Antropologia 2023-2024 Dispense PDF
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Università degli Studi di Genova
2024
Stefania Consigliere
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These notes (dispense) cover the anthropology course at the University of Genoa. They explore the concept of the schism between nature and culture in anthropology, and the division within anthropology (biological vs cultural). The document discusses different methods and approaches to anthropological studies.
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Stefania Consigliere dispense del corso di antropologia università degli studi di Genova corso di laurea triennale in filosofia a.a. 2023-2024 Questo documento è pubblicato sotto licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale 2.5; può pertanto...
Stefania Consigliere dispense del corso di antropologia università degli studi di Genova corso di laurea triennale in filosofia a.a. 2023-2024 Questo documento è pubblicato sotto licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale 2.5; può pertanto essere liberamente riprodotto, distribuito, comunicato al pubblico e modificato; la paternità dell'opera dev'essere indicata; non può essere usata per fini commerciali. I dettagli legali della licenza sono consultabili alla pagina http://creativecommons.org/licenses/by-nc/2.5/ Modo d’uso Predisposte per la stampa fronte-retro, queste dispense contengono il programma completo dell’insegnamento di «Antropologia», la cui conoscenza è richiesta per il superamento dell’esame. Il testo è diviso in sette parti: la prima è una presentazione generale dei temi, della loro connessione e del loro senso; le altre sei trattano ciascuna un differente blocco di argomenti. Ciascuna di esse dispone di una bibliografia indipendente, dettagliata in nota. I richiami interni sono segnalati da un triangolo racchiuso fra parentesi. L’indice si trova in fondo al testo. Le monografie e gli articoli elencati in programma servono per approfondire criticamente, in maniera autonoma, uno (o più) dei temi trattati in queste dispense e con l’esposizione di tale approfondimento si aprirà l’esame. Essi vanno quindi scelti in modo da circoscrivere coerentemente il tema prescelto. parte prima la grande partizione Contro la naturalizzazione § 1. Una disciplina schizofrenica L’antropologia, come il nome stesso dichiara, è lo studio dell’umano: «discorso sull’umano», appunto. E qui cominciano i problemi. Il primo sta nel fatto che i discorsi sull’umano sono innumerevoli e, in un certo senso, ogni discorso è sempre anche un discorso sull’umano. Parlare di società, musica, letteratura, storia, politica, economia, architettura e moda significa senz’altro parlare dell’anthropos; ma anche parlare di matematica, fisica, chimica, astronomia significa chiamare in causa l’anthropos: sia perché, in quanto parti del mondo, gli umano sono anche fisica, chimica e misura; sia perché si tratta di campi di sapere specifici, storicamente definiti e poi tenuti in vita da particolari attività conoscitive – e quindi storici, mutevoli, soggetti ai rovesciamenti che caratterizzano le faccende umane. Quest’osservazione non mira ad allargare indefinitamente l’orizzonte di ricerca dell’antropologia, ma a ricordare che qualsiasi partizione disciplinare è sempre provvisoria e convenzionale; che fare ricerca significa saper chiamare in causa tutti i dati e le prospettive utili e, dove il caso, muovere verso nuovi dati e nuove prospettive. Il secondo problema riguarda un fatto assai curioso: con il nome “antropologia” s’intendono non una, ma due discipline scientifiche fra loro decisamente distanti, che fanno riferimento a tradizioni e scuole non sovrapponibili e che impiegano concetti e metodi del tutto differenti. Sotto una medesima etichetta, antropologia biologica e antropologia culturale sono separate in casa e, come avviene in questi casi, arrivano spesso alla reciproca ostilità. Questa situazione così strana è sintomo di qualcosa d’altro, e ben più profondo, che vale la pena indagare. In quanto disciplina scientifica, l’antropologia ha campi di ricerca circoscritti dalle tabelle ministeriali. In generale, essa si occupa della storia naturale dell’uomo (è questo il campo di ricerca dell’antropologia biologica) e della conoscenza degli usi e dei costumi delle popolazioni “altre” (campo d’indagine dell’antropologia culturale, o etnologia). Le due antropologie viaggiano separate: ciascuna ha i suoi metodi, i suoi concetti, i suoi numi tutelari, le sue cattedre, le sue piste di ricerca. Entrambe hanno prodotto quantità ragguardevoli di dati e di interpretazioni, che tuttavia raramente “si parlano” e che sembrano trattare di oggetti completamente differenti. Da un lato c’è lo studio degli umani in quanto specie biologica: come si sono evoluti (paleoantropologia), quale variabilità presentano, quali i caratteri genetici (antropologia molecolare) e fenotipici (antropometria), quali le tappe biologiche dello sviluppo (auxologia) ecc. Dall’altro lato ci sono descrizioni appassionanti, e spesso sorprendenti, dei modi di vita delle 1 popolazioni “non occidentali”: i sistemi matrimoniali, le credenze, le pratiche magiche, sciamaniche e religiose, l’organizzazione sociale, i modi della sussistenza ecc. Questa, quantomeno, è la partizione delle tabelle ministeriali italiane, che separano l’antropologia (settore scientifico-disciplinare BIO/08), disciplina che studia la biologia e l’evoluzione umana, dalle discipline demo-etno-antropologiche, che studiano gli usi e i costumi degli “altri” (settore scientifico-disciplinare MDEA/01). Altrove, le linee di discrimine sono tracciate in modo un po’ diverso (il sistema accademico statunitense, ad esempio, usa una partizione in quattro campi: antropologia fisica, antropologia socio- culturale, antropologia linguistica, archeologia), ma – semplificando un po’ – da nessuna parte la genetica umana è trattata dai medesimi scienziati che studiano i sistemi della parentela. In ciò non vi sarebbe nulla di male se fosse prevista, alla fine, la “ricomposizione dell’oggetto”: se, cioè, i due sguardi potessero giustapporsi a dare un’immagine più completa (per quanto “cubista”) del fenomeno umano. Così non è, il che è grave. Ma c’è di più. La dicotomia fra i due approcci non è un problema occasionale nel sistema delle discipline scientifiche, che possa essere superato con un po’ di buona volontà. Piuttosto, essa segnala qualcosa di più profondo, l’azione di una partizione che non è solo di superficie. La scissione che attraversa l’antropologia ricalca fedelmente, e riconferma, la partizione che separa le scienze hard dalle cosiddette scienze umane. Questa, a sua volta, ricalca e riconferma uno dei presupposti fondamentali della cosmovisione occidentale: quello che separa e oppone natura e cultura. § 2. L’opposizione di natura e cultura La separazione di natura e cultura ha una lunga storia, che risale alla filosofia greca classica. Nella sua versione originaria, proposta nella sua forma più limpida da Parmenide di Elea, essa si presenta come opposizione di essere e non essere: da un lato la sfera di ciò che è (immutabile, piena, vera e buona), dall’altro la sfera di ciò che non è (e che, non essendo, è mutevole, opinabile, manchevole di bontà e di giustizia). Dopo molte traversie storiche e concettuali, che attraversano l’intera storia della filosofia, la separazione arriva a declinarsi, fra Cinquecento e Seicento, come opposizione di natura e cultura o, per usare il vocabolario di Descartes, di res extensa e res cogitans. Questa vera e propria barriera ontologica nasce, nella sua accezione corrente, insieme alla scienza, alle prime esperienze coloniali e alla profonda ristrutturazione antropologica che apre la modernità. Questo lo schema soggiacente: tutti gli enti dell’universo condividono una medesima natura, universale, immutabile, necessaria, da apprendere come dato di fatto oggettivo. Ciò vale anche per gli umani: la materia che ci compone è la stessa che compone qualsiasi altro ente e soggiace alle medesime leggi, oggetto d’indagine delle scienze hard. Quest’universo completamente deterministico conosce una sola eccezione: l’anthropos, appunto, in cui alla materia si aggiunge qualcos’altro, una proprietà particolare che si declina in libera scelta, valori, desideri e in una molteplicità di modi di pensare, di sistemi familiari, di regimi dietetici, di organizzazioni sociali, oggetto di studio delle scienze umane e sociali. L’elemento ontologico che, secondo noi, ci rende unici è anche quello che permette di stabilire il primato etico della nostra specie: essendo liberi, possiamo disporre di ciò che libero non è; dare un nome a piante e animali; piegare la terra, e tutti i viventi, alla nostra volontà e alla nostra convenienza. La strutturazione ontologica del nostro mondo, insomma, ne determina anche l’assetto epistemologico ed etico. Nella loro opposizione, l’approccio “scientifico hard” praticato dalla bioantropologia e quello “scientifico soft” praticato dall’etnologia confermano continuamente il presupposto soggiacente: quello secondo cui vi è da un lato la natura (fatta di materia, di evoluzione, di geni, di fisiologia, di caratteristiche universali ecc.) e dall’altro la cultura (fatta di riti, di miti, di credenze, di usanze ecc.). In questa visione, si noti bene, la nostra 2 cultura è l’unica ad aver davvero compreso che cos’è la natura; l’unica, cioè, ad aver trovato nel l’indagine scientifica la via regia in grado di risalire al di qua di ogni cultura e cogliere nella sua essenza ciò che a tutte soggiace: il regno delle invarianti di natura. Tutte le altre culture umane sarebbero invece rimaste intrappolate in credenze che avrebbero loro impedito la vera comprensione della grande separazione fra il mondo dei fatti (natura) e il mondo dei valori (cultura)1. È un modello antico e blasonato, che tuttavia, da qualche tempo, mostra crepe consistenti. Nel trattarne occorre innanzi tutto storicizzare gli eventi e le visioni del mondo {►parte seconda}. Al termine del periodo medievale, la separazione fra fatti e valori è stata funzionale all’instaurarsi della modernità. Dal punto di vista della ricerca nelle discipline che andavano costituendosi come “scienze” in senso moderno, essa ha operato un’effettiva, potente liberazione intellettuale dai vincoli teologici del periodo precedente e, in parallelo, una drastica de-politicizzazione della ricerca e della conoscenza. La sua declinazione più arrogante prende il nome di scientismo e sostiene che il riduzionismo sia il solo modello gnoseologico accettabile e che la Scienza (al singolare e con la maiuscola) sia la sola impresa conoscitiva valida. Esso opera quindi una radicale destoricizzazione dei processi culturali, di conoscenza e di trasformazione, e la sua funzione repressiva è del tutto analoga a quella dell’impianto teologico egemone al termine dell’epoca medievale. La grande partizione fra natura e cultura2 genera in ogni campo un’infinità di aporie che danno filo da torcere ai filosofi di professione. Qui, tuttavia, non c’interessa tanto il “pensiero alto” degli intellettuali e le soluzioni, spesso brillanti, che essi hanno proposto, ma la «filosofia con la gente dentro3» di una cultura particolare e storicamente determinata: la nostra. Dal punto di vista della strutturazione antropologica, la partizione continua a essere, per noi, l’acqua dentro cui nuotiamo e di cui non ci avvediamo: mette in forma il nostro pensiero così come il nostro sguardo sul mondo, la nostra percezione come le nostre categorie concettuali. Le definizioni stesse di esistente, di