risorse agricole: infatti, il popolo non era una massa sfruttata e priva di diritti, anzi, col tempo ha guadagnato potere, creando la democrazia, da cui deriva il termine demologia, ovvero lo studio dei popoli vicini, delle culture vicine. Il demos partecipava alla vita interna della città e si trovava in condizioni subalterne rispetto all’aristocrazia. Si studia, quindi, la differenza che si trova vicino a noi, nelle campagne, nei contesti in cui i pescatori della Sicilia andavano a cacciare il tonno, nei contesti montani, in cui gli animali sono più familiari dei contesti borghesi. In un convegno, un demologo sardo ha parlato della relazione tra i pastori sardi, capre e pecore. Il pastore che gestisce le capre si sente un essere umano diverso, dal pastore che gestisce le pecore, poiché più coraggioso. La demologia, quindi, studia la differenza culturale nell’Occidente (Europa e Nord America). Si indicano i popoli subalterni che sono situati nei nostri confini, ma diversi da quelli moderni e privilegiati. Alcuni oggetti di studio della demologia sono stati: la civiltà contadina e i rituali “del mondo magico” della Puglia meridionale negli anni 50’/ 60’, il popolo dei Lapponi che in realtà si chiamano Sami (cacciatori e pescatori che vivono in Norvegia), i gruppi Inuit eschimesi situati in Nord America. Un importante antropologo è stato Franz Boas. Franz Boas è stato un antropologo tedesco naturalizzato statunitense, tra i pionieri dell'antropologia moderna che si è occupato anche dello studio dei Inuit, gruppo di pescatori che manifestavano delle differenze culturali nonostante non fossero lontani geograficamente dal mondo occidentale. Studiò un particolare rituale, che veniva svolto in alcune comunità di pescatori canadesi, di nome “potlatch”. Il rituale consisteva nella distruzione di una parte del raccolto pescato, un banchetto che veniva offerto una volta all’anno e culminava con la distruzione del surplus. Si trattava di un’usanza, un rituale diverso che non rispettava i canoni della moderna società canadese tanto che lo Stato lo proibì. Era in realtà una forma di redistribuzione economica, di vita economica. Il “potlatch” rappresenta un esempio di rituale studiato dal punto di vista antropologico in ambito demologico. Oggi possiamo dire che il termine "Occidentale" ad oggi ha assunto il significato di moderno, si tratta di popoli i quali pensano a se stessi come discendenti di una civiltà che ha base in Europa. Occidentali sono quei popoli che pensano a loro stessi come popoli evoluti e che hanno affrontato un'evoluzione storica che è partita dall'antica Grecia fino ad arrivare al modernismo. La civiltà europea si sente di appartenere a questa scala evolutiva. La controparte europea è rappresentata da tutti quei popoli che non hanno affrontato questa evoluzione o l'hanno vissuta in maniera incompleta. Noi siamo portati a pensare che la nostra civiltà sia quella migliore, la più naturale. Ad esempio, noi pensiamo agli Arabi come popoli molto legati alla religione, che si fanno sottomettere, che ci vogliono aggredire tramite attentati. Noi siamo portati a pensare agli altri come meno civilizzati rispetto a noi e quindi abbiamo una prospettiva, cioè un punto di vista che in antropologia si definisce etnocentrico. L'etnocentrismo è un modo di pensare a se stessi come coloro che sono al centro, come coloro che vivono nella maniera più naturale e spontanea che ci sia; perciò giusta. 2.Ethnos, ovvero popoli estranei dalle città-stato, che praticavano principalmente la pastorizia e non erano sedentari (nomadi o seminomadi), erano i diversi dediti alla pastorizia e all’agricoltura. In generale, i Greci guardavano in modo arrogante, quasi “dispregiativo” i popoli al di fuori delle poleis, che parlavano dialetti diversi dal loro e stili di vita diversi. Dal termine ethnos deriva la parola etnologia, ovvero lo studio del contesto culturale fuori dai confini (ad oggi, al di fuori dell’Occidente). De Martino stesso si definiva un etnologo e non demologo. Dunque, L’Etnologia è lo studio di tutti quei popoli che non rispondono a quel modello EuropeoOccidentale o al modello borghese. Questa disciplina nasce nel 1800, quindi in epoca pressoché moderna. (Lo stesso Copertino ha svolto un lavoro etnologico, esplorando il mondo arabo, il nord Africa e il Medio Oriente, fuori dai confini immaginari della cultura occidentale. La storia delle interazioni tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente è stata continua nel corso del tempo; la scrittura è stata inventata dai Fenici, i quali vengono dal Libano, poi è stata ripresa dagli Egizi, che provengono dall’Egitto; la matematica è stata inventata dagli arabi; la medicina moderna è nata in Iraq con la dissezione dei cadaveri). I demoetnoantropologi vanno dentro le culture, sul posto, sui gruppi umani che vogliono studiare. Tra i più importanti studi condotti ci sono quegli degli oceanici ‘’oceanologici’’ e le isole del Pacifico. Un altro importante antropologo fu Bronislaw Malinowski, i cui primi studi furono in Sud America ed Oceania, ma in particolare si soffermò nelle Isole del Pacifico. Infatti, egli studiò i popoli della Melanesia, nello specifico un piccolo arcipelago, le isole Trobriand, che dapprima apparteneva agli UK e poi si è reso indipendente. L’antropologo studiò il popolo Kula, che abitava lì, per tre anni: notò che non vi era non un sistema patriarcale, bensì matrilineare, ovvero che la discendenza della stirpe veniva attribuita alla madre, la quale si occupa delle risorse dei figli. Il pensiero di Malinowski era: per capire cos'è la cultura bisogna collegarla all'uomo biologico e ai suoi bisogni, ovvero occorre comprendere la sua funzione. Egli è definito il padre dell'etnografia: l'origine della moderna tradizione di ricerca etnografica si fa risalire proprio al suo lavoro. Tra i diversi lavori, l’antropologo osservò negli anni 30’ un particolare rituale che consisteva in spedizioni su barche simili ai moderni catamarani, con tecnologie paleolitiche, attraverso le quali i trobriandesi trasportavano doni simbolici, come grandi collane fatte di conchiglie o pietre lunghe fino a 3 metri che non potevano essere indossate. Questi doni simbolici venivano consegnati ai rappresentanti delle isole vicine che non ricambiavano il dono, ma che dopo un certo periodo ripartivano con quegli stessi oggetti per un’altra isola. In questo modo si creava un circolo, “il circolo del dono”,“circolo del Kula”. Questa è una forma di dono apparentemente disinteressato poiché chi donava la collana non riceveva niente in cambio, ma col passare del tempo il dono circolava, creando sia un circolo simbolico che economico, perché l’oggetto simbolico, paragonabile alla corona dei reali, era accompagnato anche da beni materiali. Non si tratta dunque di un rituale primitivo ma di una forma di commercio, di vita economica definita da molti studiosi come una forma di reciprocità attesa, un dono apparentemente disinteressato ma che in realtà dà vita ad una forma di circolazione. Parliamo quindi di vita economica collegata alla vita rituale sia nel caso del “Potlatch” sia nel caso del “Kula”. Tra i più importanti etnologi, vi è Claude Lévi-Strauss, il quale studiò il popolo dei Bororo, abitanti dell’Amazzonia. Essi erano un popolo peculiare, non indossavano nessun tipo di vestito ed erano cacciatori e raccoglitori. Per queste ragioni essi vennero definiti dallo stesso antropologo “selvaggi e arretrati” rispetto all’Europa. Lévi-Strauss si trasferì in Brasile (San Paolo) sia per vivere da vicino questo popolo sia per scappare dalla Francia nazista essendo ebreo. Egli ebbe modo di conoscere la società dei Bororo e affermò la complessità di quest’ultima: infatti essi, a livello di organizzazione politica non erano organizzati in stati, bensì in bande, le quali vivevano in villaggi temporanei (perché essendo cacciatori tendevano a spostarsi in base alle risorse messe a disposizione) e questi ultimi erano divisi in due parti: una parte inferiore e una superiore; quindi, i villaggi risultavano essere bipartiti. Il fatto che essi si siano divisi da sé in due parti ci fa capire che non vivevano propriamente ad uno stato animalesco. Ancora, andando ad analizzare il matrimonio tra due Bororo, notiamo un sistema esogamico, ovvero che il partner matrimoniale andava cercato al di fuori del proprio villaggio. Esiste anche un’altra norma molto importante per i Bororo che è la uxori località (o matrilocalità), ciò significa che quando un uomo Bororo si sposa, egli deve trasferirsi nella zona della moglie, lontano dalla sua casa e dai suoi affetti. L’uomo Bororo nella nuova casa si sente uno straniero, come se dovesse essere preso in cura dal nuovo gruppo: per questo motivo i maschi Bororo si sentono trattati come “pappagalli rossi", ossia come degli animaletti domestici. Dunque, la differenza tra le varie culture c’è e vuole essere compresa; per fare ciò si deve andare sul posto per capire, vivere tra loro. Quindi demos ed ethnos hanno campi di studio vicini e lontani. Arriviamo così al terzo punto: 3. Anthropos, ovvero essere umano. Da qui deriva il termine antropologia, (letteralmente "discorso intorno al genere umano”, derivante dal greco Anthropos, ovvero uomo e logos, ovvero discorso la cui definizione “studio della specie umana, delle sue origini preistoriche e delle sue diverse espressioni contemporanee” può essere semplificata con: è ciò che studia le culture diverse da quelle occidentali (con Occidente intendiamo Europa e Nord America) in cui vi sono diverse organizzazioni di individui. Essendo l’antropologia quindi uno studio fatto di e sugli esseri umani va a comparare noi con i nostri modelli culturali. Prima abbiamo parlato delle differenze riguardanti la medicina occidentale con quella extra-occidentale. I nostri modelli di cura si basano sulla biomedicina e dunque sullo studio dell’essere umano, derivati da cause biologiche. L’obiettivo dell’osservazione non è evidenziare le macro-differenze considerate strane, ma comprendere le differenze come forme specifiche di stare al mondo e non in senso dispregiativo; ad esempio, nelle università islamiche i professori e gli studenti si siedono a cerchio, mentre noi abbiamo