Storia della Russia PDF
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Questo documento tratta della storia della Russia, concentrandosi sull'arretratezza delle campagne e sugli inizi dello sviluppo industriale nel XIX secolo. Descrive le condizioni dei contadini e lo sviluppo industriale guidato dallo Stato, con l'influenza degli investimenti stranieri. Esamina anche la divisione tra occidentalisti e slavofili.
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1 Un impero conservatore e multinazionale Per tutto l’Ottocento la Russia fu la roccaforte del conservatorismo politico e sociale. Gli zar esercitavano un potere autocratico, cioè un potere personale assoluto, senza il controllo di alcun parlamento. L’aristocrazia, l’esercito, la Chiesa ortodossa e...
1 Un impero conservatore e multinazionale Per tutto l’Ottocento la Russia fu la roccaforte del conservatorismo politico e sociale. Gli zar esercitavano un potere autocratico, cioè un potere personale assoluto, senza il controllo di alcun parlamento. L’aristocrazia, l’esercito, la Chiesa ortodossa e la burocrazia imperiale, che costituivano circa il 5% della popolazione, appoggiavano il regime zarista e difendevano gelosamente i propri privilegi. La borghesia mercantile e imprenditoriale, presente quasi esclusivamente nella zona di Mosca e nei porti del Baltico, non deteneva invece alcun potere economico e politico. Questo sistema venne difeso in modo intransigente dagli zar: almeno fino al 1860 non venne tollerata alcuna forma di opposizione. L’Impero russo continuò a espandersi per tutto l’Ottocento: alla vigilia della prima guerra mondiale aveva ormai raggiunto un’estensione notevole. Al suo interno convivevano decine di popoli, caratterizzati da lingue e tradizioni diverse. I russi veri e propri non superavano il 45% della popolazione. Accanto a loro convivevano finlan- desi, polacchi, mongoli, georgiani, ucraini, lettoni: popoli conquistati che chiedevano autonomia e indipendenza. L’arretratezza delle campagne Uno dei problemi più gravi della Russia era l’arretratezza delle sue campagne. Le condizioni generali erano invariate ormai da secoli. Chiese, monasteri e grandi famiglie (circa 3000) possedevano il 90% della terra coltivabile. I contadini erano ancora sottoposti alla servitù della gleba e disponevano a stento del necessario per vivere, in quanto gran parte di ciò che producevano era incamerato dai ricchi proprietari terrieri. Il malcontento era generale e si manifestava in maniera violenta attraverso frequenti rivolte: solo negli anni fra il 1840 e il 1855 se ne contarono 350. Le sollevazioni dei contadini venivano regolarmente represse nel sangue. Lo zar Alessandro II (1818-1881), succeduto al padre Nicola I nel 1855, tentò di affrontare i problemi legati all’arretratezza attraverso una cauta politica di riforme. Il provvedimento più importante fu la legge del febbraio 1861 che abolì la servitù della gleba. Il contadino liberato riceveva in uso permanente, e non in proprietà, la terra che prima lavorava come servo. In cambio, però, doveva pagare un riscatto al proprietario. La legge, in realtà, concorse a peggiorare le condizioni di vita della massa dei contadini, che non sempre riuscivano a pagare il riscatto per la terra ottenuta. Furono favoriti soprattutto i kulaki, cioè i medi proprietari, che acquistarono parte delle terre, pagandole a basso prezzo, dai contadini schiacciati dai debiti. La riforma dunque finì per inasprire le tensioni esistenti nelle campagne. Gli inizi dello sviluppo industriale L’arretratezza dell’economia russa era particolarmente evidente nelle relazioni commerciali con l’estero: la Russia esportava soprattutto cereali e materie prime, mentre importava macchinari e prodotti industriali. Nella sostanza, dunque, il Paese dipendeva economicamente dall’Occidente e questa situazione era incompatibile con la politica di grande potenza cui aspirava. A partire dal 1870, pertanto, vennero compiuti grandi sforzi per sviluppare un’industria nazionale. Determinante fu l’appoggio dei capitali stranieri. I principali investitori furono la Francia, la Germania e la Gran Bretagna. Personale qualificato occidentale giunse in Russia per formare dirigenti e lavoratori dei nuovi complessi industriali. Anche lo Stato intervenne con