conoscibile, di etico si fondano su di essa. In quanto uomini e donne occidentali, prodotti da questa cultura, siamo costruiti non solo per pensare secondo questi assi, ma per riflettere in noi stessi questa partizione: per incarnarla. Contro questa scontatezza l’antropologia contemporanea ha molto da dire. L’assunto fondamentale da cui essa muove può essere così riassunto: gli umani sono continuamente costruiti come soggetti specifici dalla collettività a cui appartengono. Nell’accettare la pari dignità di ogni cultura, questo punto di partenza permette di studiare le “culture altre” non più come versioni dimidiate della nostra, ma come possibilità alternative di essere umani e di fare mondo. Accettando lo straniamento, quest’impostazione presuppone che non negli umani vi sia alcuna universale naturalità (o, quantomeno, che essa non sia ricavabile proiettando sugli altri ciò che a noi pare naturale): non è per natura che cantiamo, disegniamo, corriamo e sorridiamo; né è per natura che stiamo comodi seduti, che copriamo alcune zone del corpo lasciandone altre scoperte o che dormiamo sdraiati. Allo stesso modo, proposizioni come «il marito della sorella del padre è uno zio», «pesce grande mangia pesce piccolo», «l’orientamento sessuale è geneticamente determinato», «le mamme vogliono bene ai loro bambini» e «tutti gli uomini nascono uguali» sono tutt’altro che evidenze naturali e dipendono, semmai, dalla strutturazione del mondo umano che le invera, dalla “logica culturale” entro cui sono pensabili ed enunciabili come vere. Ma c’è di più. Diverse linee di ricerca emerse nelle cosiddette scienze hard indicano che la plasmazione culturale non ha solo a che fare coi sistemi simbolici e le credenze, 1 Shweder R.A. & LeVine R.A. (1984), Mente, Sé, emozioni. Per una teoria della cultura, Argo, Lecce 1997. 2 Stengers I. (1994), La Grande partizione, «I Fogli di ORISS», 29-30 (2008), pp. 47-61. 3 Ingold T. & Pallson G., eds (2013), Biosocial becomings. Integrating social and biological anthropology, CUP, Cambridge 2013, p. 696. 3 ma agisce a livello anatomico, fisiologico e perfino genetico4 {►parte terza}. Allo stesso modo, le discipline della psiche si sono lungamente interrogate sull’universalità delle emozioni, del complesso di Edipo o della sofferenza mentale {►parte settima}5. Il solo tratto che universalmente lega tutte le culture umane, al di qua di ogni contenuto specifico, è la necessità di individuare (e, potremmo anche dire, di umanizzare) i propri membri facendoli accedere a una specifica forma di vita, storicamente determinata e incarnata da un particolare assetto collettivo; di lavorare i piccoli, dunque, per farli diventare adulti. L’universale biologia umana si risolve nell’universale necessità, per ciascun gruppo umano, di far accedere i nuovi arrivati all’individuazione attraverso un lungo processo di messa in forma, senza il quale non si danno né soggetto umano, né umanità. Tale processo non è mero rivestimento simbolico di un’immutabile natura soggiacente, ma plasmazione integrale del soggetto, nella sua dimensione materiale così come in quella psichica, senza che le due siano separabili. Si può dunque cominciare questo lungo percorso critico ponendosi una domanda fondamentale: come si diventa umani? § 3. Violenza teorica Poiché, nella nostra cosmovisione, la verità sta nella natura ed è colta dalla scienza, la più potente strategia argomentativa consiste nella naturalizzazione dei fenomeni. Quando un fatto, un evento, un fenomeno o un dato sono attribuibili al piano naturale, allora sono, per ciò stesso, sottratti al giudizio e intrinsecamente accettabili. Inutile aggiungere che con questa strategia si può argomentare qualsiasi cosa, progressista o conservatrice, oppressiva o libertaria; essa svolge, nel nostro mondo, lo stesso ruolo che nel mondo medievale era attribuito alla Bibbia in quanto parola di Dio (al testo della Bibbia si rifacevano infatti, allo stesso modo, le alte gerarchie della chiesa di Roma così come i fraticelli dissidenti, il papa così come i gruppi ereticali). La naturalizzazione, però, porta con sé una serie di spiacevoli effetti collaterali. Per cominciare, taglia via qualsiasi possibilità di spiegazione storica: assolutizzando i fenomeni, spegnere la possibilità di interrogarli criticamente. In secondo luogo, naturalizzare significa universalizzare: ci si illude, così, che ciò si osserva da noi si ritroverà poi dappertutto alla stessa maniera. In terzo luogo, la naturalizzazione agisce come letto di Procuste: tutto ciò che non vi corrisponde viene fatto combaciare a forza, tagliandolo di qua o stiracchiandolo di là. Si può parlare, a tutti gli effetti, di violenza teorica: laddove sia disponibile un solo modello di verità, allora tutto ciò che esiste dovrà essere compreso solo secondo quell’unico modello. La descrizione più efficace di questa strategia argomentativa è ancora, probabilmente, quella che Roland Barthes ha proposto in Miti d’oggi. Proviamo allora a declinarne il metodo nella nostra attualità. Da una ventina d’anni si è tornati a parlare di disturbo da deficit di attenzione e da iperattività, una “malattia” (nota anche come ADHD, acronimo dell’inglese Attention Deficit and Hyperactivity Disorder) che colpisce i bambini che, a scuola, non riescono a stare fermi e a fare attenzione. Negli Stati uniti, dove l’ADHD è più diagnosticata che in qualsiasi altra parte del mondo, la terapia d'elezione consiste nell'assunzione di metilfenidati (psicofarmaci simil-amfetaminici che agiscono come miglioratori di prestazione; da noi il farmaco è noto col nome commerciale di Ritalin). Stime recenti asseriscono che una percentuale variabile fra il 40 e il 50% della popolazione statunitense in età scolare fa uso di queste molecole e anche in Italia, a partire 4 Ingold I. & Pallson G. 2013, op. cit. 5 Despret V. (2001), Le emozioni. Etnopsicologia dell’autenticità, Elèuthera, Milano 2002; Coppo P. (2012) Gli invisibili in psicoanalisi e in etnopsichiatria, «Rivista di Psicologia Analitica» n. 33, vol. 85/2012, pp. 43-57. 4 dal 2004, si conducono sperimentazioni sui “bambini difficili”. Tanto la patologia quanto la cura d'elezione sono state oggetto di un’ampia controversia medico-scientifica e sociale6; nondimeno, entrambe sono state avallate dall’American Psychiatric Association e dall’OMS7. Senza neanche menzionare gli interessi economici legati alla vendita del farmaco, osserviamo innanzitutto il meccanismo psicologico-cognitivo in azione: rendere patologico (e quindi naturale) il comportamento dei bambini che non stanno attenti a scuola permette di lavare, in un colpo solo, la coscienza dei genitori, quella degli insegnanti e quella dell’intera società. Se il bambino non sta attento perché “ha un disturbo”, si può evitare di interrogarsi sull’abilità degli insegnanti di coinvolgere i bambini nel processo di apprendimento; sulla relazione fra l’esposizione agli schermi e la capacità di prestare attenzione ad altri stimoli; e sulle strategie educative diffuse a livello societario. La naturalizzazione della malattia permette di rimuovere le ragioni storiche che riducono l’infanzia contemporanea all’immiserimento emotivo e cognitivo; di esportare efficacemente la malattia in contesti differenti da quello originario; e di ignorare, in quanto “effetto di cultura”, tutti gli elementi che non rientrano nel quadro naturalistico (l’assenza di ADHD in contesti culturali non-occidentali è stata attribuita non già a una diversa condizione di sviluppo dei bambini, bensì alla carenza nella diagnosi). In tutto quanto segue cercheremo di tenerci alla larga dalla naturalizzazione e di osservare i fenomeni umani, così come quelli naturali, secondo un approccio storico e antropologico che non dissoci la spiegazione del fenomeno dal contesto entro cui il fenomeno stesso viene osservato. Se, in questo modo, le spiegazioni perdono in estensione e in possibilità di generalizzazione, esse guadagnano però un’intensità del tutto particolare. E soprattutto, sono meno arroganti. Un ragionamento antropologico § 4. Infinite forme bellissime De-naturalizzare significa rimettere in questione un’intera cascata di presupposti, fra cui quello che oppone gli umani dotati di cultura (detta anche psiche, anima o res cogitans) al resto del cosmo – pianeti, montagne, piante, animali ecc. – in quanto ente di sola natura (ovvero, fatto di sola materia, res extensa). In primo luogo, si tratta di capire storicamente come siamo arrivati al modello di natura che ancora governa la nostra cosmovisione. Lungo i quattro secoli che ci separano da Descartes, si è spesso tentato di togliere agli umani la loro eccezionalità riducendo i fenomeni che li riguardano all’azione meccanica della “natura in noi” (si pensi, ad es., al settecentesco homme machine, all’interpretazione genetica delle malattie, al modo in cui la sociobiologia spiega l’altruismo, o all’impianto della teoria evolutiva novecentesca). Oltre al riduzionismo, l’elemento che accomuna la gran parte di questi modelli è una certa squalificazione etica: gli umani non sono che animali; i comportamenti non sono che sopravvivenza; la malattia non è altro che guasto meccanico. Detto altrimenti: il tentativo 6 Jensen P.S. (1998) Ethical and pragmatic issues in the use of psychotropic agents in young children, «Can J Psychiatry», n. 43, pp. 585-588. 7 American Psychiatric Association (1994) DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano Parigi Barcellona 1999; WHO/OMS (2001), World Health Report 2001. Mental health: new understanding, new hope, World Health Organization 2001. 5 di superare la partizione è quasi sempre passato per un certo grado di cinismo e per un pensiero fortemente connotato dal modello dell’individuo competitivo {►parte seconda}. Si può però tentare un’altra strada, sostenuta – tra l’altro – dalle evoluzioni delle scienze della vita dell’ultimo quarto di secolo. Si può sostenere, ad esempio, che l’eccezionalità che a lungo abbiamo attribuito ai soli umani, appartenga in realtà a tutte le specie viventi, ciascuna iuxta propria principia; che il genoma è qualcosa di assai diverso da un programma interamente pre-scritto; che lo sviluppo di ciascun organismo dipende, in primo luogo, dall’ecologia di cui fa parte; che, lungi dall’essere monadi, gli individui sono sempre multipli; che l’evoluzione si basa sulla collaborazione ben più che sulla competizione – e via dicendo {►parte terza}. In questo nuovo quadro, i dati scientifici vengono in aiuto a quanto gli antropologi culturali sostengono da tempo: essere umani, far parte dell’umanità, non significa solo essere un membro della specie Homo sapiens; per arrivare a essere umani, serve anche un lungo processo di umanizzazione. Fra gli umani, i piccoli non solo non sono in grado di sopravvivere da soli, ma restano del tutto sprovveduti per un periodo lunghissimo, durante il quale altri membri del gruppo devono fornir loro continuo sostegno materiale e affettivo. Un bambino che non venga immediatamente accolto da una comunità non solo non sviluppa le qualità proprie della specie (linguaggio, astrazione, progettazione, affettività ecc.), ma, più radicalmente, non sopravvive. L’azione essenziale e ineludibile di ciascuna cultura è quindi quella di fornire un contesto entro cui sia possibile ai nuovi nati prender forma secondo certe linee. Notiamo fin da subito, in attesa di vederlo meglio più avanti, che questa caratteristica non è esclusiva della specie Homo sapiens {►parte quarta}: ciò che, nella nostra specie, è estremo è la profondità dell’intreccio fra il “dato biologico” e il “dato culturale”, al punto che, al termine