delle aule dove viene fatto un tipo di insegnamento cosiddetto “frontale”. Ciò che dobbiamo ricordare è che non siamo solo osservatori, ma anche oggetto di osservazione da parte degli altri. Cosa studiano le DEA? Le culture e le società, popoli di interessi demologici ed etnologici. Noi facciamo tutto quello che facciamo dopo aver appreso silenziosamente la pratica di stare in mezzo agli altri, che inevitabilmente influisce anche su come noi vediamo il mondo (es. momento difficile e triste e noi lo chiamiamo “depressione”). Un altro argomento importante è la società, che viene intesa come insieme di esseri umani, non individui presi singolarmente. Prendiamo in esame gruppi di individui associati, che creano e applicano norme giuridiche per vivere insieme, ecco che creano una società, un aggregato di persone che stabiliscono delle relazioni tra di loro. La parentela, dal greco parà vicino ed eimì essere, indica proprio le persone a noi care dai cui discendiamo. A questo proposito, in altre parti del mondo ciò che crea raggruppamento e unità non è, ad esempio, l’appartenenza all’Egitto o alla Libia, ma la discendenza comune (si afferma che questo antenato comune si chiami Alì) e si definiscono tutti parenti, in particolar modo tutti cugini. La parentela consiste in una vera e propria forma di organizzazione sociale, in particolar modo nella cultura araba, gli arabi usano il termine cugino per indicare un’ampia categoria di persone, in cui sono comprese persone non biologicamente vicine ma con le quali si interagisce. Noi, come tutte le altre culture, siamo fortemente etnocentrici senza rendercene conto, ci risulta difficile immedesimarci nelle altre culture esistenti “Ma bisogna in qualche modo uscire dai nostri confini per fare un discorso sull’essere umano che includa anche noi stessi”. Gli iroscesi, un popolo di nativi americani, identificavano come fratelli e sorelle, o ‘‘siblings’’, non solo le persone nate dagli stessi genitori, ma anche le persone nate da fratelli o sorelle dello stesso sesso dei genitori. Per esempio, i figli della sorella della madre o i figli del fratello del padre sono ‘‘siblings’’, mentre i figli del fratello della madre o della sorella del padre vengono chiamati anche in un altro modo traducibile come ‘‘cugino’’. Per concludere, il primo oggetto di studio sono quindi le società, intese come gruppi umani, ciò che va al di là dell’individuo. Per società civile si intende un gruppo di persone che si attivano per una stessa causa, ovvero l'organizzarsi per vivere bene insieme. Sono dunque definite come forme di organizzazione sociale tutti i tipi di relazioni che vanno al di là dell’individuo, come le confraternite, i partiti, la stessa amicizia ed il matrimonio. Ad esempio, nella nostra società è possibile avere amicizie di entrambi i sessi, ma ci sono società, come quella dei beduini, in cui è più difficile che nascano amicizie tra uomo e donna, proprio per le differenze tra i due sessi. Il matrimonio rappresenta un altro modo in cui si creano legami sociali che mettono in comunicazione individui diversi. Collegandoci con la popolazione dei Bororo precedentemente citata, anche nella nostra società, il matrimonio è prevalentemente esogamico ed abbiamo la possibilità di scegliere il partner che preferiamo, eppure delle volte queste scelte sono limitate da una creazione di confini perlopiù invisibili che vanno ad inficiare la nascita di un nuovo legame sociale. La società è quindi intesa come una forma di raggruppamento di persone. Noi siamo abituati pensare alla società su base nazionale quindi la Società Italiana, però questo è solo un modo di guardare le cose. Per esempio, i migranti, dal loro punto di vista, ritengono di far parte di “società transnazionali”, di essere collegati a più società. Anche i partiti politici, la società civile, la famiglia, le confraternite, la tribù sono esempi di raggruppamenti umani particolari. Nell’esempio della tribù l’organizzazione si basa sulla discendenza e non sul territorio. La cultura è l’altro oggetto di studio, può essere economica, religiosa e così via. In realtà la cultura è qualcosa che anche noi condividiamo, abbiamo una nostra cultura. Al centro delle discipline Demoetnoantropologiche è posto anche il tema della differenza culturale. Lo studio di queste discipline cerca di comprendere l’essere umano da un punto di vista culturale, ma non attraverso un ragionamento filosofico o introspettivo, o con un tipo di ragionamento che si occupa dell’essere umano “occidentale”, ma lo scopo dell’antropologia, insieme alle discipline che compongono la DEA, è quello di studiare il concetto di noi in mezzo agli altri. Gli altri, ovviamente, intesi non come stili di vita selvaggi, antichi, tradizionali, ma come stili di vita e modi di pensare che rappresentano una differenza; anche il nostro stesso modo di vivere, di pensare, cioè la nostra cultura, è al centro di questo studio. Lo studio principale è, quindi, quello su noi stessi. L’antropologia e, più in generale, le DEA, non si soffermano a guardare le stranezze e l’esoticità delle culture, ma le differenze che queste diverse culture apportano nello stile di vita di animali simili, come l’uomo. L’obiettivo è parlare di noi, perché noi come popolazione siamo l'oggetto di studio, tenendo conto non solo delle caratteristiche biologiche dell’uomo, ma anche di caratteristiche socioculturali: NON SI PARLA SOLO DI UNA CULTURA, MA DELLE CULTURE. Ad esempio, tenendo conto di sistemi culturali che si occupano di interpretare e poi anche di curare i corpi malati o i corpi che sono sottoposti a qualche forma di malessere, questi sistemi sono un esempio di strutture culturali che si sono formate per comprendere e curare i corpi definiti difformi rispetto a questi modelli, sia dal punto di vista fisico che ‘‘spirituale’’(psichico), malessere dunque psicofisico. Ci sono poi altri sistemi culturali, in quanto la differenza va indagata nelle sue caratteristiche contestuali, che si sono dati altre possibilità, altre modalità per leggere e per curare i malesseri e le malattie, ad esempio: il sistema dello sciamanesimo. Ai nostri giorni questa pratica, sotto forma di neo-sciamanesimo, sta ritornando anche in Europa, in Italia, attraverso dei corsi veri e propri, ma comunque è importante ricordare che i nostri concetti sono plasmati totalmente dalla nostra cultura e dalle tecniche di biomedicina. Lo sciamanesimo risulta essere, però, molto funzionale nelle culture dove viene praticato. Che cos’è lo sciamanesimo? Lo sciamanesimo è una pratica spirituale e culturale che coinvolge la comunicazione con il mondo spirituale attraverso rituali, trans e altre tecniche. Esso nasce nella Mongolia Occidentale nel popolo Evenki, che parlava la lingua Tungu. In questo popolo si trovano le prime tracce dello sciamanesimo. In lingua Tungu, la parola sciaman significa una persona “agitata”, indica una persona che ha sofferto in qualche modo, ma è riuscito a dominare questa sofferenza e, attraverso la sua esperienza di sofferenza e autoguarigione, ha imparato le tecniche che poi lo portano ad essere uno specialista che possa poi curare gli altri. Come avviene la guarigione? Avviene tramite il contatto con entità spirituali, invisibili che sono collegate ad un mondo sovraumano, queste presenze gli Evenki le chiamano “antenati”. Lo sciamano entra in contatto con questi spiriti tramite uno stato di trans. Questo stato viene ancora oggi utilizzato nella medicina e nella psicanalisi quando si cerca di far accedere il paziente ad uno stato di ipnosi. L’accesso ad uno stato alterato della coscienza, per molte culture rappresenta la chiave per conoscere i malesseri delle persone, capire da dove derivano e di conseguenza capire anche come poterle curare. L’utilizzo dello stato di trans è al centro della cura dei corpi degli jinn, del tarantismo e della psicoanalisi. Nello sciamanesimo del Nord e del Centro America (Ande) è pratica usuale fare ricorso ad alcune sostanze psico attive, per accedere alla zona di trans. In Messico, ad esempio, era ampiamente diffuso l’utilizzo di alcuni funghi allucinogeni per entrare a contatto con gli spiriti. Questa modalità di interpretare e di curare queste malattie erano modalità, che per quanto distinte dalla biomedicina, erano caratterizzate da uno stretto legame tra sistema medico e religioso. Nella cura degli jinn, i curatori e i mediatori, i cosiddetti sciamani, fungono da intermediari tra il mondo umano e quello degli spiriti, definiti anche SANTI. Nello sciamanesimo si presenta uno stretto legame tra il sistema medico e religioso, cosa che non avviene nella biomedicina occidentale. In alcuni contesti, però, emerge: un esempio lampante è la presenza di chiese e cappelle all’interno degli ospedali, oppure a Lourdes, luogo di apparizione della Vergine Maria, sono presenti sia sacerdoti cristiani che medici. (L’effetto placebo ha una percentuale di guarigione molto elevata, quindi passa attraverso un tipo di cura psichica e socioculturale). Le caratteristiche principali dello sciamanesimo includono: 1. Rituali: Gli sciamani conducono cerimonie che possono includere danze, cantici, e l'uso di tamburi o altri strumenti musicali per entrare in uno stato di trans. 2. Guarigione: Molti sciamani sono anche guaritori che utilizzano le loro connessioni spirituali per trattare malattie fisiche o mentali. 3. Animismo: Lo sciamanesimo spesso si basa su una visione del mondo animista, dove ogni elemento della natura (piante, animali, rocce) ha uno spirito e una propria vita. 4. Viaggi spirituali: Gli sciamani praticano "viaggi" in altre dimensioni o mondi spirituali per acquisire conoscenze, aiutare gli altri o ottenere visioni. 