finanziamenti, soprattutto nel settore siderurgico e in quello delle ferrovie. Fra il 1885 e il 1898 si ebbe un vero e proprio «boom». La produzione industriale crebbe complessivamente del 400%. I principali stabilimenti industriali sorsero intorno alle grandi città: Mosca (industria tessile); San Pietro- burgo (industria metallurgica); Baku (giacimenti petroliferi). L’industrializzazione fu un fatto innegabile e di notevole intensità, ma restò un fenomeno abbastanza superficiale. In particolare, lo sviluppo industriale non fu l’espressione della crescita all’interno della società russa di una borghesia imprenditoriale: fu un’iniziativa imposta dallo Stato, prevalentemente affidata a stranieri. Tuttavia il divario con l’Occidente iniziava a diminuire. Occidentalisti e slavofili: il populismo Ma conveniva veramente assumere l’Occidente come modello? Se lo chiedeva l’opposizione politica allo zarismo che era costituita soprattutto da intellettuali, studenti e dalla piccola borghesia istruita: in breve quella che in russo si chiama intellighenzia. Gli intellettuali si dividevano in occidentalisti e slavofili. Gli occidentalisti prospettavano una «via europea» al progresso. Essi valutavano positivamente il capitalismo e le sue conseguenze sociali e politiche: intendevano quindi introdurre in Russia sia l’economia capitalistica, sia la democrazia. In pratica si trattava di ripercorrere i tempi e i modi dello sviluppo economico, sociale e politico occidentale. Gli slavofili sostenevano al contrario una «via nazionale» allo sviluppo. La Russia doveva sfruttare il proprio «ritardo» storico e trarre profitto dagli errori degli altri Paesi, evitando le miserie della rivoluzione industriale e del capitalismo. Anche il liberalismo andava rifiutato. Lo sviluppo sociale e politico della Russia sarebbe partito non dalla borghesia o dal proletariato, come nei Paesi capitalisti, ma dai contadini. Gli slavofili infatti idealizzavano il popolo contadino, le sue tradizioni e la sua stabilità. Perciò il loro movimento prese il nome di populismo. I populisti intendevano alfabetizzare i contadini e renderli coscienti della loro condizione; essi prospettavano come scopo finale l’abbattimento dello Stato, da sostituire con comunità agricole. Alcuni esponenti del populismo prevedevano tra i metodi di lotta anche il terrorismo. Fu un populista infatti ad assassinare lo zar Alessandro II nel 1881. I populisti russi assunsero nel XX secolo il nome di socialrivoluzionari e come tali li indicheremo nelle vicende della rivoluzione. L’opposizione marxista Lo sviluppo industriale e le sue conseguenze sociali spinsero alcuni intellettuali ad avvicinarsi al marxismo. Questi intellettuali si opponevano al populismo su quattro punti fondamentali: → valutavano positivamente lo sviluppo tecnico, produttivo e sociale indotto dal capitalismo; → miravano ad una rivoluzione borghese democratico-liberale come base per la successiva rivoluzione socialista; → sostenevano che la rivoluzione doveva partire dal proletariato; → si impegnavano a diffondere nel proletariato la coscienza rivoluzionaria. Questa, e non il terrorismo, doveva essere, secondo i marxisti, il vero mezzo di lotta. Nel 1898 i socialisti russi fondarono il Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) che fin dal 1903 si divise in due correnti rigidamente contrapposte: → i bolscevìchi (da un termine russo che significa «la maggioranza»), capeggiati da Vladimir Uljanov, detto Lenin ; → i menscevìchi («la minoranza»), guidati da Jilij Cederbaum, detto Martov. Menscevichi e bolscevichi erano divisi sia sulla linea politica da seguire che sul tipo di organizzazione da dare al partito. I menscevichi volevano creare un partito di massa sul modello di quello socialdemocratico tedesco. Sostenevano la necessità di realizzare riforme sociali e politiche, accettando l’alleanza con la borghesia. Le elezioni politiche dovevano essere lo strumento democratico per raggiungere il potere. I bolscevichi, al contrario, volevano un partito formato da professionisti della politica. Secondo Lenin, il partito doveva guidare gli operai e i lavoratori all’abolizione della proprietà privata e alla collettivizzazione dei mezzi di produzione. Coerentemente con questi obiettivi, fin dal 1914 Lenin propose di modificare il nome del Partito operaio socialdemocratico russo in Partito comunista. Cosa che effettivamente avvenne nel marzo 1918. 