del processo, non è più possibile distinguerli. Bisogna quindi guardarsi dal pensare a questo processo come a qualcosa di esclusivamente mentale, astratto, che si aggiungerebbe come un vestito sopra una natura materiale vera e immodificabile: nel processo che ogni cultura mette in atto per umanizzare i propri membri, ne va non solo delle idee e delle credenze, ma degli stessi parametri biologici. Non sono solo le teste a essere plasmate: la cultura entra nei corpi, modifica le reazioni fisiologiche, abitua a un regime particolare, piega a determinati lavori e a determinati sforzi, attiva alcune piste lasciando silenti altre – e così via, per tutto ciò che compone la vita umana. § 5. Ominazione: diventare umani per via filogenetica Se, dunque, umani si diventa, la prima domanda che ci si può porre riguarda la storia della nostra specie: quali elementi storici ed evolutivi hanno caratterizzato il percorso dei mammiferi, poi dei mammiferi cosiddetti “superiori”, poi dei primati, infine delle grandi antropomorfe? Quando è cominciata e come si è sviluppata la nostra linea evolutiva? Dentro quali relazioni ecologiche ha avuto luogo? Queste domande attraversano le discipline che indagano l’evoluzione umana, il processo filogenetico che, a partire da una scimmia bipede vissuta in Africa circa 7 milioni di anni fa, ha portato all’umanità attuale. In questo tipo di ricerche hanno un posto di primo piano i dati provenienti dalla paleoantropologia, ovvero dallo studio dei reperti fossili appartenuti a specie situate sulla nostra linea filogenetica: essi riguardano le trasformazioni anatomiche, morfologiche, craniali che si susseguono nelle diverse specie, nonché lo sviluppo nel tempo della cultura materiale. Altri dati di rilievo vengono dall’insieme delle discipline naturalistiche che provano a ricostruire il contesto ecologico delle specie che ci hanno preceduti: la paleoecologia, la paleontologia, la tafonomia, la geologia ecc. Rispetto agli studi paleontologici, in cui le serie fossili sono sufficienti per 6 stabilire l’andamento evolutivo, nel caso della linea filogenetica umana il quadro più complicato: in quale momento si può cominciare a parlare di cultura o di linguaggio? In che modo le strategie culturali hanno influito sull’evoluzione biologica? A partire da quale momento nella storia della specie si può propriamente cominciare a parlare di umanità? {►parte quinta} § 6. Antropopoiesi, ovvero, diventare umani per via ontogenetica Ovunque venga posta la linea di discrimine filogenetico, a partire da quel momento siamo di fronte a specie in cui, per paradossale che sembri, biologia e cultura non sono distinguibili. Al di fuori della cultura non c’è nessun “uomo di natura”, né buono (come pensava Rousseau), né cattivo (come invece supponeva Hobbes): c’è solo un bambino che non può più crescere perché manca il contesto entro è possibile farlo. Questo è, probabilmente, l’unico tratto che universalmente lega tutte le culture umane, al di qua di ogni contenuto specifico: la necessità ineludibile di rendere umani i propri membri facendoli accedere a una specifica forma di vita. Poco importa, da questo punto di vista, se il linguaggio che si parla è l’italiano o il dogon; se l’alimento più consumato è la pasta o il miglio; se si crede nel Dio unico creatore del cristianesimo o in una molteplicità di anime presenti in ogni cosa: il denominatore comune a ogni cultura è la necessità di inculturare i propri membri – e quindi, in primo luogo, di fornire loro un contesto relazionale, linguistico, cognitivo e affettivo che permetta di diventare adulti, di sopravvivere alle circostanze, di crescere le generazioni successive, di innovare le strutture culturali, di cercare con altri modi sensati e ricchi di esistenza collettiva. Che cosa sia un essere umano (come si comporta; come parla; cosa mangia e come prepara il cibo; come onora i morti; quali entità immateriali riconosce; come si sposa; come mette al mondo figli e come li alleva; cosa può fare e cosa non può fare nello spazio e nel tempo in cui gli è capitato di vivere) è questione a cui ciascuna cultura dà una risposta specifica. Ragionare in termini antropologici significa, innanzi tutto, tenere sempre presente che i diversi gruppi umani hanno sviluppato, nel corso del tempo, modi di vita anche radicalmente differenti, che rispondono a esigenze specifiche dettate dall’ambiente fisico, dal clima, dai mezzi a disposizione, dalle relazioni con altre popolazioni, dall’eredità immateriale, dall’evoluzione di diversi saper-fare, dall’innovatività dei propri membri – in breve, dalla storia. Il processo attraverso cui ciascuna cultura produce essere umani che le sono compatibili è detto antropopoiesi (lett. “costruzione dell’umano”). Esso avvolge ciascun nuovo essere umano entro una rete di modi, di saperi e di relazioni che, alla fine, produrranno non già un umano generico, ma un adulto specifico, membro di quella cultura e non di un’altra, parlante quel linguaggio, con determinate aspettative e ambizioni, con una particolare strutturazione affettiva, e così via. L’antropopoiesi comprende ciò che l’occidente chiama pedagogia, ma è, rispetto a questa, ben più ampia. Essa comincia dai primissimi istanti di vita, e forse già a partire dalla fase intrauterina; il modo in cui il bambino viene accolto dalla comunità, le tecniche in uso per tenerlo al caldo e per nutrirlo, la dieta della madre in gravidanza e il suo stato fisico e psicologico: tutti questi elementi, e molti altri, influenzano profondamente lo sviluppo del bambino. Ciò significa che non esiste alcuna universalità del corpo: la cultura si imprime fin nelle cellule e fin da prima della nascita, in tutto ciò che siamo, nel nostro modo di stare nel mondo, di pensarci, di vivere. {►parte sesta} 7 § 7. Qualche implicazione etica e conoscitiva Asserire che non esiste una natura umana, che ogni cultura produce esseri umani specifici, che ogni visione del mondo ha una storia propria e pari dignità rispetto a ciascuna altra, può essere l’elegante mossa concettuale di intellettuali blasé che discettano di intercultura; oppure può essere una posizione critica radicale. In questo secondo caso, prendere sul serio questa posizione e farla diventare il punto di partenza dei ragionamenti significa accettare il rischio di un discorso che non può più immaginarsi come assolutamente vero, come vero per tutti al di là di ogni differenza storica e culturale. Ciascuna cultura produce individui che le sono compatibili, implementa nei suoi membri un particolare modo di stare al mondo, che a volte, poi, è percepito come il solo possibile oppure come l’unico valido (tutti gli altri essendo relegati nella categoria del “barbaro” o del “non umano”)8. Ciò avviene fra i Wakanongo della Tanzania così come nel mandarinato cinese, fra gli Yanomano così come fra gli occidentali. Questa particolare situazione, che fa sì che solo la propria cultura sia percepita come veramente e pienamente umana, è alla base di un fenomeno curioso: il nome di moltissime popolazioni del mondo significa, nella loro lingua, “uomini, esseri umani”; e proprio per questo, tutto ciò che li circonda diventa automaticamente “non umano”. Il caso più estremo – ma anche più chiaro – sembra essere quello dei Bribri, una popolazione del Costa Rica: nella loro lingua, la parola bribri significa appunto “uomini”, mentre la parola ña denota, al contempo, “tutti gli altri umani” e “scarti, escrementi”9. Ora, è proprio da questa presunzione che occorre uscire e riconoscere che noi, come chiunque altro, siamo costruiti lungo certe linee, crediamo ad alcune cose e non ad altre, pensiamo il mondo in un modo particolare, che non è quello “giusto” o “assoluto”, ma è l’esito di un processo storico preciso. Niente di ciò che ci compone è esente dall’impronta storica, dal marchio impressovi da un particolare modo di essere: nel nostro caso, quello della civiltà cosiddetta occidentale moderna. Vedersi “come da fuori”, vedere da fuori ciò che noi siamo da dentro, è il salto impossibile che caratterizza gran parte della migliore riflessione del Novecento, dall’antropologia all’ermeneutica, dalla filosofia alla biologia. Sapere che tutto quello che possiamo dire, pensare, provare, immaginare, desiderare e detestare è l’esito di un modo particolare, culturale, di stare al mondo è il punto d’arrivo dell’antropologia e della filosofia quando sono ben fatte, ed è, al contempo, il punto di partenza per una riflessione che sia in grado di andare finalmente al di là dell’etnocentrismo10. Noi crediamo alla perennità dei sentimenti? Ma tutti, e quelli soprattutto che ci sembrano i più nobili ed i più disinteressati, hanno una storia. Crediamo alla sorda costanza degl’istinti, ed immaginiamo che siano sempre all’opera, qui e là, ora come un tempo. Ma il sapere storico non ha difficoltà a smontarli, – a mostrare le loro trasformazioni, ad individuare i loro momenti di forza e di debolezza, ad identificare i loro regni alterni, a coglierne la lenta elaborazione ed i movimenti attraverso i quali, rivoltandosi contro se stessi, possono accanirsi nella propria distruzione. Noi pensiamo in ogni caso che il corpo almeno non ha altre leggi che quelle della fisiologia e che sfugge alla storia. Errore di nuovo; esso è preso in una serie 8 Singleton M. (2004), Critique de l’ethnocentrisme. Du missionnaire anthropophage à. l’anthropologue post-développementiste, Paragon, Paris 2004; Descola P. (2005), Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005. 9 Barbujani G. (2006), L’invenzione delle razze, Bompiani, Milano 2006. 10 De Martino E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1973; de Martino E. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977; Latour B. (1991), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, Milano 1995; Latour B. (2000), Fatture/fratture: dalla nozione di rete a quella di attaccamento, «I Fogli di ORISS», 25 (2006), pp. 11-32. 8 di regimi che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa: è intossicato da veleni – cibo o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme; si costruisce delle resistenze 11. Un dispositivo essenziale del processo di antropopoiesi sta, per riprendere Foucault, nella relazione fra potere e verità. Gli esseri umani sono prodotti da delle specifiche verità (dati, interpretazioni, teorie, quadri epistemologici, visioni di noi stessi, politiche sociali, atteggiamenti, credenze) e, a loro volta, producono verità. “Essere prodotti da una verità” significa stare dentro un contesto in cui, a partire da certi assunti, vengono desunti credenze, atteggiamenti, reazioni fisiologiche, relazioni, pratiche individuali e collettive: un modo di vedere il mondo che, in senso forte, struttura il soggetto. Si vive e si muore a seconda delle verità che la nostra cultura ci inculca e che, in senso forte, “ci fanno”; non si tratta di un gioco intellettuale, del pigro scontro di teorie alternative: la cultura entra nelle cellule che ci compongono, modifica la fisiologia, il programma biologico, il modo di muoversi e di sentire, determina la possibilità di abitare il mondo o l’impossibilità di continuare a starvi {►parte settima}. Se ciò che crediamo vero viene meno, se le verità che ci costituiscono non reggono l’incontro con il mondo, non è in gioco uno schema mentale ma la presenza stessa del soggetto, che rischia ciò che Ernesto de Martino chiamava la fine del mondo, ovvero «il rischio di non esserci più in nessun mondo possibile». Anche noialtri – “occidentali moderni” – siamo umani specifici: costruiti in modo specifico, abitiamo e pensiamo il mondo in maniera del tutto particolare. Una maniera che noi riteniamo naturale e oggettiva e che invece è storica, e come tale dev’essere riconosciuta. L’insieme di ciò che reputiamo predicare il vero, il dispositivo di verità dell’occidente è oggi il sistema scientifico. L’occidente contemporaneo attribuisce potere di veridizione solamente alla scienza, a ciò che si presume essere l’assoluta oggettività della ricerca scientifica. Non si tratta solo di un’attribuzione intellettuale o astratta: ci costruiamo intorno a ciò che viene dalla scienza, ci muoviamo a partire da quell’insieme di verità, per e di quelle medesime verità siamo disposti a morire. Questa funzione veritativa è del tutto analoga a quella che il sistema teologico aveva nel Medioevo, nel senso che istituisce un campo di comprensibilità dentro il quale solo si possono svolgere le lotte. È dunque impossibile, per un occidentale attuale, “saltare fuori” dal sistema scientifico senza cadere in forme di riflessione del tutto autistiche o senza abbracciare integralmente e senza residui un’altra cultura. I moderni soggetti occidentali sono il sistema scientifico, incarnano il modo di veridizione che prende il nome di “scienza”. E che, per l’esattezza, è etnoscienza: Noi, gli Occidentali, facciamo come gli altri. Inconveniente: non siamo più razionali di loro; vantaggio: non siamo più mortiferi di loro. (...). Siamo nella stessa barca, utilizziamo lo stesso stampo. La modernizzazione non può più continuare «all’antica», e cioè trasformando da un lato la totalità del passato delle altre culture in una credenza mostruosa, e dall’altro trasformando gli occidentali in mostri deterritorializzati e mortiferi. 