5. Tradizione orale: La saggezza e le pratiche sciamaniche vengono trasmesse attraverso generazioni tramite storie e insegnamenti orali. Lo sciamanesimo è presente in molte culture in tutto il mondo, con varianti che riflettono le tradizioni locali e le credenze spirituali. Questa pratica per noi occidentali però è considerata fuori contesto, la nostra vita è plasmata dal punto di vista delle malattie, dai concetti e dalle pratiche della biomedicina. (quando abbiamo dei disordini fisici o psichici tendiamo a non rivolgersi agli sciamani, nella nostra cultura, ma bensì ci rivolgiamo ad un medico, oppure psicologi, psichiatri ecc). Anche se nella nostra cultura è poco apprezzato, il sistema dello sciamanesimo è molto coerente ed ha anche molta efficacia nei contesti in cui può affondare le radici di una tradizione o di una storia. Ritornando alla condizione di antropologia come studio di culture arretrate, in passato i ricercatori occidentali, moderni e borghesi esploravano culture diverse e lontane dalle loro. Oggi, però, le cose sono cambiate: gli studiosi delle discipline DEA provengono da tutti i contesti di civilizzazione. Ad esempio, in un campus universitario, uno studente di evidente origine non Europea, enunciò una frase molto importante “Bisogna decolonizzare la scienza, sono qui per fare osservazione partecipante’’. In primo luogo ‘‘decolonizzazione della scienza’’ si riferisce al concetto che l’antropologia sia nata come sia scienza coloniale; la differenza culturale, fino alla metà del ‘900, veniva osservata nelle colonie: il mondo è stato conquistato dall’Europa e la forma più recente di dominio è stata proprio quella del colonialismo. Il colonialismo ha permesso di ampliare i territori degli Stati Europei, non sotto forma di espansione, ma come conquista imperiale di territori esterni, come Africa e Oceania. Erano proprio in questi luoghi dove era possibile osservare una differenza cultural: i Francesi che avevano conquistato l’Algeria guardavano questo popolo come esotico, diversi e inferiori. L’inferiorità degli Algerini per i Francesi erano le forme di adorazione di strane divinità, come Allah, oppure nei capi di abbigliamento, come Hijab (velo), oppure nei sistemi di cura dei corpi degli spiriti. Erano popolazioni che si riteneva avessero un tipo di cultura arretrata e che poteva quindi essere dominata attraverso il sistema coloniale. Un altro concetto importante si riferisce ai termini ‘‘black and white’’, nati negli Stati Uniti durante la segregazione, per definire e raggruppare la società: venivano utilizzati per definire lo straniero che proveniva da ambienti subalterni e svolgeva lavori umili. È importante con l’antropologia parlare di noi e capire come gli altri vedono la nostra cultura. L’osservazione partecipante è il principale strumento di ricerca delle discipline DEA, che non si basa solo sulle interviste, sulle foto e sui video girati nelle varie popolazioni in esame, ma essa è fatta di una sostanziale dose di partecipazione ed anche osservazione. Molti studiosi che hanno preso in esame le varie culture si sono trasferiti per proseguire i loro studi, hanno iniziato a vivere con le popolazioni per comprenderle a 360 gradi. Uno dei più importanti antropologi è Vincent Crapanzano, che decise di studiare i villaggi marocchini. Si trasferì lì e dopo un paio di anni ha iniziato a vivere e interpretare gli stati di malessere come loro; il punto fondante è proprio una lenta partecipazione alle varie forme di vita che non sono come le proprie. La differenza culturale riesce così ad essere superata. I ricercatori che compiono questo tipo di studi tendono a poco a poco a superare questi confini culturali con le altre popolazioni, naturalmente però mantenendo sempre uno sguardo parzialmente differente (obiettivo non è diventare come le civiltà prese in esame, ma capirne gli usi e i costumi e vedere il mondo con i loro occhi). Nel libro Tuhami: Ritratto di un marocchino, Vincent Crapanzano esplora un sistema di cura tradizionale presente in alcune aree del Marocco, basato sulla credenza che certi disturbi psicofisici derivino dalla possessione da parte di uno spirito. Questi dolori, spesso di natura neurologica, vengono attribuiti all’influsso di spiriti come A’isha Kandiska. Crapanzano partecipa ai rituali degli Hamadsha, una confraternita di guaritori, il cui scopo è liberare gli individui dagli spiriti attraverso riti esorcistici. Durante il suo soggiorno, Crapanzano si integra profondamente con la comunità e sviluppa una “risonanza” con essa, cioè la capacità di entrare in sintonia con persone di una cultura diversa. Col tempo, arriva persino a percepire la presenza degli spiriti come gli abitanti del luogo, grazie alla condivisione di esperienze e alle pratiche collettive di trans, spesso indotte da musiche, stupefacenti e una comune credenza nell’esistenza di queste entità. In Orizzonti dell’immaginario, Crapanzano racconta a un conoscente che, pur essendo uno psicanalista, non considera gli Hamadsha masochisti. Secondo la psicoanalisi, il masochista si autoinfligge dolore per un impulso interiore della psiche, mentre gli Hamadsha ritengono che sia uno spirito, un’entità esterna, a spingerli a certi comportamenti. Questa differenza evidenzia come il modo di interpretare il malessere dipenda dal contesto culturale: per gli psicoanalisti, l’esorcismo come cura è privo di efficacia, ma per chi crede negli spiriti è perfettamente valido. Ciò mostra quanto il significato e l’efficacia dei sistemi di cura varino a seconda delle credenze culturali. Lo stato di trans può essere dato anche da una sorta di preghiera, come accade per i sufi. L’islam generalmente pone una certa distanza tra il mondo terreno e l’aldilà a differenza del cristianesimo, che utilizza statue o dipinti rappresentanti figure sacre. I sufi, tuttavia, rappresentano la parte dell’Islam che cerca di avvicinarsi all’aldilà attraverso la preghiera e la danza, che si pratica sotto forma dei dervisci rotanti. Durante la danza alcuni cadevano a terra in uno stato di trans. In questa fase solo i sufi esperti riescono ad avere visioni di entità spirituali normalmente invisibili. Il fine e l’obiettivo di queste discipline, come già citato, non è di riconoscere la stranezza e la diversità, bensì fare una comparazione tra diverse culture. L’antropologia è una disciplina comparativa (non è un elenco di usanze strane, ma un tentativo di creare un quadro orizzontale e non gerarchico). La prima comparazione che viene fatta è quella tra noi e gli altri (gli altri vanno conosciuti nella loro differenza culturale che va comparata nelle sue differenze ma anche nelle proprie convergenze, nelle somiglianze). Dobbiamo cercare di parlare di noi stessi come possibilità umana di darsi una cultura e una forma di organizzazione socioculturale. Ad esempio, la biomedicina (medicina occidentale) può avere dei punti di convergenza con la medicina di altre culture, come nell’esame delle componenti psicosomatiche. Nelle culture Andine del Sud America è molto diffusa l’idea che alcune pietre abbiano un potere spirituale, un potere curativo. Le pietre diventano un oggetto sacro e viene affidata un’autorità spirituale a colui che è in grado di utilizzarle, queste caratteristiche creano un’aspettativa di guarigione. Un altro esempio è riportato da Daniel Miller, un antropologo inglese, che analizza il concetto dei supermercati definendoli come dei modelli economici peculiari della nostra cultura: la spesa e la scelta dei prodotti possono rappresentare una sorta di rituale. Lo stesso Miller ha anche studiato la differenza del rapporto che i giovani giamaicani ganno con gli smartphone rispetto ai giovani americani. I giamaicani utilizzano gli smartphone specialmente con persone che non sono imparentate, poiché per loro la parentela appare secondaria. Di questi esempi è importante capire come non bisogna considerare i nostri modelli come assoluti. Decentrare lo sguardo è importante per cogliere elementi paragonabili ad altri sistemi culturali di cura e dai quali possiamo comprendere anche qualcosa su noi stessi. Comprendere che nell’essere umano ci sono componenti paragonabili anche in culture molto diverse. In questo modo l’antropologia diventa un discorso sull’essere umano. 1.2 LA DIFFERENZA CULTURALE Il significato di cultura deriva per la prima volta nel termine stretto della parola con cui ne parliamo oggi, da Cicerone. (Prima si riferiva alla coltura dei campi). Cicerone parla di questo termine per la prima volta, riferendosi alla cura dello spirito, educazione dello spirito e dell’essere umano, fatta attraverso la lettura e lo studio. Cultura nella maggior parte delle lingue, significa “erudizione”. La cultura è un’esperienza personale e non è visibile, poiché risiede nella mente di chi l’ha acquisita attraverso lo studio. La cultura in termini antropologici, invece, non è una cultura individuale, è, invece, definita collettiva ed è per questo che l’oggetto di studio è la società. Le culture sono fenomeni visibili, collettive, ben osservabili all’interno di pratiche che le comunità conducono, come per esempio nelle pratiche di cure. La cultura in senso Cicerioniano, individuale, è qualcosa che si apprende studiando, leggendo, imparando (andando a scuola o all’università). Invece, la cultura in senso antropologico si apprende vivendo, non è una formazione esplicita, è piuttosto catalogabile come un qualcosa che noi abbiamo assorbito tramite un processo implicito costituito da imitazioni, da lento assorbimento dello stile di vita del gruppo dentro il quale siamo nati. Un antropologo contemporaneo afferma che la cultura è inveterata, legata alle fasi più arcaiche del nostro essere umano. Questo lento processo di apprendimento, ma anche fisico, è un processo che durante il percorso della vita perdiamo le tracce, LA CULTURA INIZIA A SEMBRARCI LA NOSTRA NATURA. Questo fenomeno è chiamato inculturazione ed è un processo al quale tutti siamo sottoposti sin dalla tenera età in maniera diversa e singolare per ognuno. Ad esempio, a differenza dei “bimin cuscumin” noi abbiamo ribrezzo a mangiare carne umana, come ne abbiamo a mangiare la carne canina, accettata nella Cina rurale. Questo non deriva dal fatto che nella nostra cultura ci sia una norma esplicita che ci vieta di farlo, ma è piuttosto la nostra inculturazione, cioè quel modo lento e progressivo con cui abbiamo assorbito la nostra cultura, che ci porta proprio fisicamente a non sopportare questa idea. Lo stesso ribrezzo lo ha un musulmano a cui viene servito del maiale. È il corano a vietarlo, ma comunque è l’esplicitazione di modelli culturali che erano già radicati nel loro corpo. In alcune piccole eccezioni questo fenomeno può anche non avvenire durante