2 La rivoluzione del 1905 Nel 1905, in seguito alla guerra contro il Giappone, la Russia visse una grave crisi. La guerra peggiorò le già misere condizioni di vita del proletariato e dei contadini. Il malcontento cresceva ovunque senza avere alcun mezzo legale per esprimersi. Il 9 gennaio 1905, circa 140000 persone sfilarono per San Pietroburgo e raggiunsero il Palazzo d’Inverno, residenza dello zar. Si trattava di una pacifica processione che avrebbe dovuto presentare allo zar una supplica per invocarne l’aiuto e la protezione. Ma l’esercito aprì il fuoco sui manifestanti. Rimasero a terra circa un migliaio di morti, più di duemila furono i feriti. Questa giornata passò alla storia come la domenica di sangue. La sanguinosa repressione causò scioperi e rivolte nelle fabbriche e nelle campagne di tutto il Paese. Anche nelle file della borghesia prese corpo l’opposizione nei confronti dello zarismo. Si formò un partito di ispira- zione liberale che prese il nome di Costituzionale Democratico: dalle iniziali (K e D, che in russo si leggono ka-de) i suoi appartenenti assunsero il nome di cadetti. Essi auspicavano la creazione in Russia di un sistema costituzionale moderato, lo sviluppo dell’economia e una certa liberalizzazione della vita politica e sociale. Intimorito dagli avvenimenti, lo zar Nicola II (1868-1918) promise libertà politiche e concesse l’elezione di un Parlamento, la Duma. Ma intanto la protesta si allargò fino a coinvolgere l’esercito: in giugno si ammutinò la corazzata Potëmkin e gli equipaggi delle navi inviatele contro si rifiutarono di aprire il fuoco sui rivoltosi. Il movimento di rivolta raggiunse il culmine in ottobre. A San Pietroburgo si ebbe uno sciopero generale e venne creato il primo soviet (in russo, «consiglio») dei lavoratori, a capo dei quali venne eletto il menscevico Lev Davidovicˇ Bronstein detto Trockij (1879-1940). Il soviet si proponeva come organo di governo e non solo come strumento di rivendicazioni economiche o sociali. Era evidente, a questo punto, il carattere politico della rivoluzione dell’ottobre 1905. La prima guerra mondiale Le Dume elette tra il 1906 e il 1917 non ebbero mai un ruolo effettivo. Furono sempre sottoposte a un rigido controllo e vennero sciolte ogni volta che assumevano posizioni critiche nei confronti dello zarismo. Dal 1906 al 1911 l’uomo forte del governo fu Pëtr Stolypin. Egli realizzò alcune moderate riforme economiche, che però non risolsero i gravi problemi della massa di conta- dini poveri. Perciò le tensioni crebbero e i socialisti, in particolare i menscevichi, divennero sempre più forti. La situazione precipitò con la prima guerra mondiale. Fin dai primi mesi apparve chiaro che l’economia russa non avrebbe potuto sopportare il peso di un conflitto così duro che, come abbiamo visto, coinvolgeva ogni sforzo produttivo dei Paesi belligeranti. Le condizioni della popolazione si fecero drammatiche. La produzione di grano diminuiva rapidamente e i prezzi salivano. La guerra diventava sempre più impopolare anche per l’incompetenza degli ufficiali. Nel 1915 la Russia subì un crollo militare e perse alcuni territori occupati nella prima fase del conflitto (Galizia, Bucovina) e il controllo dei territori polacchi. Si scatenò una nuova ondata di scioperi. La rivoluzione del febbraio 1917 Il 23 febbraio 1917 gli operai di Pietrogrado (così era stata ribattezzata San Pietroburgo nel 1914), insorsero in massa. Lo zar ordinò alle truppe di disperdere i manifestanti, ma l’esercito si rifiutò di obbedire e si schierò dalla loro parte. Iniziava la rivoluzione di febbraio, che si estese fino a coinvolgere anche Mosca. Ormai si chiedevano apertamente la distribuzione della terra e l’instaurazione della democrazia. Era evidente che il regime zarista non riusciva più a controllare la situazione. Perciò lo zar Nicola II il 2 marzo 1917 fu costretto ad abdicare. Finì così la monarchia zarista e nacque la repubblica. Quella di febbraio fu una rivoluzione rapida e con pochissime vittime; la facilità del successo si spiega col fatto che lo zarismo non riscuoteva più consensi nemmeno negli ambienti aristocratici più vicini al trono. La difficile