12 Nei prossimi capitoli ci muoveremo quindi dentro la scienza, alla ricerca di dati, teorie, interpretazioni – fermo restando che si tratta di un modo (quello occidentale) di leggere il mondo. Più in particolare, esploreremo le discipline che trattano del processo filogenetico e ontogenetico di umanizzazione, e lo faremo avendo in mente due obiettivi. In primo luogo, occorre imparare a muoversi all’interno delle scienze che, lungi dall’essere monolitiche, sono campi aperti, mobili pieni di sommovimenti, e come tale presentano elementi in tensione, dati e teorie discordanti, fili interpretativi talora radicalmente differenti. Non c’è una verità scientifica: ce ne sono molte, e fra queste occorre scegliere. Il secondo obiettivo è apparentemente più dimesso, ma di fatto ancora 11 Foucault M. (1977) Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 42-43. 12 Latour B. (1994), Nota su taluni oggetti capelluti, «I Fogli di ORISS», 29-30 (2008), pp. 62-78. 9 più difficile: nel leggere la storia delle scienze e nel prendere confidenza con vocaboli, teorie, schemi mentali, bisogna arrivare a vedere fino a quale punto, in quanto occidentali, siamo costruiti attorno al paradigma della veridizione scientifica – quanto, cioè, per noi la scienza è cosmovisione ben prima che linea di ricerca, baluardo contro ciò che temiamo più che mezzo di esplorazione dell’ignoto, riferimento autoritario più che ragionamento autorevole. Solo così è possibile imparare a conoscerci in quanto occidentali. Com’è stato detto diverse volte in antropologia: Non ci sono mostri, né da loro né da noi. Piuttosto, definiamo il civilizzato come colui che non ha più barbari alle porte dell’Impero. 10 parte seconda pensare il vivente § 8. Note epistemologiche: storicità della teoria dell’evoluzione (e di ciò che la precede) Il quadro evolutivo entro il quale la contemporaneità pensa il mondo e le società ha una storia precisa, al contempo scientifica, sociale, antropologica e politica, che vale la pena di ricostruire per non restare prigionieri della naturalizzazione delle teorie. Detto altrimenti, l’evoluzionismo è un modello storicamente determinato: nato in un periodo preciso (fra la fine del Settecento la fine dell’Ottocento); con una serie di problemi da risolvere (il senso delle somiglianze fra viventi, la questione dei fossili, quella della specie); con precisi bersagli polemici (la visione “fissista” della natura); e con innumerevoli connessioni alle questioni politiche, economiche ed etiche che travagliavano l’epoca. Per comprenderne lo sviluppo bisogna dunque rifarsi al periodo immediatamente precedente, che è quello delle rivoluzioni politiche e industriali sul fronte della “storia esterna” e della filosofia classica della natura sul fronte della “storia interna”. Esploreremo soprattutto questo secondo fronte, mentre il primo si chiarirà lungo il procedere del capitolo. Prima di iniziare, una precisazione. Nelle storie dell’evoluzionismo si fa spesso riferimento a un presunto paradigma naturalistico pre-darwiniano, denominato fissismo. Con questa espressione si designa l’insieme concettuale formato dalle idee di progetto divino, di essenzialismo e di Catena dell’essere, con l’aggiunta del dogma cristiano della creazione separata delle specie. L’insieme di questi elementi configura le scienze naturali nella prima modernità, ma è del tutto abusivo estenderlo ad altre epoche (come se una sola visione della natura fosse perdurata stabile e immutata lungo tutti i secoli che precedono Darwin) o immaginarlo come un modello filosofico-scientifico consapevole, condiviso in pari misura da Talete, Lucrezio, Tommaso e Harvey. Quello che oggi viene detto “paradigma fissista” non è una scuola di pensiero alla quale, prima del darwinismo, si potesse scegliere di aderire, ma un polo oppositivo polemico, identificato a posteriori dall’evoluzionismo stesso: serve più a magnificare il pensiero evolutivo rispetto a quanto lo precede che non a comprendere davvero la traiettoria storica delle scienze naturali. Si tratta, ancora una volta, di una semplificazione naturalizzante, che getta in un medesimo sacco tutto ciò che, secondo noi, “non è ancora scienza”. Oltre a essere violenta, questa mossa è anche profondamente antistorica: ogni epoca ha infatti sviluppato una sua filosofia della natura, declinando diversamente una serie di presupposti di lunga durata, intrecciati ad assunti specifici e locali; ed enormi quantità di dati e di osservazioni empiriche, corredati di spiegazioni teoriche, sono state prodotte lungo i secoli in tutte le branche delle scienze naturali. In nessun senso, dunque, si può dire che Aristotele e Agostino condividessero una stessa visione del mondo naturale, o 11 che il sistema di Teofrasto fosse “arretrato” rispetto a quello di Linneo. Si tratta, insomma, di abbandonare l’approccio progressivo alla scienza – e non è un’impresa semplice. La filosofia della natura nella prima modernità § 9. I presupposti delle scienze della natura nella prima modernità In termini generali, gli assi portanti della filosofia naturale del Seicento e del Settecento – del periodo, cioè, che immediatamente precede l’elaborazione della teoria evolutiva – sono l’essenzialismo; la brevità del tempo storico; l’unicità dell’uomo rispetto a tutti gli altri viventi; l’idea di progetto intelligente; e la scala naturae. ESSENZIALISMO Nella riflessione presocratica e in parte di quella ippocratica, il termine physis ha un significato assai diverso da ciò che oggi intendiamo con “natura”. Esso designa infatti non già, come per noi, «le cose e gli esseri dell’universo, governati da leggi, retti da un ordine proprio e anche oggetto di contemplazione e studio da parte dell’uomo13», ma il processo delle cose, il loro modo d’essere (di nascere, crescere e maturare), il movimento secondo cui divengono. La natura non è un’essenza, né un insieme di qualità, ma un processo, il modo di un divenire. È solo con Platone ed Aristotele che il vocabolo physis, accompagnato da un genitivo, diventa, in modo a noi più comprensibile, l’essenza stabile di una cosa: la sua natura, appunto14. Da natura- processo a natura-essenza: intorno all’essenzialismo si è costruito gran parte del pensiero filosofico successivo e ancor oggi esso fa parte dei più profondi e radicati assunti di base della nostra mentalità. L’essenza è “ciò per cui una cosa è ciò che è”, per cui è proprio quella cosa e non un’altra. Essa coincide per noi con la natura della cosa espressa dalla sua definizione. È evidente, in questo modo di classificare il mondo, la ricerca di una coincidenza metafisica fra la forma naturale (l’essenza della cosa) e la forma logica (la definizione della cosa, riassunta nel nome specifico): l’essenza fonda teoricamente tanto la nominazione quanto la definizione. Applicato al mondo naturale, l’essenzialismo postula che la specie biologica sia definita dalla presenza di una qualità specifica, essenziale – si pensi, ad esempio, alla celebre definizione dell’uomo come «animale razionale»; ma anche alle tassonomie dei musei di storia naturale, basate su elenchi di caratteristiche tipiche delle diverse specie. Nella prima modernità, la classificazione essenzialista era anche pensata come statica: le essenze non mutano nel tempo e anche le specie animali, che esprimono un’essenza, sono tali da sempre e per sempre. BREVITÀ DEL TEMPO STORICO Nella prima metà del Seicento l’arcivescovo irlandese James Ussher calcolò che, in base alla sequenza delle generazioni di patriarchi menzionate nella Bibbia, la terra fosse stata creata nel giorno di domenica 23 ottobre dell’anno 4004 a.C. Sebbene si tratti di una posizione dottrinaria estrema anche per l’epoca, essa illustra bene il diverso rapporto col tempo storico dei secoli che precedono quelli moderni. Le stime sull’età della Terra cominciano ad allungarsi verso la fine del 13 La definizione è tratta dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli. 14 Hadot P. (2004), Le voile d’Isis. Essai sur l’histoire de l’idée de Nature, Gallimard, Paris 2004. 12 Seicento, quando alla storia si aggiunge la preistoria (concetto che presto diventerà cruciale tanto per le scienze naturali quanto per la riflessione filosofica). UNICITÀ DELL’UOMO 15 Nella nostra tradizione culturale la separazione dell’uomo dal resto dell’universo, e in particolare dagli altri viventi, è antichissima e persistente. Già chiaramente espressa nel libro della Genesi, essa sfuma nella Grecia classica (dove l’anthropos è, in primo luogo, un animale), per esser poi prepotentemente ristabilita dal cristianesimo. Nella prima modernità essa è fondata sulla separazione fra natura e cultura {►parte prima}: se gli umani condividono con gli altri animali, e col resto del creato, il piano naturale (la materia di cui siamo fatti è la stessa di cui sono fatte le tigri, le felci, le montagne e le stelle), essi portano però in sé un principio irriducibile alla materia e ontologicamente distinto. Questo principio è anche garanzia del loro superiore statuto metafisico. PROGETTO INTELLIGENTE Si tratta di un altro presupposto di lunga durata (lo si ritrova già nel Timeo platonico): è l’idea secondo cui il mondo naturale, così come la specie umana che ne fa parte, sono l’esito di un progetto trascendente e di maggior momento rispetto al mondo stesso. Una conseguenza importante riguarda l’intreccio fra natura ed etica: se l’universo è regolato secondo un progetto trascendente, gli umani dovranno capirne i fondamenti e adeguarvisi, come a un orizzonte ineludibile di senso. Si gioca qui la questione della libertà e del governo del mondo, che ha occupato per secoli filosofi e teologi16. L’idea di progetto è stata a lungo talmente evidente da non aver bisogno di essere argomentata. Solo quando, nelle scienze della natura, cominciò a prender forma un diverso modello (quello, appunto, dell’evoluzione delle forme nel tempo), diventò necessario giustificarla. Fra i primi e migliori apologeti del progetto divino è William Paley, che pubblica la sua opera più celebre, Natural theology, nel 1802: il testo è in anticipo sui tempi e, in epoca vittoriana, diventerà un best-seller. L’analogia di Paley è nota anche come “argomento dell’orologiaio”. Supponiamo, egli scrive, di trovarci in una brughiera e di inciampare in un sasso; se qualcuno ci chiedesse com’è finito lì, potremmo rispondere che, per quanto ne sappiamo, esso è sempre stato lì. Detto altrimenti, il sasso non solleva perplessità. Ma se poco dopo inciampassimo in un orologio, la risposta precedente non sarebbe più possibile: l’architettura complicata e finalistica degli ingranaggi, infatti, ci farebbe supporre l’esistenza di un orologiaio. Allo stesso modo, argomenta Paley, di fronte alla precisione di costruzione dell’universo, osservando l’armonia delle sfere celesti e della vita terrestre, non possiamo far altro che immaginare un orologiaio cosmico che le ha portare in esistenza secondo un progetto. LA CATENA DELL’ESSERE, O SCALA NATURAE La Catena dell’Essere, detta anche scala naturae, è l’idea secondo gli enti dell’universo sono organizzati gerarchicamente, come gradini lungo una scala che porta dal ciò che è più basso e meno nobile a ciò che è più alto e perfetto17. Sono tre i principi che, combinandosi, conferiscono alla scala naturae la 15 Breve nota sulla questione del genere. Da diversi anni per definire la specie impiego il sostantivo “umani” (il titolo del capoverso suonerebbe dunque “unicità degli umani”). Tuttavia, quando il discorso fa riferimento agli usi linguistici di altre epoche, preferisco la filologia al politically correct. 