l’infanzia, ma può presentarsi in momenti successivi, come nel caso della migrazione o nel caso degli antropologi. Il maggior momento di apprendimento per l’inculturazione però è nell’infanzia, quando la nostra mente e il nostro corpo sono maggiormente predisposti ad assimilare le informazioni recepite dall’esterno. (esempio: è più difficile imparare a parlare un’altra lingua quando si è già adulti, rispetto a quando la si impara da bambini. Una persona recepisce in maniera più solida la lingua madre, non solo perché la lingua da lui più parlata, ma anche perché è la prima lingua appresa). La cultura definisce il modo in cui vediamo il mondo, dettando il nostro concetto di normalità. Un corpo è sano o malato anche perché viene riconosciuto come tale dalla cultura del gruppo che ne descrive la fisionomia. Per esempio, il mal di cuore in Iran, o le donne che venivano colpite dal tarantismo, assumevano una fisicità che non corrispondeva a quella di una persona sana. Adottavano dei movimenti come l’arco isterico, inarcavano il corpo, si gettavano a terra, strisciavano, anche ricorrendo all’imitazione dei movimenti del ragno. Mettendo molto in rilievo l’aspetto sessuale del movimento. Effettivamente quando le donne venivano colpite dalle epidemie di isterismo (La parola Usterus vuol dire utero) nel 700 e 800 in Europa, si ricorreva a una cura, quella di asportare parte dell’utero, che riguardava l’interpretazione di un malessere che si manifestava come forma fisica di adozione di comportamenti non sani per il modello fisico. Ma alla base c’era un malessere di tipo sociale. Le donne salentine colpite dal tarantismo erano perlopiù di estrazione contadina, e quindi non avevano molte risorse per vivere in maniera adeguata, o gli erano stati imposti dei matrimoni non desiderati, o il loro amore non era stato corrisposto. Perché le donne? Perché le donne erano subalterne nella società. Tuttavia, questi malesseri non esistevano solo nella psiche di chi veniva colpito, ma venivano esplicitati attraverso la trasformazione del corpo. Le cure a queste malattie, però, erano possibili solo se considerate nel gruppo: ad esempio nel tarantismo la cura non era l’isolamento del singolo, ma veniva preso in esame tutto il gruppo; oppure il mal di cuore in Iran veniva curato se tutto il gruppo familiare si prendeva carico della persona, sostenendo le spese per la cura. La cultura è fatta anche di norme esplicite. Quando visitiamo un altro paese troviamo delle norme di comportamento scritte sulle guide. Nonostante questo, siamo sempre predisposti a comportarci secondo quei modelli generici che conosciamo, come il modo di salutare o la vita fra i generi. In alcune società la separazione fra generi è articolata proprio dalla legge. Ciò accade in Paesi come Iran e Arabia Saudita che hanno adottato come legge alcuni riferimenti religiosi, ma questo non vuol dire che vengano totalmente rispettate. Le feste in Iran ne sono un esempio, dove le persone bevono alcolici e le donne si ritrovano in compagnia di uomini. Le culture si incorporano con il passare del tempo; quello che noi stiamo studiando, è una cultura in senso incorporato, non soltanto una cultura astratta, fatta di una dimensione intellettuale, ma con una dimensione corporea e fisica. Per esempio, noi abbiamo imparato i nostri modi di stare al mondo, di camminare, di stare in piedi e di stare seduti e abbiamo cancellato le tracce di questo apprendimento, che quindi appare naturale. In questa immagine due persone occidentali si stanno salutando al bar. Noi quando osserviamo la realtà, la incanaliamo all’interno di contesti a noi familiari che già conosciamo: la cultura per noi è fatta di modelli riconoscibili, da chi condivide quei determinati modelli. Ad esempio, nella nostra cultura due persone, un uomo e una donna, che si incontrano in un luogo pubblico, possono salutarsi scambiandosi un bacio sulla guancia. Ma non è detto che chi non conosca quei modelli li sappia distinguere così bene: per esempio quando i primi viaggiatori iraniani, nel corso del 700-800, viaggiavano per l’Europa, quando iniziarono a vedere questo approccio tra persone, giungevano alla conclusione che le persone che si salutavano fossero necessariamente sposati, ma se così non fosse stato era visto come un qualcosa di fuori luogo o non adatto. Quindi, quando non conosciamo il livello culturale degli altri noi possiamo andare incontro a fraintendimenti. L’immagine ci permette di capire che sicuramente non è un contesto in cui c’è segregazione; in Occidente ci sono pochi contesti segregati, come il caso degli sport, divisi in sport maschili o femminili. Nelle moschee in Italia, quando si entra, si accede ad uno spazio segregato, ma in Occidente non ci sono spazi completamente segregati e quindi è possibile che uomini e donne si ritrovino a condividere lo stesso spazio. La costruzione dei legami: esogamiche e endogamiche Nelle società, i legami di parentela sono una struttura fondamentale, spesso costruita attraverso il matrimonio. La parentela, infatti, è un sistema sociale che varia enormemente da cultura a cultura. Nella nostra, ad esempio, i legami di affinità (cioè i legami matrimoniali) sono solitamente il risultato di una scelta consensuale tra due individui, senza l’intervento diretto di terzi. Tuttavia, esistono società in cui è comune che altre persone, come amici o parenti, presentino potenziali partner. Le culture ESOGAMICHE, come la nostra, sono quelle in cui i legami di affinità vengono formati tra persone provenienti da gruppi familiari differenti. La nostra cultura incoraggia questa pratica, sia per creare alleanze tra gruppi che per ampliare la rete sociale. La scelta del partner è spesso individuale e si svolge al di fuori delle cerchie parentali o sociali immediate. È più probabile che una persona scelga come partner qualcuno di “ignoto”, piuttosto che un amico d’infanzia o un cugino. Anche se ci sono eccezioni, è raro che i legami matrimoniali si formino tra individui che si conoscono da lungo tempo o che siano imparentati. Storicamente, quasi tutte le culture del mondo sono esogamiche, con la notevole eccezione di alcune, come gli antichi egizi, in cui era permesso il matrimonio tra fratelli e sorelle o tra genitori e figli, almeno all’interno della famiglia reale. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle culture proibisce l’incesto, che definisce i legami matrimoniali tra membri stretti del nucleo familiare. Con la cultura esogamica si creano così delle alleanze e delle nuove comunità. Claude Lévi-Strauss, il più grande etnologo della storia, scrive che ‘‘il matrimonio è sempre una forma di alleanza, paragonabile al commercio’’, viene definita come la ricerca di altre fonti e risorse al di fuori del proprio gruppo. Al contrario, nelle culture ENDOGAMICHE, il partner viene spesso scelto all’interno dello stesso gruppo sociale o familiare. Nelle culture arabe mediorientali, ad esempio, il matrimonio tra cugini paralleli (figli di fratelli dello stesso sesso) è considerato ideale. (Nella Tunisia e nel Libano moderno, vigono però delle culture esogamiche). Questo tipo di unione è preferito perché preserva le risorse economiche all’interno del gruppo familiare e rafforza i legami di conoscenza e fiducia tra le famiglie. Tuttavia, questa pratica non è sempre rigorosamente seguita. Spesso, anche se il matrimonio non avviene tra cugini diretti, viene comunque percepito come tale, specialmente se i partner provengono da famiglie vicine o da un contesto comune. In queste culture, il concetto di parentela si estende oltre il legame biologico, includendo relazioni basate sulla consuetudine e sulla vicinanza. Ad esempio, due vicini di casa che si conoscono da lungo tempo possono essere considerati, simbolicamente, “cugini” quando i loro figli si sposano, anche se non esiste un legame di sangue. Questo linguaggio simbolico serve a rafforzare i legami sociali, dando vita a una parentela fittizia che, attraverso il matrimonio, diventa reale. Tuttavia, studi hanno evidenziato che, in alcune aree dove prevale l’endogamia, ci sono stati effettivamente casi di malattie genetiche più diffuse. Rapporti uomo-donna In molte culture, ci sono norme sociali che limitano o regolano i contatti fisici tra persone di sesso opposto in pubblico. Tuttavia, queste norme non sono sempre rigide o universali. Per esempio, in contesti privati o tra persone che hanno sviluppato una certa familiarità, le regole di comportamento possono cambiare. Il modo in cui le persone si salutano, come il bacio sulla guancia o la stretta di mano, può variare enormemente da una cultura all’altra, ma anche all’interno di una stessa cultura, a seconda del grado di familiarità tra le persone. In Siria, ad esempio, le regole sociali prevedono che gli uomini diano la mano agli uomini e le donne alle donne, ma non sempre tra sessi opposti. Tuttavia, con il tempo e con una maggiore familiarità, queste regole possono essere infrante, creando un ambiente più rilassato e confidenziale. L’Abbigliamento Un altro aspetto significativo è l’abbigliamento femminile, come il velo. In molti Paesi musulmani, le donne indossano vari tipi di veli, come lo Shador in Iran (velo persiano che lascia scoperti i capelli) il Niqab in Arabia Saudita (lascia scoperti solo gli occhi), lo Hijab (Arabo, che lascia scoperto volto) in altri Paesi, il Burqa in Afghanistan. Mentre il velo è obbligatorio in pubblico in alcune nazioni, come l’Iran e l’Arabia Saudita, non lo è in spazi privati, dove le donne possono scegliere di non indossarlo. In altri contesti, come la Tunisia prima della rivoluzione del 2011, era proibito indossare il velo, una situazione completamente opposta, a causa di un potere autocratico, oppure uomini che portavano la barba lunga sfidavano il potere. Nel 2014, in Tunisia, un professore si rifiutò di permettere a due studentesse con il velo di sostenere l’esame. Alla fine, fu denunciato per sequestro di persona, poiché le trattenne a lungo nell’aula, sperando che si togliessero il velo. L’abbigliamento, quindi, diventa un terreno di battaglia politica e culturale, dove le norme di una società sono imposte o contestate. Il confronto con culture come quella dei Bororo in