vita della Repubblica Dopo la rivoluzione di febbraio, si formarono due centri di potere: → un governo provvisorio presieduto dal principe L’vov, un aristocratico aperto alle riforme e appoggiato dai borghesi; → il soviet di Pietrogrado, cioè il «consiglio dei deputati operai e soldati», formato da rappresentanti eletti nelle fabbriche e nell’esercito, dominato dai socialrivoluzionari (populisti) e dai menscevichi. Formalmente il potere legittimo era nelle mani del governo provvisorio, ma il soviet svolgeva sempre più funzioni di direzione politica. Questo dualismo di poteri indebolì la repubblica russa. Sia il governo provvisorio sia il soviet intendevano continuare la guerra, ma per motivi diversi. Secondo il governo provvisorio, la vittoria militare avrebbe rafforzato lo Stato e la borghesia, in modo da consentire in Russia l’instaurazione di un regime parlamentare moderato che avrebbe evitato sconvolgimenti sociali. Secondo il soviet, occorreva sconfiggere la Germania e l’Austria, potenze conservatrici e imperialiste, per difendere la rivoluzione. La soluzione dei gravi problemi sociali ed economici della Russia veniva rimandata alla fine della guerra. I rappresentanti del governo provvisorio prospettavano una vaga politica di riforme, mentre i socialrivoluzionari e i menscevichi puntavano più decisamente sulla riforma agraria, che avrebbe distribuito terre ai contadini. Il ritorno di Lenin: la svolta La Repubblica russa appariva incapace di far fronte agli immensi problemi del Paese. Questa era la situazione quando Lenin, il 4 aprile 1917, arrivò a Pietrogrado di ritorno dall’esilio in Svizzera. Lenin presentò ai bolscevichi un documento che riassumeva in dieci punti le cosiddette Tesi di aprile – le sue idee sui compiti immediati del partito. Le Tesi affermavano tre idee fondamentali: 1. tutto il potere ai soviet: abbattere con la forza il governo provvisorio e consegnare il potere ai soviet; 2. la pace: far uscire immediatamente la Russia dalla guerra; 3. la terra ai contadini: confiscare le terre e metterle a disposizione dei soviet locali. Questo programma suscitò molte opposizioni nello stesso partito bolscevico; molti esponenti bolscevichi accusarono Lenin di anarchismo. Ma quello che Lenin proponeva era esattamente ciò che le masse operaie e contadine volevano sentire: pace e terra. La nuova linea che Lenin impose al partito attirò i consensi delle masse, ma allontanò ulteriormente i bolscevichi dagli altri gruppi socialisti e dal governo provvisorio. La preparazione della rivoluzione Nel giugno del 1917 si svolse a Pietrogrado il I Congresso panrusso dei soviet (cioè l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province della Russia). I bolscevichi erano ancora una minoranza (105 delegati su 822) rispetto ai socialrivoluzionari e ai menscevichi. Per capire come i bolscevichi riuscirono a conquistare la maggioranza nei soviet e ad organizzare la rivoluzione, è necessario ricordare quanto avvenne in Russia nell’estate del 1917. Sul fronte della guerra, il governo provvisorio scatenò contro le forze austro-tedesche una vigorosa offensiva che però fallì rapidamente. Il 18 giugno le truppe vennero mandate all’assalto senza che l’azione fosse stata preparata adeguatamente e i soldati rifiutarono di combattere. Nel mese di luglio a Pietrogrado gli operai e i soldati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. I disordini vennero sedati dall’intervento di truppe fedeli al governo. Alcuni capi dei bolscevichi furono arrestati: lo stesso Lenin dovette rifugiarsi in Finlandia. Ma questo fu l’ultimo successo del governo provvisorio. Nel mese di settembre, il generale Kornilov, comandante in capo dell’esercito, marciò su Pietrogrado con le truppe e tentò di abbattere il governo repubblicano. Il governo, presieduto in quel momento dal socialrivoluzionario Kerenskij, riuscì a reprimere il colpo di Stato con l’appoggio degli operai, dei contadini e dei bolscevichi. Questi ultimi dunque uscirono rafforzati dalla vicenda e per la prima volta conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca. Intanto, nel corso dell’estate, Lenin scrisse il saggio Stato e Rivoluzione. In esso sosteneva che i bolscevichi dovevano distruggere lo Stato per dare vita alla «dittatura democratica» del proletariato e