16 Agamben G. (2007), Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, 2007. 17 Formigari L. (1973), Chain of being, in P. P. Wiener (ed), The dictionary of the history of ideas: Studies of Selected Pivotal Ideas, vol. 1, pp. 325-335. Charles Scribner’s Sons, New York 1973-74. (http://etext.lib.virginia.edu/cgi-local/DHI/dhi.cgi?id=dv1-45. Maintained by The Electronic Text Center at the University of Virginia Library. Gale Group, 2003). 13 sua struttura: pienezza, continuità e gradazione18. Traducendo: la natura aborre il vuoto e non fa salti. Anche in questo caso siamo di fronte a un presupposto di lunghissima durata, rintracciabile almeno fin da Platone19. Nelle scienze naturali del Seicento e del Settecento esso si declina in una visione verticale e continua dei viventi: al fondo della scala sta la materia bruta, massimamente imperfetta; poco più su ci sono i viventi più grezzi, appena differenti dalla materia inanimata; a ogni piolo della scala corrisponde un maggior grado di perfezione; il punto mediano è occupato dall’uomo, perno fra imperfezione sublunare e perfezione celeste; al di sopra dell’uomo stanno, ancora in ordine di perfezione, le schiere angeliche, mentre al suo vertice c’è l’ente perfettissimo: il primo motore immobile nell’aristotelismo, Dio nel cristianesimo. Quest’insieme di presupposti spiega a sufficienza perché la tassonomia classica si sia sempre configurata come sistema statico, svolgendosi poi coerentemente in quella direzione. Le nuove specie trovano posto al livello di perfezione che a loro compete secondo il principio geometrico dell’infinita divisibilità della retta; trattandosi di una scala continua, fra due specie successive c’è sempre modo di inserire una nuova varietà intermedia. Ciò ha permesso ai naturalisti di usare a lungo, senza soverchi problemi, questo sistema classificatorio. E dal punto di vista della semplicità concettuale, la scala naturae è adamantina: ordina i viventi secondo un’unica caratteristica, così come una biblioteca può essere ordinata in base all’altezza del dorso dei volumi. All’interno di un sistema siffatto, l’introduzione di livelli gerarchici superiori a quello specifico non è neppure ipotizzabile, se non come puro artificio logico. § 10. Teorie classiche dell’ereditarietà Per completare il quadro della filosofia della natura nella prima età moderna manca ancora un elemento, la cui rilevanza teorica serpeggia a lungo per poi arrivare a esplodere nelle teorie evolutive: l’ereditarietà, zona in cui s’incrociano in modo inestricabile conoscenza e politica, medicina e assetto societario, teoria e pratica delle cose umane. Dalla Grecia classica fino a Galton, sono tre le teorie principali sui meccanismi dell’ereditarietà: la pangenesi, l’epigenesi e la preformazione. PANGENESI La più antica delle tre teorie risale al Corpus Hippocraticum, dove si legge che tutte le parti del corpo, sane o malate che siano, emettono dei “semi” che si concentrano negli organi sessuali di entrambi i sessi e da lì vengono trasmessi, attraverso la fecondazione, alla generazione successiva. Per questo, oltre alle somiglianze morfologiche, è spesso possibile osservare nei figli anche somiglianze fisiologiche coi genitori e perfino la ricomparsa dei medesimi quadri nosologici. EPIGENESI Nella Generazione degli animali Aristotele sostiene invece che nessun seme possa nascere dalle unghie, dai capelli, dalla voce o dal modo di muoversi (tratti in cui, pure, si riscontrano somiglianze fra generazioni) e osserva come talune caratteristiche non siano derivate dai genitori, ma da parenti più lontani e si presentino per generazioni alterne. Propone pertanto un meccanismo ereditario ricalcato sull’ilemorfismo, secondo cui ogni ente individuale esiste come risultato di un processo in cui una forma si applica a una materia. Nel caso dell’ereditarietà, la femmina fornisce tutta, e solo, la materia, mentre il maschio contribuisce col principio attivatore, la forma. La gerarchia dell’essere, in cui la forma è più nobile della materia, si ripresenta tale e quale nella gerarchia dei sessi: nel caso di genitori sani e forti, in cui forma e materia si compenetrano 18 Lovejoy A. (1936), La grande catena dell'essere, Feltrinelli, Milano 1966. 19 Platone, Repubblica, libro VII. 14 armoniosamente, il risultato sarà un maschio; nel caso di seme debole o di donna fragile, il risultato sarà invece una femmina. Dal punto di vista dell’embriogenesi la teoria aristotelica è di tipo epigenetico20: essa comporta lo sviluppo lento e graduale delle forme e delle funzioni dell’organismo, posto in essere da cause esterne (l’incontro della forma maschile e della materia femminile), ma regolato da leggi interne. Questa teoria fu sostanzialmente accettata dai padri della Chiesa e passò quindi ai secoli medievali, combinandosi con una sorta di vitalismo a due velocità: la materia che compone l’embrione inizia dapprima lentamente il suo sviluppo, che subisce poi un’accelerazione attorno al quarantesimo giorno, quando riceve da Dio l’anima immortale (la presenza dell’anima già al concepimento, che oggi regola la politica della Chiesa cattolica in materia di aborto, è stata decretata da papa Pio IX nel 1859)21. PREFORMAZIONE All’inizio del Seicento, anche a seguito delle inquietudini della teologia sulla questione della vita, si esplorava con sempre maggior insistenza la zona d’ombra all’inizio della vita. Gli sviluppi della microscopia consentirono osservazioni ravvicinate e ingrandite degli elementi organici della riproduzione, ma ciò che venne visto attraverso le lenti era, come si suol dire in epistemologia, «carico di teoria». Gli aristotelici accettavano in genere la teoria dell’epigenesi, secondo cui l’embrione si sviluppa gradualmente solo dopo la fecondazione, formando strutture complesse a partire da strutture più semplici22. Furono i pionieri della microscopia Niklaas Hartsoeker e Anton van Leeuwenhoek a sostenere la preformazione. Quest’ultimo, valente costruttore di microscopi a Amsterdam, usò i suoi strumenti per ingrandire lo sperma maschile e vide nelle teste degli spermatozoi (animalculi) degli omini miniaturizzati, completamente formati e dotati di tutti gli organi e le caratteristiche dell’adulto. L’homunculus confermava, tra l’altro, anche l’idea della superiorità maschile nel concepimento: la traduzione medievale dell’aristotelica interazione di forma e materia prevedeva, infatti, che il portatore della vita e del calore fosse lo sperma maschile e che il corpo femminile agisse come terra, ricettacolo freddo e umido il cui contributo alla riproduzione era quello di accogliere e far crescere dimensionalmente, alla stregua di un’incubatrice, il principio maschile. Nella medesima linea di pensiero, ma rovesciando i termini, Regnier de Graaf, scopritore dell’ovulo femminile, propose nella sua opera del 1672 che fosse invece l’ovulo materno a contenere l’homunculus e che lo sperma servisse solo a innescarne la crescita. (Nello stesso anno Johann Swammerdam, investigatore dell’apparato riproduttivo femminile – conosciuto fino a quel momento solo alle levatrici – pubblicava un’opera in cui lo descriveva come «miracolo della natura».) Letta coi nostri occhiali, l’opposizione di epigenesi e preformazione può sembrare un falso problema: secondo la genetica contemporanea, infatti, né gli spermatozoi maschili né le uova femminili contengono individui in miniatura e lo sviluppo avviene a partire dalle informazioni contenute nei cromosomi, a cui ciascun genitore contribuisce per il 50%. L’epigenesi sembrerebbe dunque aver trionfato. E tuttavia, allargando la questione, ci si avvede facilmente che il dibattito odierno si muove ancora entro i medesimi termini. Gli individui emergono da materiale altamente potenziale che prende forma nel tempo in base alle interazioni con l’ambiente, oppure sono in larga misura preformati, predeterminati? Il determinismo genetico, che spesso viene proposto come meccanismo principe dell’eredità, fa ancora capo alla teoria della preformazione; epigenesi e 20 Qui il senso della parola “epigenetica” è solo in parte sovrapponibile con quello discusso più avanti {►parte terza}. 21 Bernardi W. (1986), Le metafisiche dell’embrione. Scienze della vita e filosofia da Malpighi a Spallanzani, Olschki, Firenze 1986. 22 Maienschein J. (2006), Epigenesis and preformationism, in Zalta E.N. (ed.), The Stanford encyclopedia of philosophy, Fall 2006 edition. 