Amazzonia, ovvero una società che indossava pochi o alcuni vestiti (le donne avevano una cintura, gli uomini un astuccio fallico) ci fa domandare se avrebbero potuto influenzare il resto del mondo, portandoci a considerare “normale” un abbigliamento minimalista. Inoltre, sottolinea il relativismo culturale: ciò che appare “normale” in una società può essere considerato completamente fuori luogo in un’altra. In effetti, l’antropologo Claude Lévi-Strauss, ci ha insegnato a guardare alle culture non come gerarchie di sviluppo o progresso, ma come sistemi autonomi di valori e pratiche, ciascuno con la propria logica interna. Questo sguardo antropologico ci aiuta a comprendere che anche l’abbigliamento, è una costruzione sociale che riflette valori, simboli e credenze specifiche. Nel mondo occidentale, il modello dominante di abbigliamento si è affermato attraverso il colonialismo e la globalizzazione, ma ciò non significa che sia l’unico possibile o giusto. Eurocentrismo Il nostro modo di vedere gli altri è molto condizionato dal nostro modo di stare al mondo, ma anche da quanto conosciamo le altre culture. Riconosciamo a noi stessi una certa complessità, che deriva dalle nostre scelte individuali, dalla nostra interiorità, dalle differenze che vediamo tra di noi. Però spesso tendiamo a semplificare quella degli altri, ma è giusto riconoscer che anche le culture ù degli altri sono molto complesse, fin anche quella del piccolo villaggio nell’Egitto rurale, dove però ci possono essere forme complesse di vita interiore delle persone che vi abitano. Nel suo saggio Lila Abu-lughod, una studiosa americana, che ha lavorato con le donne beduine del deserto libico ed egiziano, parla di modelli culturali complessi che si trovano in un contesto molto limitato, in cui questi gruppi vivono principalmente di agricoltura e pastorizia o di idrocarburi. Le donne beduine da una parte vogliono essere socialmente accettabili, rispettando i confini tra uomo e donne e rispondendo all’ideale di una donna ma dall’altra ricorrono ad altri modelli come la poesia beduina, molto struggente, che esprime sentimenti d’amore, di attaccamento e di perdita. Sentimenti velati che non si possono esprimere nel discorso quotidiano e che contraddicono quegli altri modelli, ma convivono in quelle stesse persone: in questo modo si creano dei modelli divergenti. Questo è un modo di denigrare gli altri, perché i loro modelli non coincidono con i propri. L’ inculturazione e il caso di Victor Un altro tema chiave è quello dell’inculturazione, ossia il modo in cui la cultura viene incorporata nel corpo. Si tratta di tutti i modelli attraverso i quali le persone incorporano la cultura del proprio gruppo, e che soprattutto nelle fasi d’infanzia costituiscono le modalità con cui la cultura entra dentro di noi e plasma i corpi umani; diventiamo ζωη e non solo βίος. (La vita in generale, i modi in cui si volge la nostra vita e non solo il modo in cui viviamo nel mondo, come la vita contemplativa, la vita politica ecc…). Come spiegato, la cultura non è solo una questione di idee o di valori astratti, ma si manifesta concretamente nel modo in cui ci vestiamo, mangiamo, ci muoviamo e viviamo quotidianamente. Il corpo, quindi, diventa un “luogo” dove si esprime la cultura e dove essa si radica profondamente attraverso l’esperienza e la pratica. Questo discorso si collega anche all’alimentazione, dove modelli come il “veganesimo” o il “vegetarianesimo” o possono essere visti come nuove forme di religione laica, in cui il corpo è disciplinato secondo regole e credenze precise. I pitagorici nell’antica Grecia erano vegetariani, con scopo rituale, rifiutando gli eccessi. Anche in questo caso, si tratta di modelli culturali che plasmano il corpo in base a un sistema di valori. Un esempio di mancata inculturazione fu studiato dalla “Société des Observateurs de l’Homme” è stata una società scientifica fondata in Francia durante l’epoca di Napoleone, alla fine del Settecento (1799-1804). Questa società si dedicava allo studio della geografia umana e delle scienze umanistiche, tra cui la psicologia e la pedagogia. Gli studi condotti dalla Société hanno gettato le basi per la pedagogia moderna, ma la loro esistenza fu breve, poiché Napoleone era più interessato a guerre e conquiste, piuttosto che al finanziamento della ricerca scientifica. Tra i membri più attivi di questa società c’era Jean-Marc Gaspard Itard, uno psicologo e pedagogista che studiava, in particolare, il comportamento umano e l’educazione dei bambini. Durante la sua attività nella Société, si verificò un evento straordinario: alcuni contadini trovarono un ragazzo, conosciuto come Victor, che era emerso da una foresta. Victor sembrava più simile a un animale che a un bambino; era sporco, con capelli lunghi e disordinati, e si muoveva a quattro zampe, comportandosi in modo simile a una scimmia. Non sapeva parlare e la sua condizione sollevò grandi interrogativi. I contadini, inizialmente, decisero di vendere Victor ad un circo, ad una compagnia circense, dove veniva esibito come fenomeno da baraccone. Tuttavia, la Société des Observateurs de l’Homme, venuta a conoscenza del ragazzo selvaggio, utilizzò i propri fondi per acquistarlo e portarlo a Parigi. Qui, Itard iniziò a condurre uno studio approfondito sull’educazione di un bambino che non aveva mai ricevuto una formazione durante la sua prima infanzia. Si sospettava che Victor fosse stato abbandonato in fasce dai genitori e fosse sopravvissuto in modo eccezionale. È importante notare che Victor non era un caso isolato; nella storia delle scienze umane, ci sono stati circa cinquanta casi documentati di bambini trovati dopo essere stati abbandonati, cresciuti al di fuori di qualsiasi contesto socioculturale. Victor era cresciuto da solo in un bosco e non aveva sviluppato alcuna forma di inculturazione. Non aveva imparato a emettere suoni in modo articolato, né a parlare correttamente. Nonostante gli sforzi di Itard, Victor non riuscì mai a imparare a parlare fluentemente, così come non imparò mai a camminare eretto, visto che sono comportamenti appresi attraverso l’osservazione e l’imitazione degli altri nella società. Itard, tuttavia, riuscì a insegnare a Victor alcune abilità basilari, come l’uso delle posate per mangiare e principi morali, distinguendo tra giusto e sbagliato. Un esperimento interessante condotto da Itard prevedeva di rimproverare Victor per un’azione che non aveva commesso, e la ribellione di Victor dimostrò che avesse compreso il concetto di giustizia. Alla fine, la società fu costretta a chiudere per mancanza di fondi e Jean Itard dovette così rinunciare all’educazione di Victor (coloro che in seguito seguirono il ragazzo lo definirono ‘‘disabile’’). Il caso di Victor illustra un punto cruciale: se un individuo non viene inculturato, rimane in uno stato primitivo, quasi animale. La cultura è fondamentale per lo sviluppo umano e determina aspetti come la postura e il linguaggio. La storia di Victor si confronta con quella di Mowgli, il famoso personaggio del “Libro della Giungla” di Rudyard Kipling. Mowgli, cresciuto tra gli animali, sviluppò una forma di umanità che Victor non riuscì mai a raggiungere. Mowgli, infatti, sapeva camminare eretto e usare strumenti, mentre Victor rimase ancorato a un comportamento animale, dimostrando che senza l’inculturazione, l’essere umano non può sviluppare le capacità che definiscono la nostra umanità. (Mowgli utilizzava il fuoco e per bere utilizzava una noce di cocco, ma questo non è possibile perché fa parte della cultura materiale, appresa da determinati modelli osservati e imitati). La storia di Victor e le osservazioni di Itard dimostrano che il corpo umano è il luogo in cui si manifesta la cultura, e la disciplina del corpo varia significativamente tra le diverse culture. La cultura plasma i corpi attraverso pratiche sociali e rituali che definiscono la nostra identità. Esempi di questo si possono osservare nelle cerimonie di circoncisione, definito da alcuni musulmani come il passaggio dall’infanzia all’età adulta. La circoncisione consiste nell’esportazione di una parte del corpo che segna un intervento del gruppo sul corpo stesso. I Papuani furono i primi ad apprendere questa pratica dagli Occidentali, che venne adottata per diventare come i ‘‘bianchi’’. Altre pratiche sono i tatuaggi (tattoo) molto diffusi nelle culture oceaniche che segnano un passaggio, il modo in cui la cultura si imprime sul corpo delle persone. Per esempio, nelle culture indigene australiane viene rappresentato sul gruppo il simbolo del gruppo totemico a cui appartengono. Ogni gruppo ha il suo totem che, solitamente, è un animale, che viene disegnato sulla terra e sul corpo con tatuaggi rimovibili. Altre forme di modifica corporea sono le scarificazioni, ovvero tagli superficiali e cicatrici, che conferiscono significato e appartenenza ad un determinato modello. Le forme di ortoressia o di body-building sono anche definite come una plasmazione del corpo umano secondo modelli culturali. Altre parole derivano dalle culture oceaniche, come la parola TABÙ. I polinesiani indicavano con questa parola qualcosa o una persona alla quale non tutti possono accedere: è qualcosa di sacro come per noi l’ostia, considerata come un oggetto a cui non tutti hanno accesso, ma si accede solo tramite un’iniziazione. I primi missionari in Oceania fraintesero il significato della parola “tabù,” intesa come qualcosa di sacro o riservato. Essi desideravano diffondere il Vangelo, il “libro sacro”, ma udendo il termine “tabù,” associato al sacro, iniziarono a chiamarlo “libro tabù”. Tuttavia, questo portò a incomprensioni, poiché per i cristiani la Parola di Dio è destinata a tutti e non a un ristretto numero di persone. Quando entriamo in contatto con altre culture emergono dei confini. Abbiamo percezione della differenza principalmente mediante la lingua collegata al corpo che è qualcosa di fisico e corporeo. Una lingua diversa ci fa vedere delle differenze fisiche che quando la lingua è la stessa scompaiono. Un esperimento di un sociologo americano Le Pierre dimostrò questo; infatti, egli negli anni 20 in Texas provò a mandare una coppia di cinesi che parlavano cinese e indossavano abiti tipici cinesi in alcuni ristoranti ma vennero rifiutati; in realtà questi erano cittadini americani, parlavano perfettamente l’americano e normalmente si vestivano in abiti occidentali. In questi altri panni i due furono accolti nei ristoranti. Questa è un’evidenza di come proprio la cultura ci plasma e disciplina i nostri corpi. IL CORPO DIVENTA IL LUOGO DI MESSA IN SCENA DEL SÉ COLLETTIVO E SOCIALE. Pertanto, la cultura non è un concetto astratto, ma una realtà vivente che si manifesta attraverso le azioni e i comportamenti delle persone, con pratiche definite antropopoietiche (costruzione del corpo umano). 