dei contadini: «dittatura» in quanto oppressiva nei confronti della borghesia, ma «democratica» perché avrebbe rappresentato l’enorme maggioranza della popolazione. La rivoluzione di ottobre La disfatta militare, la disoccupazione e la miseria dilaganti, l’appoggio crescente delle masse popolari spingevano sempre più i bolscevichi alla decisione di rovesciare con la forza il governo provvisorio. A questo scopo venne creata anche una forza militare, la Guardia Rossa. Uno dei principali organizzatori della rivoluzione fu Trockij. I preparativi non furono segreti: per tutto il mese di ottobre del 1917, sui giornali e nelle strade non si fece che parlare dell’insurrezione che i bolscevichi stavano preparando. Il 24 ottobre 1917 le guardie rosse, senza spargimento di sangue, occuparono i punti strategici di Pietrogrado. Alla centrale del telegrafo, per fare un esempio, si presentarono due rivoluzionari disarmati che si accordarono con gli operatori: d’ora in poi si sarebbero eseguiti solo gli ordini del soviet. La vita proseguì nella più assoluta normalità: i telefoni funzionavano regolarmente e anche i mezzi pubblici continuavano il loro servizio. Decisivo per le sorti dell’insurrezione fu l’atteggiamento dell’esercito. La guarnigione di Pietrogrado si dichiarò neutrale, favorendo in pratica l’azione dei bolscevichi. La sera del 25 ottobre i rivoluzionari conquistarono il Palazzo d’Inverno, che era la sede del governo Kerenskij. L’attacco al palazzo divenne un episodio-simbolo della rivoluzione, come lo era stata la presa della Bastiglia nel 1789, ma fu un avvenimento quasi incruento. In effetti la rivoluzione vinse provocando in tutto non più di una quindicina di morti. La notte del 25 ottobre fu dichiarato aperto il II Congresso panrusso dei soviet. I bolscevichi avevano conquistato il potere a Pietrogrado, mentre a Mosca la resistenza delle truppe fedeli alla Repubblica durò alcuni giorni. Il potere era nelle mani di Lenin; tuttavia nel Paese e nella capitale era diffusa la convinzione che i bolscevichi avrebbero resistito al governo al massimo un paio di settimane e che i conservatori avrebbero restaurato l’ordine con una intransigente controrivoluzione. Le sera del 26 ottobre Lenin salì per la prima volta alla tribuna del Congresso dei soviet, dando inizio al vero e proprio «potere sovietico» 3 I decreti sulla pace e sulla terra Il primo atto del Congresso dei soviet fu l’approvazione di due decreti: → il decreto sulla pace invitava i Paesi belligeranti a una pace immediata, senza annessioni territoriali; → il decreto sulla terra aboliva la proprietà privata della terra e disponeva di conseguenza la confisca delle grandi proprietà. Evidentemente i bolscevichi miravano a ottenere l’appoggio delle masse contadine offrendo ciò che esse avevano sempre chiesto. Contemporaneamente venne creato un nuovo governo rivoluzionario che fu chiamato Consiglio dei commissari del popolo. L’esecutivo era composto solo da bolscevichi ed era presieduto da Lenin. I suoi primi provvedimenti furono la nazionalizzazione delle banche e la consegna della gestione e del controllo delle fabbriche agli operai, in vista della nazionalizzazione. Il governo provvisorio doveva guidare la Russia sino all’elezione di una Assemblea Costituente. Le altre forze politiche, tuttavia, considerarono gli atti dei bolscevichi come un vero colpo di mano. Menscevichi e socialrivoluzionari di destra abbandonarono il Congresso dei soviet in segno di protesta, accusando i bolscevichi di aver affossato la democrazia. Solo i socialrivoluzionari di sinistra appoggiarono il nuovo governo. L’Assemblea Costituente Dopo molti rinvii, il 12 novembre 1917 ebbero luogo le elezioni per la formazione dell’Assemblea Costituente. I risultati furono sfavorevoli ai bolscevichi, che ottennero solo il 25% dei voti contro il 58% dei socialrivoluzionari, il 13% dei cadetti e il 4% dei menscevichi. Le campagne si erano schierate massicciamente con i socialrivoluzionari, mentre nelle città maggiori e al fronte i bolscevichi avevano raccolto ampi consensi, raggiungendo spesso la maggioranza assoluta. L’Assemblea Costituente si riunì il 18 gennaio 1918, ma i suoi lavori durarono un solo giorno, poiché i bolscevichi, constatata l’ostilità dell’assemblea nei confronti del nuovo potere, la