15 preformazione sono uno dei vari modi in cui si presenta, nella modernità, l’opposizione fra natura e cultura. Un’epoca di transizione § 11. Crolli e ricostruzioni della scala naturae Se la fisica cambia la sua impostazione nel Seicento con Galileo, Cartesio e Newton, nelle scienze naturali la crisi del modello classico ha inizio oltre un secolo dopo, a seguito dell’intersecarsi di eventi diversi: l’arrivo in Europa di specie provenienti dai “nuovi” continenti; l’esplicita messa in discussione degli assunti alla base della scala naturae; la trasformazione delle società europee a seguito delle grandi scoperte geografiche; l’emergere del problema concettuale della specie; la scoperta, o riscoperta, di elementi naturali che contraddicono la teoria egemone (in particolare, i fossili). Si tratta di un processo di lunga durata, che incrocia fenomeni tanto diversi quanto l’assetto sociale e la gnoseologia, le mode del secolo e i rapporti con le colonie. La scala naturae, che il vecchio sistema usava per rappresentare il mondo, viene da un lato smontata pezzo per pezzo, spesso secondo linee di ragionamento diversissime tra loro; e dall’altro continuamente ricostruita: la naturale gerarchia che giace al suo fondo, infatti, era una giustificazione troppo preziosa per poter essere abbandonata. Verso la metà del Settecento, il modificarsi della mentalità generale scosse anche le fondamenta delle scienze naturali. Per cominciare, la relazione fra la varietà delle forme viventi e la volontà divina nel crearle non poteva essere accolta entro il sistema delle scienze post-galileiane poiché faceva riferimento a un evento miracoloso non osservabile. Come la fisica lungo il Seicento, anche le scienze della natura del Settecento accolgono il principio-base della rivoluzione scientifica, che bandisce dalla ricerca i noumeni e la trascendenza e comanda di cercare solo le leggi empiriche che regolano i fenomeni. La “volontà di Dio”, insomma, non può più essere invocata come spiegazione particolare. L’interpretazione letterale della creazione, così come narrata nella Genesi, perde pian piano il suo valore esplicativo: la creazione diviene ipotesi, storia, allegoria, la sua datazione appare precaria e, piuttosto che a un Dio demiurgo, si preferisce pensare a un Dio architetto, che stabilisce leggi generali e lascia poi che queste facciano il loro corso. Ancora più rilevante è la questione del tempo e della processualità delle forme. Nella visione classica, la Catena dell’essere raffigura la distribuzione continua di qualcosa – le forme della natura, e in particolare quelle viventi – che non era pensato come processuale, soggetto al divenire e al cambiamento, ma come statico. È evidente però, al solo guardarsi attorno, che non tutte le forme sono presenti nel mondo: fra due viventi simili non ci sono tutte le forme intermedie e molte forme possibili non si trovano da nessuna parte in natura. La temporalizzazione della Catena dell’essere – che era, ai suoi inizi, un modo per salvare la scala da questo problema – rappresenta, sul lungo periodo, un passaggio fondamentale verso la concezione evolutiva del mondo naturale. Nella versione temporalizzata, la Catena non rappresenta tanto la distribuzione quanto il programma della natura, che viene realizzato lentamente e gradualmente nel processo della storia naturale. Il “pieno delle forme” non è già presente fin dall’inizio ma viene prodotto nel tempo, in un processo in cui la natura esplora esaustivamente, producendole di volta in volta, tutte le forme possibili. Sul fronte esterno, l’enorme movimento politico ed economico di annessione delle “nuove terre” ebbe ripercussioni anche sulle scienze naturali. Fra Seicento e Settecento 16 le esplorazioni all’interno delle colonie rivelarono un’insospettata profusione di forme viventi. Ogni anno un grande numero di varietà animali e vegetali, fino ad allora sconosciute, era portato dal Nuovo Mondo ai naturalisti del Vecchio, i cui gabinetti iniziarono a far sfoggio di pezzi rari e strani. Contemporaneamente, il numero delle specie aumentava anche sul fronte interno: i miglioramenti della microscopia permettevano infatti di osservare e distinguere un numero straordinario di forme viventi che fino a quel momento, a causa delle loro dimensioni, non avevano potuto essere discriminate. Per un certo periodo le nuove specie furono accomodate all’interno della scala naturae: dopo averne valutato la perfezione sulla base delle somiglianze ad altre specie note (e alla maggiore o minore somiglianza all’uomo), i naturalisti allargavano i pioli della scala per far posto al nuovo venuto al livello che gli competeva. In breve, tuttavia, l’afflusso di specie dal Nuovo Mondo e la moltiplicazione per via microscopica di quelle del Vecchio resero impraticabile la classificazione per grado di perfezione: la sequenza dei nomi era diventata troppo lunga per poter essere memorizzata. Venne così in luce il principale limite teorico della scala (e, più in generale, delle classificazioni lineari): essa non permette di raggruppare le specie in base a caratteristiche comuni, facendo degli insiemi, ma solo di ordinarle lungo una linea retta. La situazione in cui si trovarono i naturalisti di inizio Settecento è analoga a quella di un lettore che, inizialmente, abbia deciso di ordinare la sua biblioteca in base all’altezza del dorso dei volumi: fino a un certo punto, quest’ordinamento funziona senza problemi ed è assai facile tenere i libri in bell’ordine secondo serie dolcemente digradanti. Ma quando il numero dei volumi supera una certa soglia, trovare un titolo specifico diventa sempre più difficile. Inoltre, ciò che è più grave, nel caso in cui il lettore abbia ospiti a cena e voglia cucinare qualcosa di particolare, risulterà estremamente faticoso “estrarre” dalla classificazione lineare tutti e solo i libri di ricette di cui ha bisogno in quel momento. A quel punto, il nostro lettore inizierà a interrogarsi sulla praticità della classificazione adottata e probabilmente deciderà di risistemare la sua biblioteca in base ai contenuti dei volumi, “riscoprendo” così, autonomamente, il criterio adottato da tutte le istituzioni bibliotecarie occidentali23. Il passaggio così effettuato è quello da una classificazione lineare, in cui gli enti sono disposti lungo una retta in base a un criterio quantitativo, a una classificazione gerarchico-inclusiva, in cui ciascun ente è incluso in un solo gruppo in base a un criterio qualitativo, e ciascun gruppo, a sua volta, è incluso in un solo gruppo di livello logico più alto. Per una questione meramente spaziale, le classificazioni gerarchiche inclusive sono più sintetiche, più informative e, in caso di alta numerosità, di più rapido utilizzo rispetto alle classificazioni lineari. § 12. Visioni di noi stessi: alle origini del razzismo moderno Nel VII libro della Naturalis historia Plinio il Vecchio aveva descritto umani dalle forme bizzarre: con un occhio solo in mezzo alla fronte; coi piedi rivolti all’indietro e abili corridori; con gli occhi di civetta, la vista acuta e la testa grigia; ermafroditi e androgini; dalla testa di cane; con una sola gamba su cui saltano veloci; senza testa e con gli occhi nelle spalle; con due fori al posto del naso, alla stregua di serpenti; senza bocca e che si nutrono d’aria e profumo; e via dicendo. Le specie pliniane sono spesso raffigurate nei bestiaria medievali ed è sulla loro scorta che, a partire dallo stesso 23 Notiamo, comunque, che anche il sistema Dewey, su cui si basa la maggior parte delle classificazioni bibliotecarie, ha dei limiti seri e che, seppur solo raramente praticate, altre classificazioni sono possibili. Senza arrivare alla meraviglia logica delineata da Borges nella sua descrizione della biblioteca dell’imperatore cinese, basti pensare alla labirintica, ma stranamente coerente, biblioteca di Aby Warburg, ordinata in base a un criterio di “buon vicinato”. 17 Cristoforo Colombo, gli esploratori delle nuove terre ricercarono umani con un solo occhio, con muso di cane, o comunque dall’anatomia rimescolata. Non avendoli trovati sulle coste, s’ipotizzò che vivessero nell’interno dei continenti e si rimandò la scoperta a più tardi: di razze pliniane si continuò quindi a parlare anche durante tutta la prima modernità. Fu l’accumulo di decine e decine di relazioni di viaggio, in nessuna delle quali comparivano esseri umani dall’anatomia diversa da quella usuale, a persuadere infine l’Europa della sostanziale unità della specie, idea che era già stata elaborata nella cultura classica greca. Tale unità, sancita anche da un documento ufficiale di papa Paolo III, era ben vista dal cattolicesimo, religione universale costruita, in opposizione all’ebraismo, sul rifiuto dell’idea del “popolo eletto”. Poiché, dunque, non si davano razze umane davvero differenti, chi aveva interesse a sfruttare la forza lavoro degli indigeni cominciò a sostenere che le popolazioni delle colonie erano null’altro che “bestie parlanti”, animali antropomorfi e dotati di favella, ma collocati ben al di sotto nella gerarchia della Catena dell’Essere. In termini teologici, si sostenne che, pur avendo forma umana, i selvaggi non fossero tuttavia dotati di anima. Contro questo primo razzismo moderno reagirono con forza proprio i più rigidi tutori dell’ordine ecclesiastico: i predicatori domenicani e francescani, fra i più attivi nell’opera missionaria, sostennero che tutti gli esseri umani erano dotati di anima e che tutti, quindi, dovevano beneficiare della buona novella evangelica, pena la perdita della vita eterna. Questa querelle è ben rappresentata dalla «controversia di Valladolid», dove Juan Ginés de Sepúlveda, appoggiandosi all’autorità di Aristotele, sostenne che dietro fattezze umane potevano ben celarsi forme inferiori, mentre Bartolomé de las Casas difese la piena umanità degli indios d’America. Il dibattito non impedì che, forti della loro tecnologia, gli europei perpetrassero genocidi e deportassero in schiavitù popolazioni intere. Anche in questo frangente giocò l’idea della scala naturae: per giustificare il trattamento riservato alle popolazioni nere dell’Africa, agli indios e a tutti coloro che non riuscirono a resistere alle armi, si cercarono differenze all’interno della specie. Pur ammettendo che tutti gli umani fossero dotati di anima e figli dello stesso Dio, alcuni gruppi vennero descritti come ingenui, irrimediabilmente infantili e irrecuperabili all’età adulta; in quanto tali, essi dovevano, per il loro stesso bene, essere posti sotto il controllo degli europei, che li avrebbero salvati con una nuova fede e governati fino a renderli civili. 18 È in questo snodo che nasce il razzismo moderno, che ebbe un ruolo fondamentale nelle successive vicende storiche e filosofiche24. Scomparse per carenza di prove le razze pliniane, la ricerca delle differenze cadde sui caratteri anatomici secondari (il colore della pelle, la forma dei capelli, la complessione) e sui presunti attributi morali (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’immoralità dei costumi ecc.). L’umanità venne così divisa in razze caratterizzate da maggiore o minore dignitas. La storia stessa di quest’ultima parola aiuta a ricostruire gli eventi: in origine, infatti, dignitas non denotava affatto, come nell’uso moderno, un insieme di nobili caratteristiche morali, ma il puro e semplice rango su una scala. La ricerca dello strano e del meraviglioso si spostò allora sulla forma più endogena ed estrema della variabilità umana: comincia nel Seicento lo studio dei mostri, individui che, pur nati da donna, sono portatori di caratteristiche tali da rendere perplessi sulla loro umanità. La questione non riguardava solo i medici, che rintracciavano nell’eccesso o nella carenza del seme maschile le cause della mostruosità, ma anche i teologi, che s’interrogavano sull’opportunità del battesimo. Inoltre, così come avveniva per ogni prodigio naturale, l’arrivo del mostro portava con sé un’incertezza teologica, un’inquietudine riguardo al mondo divino: era un segnale da decifrare, una sorta di lettera in codice da parte dell’onnipotente. Da qui, anche, il crescente interesse per la gestazione e la nascita, fenomeni che, fino a quel momento, erano appartenuti esclusivamente al sapere delle donne e delle levatrici e che, progressivamente, furono delegati al sapere medico accademico25. § 13. Linneo, ovvero, gettare la scala Nella tassonomia, il passaggio logico fra classificazione lineare e classificazione gerarchica è compiuto da Linneo (1707-1778) nel Systema naturae. Per cominciare, Linneo sistematizza il modo in cui vengono nominati i viventi, riprendendo la nominazione binomiale – sviluppata duecento anni prima dai fratelli Bauhin e di fatto risalente ad Aristotele – che li etichetta linguisticamente facendo seguire al nome di genere (con l’iniziale maiuscola) il nome di specie (con l’iniziale minuscola). La decima edizione del Systema naturae, del 1758, che estende la nominazione binomiale dalle piante al regno animale, è considerata l’origine del moderno sistema di nominazione scientifica. Ancor più importante, Linneo sistema le specie secondo una tassonomia basata sulla gerarchia inclusiva, in cui le categorie superiori sono più ampie (ovvero, più inclusive e meno specifiche) delle categorie inferiori. Si comincia dunque con la categoria in assoluto più inclusiva e meno individuata, quella del regno. Il sistema della natura ne comprende tre: vegetale, animale e minerale. I regni, a loro volta, sono suddivisi in classi; a seguire, in ordine discendente, vi sono le categorie, progressivamente meno inclusive e più individuanti, di ordine, famiglia, genere e specie. La specie è, fra tutte, la categoria meno inclusiva e più individuante. Dai tempi di Linneo a oggi, numerosi altri livelli gerarchici sono stati aggiunti a questa classificazione, fermo restando il principio della proporzionalità inversa fra inclusività e individuazione. Arriviamo così a un punto cruciale. Ciascun raggruppamento si basa sul fatto che gli individui in esso inclusi condividono alcune caratteristiche – ovvero, nel caso delle specie viventi, si somigliano. Nella seconda metà del Settecento la somiglianza delle specie era tuttavia un concetto dallo statuto ambiguo: essa permetteva di accomunarle entro una classificazione più comoda di quella lineare, ma non poteva avere, nella visione classica 24 Lacoue-Labarthe P. & Nancy J.