1.3 LA CULTURA Il corpo umano che interessa alla medicina è anche un corpo culturale, un corpo socioculturale, che viene disciplinato dalla propria cultura, sulla base della propria crescita dentro un determinato gruppo sociale. Ad esempio, analizzando le reazioni d’istinto, possiamo vedere come quello che a noi sembra istinto, in realtà, è una risposta del corpo. È una reazione a stimoli esterni, che sembra irriflessa, spontanea, immediata. EPISODIO MATERAZZI-ZIDANE In quest’immagine è rappresentato ciò che è successo durante i mondiali del 2006, durante i quali Zidane (la parola araba Zin-e-dine significa la bellezza della fede) ha dato una testata laterale a Materazzi perché aveva ricevuto degli insulti riguardo sua madre. Potremmo dire che ha reagito d’istinto, ma quello che noi chiamiamo “istinto”, in realtà, è una reazione condizionata dai modelli culturali che sono stati assorbiti, interiorizzati attraverso il processo di inculturazione, che non riguarda solo la nostra mente, ma anche il corpo: in questo caso la rabbia di fronte a un’offesa. Da cosa dipende quel tipo di reazione? Dipende appunto dai modelli culturali. Questo grande calciatore è cresciuto nelle periferie di Marsiglia, dove ha imparato a interagire con gli altri, a rispondere agli altri e a reagire in un certo modo: un apprendimento fatto sulla strada e non nella scuola. L’apprendimento porta il corpo a reagire in un determinato modo. È nato in Francia, in una regione che si chiama Cabilia, da una famiglia algerina. In questa zona sono stati intrapresi molti studi antropologici, come dal grande antropologo Pierre Bourdieu, il quale ha studiato la cultura dell’onore della Cabilia. La cultura dell’onore si riferisce ad un complesso di modelli che portano gli uomini a considerare una persona socialmente compiuta, come una persona onorevole. L’onore deve essere messo in gioco attraverso sfide, attraverso doni (l’atto del dono è sempre una sfida, viene fatto in maniera apparentemente disinteressata, ma in realtà col passare del tempo ci si aspetta venga ricambiato con un dono di egual misura; chi non risponde con un dono di egual misura non è allo stesso livello di chi ha fatto il primo dono), attraverso la generosità di pranzi, feste. Tale ONORE viene detto NIF, onore maschile, ma che in realtà vuol dire naso, quindi l’onore maschile risiede nel naso, punto più esterno del nostro corpo. Gli abitanti della Cabilia credono che ci sia anche un onore femminile chiamato ORMA, che vuol dire onore sacro, onore che deve essere conservato e non deve essere messo in gioco. Mentre gli uomini attraverso delle sfide reciproche e delle piccole offese possono mettere in discussione il NIF, la ORMA non può essere messa in discussione. Di fronte ad un’offesa verso una donna della famiglia, verso la ORMA di quella famiglia, l’unica risposta possibile è l’omicidio. Zidane ha, quindi, interiorizzato i modelli cabili, la cultura d’onore e ha ritenuto importante rispondere a tele offesa. INCORPORAZIONE DEI DISAGI- NATURALIZZAZIONE DELLA NATURA- CULTURALIZZAZIONE DELLA NATURA Il corpo può anche rispondere ai disagi, attraverso l’incorporazione dei disagi; per esempio, ci sono una serie di malattie che non sono individuali, ma dipendono dalle condizioni storiche di un intero gruppo. Possiamo pensare al trauma storico degli afroamericani e dei nativi americani, una vera e propria forma di sofferenza psichica, che deriva dalla storia dello schiavismo e del commercio degli schiavi, dall’Africa, dove gli schiavi erano costretti a lavorare nelle piantagioni, fino all’America centrosettentrionale: risultano essere, perciò, discendenti degli schiavi. Dal 1800 fino al 1960, gli Stati Uniti sono stati i protagonisti di una grande emancipazione e, durante quegli anni, hanno cercato di interiorizzare la sofferenza di tutto il loro gruppo, manifestando, nel corso del tempo, una serie di problematiche a livello psicofisico comuni a tutto il gruppo, collegate alla storia del gruppo stesso. I nativi americani, i cosiddetti indiani, invece, nel corso del tempo hanno visto il loro territorio distrutto, la loro cultura subordinata a quella europea, sviluppando così, anche loro, una serie di malesseri come l’alcolismo, la dipendenza da sostanze: non sono problemi individuali, ma problemi di gruppi interi. Questo genere di malattie, risultato di un’incorporazione di un disagio sociale, sono una serie di malesseri sviluppati nel Sudamerica, in particolare in Brasile, dove ci sono epidemie di malesseri nervosi che hanno vari nomi (nervos, sustos, pasmos, sono insieme di sintomi che invadono la componente nervosa, gli spasmi fisici, e nel caso del sustos si ha come effetto una forte depressione), che colpiscono gruppi interi. Circa 15 anni fa ci fu un terremoto nella regione di Oaxaca in Messico, in seguito ai danni e alla sofferenza arrecati a tutti gli abitanti di quella regione, c’è stata un’epidemia di sustos. Questo ci fa capire che la cultura in qualche modo agisce anche sulla natura, le componenti culturali agiscono sulle componenti biologiche, ossia naturali dell’essere umano. Il corpo diventa, quindi, un corpo inculturato. Tra natura e cultura c’è una stretta interrelazione, di solito si pensa che la cultura e la natura siano due concetti opposti, in realtà interagiscono nell’essere umano (sia le componenti culturali sia naturali): questo è un processo di naturalizzazione della cultura. La cultura viene, dunque, naturalizzata nel corpo umano. L’apprendimento dei modelli culturali avviene sin dall’infanzia, ma noi eliminiamo le tracce di tutti quegli insegnamenti non verbali che abbiamo assorbito lentamente per imitazione o stando all’interno del gruppo, cioè dimentichiamo che siano insegnamenti della nostra cultura, cancellando l’inculturazione e, andando così, a naturalizzare la nostra cultura. La nostra componente naturale è limitata rispetto a quella culturale. Come afferma Morris, “l’essere umano è una scimmia nuda”: l’homo sapiens possiede poche risorse innate e impara a fare quasi tutto grazie alla cultura. La creazione di oggetti, ad esempio, è frutto della cultura. Quando reagiamo istintivamente, crediamo che sia la nostra natura a guidarci, ma spesso si tratta di risposte apprese. Il nostro stile di vita, apparentemente spontaneo, è in realtà il risultato di un lungo processo in cui la natura interviene per modellare le nostre capacità cognitive, i comportamenti e persino il nostro corpo, nascondendo poi le tracce di questo processo. Così, la cultura si impone come se fosse naturale: è la “naturalizzazione” della cultura. La nostra cultura, quindi, diventa qualcosa di naturale, che ci porta a reagire naturalmente. La cultura non è qualcosa che fa ‘‘muovere’’ le teste, è quella che fa reagire i corpi, fa percepire emozioni, sensazioni, ci fa vivere, scegliere e agire. ESEMPI DELLE DIVERSE INCULTURAZIONI IN RIFERIMENTO ALLE CULTURE ALIMENTARI: La nostra cultura riprova la pratica alimentare di mangiare il cane, ma proveremmo disgusto all’idea di mangiare il cane. Sono modelli alimentari che escludono l’idea di mangiare determinati animali, come i cani, i gatti, ma anche modelli culturali di famiglia: il cane nella nostra cultura è considerato un membro della famiglia, un amico (dal momento che nella nostra cultura col passare del tempo l’essere umano ha instaurato relazioni strette prima con i lupi, poi con i cani). Per un musulmano mangiare maiale è disgustoso. È un’interiorizzazione di un modello culturale: non mangiare il maiale non deriva dal Corano, ma perché la cultura stessa porta la persona a scegliere questo determinato modello. Gli indù hanno una religione politeista, in cui ci sono molte divinità che hanno forma animale, come una forma di elefante o una forma di mucca. Per loro una mucca è come un animale domestico, animali che hanno una certa familiarità. Le mucche nella loro cultura circolano libere per le strade, un po' come, per noi, i cani e i gatti randagi. In questo caso il loro modello culturale porta a non mangiare la mucca. Il processo inverso alla naturalizzazione della cultura è la culturalizzazione della natura. La natura è qualcosa di neutro, non ha alcun valore simbolico. La natura sta lì, noi dobbiamo comprenderla, interpretarla per poi utilizzarla. Comprendiamo il mondo per i nostri scopi, ma con i nostri occhi. Culture diverse vedono colori diversi, il colore è una reazione dell’occhio a uno stimolo dello spettro elettromagnetico e non ha in sé alcun valore. Per esempio, nella nostra cultura il colore del lutto è nero, ma in India è il bianco (colore per noi della purezza del matrimonio). I colori in sé non hanno alcun valore, sono risposte dei valori culturali interiorizzati lentamente col nostro processo di inculturazione che ci porta a reagire in un certo modo agli stimoli esterni. La natura non ha significato, la cultura glielo dà. Per esempio, cosa sono le fasce d’età? Cosa vuol dire essere bambini, adolescenti, adulti, anziani? Non c’è alcun significato universale in questi passaggi. La nostra legge dice che a 18 anni siamo adulti, ma nella nostra cultura il 18enne non è un adulto, ma un ragazzo. Nella nostra cultura un adulto è maturo, indipendente, ma la maturità e l’indipendenza, ormai, sono valori che si raggiungono sempre più tardi (per esempio l’indipendenza si raggiunge dopo aver ottenuto un lavoro, una stabilità economica). L’adultità nella nostra cultura è procrastinata. Non è, quindi, la natura che fa sì che a una certa età una persona diventi adulta. Ci sono, invece, culture in cui si diventa adulti quando si genera un figlio. Nella cultura