sciolsero d’autorità alla fine della prima seduta. Il nuovo atto di forza rispondeva alle convinzioni più volte espresse da Lenin, che rivendicava il principio della «dittatura del proletariato» contro la democrazia borghese. Ma in questo modo i bolscevichi si isolavano definitivamente dalle altre componenti del movimento socialista e da tutta la tradizione democratica occidentale. Veniva anche fortemente ridimensionato il potere degli stessi soviet, che si limitavano a eseguire le direttive del partito bolscevico. La soppressione dell’Assemblea Costituente alienò definitivamente ai bolscevichi le simpatie di vasti strati popolari. Fuori dalla Russia, i governi dell’Intesa incominciarono a temere la pericolosità del potere sovietico. Moltissimi intellettuali e numerosi esponenti dell’aristocrazia abbandonarono la Russia e diedero vita a un imponente fenomeno di emigrazione politica: fra il 1918 e il 1926 gli esuli volontari furono più di un milione. La pace di Brest-Litovsk Uno dei principali problemi da affrontare, per il nuovo governo della Russia, era quello della guerra. Vennero intavolate trattative di pace con i Tedeschi, che occupavano già vaste zone dell’ex Impero russo. Essi stavano già minacciando Pietrogrado, perciò la capitale venne spostata a Mosca. I bolscevichi, che avevano promesso al popolo la pace, si trovarono a trattare con il nemico in condizioni di netta inferiorità. Il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk venne firmata la pace. Le condizioni erano durissime e implicavano la rinuncia a territori fertili e popolosi, ricchi di ri sorse minerarie. La Russia dovette accettare i seguenti punti: o cessione alla Germania delle regioni comprese fra la Bielorussia e il Caucaso; o riconoscimento dell’indipendenza della Finlandia e dell’Ucraina; o rinuncia alle pretese territoriali sui Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e sulla Polonia. Lo stesso Lenin, pur considerando questa pace necessaria, la definì «vergognosa». Le ripercussioni interne furono notevoli: i socialrivoluzionari uscirono dal governo e i bolscevichi rimasero veramente soli alla guida della rivoluzione. La guerra civile A partire dalla primavera del 1918 la repubblica dei soviet dovette fronteggiare una duplice minaccia: l’intervento armato delle potenze occidentali ai suoi confini e la guerra civile al suo interno. I governi dell’Intesa volevano eliminare il governo bolscevico principalmente per due motivi: → per ricostituire una repubblica democratica che proseguisse la guerra al loro fianco contro gli Imperi centrali; → per eliminare un pericoloso esempio di governo rivoluzionario, che avrebbe potuto alimentare l’opposizione operaia e socialista nei singoli Stati occidentali. Perciò truppe anglo-francesi e statunitensi sbarcarono prima nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero. Contemporaneamente, spinte da obiettivi espansionistici, truppe giapponesi si stabilirono a Vladivostok, sul Pacifico. I reparti delle potenze occidentali andarono ad appoggiare le forze controrivoluzionarie che si erano organizzate nel Paese sin dalla fine del 1917: erano le armate bianche (così chiamate dal colore della divisa dell’esercito zarista). Queste armate, guidate da ex generali zaristi, erano composte da truppe fedeli al vecchio regime, da contadini, funzionari e piccoli proprietari. Contro di loro combatteva l’Armata Rossa, l’esercito bolscevico costituito nel febbraio 1918 per iniziativa di Trockij. La guerra civile fra i «rossi» e i «bianchi» vide un susseguirsi di atrocità da entrambe le parti e costò complessivamente 3 milioni di morti. Fra questi, anche lo zar e i membri della sua famiglia, che erano prigionieri nella città di Ekaterinenburg: vennero giustiziati per ordine del soviet locale il 6 luglio 1918, perché si temeva che potessero essere liberati dai controrivoluzionari. Nell’estate del 1920 la guerra civile poteva dirsi conclusa con la vittoria delle truppe rosse, una vittoria favorita dall’appoggio dei contadini, che temevano, in caso di vittoria dei bianchi, di perdere quel poco che avevano ottenuto. Nell’aprile 1920 l’Armata Rossa dovette sostenere anche un altro attacco esterno. Approfittando della debolezza della Russia dilaniata dalla guerra civile, la Polonia cercò di riappropriarsi