-L. (1991), Il mito nazi, Il melangolo, Genova 2013; Foucault M. (1997), Il faut défendre la société. Cours au Collège de France. 1976, Gallimard/Seuil, Paris 1997. 25 Prosperi A., (2005), Dare l'anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino. 19 della natura, alcun valore che non fosse meramente euristico. Linneo stesso pensò il Systema naturae innanzi tutto come una descrizione degli esseri viventi così come erano stati creati da Dio (ovvero, secondo la loro essenza, cui la classificazione binomiale attribuisce un nome sintetico e univoco), la cui sistematizzazione a più livelli gerarchici non era che un utile artificio logico, fermo restando che la distribuzione naturale dei caratteri restava rappresentabile solo attraverso la metafora della scala naturae. Notiamo, di passaggio, un fatto curioso: la strategia dell’“utile artificio” impiegata da Linneo per descrivere la classificazione gerarchica ricorda da vicino le cautele di Copernico nel proporre l’eliocentrismo, presentato anch’esso come utile artificio per semplificare i calcoli astronomici, fermo restando che la verità naturale era quella del geocentrismo. È troppo facile, in casi come questi, dare per scontata l’ipocrisia dell’autore e ridurre la cautela a scaltrezza per evitare censure; ciò significa, infatti, fare degli autori in questione qualcosa che non potevano essere: un galileiano ante litteram nel caso di Copernico, un evoluzionista ante litteram nel caso di Linneo. La storia delle idee è ben più complessa e accidentata, e difficilmente gli innovatori afferrano per intero la portata delle trasformazioni da loro stessi introdotte. Nel caso della tassonomia, la somiglianza viene introdotta da Linneo come criterio euristico di un artificio logico (quello della classificazione gerarchica). Il mutamento di mentalità avverrà solo dopo, a seguito della consuetudine dei ricercatori col sistema linneiano: permettendo di evitare le lungaggini della scala, l’artificio si dimostrerà infatti talmente utile nella prassi scientifica quotidiana da diventare, poco a poco, il modello stesso della distribuzione naturale e da soppiantare infine la metafora della scala. È solo a partire da quel momento – ovvero da quando la pratica tassonomica produce un cambiamento nella teoria – che la percezione dei naturalisti sposterà il proprio baricentro, ponendo come urgente un problema che prima di allora era letteralmente impensabile: quello di spiegare le somiglianze tra i viventi. A quel punto, infatti, le somiglianze non erano più, come per Linneo, una caratteristica secondaria che permette di formare gruppi, ma qualcosa di primario, reale e percepibile, che come tale è necessario comprendere. Da un certo punto di vista, si può perfino dire che il pensiero evolutivo nasce come spiegazione razionale della somiglianza fra le specie26. Pur presentata come artificio, la classificazione gerarchica rappresentava, fin dall’inizio, un pericoloso affondo alla sistematica basata sulla scala. Ciò è testimoniato dalle reazioni dei maggiori naturalisti dell’epoca: Buffon coerente col sistema della scala naturae, rifiutò sempre di tentare una classificazione degli animali per raggruppamenti sovraspecifici; Lamarck distinse invece la distribuzione generale (assegnazione di un organismo al suo giusto posto nella scala naturae) dalla classificazione (raggruppamento, del tutto artificioso, di specie in gruppi). Con singolare determinazione, e pur ponendoli al vertice del regno animale, fin dalla prima edizione del 1735 Linneo aveva collocato gli esseri umani nell’ordine Anthropomorpha, facente parte a sua volta della classe Quadrupeda. La cosa, seppure nell’aria già da qualche tempo fra gli studiosi di scienze naturali, non mancò di sollevare polemiche. Fino alla nona edizione del Systema naturae, l’uomo è l’unica specie al cui nome generico non segue alcun nome specifico: accanto a Homo Linneo riporta, con notevole ironia ma anche con una precisa scelta teorica, un vecchio adagio filosofico: nosce te ipsum, «conosci te stesso». Solo a partire dalla decima edizione compare il nome di specie – che tuttavia, più che un contrassegno specifico, è un riassunto dell’adagio: sapiens, «che sa», che conosce se stesso. L’oracolo di Delfi ancora si fa sentire nel modo in cui chiamiamo noi stessi. 26 Panchen A.L. (1992), Classification, evolution, and the nature of biology, CUP, Cambridge. 20 § 14. La questione della specie: Lamarck Se della sistematica antica il sistema classificatorio di Linneo getta la scala naturae e mantiene l’essenzialismo, Lamarck (1744-1829) segue la direzione opposta: getta l’essenzialismo e mantiene la scala: la prima teoria evoluzionista moderna, a sua firma, compare nella sua opera del 1809 intitolata Philosophie zoologique. Alla base del sistema lamarckiano sta l’idea della generazione spontanea della vita, ovvero la formazione di organismi viventi a partire da qualcosa che non è un altro individuo vivente. Nonostante possa sembrare sorpassato, questo concetto ha una storia lunga che prosegue ai giorni nostri27. Ve ne sono due versioni principali: l’abiogenesi, ovvero la produzione di viventi a partire da materia non organica; e l’eterogenesi, ovvero la produzione di viventi a partire da materia organica (viva o inanimata) di forma diversa e non imparentata. Generalmente accettata, pur con diversi dubbi, dai naturalisti dell’antichità, l’idea della generazione spontanea della vita viene curiosamente fatta propria anche dai padri della Chiesa, che ne fanno uso esegetico e contra hereticorum, e rimane sostanzialmente inattaccata fino al Seicento, quando gli esperimenti di Harvey e Redi ne mettono in dubbio la fondatezza. Superarla completamente, tuttavia, non è facile: per ogni specie esclusa dalla generazione spontanea, il confine si sposta indietro: a specie più piccole, alle forme viventi microscopiche di Needham e infine alle “molecole organiche” di Buffon, contro cui scrisse Spallanzani; ed essa ritorna necessariamente in causa ogni volta che, in biologia, si ragiona dell’origine della vita a partire da elementi abiotici. Un’idea popolare di generazione spontanea della vita sopravvive anche nel linguaggio e nella percezione comuni, secondo cui, ad esempio, «le castagne fanno i vermi» o «la carne fa le mosche». Lamarck lega l’idea della generazione spontanea degli organismi semplici a quella dell’evoluzione. La generazione spontanea è, nel sistema lamarckiano, un processo sempre in corso, che continuamente immette nel mondo naturale viventi estremamente semplici. Dal momento in cui compaiono nella forma più semplice, le specie cominciano progressivamente a farsi più complesse e a perfezionarsi. Questo processo richiede tempi lunghi, perché le trasformazioni sono lente, ed è finalisticamente orientato: a ogni passaggio la specie si fa un po’ più perfetta fino a raggiungere, al termine del percorso, la perfezione ideale rappresentata dalla specie umana, ovvero dalla forma più simile a quella divina. Il fatto che le specie attualmente viventi siano così diverse fra di loro e manifestino gradi di adattamento e di complessità differenti è spiegato da Lamarck in base alla loro origine più o meno recente: più antica l’origine, più la specie sarà complessa, adattata e simile agli esseri umani; più recente l’origine, più la specie sarà semplice, relativamente poco adattata e diversa dalla specie umana. In questo modo, transitando da strutture semplici a strutture complesse, ciascuna forma vivente ripercorre l’intera scala naturae (trasformata in una specie di scala mobile) in modo progressivo e lineare. In questa visione le specie non sono imparentate fra loro ma ripercorrono tutte, indipendentemente le une dalle altre, un medesimo asse evolutivo: la somiglianza, che fonda i gruppi tassonomici di Linneo, non ha in Lamarck altro significato se non il transito di specie diverse in punti attigui della scala naturae. Lamarck spiega la trasformazione delle specie attraverso due leggi. La prima è quella detta dell’uso e il disuso degli organi: in ciascuna forma animale l’uso continuo di un organo lo sviluppa e lo rinforza in modo proporzionale al tempo del suo utilizzo; viceversa, il disuso permanente indebolisce e riduce gli organi, diminuendone progressivamente la funzionalità fino a provocarne la scomparsa. L’uso e il disuso degli organi è prodotto dallo sforzo cosciente dell’animale per adattarsi al proprio ambiente. La seconda legge è quella dell’eredità dei caratteri acquisiti: tutte le acquisizioni e le 27 Vartanian A. (1974), Spontaneous generation, in Wiener P.P. (ed), The dictionary of the history of ideas: Studies of selected pivotal ideas, vol. 4., pp. 308-312. Charles Scribner’s Sons, New York 1973-74. (http://etext.lib.virginia.edu/cgi-local/DHI/dhiana.cgi?id=dv4-39). 