araba mediorientale, per esempio, quando una persona ha un primo figlio cambia il proprio nome, assumendo un tecnonimico, ossia il nome del figlio. Se mi chiamo Nain e ad una certa età genero un bambino (indipendentemente dall’età), che chiamo Mohann, la gente smette di chiamarmi Nain e inizia a chiamarmi “padre di Mohann” (per la moglie sarà sempre Nain). Questo è il tecnonimico, che indica il passaggio in età adulta, che è considerata la nascita del figlio. Questo nella cultura araba avviene per il figlio maschio, quando nasce la figlia femmina non si cambia il nome. La nostra cultura ha inventato l’adolescenza. Il passaggio all’età adulta in molte culture non è caratterizzato da momenti intermedi (come la nostra adolescenza), ma esiste solo il momento in cui il bambino diviene adulto. I bambini di un determinato gruppo, gli Orokaiva, un popolo della Papua Nuova Guinea, in questa fase vengono allontanati dal proprio gruppo, vanno a vivere da soli, affrontando situazioni pericolose e mettendo a rischio la loro esistenza, ma, poi, quando tornano (non tutti sopravvivono) sono considerati adulti. Questo è un passaggio repentino. La nostra cultura, invece, ha inserito un passaggio lungo che è l’adolescenza, che non esiste in tutte le culture. Si è iniziato a parlare di adolescenza intorno agli anni ‘60/’70 del 900, quando la cultura occidentale ha iniziato a percepire questa necessità di procrastinare il passaggio all’età adulta per tante ragioni, come per difficoltà a iniziare a lavorare. La parola adolescente deriva dal latino “adolesco”, che significa ardere; l’adolescenza è considerata un periodo di ardore, di incendio, di necessità dei bambini di bruciare tutto, di crescere in maniera repentina. La natura ha comunque influito sul nostro corpo, i bambini maschi, per esempio, manifestano la crescita pilifera durante i 12/13 anni; invece, le ragazze manifestano il loro passaggio con il menarca. Questi sono passaggi che ci sono in tutti gli esseri umani, ma non tutti gli esseri umani attribuiscono a questi passaggi lo stesso significato. Diventare anziani nella nostra cultura è considerata una fase di abbandono, di allontanamento dalla società. Nella nostra cultura, che è molto legata alla produzione, gli anziani escono dalla catena produttiva perché sono considerati un peso, ma in altre culture, invece, gli anziani sono considerati il centro del gruppo: si pensi alla parola “sceicco”, che significa sia anziano sia capo, gli anziani sono capi. Per la nostra cultura il passaggio alla menopausa per le donne è considerato un fenomeno triste e pesante, invece, ci sono culture per cui è considerato un fenomeno bello, una consecuzione di un’indipendenza dalla natura. È il caso delle donne beduine festeggiano l’arrivo della menopausa perché non sono più legate a quel vincolo della natura che le costringe a sanguinare tutti i mesi. Le donne, infatti, in questa cultura sono considerate meno indipendenti rispetto agli uomini perché gli uomini non hanno legami con la natura (secondo la cultura beduina, non secondo l’essere umano generale). Ancora, per le donne brasiliane la menopausa è considerata una vera e propria malattia. Anche la nascita, momento fondamentale della vita, è profondamente influenzata dalla cultura. Nascere non è solo un processo naturale, ma anche un atto culturale. Nella nostra società, per esempio, la scienza consente la nascita senza fecondazione naturale, come nel caso della gestazione per altri; la cultura, quindi, interviene nella creazione della vita, rendendo possibile generare nuovi individui anche senza l’atto sessuale. La riproduzione diventa così una risposta culturale a un’esigenza biologica. Anche il matrimonio, una delle strutture che regolano le unioni, varia in base alle culture. La creazione di legami familiari è un processo complesso che risponde sia a esigenze evolutive che sociali, e la famiglia, di fatto, è una costruzione culturale, non una realtà puramente naturale. L’essere umano ha delle esigenze naturali, ma noi, come esseri umani, non rispondiamo direttamente a nessuna delle esigenze naturali, come mangiare. La soddisfazione dell’esigenza naturale non è diretta, deriva dalla cultura: mangiare è un fatto culturale, per questo ogni gruppo umano mangia cose diverse, attribuisce un valore positivo a determinati alimenti, mangia con persone diverse, con modi diversi. La nostra è una cultura che pone un forte distacco, una separazione, un distanziamento nell’alimentazione tra la soddisfazione e l’esigenza. Noi usiamo le posate, che fanno parte della nostra cultura materiale. Se ci chiedessimo a che servono le posate risponderemmo a non sporcarsi oppure ad usarle in modo educato. Il significato profondo deriva dall’idea che le posate sono utilizzate per non toccare il cibo, perché noi vogliamo porre una distanza tra il corpo e il cibo. In alcune culture questo non accade, come nella campagna senegalese, dove la gente mangia il riso con le mani, tutti nello stesso piatto, c’è meno distanza, ma c’è comunque la distanza perché nessun essere umano mangia per terra. La nostra cultura pone un grande distacco e, inoltre, non consente di provocare rumori a tavola durante il pasto perché considerato maleducato. Al contrario, nelle campagne tunisine far sentire dei piccoli rumori è considerato una cosa educata, un simbolo di approvazione. Nelle città tunisine, invece, dove c’è una forte presenza di modelli di origine francese, avviene l’esatto contrario, in quanto la cultura francese pone un distacco superiore al nostro tra il cibo e l’atto di mangiare. (Se diciamo a una persona francese “Bon appétit”, ci guarderà male, dire “buon appetito” è come dire “buona digestione”, significa far riferimento a un processo fisico, che, invece, va allontanato: infatti nella cultura francese durante i pasti bisogna parlare, si trova un argomento, ma non si parla del cibo per distanziare, al contrario dell’Italia dove si parla di cibo). LE QUESTIONI DI GENERE Nella nostra cultura siamo abituati a pensare che esistano due generi, ma in realtà esistono due sessi, sesso maschile e sesso femminile (ci sono casi rari di ermafroditismo, ma sono deformità del corpo). I generi non sono due e nella nostra cultura attraverso i movimenti di LGBTQ+, per esempio, sono stati promossi anche altri generi nella società civile. La nostra è una cultura che sta iniziando a concepire anche l’esistenza di altri generi, ma ci sono culture in cui pensare che ci siano solo due generi è un fatto consolidato e tradizionale. Per i nativi americani, ad esempio, oltre al genere maschile e femminile, esisteva un genere intermedio che veniva chiamato “BERDACHE” che indicava i bambini nati maschi, con gli organi genitali maschili, ma che venivano educati come bambine. Questo accadeva nella società degli agricoltori, cacciatori o raccoglitori, che avevano una forte separazione fra i generi in relazione alle attività: i bambini andavano a caccia, mentre le bambine imparavano a lavorare il cibo, a conservarlo, a prepararlo. E quando in un nucleo familiare c’erano solo bambini maschi e nessuna bambina femmina, chi avrebbe imparato quelle cose? Tale modello culturale consentiva che ci fosse un terzo genere, ossia un bambino potesse venir educato come bambina, poi quando diventava adulto sceglieva la strada che desiderava. Questa è una cosa diffusa in molte culture, per esempio nella cultura della campagna rurale tradizionale esisteva la figura del femminiello, che era un transessuale maschile, che addirittura era una configurazione particolare della Vergine Maria che lo protegge. Un altro episodio accade anche per i beduini, infatti nei confronti dei bambini maschi sono più tolleranti quando fanno capricci, in quanto, secondo la loro cultura, il bambino maschio capriccioso, crescerà con un carattere forte. Non è la natura che porta l’essere umano a stare al mondo in un certo modo, ma è la cultura. Questo ci fa capire che l’antropologia è il discorso che cerca di capire cos’è l’essere umano (antropos+ logos= ragionamento sull’essere umano). Noi facciamo dei ragionamenti scientifici su cosa sia l’essere umano secondo le diverse culture: tutte le culture provano a dire cos’è l’essere umano dal loro punto di vista. Per esempio, nel nostro dialetto la persona si dice cristiano, dunque si potrebbe pensare che un musulmano non sia un essere umano vero e proprio. Questo incide sulla interiorizzazione del linguaggio: noi, infatti, abbiamo interiorizzato attraverso la nostra espressione verbale il nostro modo di pensare. Abbiamo adottato un modello culturale linguistico che ci porta a pensare al nostro antropos preferito, i ‘‘cristiani”. Oggi, quando utilizziamo questa parola ci riferiamo alla religione cristiana, ma nel corso del tempo essere cristiani voleva dire stare al mondo in maniera pienamente adeguata, riconosciuta; per esempio, gli ebrei non erano riconosciuti pienamente come cristiani, così come altri gruppi umani. Nella visione etnocentrica, gli altri non sono propriamente essere umani, ne è esempio la cultura ROM. La parola ROM significa persona, il ROM è una persona, gli altri sono i GAGI, ossia gli stranieri. Essi sono un popolo che vive in maniera diversa rispetto alla società che li circonda, di fatti vengono definiti come una minoranza etnica, assimilata o meno che sia. Molti ROM nel corso del tempo si sono integrati con il resto della società, accantonando la propria cultura, mentre altri hanno mantenuto la loro identità e la loro lingua (identità culturale). ANTROPOFAGIA RITUALE Per i Papuani questo oggetto, oggi venduto come pettine africano, veniva utilizzato per mangiare la carne umana. Per i Bimin-Kuskumin l’essere umano è un buon cannibale. L’uomo infatti mangia la carne umana, ma non la mangia a scopi alimentari, ma a scopi rituali. Cacciatori e raccoglitori interagivano con altri gruppi umani, oltre alle semplici relazioni, con dei combattimenti periodici finalizzati non a prevalere, conquistare, sterminare l’avversario, ma a continuare la relazione nel corso del tempo. Alla fine del combattimento ci sono i vincitori e i vinti, stabilendo così chi fosse il più forte. I vinti venivano catturati e portati nei villaggi e per un periodo piuttosto prolungato