dei territori persi con la pace di Versailles (1919). L’invasione delle truppe polacche venne respinta dall’Armata Rossa che avanzò fino alle porte di Varsavia. Dopo alterne vicende, la guerra si concluse nel 1921 con l’acquisizione da parte della Polonia di parte della Bielorussia e dell’Ucraina. Un regime sempre più autoritario In piena guerra civile, nel luglio 1918, entrò in vigore la prima Costituzione sovietica. Essa affermava i «diritti del popolo sfruttato e oppresso». La Costituzione prevedeva che il nuovo Stato diventasse una repubblica federale e che ad essa si aggregassero liberamente le eventuali repubbliche socialiste che si fossero formate sia sul territorio dell’ex impero sia oltre confine. Fra il 1920 e il 1922 alla Repubblica russa si unirono le altre province in cui i bolscevichi erano riusciti a prendere il potere sconfiggendo le armate bianche. Così, nel dicembre 1922, nacque l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Intanto la guerra civile, lo scontro con le potenze occidentali e la guerra russo-polacca avevano indotto i bolscevichi ad accentuare i tratti autoritari del regime. Tutti gli oppositori, compresi i menscevichi e i socialrivoluzionari, furono dichiarati fuorilegge. Fu reintrodotta la pena di morte, che era stata abolita dopo la rivoluzione d’ottobre. Venne creata una polizia politica, la CEKA, che divenne famosa per i suoi metodi violenti e arbitrari. Il comunismo di guerra Nel 1917, quando i bolscevichi avevano preso il potere, le condizioni economiche della Russia erano pessime. Con il passare dei mesi la situazione divenne disastrosa. I contadini, che dopo il decreto sulla terra avevano costituito piccole aziende agricole, producevano per l’autoconsumo e non rifornivano le città. Il governo non era in grado di riscuotere tasse ed era costretto a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore, perciò l’inflazione era elevatissima. Le industrie erano nel caos: il «controllo operaio» delle fabbriche si risolveva spesso nell’appropriarsi e nel vendere parti di macchine o prodotti finiti. Nel 1918, anche per far fronte alle necessità della guerra civile, il governo bolscevico attuò in campo economico una politica autoritaria, che fu poi definita dallo stesso Lenin comunismo di guerra. Tutta la terra fu nazionalizzata; vennero statalizzate le grandi e medie industrie e venne soppresso il libero mercato dei beni a favore del controllo statale del commercio e della distribuzione. Lo Stato arrivò quindi a controllare tutti i settori dell’economia. Per risolvere il problema degli approvvigionamenti alle città e all’esercito, squadre di operai bolscevichi vennero inviate nelle campagne per strappare ai contadini tutto ciò che non fosse strettamente necessario alla loro sopravvivenza. Il «comunismo di guerra» continuò sino alla primavera del 1921. Questa politica ebbe effetti molteplici: se per un verso permise di assicurare il rifornimento dell’esercito nelle fasi più critiche della guerra civile, d’altra parte stimolò l’opposizione contadina, incrinando quell’alleanza che aveva portato la rivoluzione alla vittoria. Il malcontento dei contadini si manifestò attraverso varie sommosse. Ma la rivolta più grave fu quella dei marinai della base navale di Kronstadt (marzo 1921). Era un fatto assai significativo, perché i marinai di Kronstadt avevano appoggiato i boscevichi sin dall’inizio della rivoluzione. La spietata repressione di questa rivolta dimostrò che, sul piano politico, si stava accentuando enormemente il centralismo, cioè il potere incondizionato del partito e di Lenin. (} Avvenimenti p. 129) Il X Congresso e la Nuova Politica Economica Nel marzo 1921 si tenne a Mosca il X Congresso del Partito comunista. Esso vide la nascita della Nuova Politica Economica (NEP), che segnò la fine del «comunismo di guerra». La NEP si può così sintetizzare: → ai contadini veniva permesso di coltivare la terra per le loro necessità e di vendere le eccedenze, dopo aver consegnato allo Stato una parte del raccolto (una specie di imposta in natura); → il commercio spicciolo veniva legalizzato. Questa disposizione, che mirava a stroncare il «mercato nero», aumentò enormemente il numero e il potere dei piccoli commercianti, dei funzionari e dei piccoli industriali; → lo Stato manteneva