21 perdite dovute all’uso e al disuso degli organi vengono conservate nella riproduzione e passate dall’individuo che le sviluppa alla sua prole. Primo a teorizzare in modo compiuto l’evoluzione degli organismi viventi e a intuire che, in biologia, la funzione precede la forma, il pensiero di Lamarck ha subito nei due secoli seguenti uno strano destino. Fino a poco tempo fa, le sue teorie erano presentate come interessanti errori che il darwinismo, di lì a qualche decennio, avrebbe infine corretto. In questa visione facilmente trionfale della storia della scienza si dimentica che Darwin non solo loda la teoria lamarckiana ma anche, nella terza edizione dell’Origine delle specie, accetta l’idea dell’uso e disuso degli organi attraverso la teoria della pangenesi. Inoltre, l’idea che i caratteri acquisiti vengano ereditati dalle generazioni successive resta ampiamente accettata fino agli esperimenti che August Weismann condusse alla fine dell’Ottocento tagliando la coda di una ventina di generazioni di topi e dimostrando che tale perdita non veniva passata alle generazioni successive. Col termine lamarckismo, usato di solito in modo vagamente spregiativo, s’intende oggi non già la teoria lamarckiana in quanto tale, ma l’idea che i caratteri somatici acquisiti da un organismo nell’arco della sua vita vengano poi passati alla prole. Fino a tempi recentissimi, ogni forma di eredità lamarckiana era ritenuta contraddittoria rispetto all’assunto base della genetica moderna, secondo cui la separazione fra caratteri somatici e caratteri genetici (la cosiddetta «barriera di Weismann») è invalicabile. Diverse importanti linee di ricerca nella genetica odierna hanno invece in qualche modo riaperto la strada a forme di eredità di tipo lamarckiano. § 15. La questione dei fossili: Cuvier La validità concettuale della scala naturae, già implicitamente accantonata nel Systema linneiano, fu messa definitivamente in mora durante i primi decenni dell’Ottocento dai lavori del maggiore rivale di Lamarck, il barone di Cuvier (1769- 1832). Il nuovo problema che sollecita la riflessione dei biologi è quello dei resti fossili di specie scomparse. La «questione dei fossili» non era nuova e diverse spiegazioni erano già state proposte fin dall’antichità. In epoca moderna, la presenza di conchiglie fossili sulle Alpi era stata accordata al paradigma biblico ipotizzando che il diluvio universale avesse innalzato il livello delle acque per poi lasciarsi dietro, nel rifluire, diverse forme viventi: la potenza del diluvio giustificava la presenza dei fossili nei posti più disparati. Ciò che invece si accordava male col racconto biblico era la presenza, fra i fossili, di forme attualmente estinte: nella Genesi sta infatti scritto che Noè salva tutti gli animali della terra. Cuvier interpreta gli esseri viventi come unità integrate, in cui forma e funzione sono organiche al funzionamento complessivo dell’organismo nella sua interezza: «le parti separate di ogni essere devono possedere un mutuo adattamento; ci sono pertanto talune caratteristiche nella conformazione che ne escludono tali altre, e altre che presuppongono l’esistenza di altre ancora». Ciò implica, tra l’altro, che ciascuna parte, per quanto minima, “porta il segno” dell’intero e che è quindi possibile tentare di ricostruire la forma generale anche a partire da pochi frammenti fossili. Non a caso, Cuvier aveva un’abilità leggendaria per le ricostruzioni fossili e l’anatomia comparata. La sua insistenza sull’integrazione funzionale gli suggerì anche di classificare gli animali in quattro “branche” (embranchements): Vertebrata, Articulata (artropodi e vermi segmentati), Mollusca (invertebrati bilaterali simmetrici) e Radiata (cnidaria e echinoderma), fondamentalmente diverse, che non potevano in alcun modo essere evolutivamente connesse. Le somiglianze fra gli organismi erano dovute solo a funzioni simili, non ad antenati comuni: la funzione determina la forma, e non viceversa. Se nessuna parte dell’organismo può essere modificata senza mettere a repentaglio 22 l’integrazione funzionale, è esclusa qualsiasi possibilità evolutiva: qualsiasi cambiamento produrrebbe, infatti, una perturbazione distruttiva del funzionamento d’insieme. Ma se tutti gli organismi sono adattati all’ambiente in cui vivono, è anche impossibile classificarli in base a un ipotetico “grado di perfezione”: i caratteri secondo i quali gli animali possono essere classificati sono tutti adattivi, relativi all’ambiente; non può quindi esservi alcun principio organizzativo fondato su una scala. Inoltre, la condivisione di caratteri adattivi simili permette di classificare le specie in gruppi naturali precisi. Come già detto, è uno spostamento concettuale importante: la classificazione gerarchica proposta da Linneo non è più percepita come comodo artificio, ma come descrizione di uno stato di fatto naturale, un modello attendibile della realtà28. In un primo momento, questo spostamento fu reso compatibile col dogma della creazione e con la presenza di forme fossili estinte attraverso la teoria del catastrofismo, di cui Cuvier fu esponente di punta: le classi animali sarebbero state create separatamente dalle altre, in tempi diversi, per incontrare esigenze adattive diverse, e cioè ambienti diversi. Il diluvio biblico sarebbe solo l’ultima catastrofe in ordine di tempo: altre l’avrebbero preceduto, spazzando via periodicamente l’universo animale, ogni volta ricreato da Dio secondo piani adattivi diversi. Quest’interpretazione della storia naturale giustificava e rendeva conto degli eventi di estinzione delle specie, possibilità all’epoca fortemente dibattuta. § 16. Lyell e la struttura del tempo Quando parte per il viaggio sul Beagle, Darwin porta con sé i Principles of geology il cui autore, Charles Lyell (1797-1975), per molti aspetti rappresenta per lui il modello stesso di scienziato. Lyell sostenne e diffuse la teoria dell’uniformità delle cause (detta anche uniformismo), che applica alla geologia il principio di massima parsimonia. La chiave del sistema di Lyell sta nell’asserzione secondo cui «il presente è la chiave del passato»: per la spiegazione degli eventi avvenuti nel passato non occorre ipotizzare nessuna causa eccezionale o straordinaria, nulla che esuli dalle leggi di natura che si vedono in azione nel presente. I processi del passato hanno operato allo stesso ritmo e con la stessa forza di quelli in opera nel presente; e poiché le forze in opera attualmente hanno intensità soltanto piccola o media, si deve supporre che le trasformazioni radicali siano dovute all’azione prolungata nel tempo di forze normali. In poche parole, Lyell rigettava completamente il catastrofismo di Cuvier e adottava una prospettiva ìgradualista, entro la quale c’era bisogno di postulare tempi lunghi per dar modo a forze di piccola o media intensità di agire fino a trasformare completamente la faccia del pianeta. All’epoca di Lyell l’intersezione fra studi classici, filologici, storici e naturalistici aveva già affrancato le scienze naturali dal limite dei 6000 anni stabiliti in base all’analisi del testo biblico. § 17. Intersezioni pericolose: Malthus Nel 1798 il pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834) pubblica, anonimo, An essay on the principle of population, a buon diritto ritenuto il saggio fondativo della moderna demografia. La sua influenza è enorme e, da un certo punto di vista, si può dire che l’intera riflessione occidentale sulle dinamiche delle popolazioni non è mai davvero uscita dall’orizzonte malthusiano. 28 Sulle intersezioni fra teoria scientifica, pratiche, modelli e psicologia dei ricercatori, Latour B. & Woolgar S. (1979), Laboratory life: Construction of a scientific fact, Princeton University Press, 1987. 23 L’Essay s’inseriva nel lunghissimo dibattito sui poveri, che interessava gli intellettuali europei a partire dalla fine del medioevo. Semplificando un po’, la questione può essere riassunta così: se sia o meno opportuno aiutare i poveri con apposite misure legislative e sociali che ne migliorino le condizioni. Il problema aveva cominciato a presentarsi con particolare urgenza proprio in Gran Bretagna dove, a seguito della prima transizione economica verso il regime del plus-valore, masse di ex-contadini, espropriati delle terre e di qualsiasi possibilità di sussistenza, si erano riversate per le strade del regno, pronte a trasformarsi nell’esercito proletario di cui le industrie, di lì a poco, avrebbero avuto bisogno29. Le proposizioni di Malthus sono semplici e si concatenano con l’andamento di un teorema matematico: (1) il cibo è necessario all’esistenza umana; (2) la popolazione umana tende a crescere a un ritmo maggiore di quello con cui crescono le risorse alimentari; (3) gli effetti di queste due crescite devono essere mantenuti uguali; (4) dal momento che gli esseri umani non limitano volontariamente il numero di individui («controllo preventivo»), la popolazione viene periodicamente ridotta dai «controlli repressivi» (da carestie, epidemie, povertà, guerra, ma anche dal vizio, categoria in cui Malthus include contraccezione, omosessualità, omicidio e infanticidio). Il perno di questo teorema è l’assunto secondo cui la popolazione cresce a un ritmo maggiore di quello delle risorse. Se la crescita delle risorse procede per ritmo aritmetico (1,2,3,4,5,…) quello della popolazione procede per ritmo geometrico (1,2,4,8,16,…); appaiate, le due serie indicano che, in breve tempo, la crescita della popolazione viene a essere del tutto sproporzionata rispetto a quella delle risorse. Secondo Malthus, la sproporzione fra le due serie è in grado di spiegare i ricorrenti periodi storici di povertà e miseria; di evidenziare i pericoli legati alla riproduzione incontrollata del neonato proletariato; e di consentire previsioni sull’andamento della popolazione – e quindi, anche, la pianificazione di adeguati interventi politici. Il pastore Malthus appoggiava naturalmente il freno morale (astinenza sessuale, matrimonio tardivo ecc.) come controllo preventivo sulla dimensione della popolazione; curiosamente, tuttavia, queste misure erano pensate soprattutto per le classi povere, implicitamente indicate come uniche responsabili del disequilibrio demografico. Cambiano i parametri di analisi ma non l’esito morale: prima dell’Essay, l’imputazione che veniva mossa alle classi inferiori era quella di essere povere (ovvero troppo pigre per meritare di essere ricche); dopo, il capo di accusa diviene quello di essere incontinenti (ovvero troppo lussuriose per meritare di essere ricche). La posizione di Malthus all’interno del dibattito sulle politiche sociali è una risoluta condanna degli aiuti ai poveri: alleviare le sofferenze delle classi svantaggiate significa infatti impedire che i necessari controlli repressivi facciano il loro corso, mantenendo l’intera popolazione in uno stato di pericoloso sovrannumero. In piena rivoluzione industriale, Malthus è il primo a teorizzare la crescita demografica come freno allo sviluppo. Fino a quel momento, la crescita della popolazione era stata vista esclusivamente come fattore positivo, poiché aumentava il numero di lavoratori disponibili sul mercato e quindi la forza-lavoro in generale. Malthus sottolinea, invece, che un alto tasso di fertilità, se aumenta la produzione lorda, tende comunque a ridurre il margine di guadagno pro capite. Questo nuovo modo di intendere la fertilità influenzò profondamente molti dei maggiori economisti dell’epoca, fra cui anche David Ricardo e Alfred Marshall. Ma l’influenza delle teorie malthusiane non si ferma all’Ottocento. Dall’Essay in poi, la questione demografica diventa, appunto, questione, e i toni che si usano per discuterne assumono spesso la medesima aura apocalittica che s’incontra nel fondatore. L’impostazione stessa dell’analisi demografica rimane, anche nella contemporaneità, schiettamente malthusiana. In linea di massima, si accetta come un dato 29 Marx K. (1867), Il capitale. Critica dell'economia politica, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1964 e 1994 (v. in particolare il cap. 24). 24 di fatto che la crescita demografica sia un problema sotto tutti i profili possibili (sociale, politico, economico, sanitario) e che, in quanto tale, richieda una soluzione. In altre parole. essa è letta fin da subito come evento indesiderabile e fonte di sciagura. L’unico elemento del capostipite che raramente viene conservato è la brutale schiettezza nel trarre le ovvie conclusioni di siffatte premesse: nessuno, oggi, affermerebbe pubblicamente che l’unica soluzione al problema demografico consiste nel lasciar morire di fame gli affamati. Ma, quanto al resto, le soluzioni individuate non si discostano molto da quelle che già si leggono nelle pagine dell’Essay: si tratta quasi sempre di estendere alle classi povere i virtuosi freni preventivi già adottati dalle classi ricche e che oggi, più polimorfi, prendono la forma non tanto della castità o del matrimonio tardivo, quanto dell’azione anticoncezionale. (Si pensi, per non fare che un esempio, ai fondi periodicamente stanziati per le campagne anticoncezionali in Africa: il dominio culturale passa anche per l’esportazione di problemi.) È però possibile impostare l’analisi in modo completamente diverso. Nella demogr