venivano riservate loro le migliori cure, quelle riservate all’aristocrazia. Ricevevano da mangiare gli alimenti migliori, dormivano nelle capanne, avevano la possibilità di avere relazioni sessuali con le donne del villaggio: avevano privilegi riservati agli ospiti considerati più sacri; infatti, era una cultura dove c’era parità di genere. Dopo questo periodo in cui venivano trattati come sovrani, gli ospiti venivano uccisi, cucinati e i guerrieri che li avevano sconfitti mangiavano la loro carne. Si tratta di un’antropofagia rituale: il bimin era colui che praticava il rituale, spinto ad uccidere e cibarsi di carne umana, non per il sapore, ma per il rituale stesso. I bimin, dal loro punto di vista ritenevano che altrove ci fossero altri gruppi umani che praticavano altri tipi di antropofagia e lo facevano addirittura per il gusto della carne umana, descrivendoli così come mostri. Loro, dunque, pensavano di compiere un’antropofagia moderata. L’eucarestia, mangiare il corpo di Cristo, è un simbolo di antropofagia rituale. Secondo i cristiani, infatti, per il fenomeno della transustanziazione non è il simbolo, ma è il corpo di Cristo e quindi anche il cristiano è antropofago. Quando gli antichi imperatori romani, fino a prima di Costantino, hanno perseguitato i cristiani, lo hanno fatto sulla base di una serie di riferimenti giuridici che consentivano loro di condannarli e tra le accuse c’era quella del cannibalismo (i cristiani oltre a non riconoscere la divinità nel loro princeps, erano cannibali). Per chi ha una mentalità cristiana o è cresciuto in un contesto cristiano, ogni persona è costituita da due elementi fondamentali: uno spirituale e uno fisico, definiti rispettivamente come psiche e corpo. Questo concetto è significativo nel campo della medicina, dove si riconosce l’importanza della relazione tra mente e corpo per il benessere dell’individuo. Tuttavia, la biomedicina tende a concentrarsi prevalentemente sulla cura del corpo, separandolo dalla sfera psicologica. Un esempio interessante di come la cultura influenzi la percezione umana è il saggio antropologico Papalagi, scritto da Tuiavii di Tiavea, un capo samoano, insieme a un viaggiatore tedesco. In quest’opera, viene descritto il “papalagi,” termine che indica l’uomo bianco. Il saggio ha un valore significativo poiché ci mostra quanto sia utile, per comprendere noi stessi, osservare il punto di vista che altri hanno su di noi. Ad esempio, i samoani percepiscono i vestiti come una sorta di pelle artificiale, poiché nella loro cultura è insolito coprire il corpo in quel modo, e definiscono le scarpe come “canoe” per la loro forma e funzione sconosciuta. Questo ci insegna che quando una cultura non possiede un oggetto o concetto, spesso non ha nemmeno le parole per descriverlo accuratamente; infatti, se un oggetto è estraneo alla nostra cultura, tendiamo a paragonarlo a qualcosa di familiare, come accade con le scarpe, interpretate dai samoani come canoe. I principi dell’evoluzione biologica erano gli assunti teologici più importanti per l’antropologia culturale nel periodo della formazione della disciplina. I primi antropologi avevano una formazione di tipo evoluzionista, credevano che, come le specie animali, si fossero evolute anche le società si fossero evolute; quindi, esistevano società civilizzate e società primitive. A lungo l'antropologia è stata intesa come uno studio condotto da ricercatori “Bianchi”, Europei e Nordamericani sulle culture “non Bianche” e non Europee o Nordamericane; infatti, gli antropologi erano visti come parte del mondo che conquistava il resto del mondo attraverso il colonialismo e attraverso l’espansione; oggi per non è più così, ci sono antropologi che provengono da contesti che un tempo venivano soltanto studiati dagli antropologi. L’antropologia parte dallo studio delle culture locali (o micro-culture), cioè l’insieme di specifici schemi di comportamento e di pensiero appresi e condivisi che si riscontrano presso una determinata area e un particolare gruppo umano, le culture (insiemi di comportamenti, modi di rappresentare il mondo, modelli). Nascono così dei concetti che riguardano le relazioni tra culture diverse, in una scacchiera globale: - LO SCONTRO DI CIVILTÀ: L’espansione globale del capitalismo e degli stili di vita euroamericana ha generato delusione, alienazione e risentimento presso gli altri sistemi culturali; infatti, molte persone, come leader politici e intellettuali, hanno iniziato a pensare che le culture non possono essere messe in relazione le une con le altre, dunque sono tra di loro incompatibili. - MCDONALDIZZAZIONE: Il mondo sta diventando culturalmente omogeneo, influenzato dalla cultura dei fast food e dai suoi principi, come l’evoluzione di massa, la velocità e i servizi impersonali. Dunque, molti studiosi di fronte al Big Mac, ad alcuni simboli culturali che si vedono in tutto il mondo, pensano che si stia espandendo una cultura unica, globale, forte, più forte delle altre, che sta dominando tutte le altre. - IBRIDAZIONE: o anche detta sincretismo, si ha quando gli aspetti di due o più culture si combinano tra loro per formare qualcosa di nuovo, ossia un ibrido. Quando le culture si incontrano non restano spesso isolate o uguali a come erano, ma posso scambiarsi. Un esempio di ibridazione è quando la cultura cristiana si è espansa in tutto il mondo e non ha soppiantato le altre culture, ma si è messa in relazione con esse. In particolare, possiamo pensare al fenomeno del Tarantismo: era un fenomeno principalmente precristiano, anzi era considerato pagano dai missionari gesuiti che, oltre ad andare in Sud America, si recavano in Puglia ad evangelizzare i contadini tarantini. Il Tarantismo non fu soppiantato di colpo, ma il cristianesimo si impiantò su quel sistema inserendo delle figure di santi. - LOCALIZZAZIONE: Opposta al concetto di Mcdonaldizzazione, che mette in risalto la trasformazione della cultura ad opera delle micro-culture locali. In molti contesti asiatici, i loro avventori rifiutano il modello consumazione rapida del cibo e insistono per poter restare più tempo libero con la propria famiglia, così, hanno adattato queste loro esigenze, servendo i clienti in maniera più lenta e in modo da consentire un ricambio più lento ai tavoli. Per esempio, in Arabia Saudita, invece, il fast-food statunitense mette a disposizione delle famiglie delle aree separate da quelle dedicate agli uomini che consumano il loro pasto da soli. Le donne non accompagnate non possono entrare nei McDonald’s, ma la compagnia garantisce un servizio a domicilio. Quindi qualsiasi genere di forma economica o culturale occidentale che arriva in tutto il mondo non soppianta le culture esistenti, ma ci sono delle forme di adattamento. Un altro concetto importante è quello di AGENCY, ossia la capacità dei singoli di compiere scelte e di esercitare il libero arbitrio, ovvero il potere che gli individui hanno di trasformare la cultura opponendosi alle strutture esistenti o modificandole. Le culture sono modelli complessi a cui noi possiamo rispondere oppure no, non siamo costretti ad agire in un certo modo dalle culture, questo perché c’è la capacità personale, soggettiva di stare al mondo. La cultura è un insieme organico e coerente. Lo studio di pochi aspetti di una data cultura fornisce una comprensione limitata. Quando si studia una cultura bisogna cercare di studiarla sotto tutti gli aspetti. Quando, per esempio, studiamo il cannibalismo dei Bimin Kuskumin, non possiamo studiare soltanto la cultura alimentare di questo popolo, altrimenti penseremmo che sono dei mostri che mangiano altri uomini, ma bisogna studiare anche la loro religione, la loro economia. Tutti i gruppi umani esistenti possiedono una cultura; potrebbero esistere persone non acculturate, ad esempio persone analfabete, ma in questo caso non si parla di cultura antropologica e quindi di cultura intesa come modelli di vita. L’effetto dell’’etnocentrismo è stata la dominazione culturale. L’etnocentrismo pone il nostro gruppo umano al centro e tutti gli altri in periferia: noi siamo etnocentrici e quindi automaticamente consideriamo la nostra cultura superiore, migliore delle altre, anche senza accorgercene. Basti pensare al fatto che chiamiamo tutte le persone “cristiani”, quando in realtà non è detto che tutte le persone siano cristiane, oppure il fatto di considerare inusuale il velo nella cultura musulmana è un perfetto esempio di comportamento etnocentrico. L’etnocentrismo ha fatto sì che alcune culture più potenti di altre sul piano politico, economico e militare abbiano conquistato il resto del mondo (esempio: quando i Francesi conquistarono l’Algeria, la loro idea non era solo quella di conquistare un territorio, ma anche quella di infondere la loro cultura a un popolo che era rimasto ‘‘indietro’’, stesso discorso per gli Inglesi che conquistarono l’India). Il RELATIVISMO CULTURALE è un concetto opposto a quello di etnocentrismo. Secondo il relativismo culturale tutte le culture vanno valutate come se fossero sullo stesso piano e prevede quindi una sospensione del giudizio, ossia non bisogna giudicare i costumi culturali, in base a standard vigenti in contesti culturali diversi. Non bisogna giudicare, dunque, una cultura in base alla nostra idea, ma in base ai modelli della cultura stessa, comprendendo le singole culture a partire dalle loro idee e culture. FUNZIONALISMO: culture agli organismi biologici, le cui singole parti collaborano al funzionamento dell'intero insieme. INTERPRETATIVISMO: comprendere una cultura concentrandosi su ciò che le persone pensano, sui simboli e i significati che ritengono importanti. RIFLESSIVISMO: la cultura non è un oggetto di laboratorio analizzabile a prescindere dalla presenza dell'antropologo, poiché questi è calato nella situazione. Ciò mette in crisi la concezione "positivista” di una conoscenza scientifica oggettiva e neutrale. DETERMINISMO BIOLOGICO: cerca di spiegare il comportamento umano a partire da fattori biologici come i geni e gli ormoni. In quest'ottica, i comportamenti e i modi di pensare che danno vantaggi in termini riproduttivi hanno maggiori probabilità di essere trasmessi alle generazioni future. COSTRUZIONISMO