solo il controllo delle fabbriche con più di 20 dipendenti e veniva creato un sistema di produzione misto, statale e privato. La NEP ottenne significativi risultati. Le condizioni dei contadini migliorarono e la produzione agricola aumentò. Ricomparvero nei negozi i beni di consumo, spariti nel periodo del «comunismo di guerra», e il Paese uscì dalla carestia. Nel 1926 la produzione agricola e quella industriale tornarono ai livelli del 1914. Questa manovra economica era stata voluta dallo stesso Lenin, anche sulla base degli sviluppi politici che si erano avuti nell’Europa occidentale. Nel 1921, infatti, dopo il complessivo fallimento delle iniziative insurrezionali in vari Stati europei era ormai chiaro che nessuna rivoluzione avrebbe avuto luogo in Occidente. Era evidente che l’Unione Sovietica sarebbe rimasto l’unico Stato socialista in Europa e dunque tutta l’attenzione doveva essere rivolta alla sua stabilizzazione Il partito unico Un altro provvedimento importante preso durante il X Congresso fu la proibizione del cosiddetto frazionismo, cioè l’organizzazione di correnti stabili nel partito. All’interno del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) non dovevano esistere contrasti. Si approvò la regola del cosiddetto centralismo democratico, successivamente adottata da tutti i partiti comunisti europei: nella sostanza, una volta che il partito assumeva una posizione era vietato contrastarla o anche solo manifestare il proprio dissenso; il militante poteva esprimere le proprie posizioni nel dibattito interno al partito, ma quando una decisione veniva presa diventava vincolante per tutti, anche per quelli che l’avevano contrastata. Si accentuava così il carattere autoritario del partito; il tempo della democrazia interna era finito. La dittatura del proletariato, già divenuta una dittatura dipartito, diventava dittatura di un ristretto numero di dirigenti bolscevichi: Lenin, Trockij, Kamenev, Zinov’ev e Stalin. Tutto il potere decisionale era nelle mani dei capi partito, di Lenin in particolare. L’URSS diventava sempre più uno Stato totalitario a partito unico. 4 I dissensi interni al partito Nell’estate del 1922 Lenin fu colpito dal primo attacco della grave malattia cerebrale che, nel gennaio 1924, l’avrebbe condotto alla morte. Si apriva così nel partito un periodo di dure lotte per la successione. Solo il grande potere personale di Lenin aveva potuto contenere i contrasti interni tra le due anime del partito che facevano riferimento a Stalin e Trockij. Questi erano i punti sui quali si contrapponevano maggiormente i due schieramenti → La gestione del partito: lo schieramento che faceva capo a Trockij denunciava la centralizzazione e la gestione autoritaria del partito. Trockij avrebbe voluto ridare spazio alla democrazia interna, limitando il processo di accentramento del potere nelle mani del segretario generale. → Il giudizio sulla NEP: Trockij accusava la NEP di favorire i contadini e i commercianti a spese della classe operaia. Egli proponeva invece di accelerare il processo di industrializzazione e riteneva necessaria la collettivizzazione della terra e il completo controllo statale dell’economia. Al contrario Stalin sosteneva in questa fase – al solo scopo di ostacolare gli avversari – la posizione di Bucharin, che voleva una certa libertà di commercio per i coltivatori e incentivare la produzione agricola, anche per rinsaldare l’alleanza tra i contadini e lo Stato. → La diversa valutazione della situazione politica internazionale e delle prospettive della rivoluzione: secondo Trockij un Paese arretrato come l’Unione Sovietica non poteva svilupparsi rimanendo l’unico Paese socialista sulla scena internazionale. Occorreva perciò diffondere i germi della rivoluzione in Occidente: era la tesi della «rivoluzione permanente». Stalin invece, pur restando fedele all’idea che il socialismo si sarebbe realizzato grazie allo sforzo comune del proletariato mondiale, riteneva che in tempi brevi bisognava puntare sull’edificazione del socialismo nella sola Unione Sovietica. L’URSS doveva diventare una potenza industriale stabile e competitiva e fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. Era questa la tesi del «socialismo in un solo Paese». L’affermazione di Stalin (1924-27) Trockij godeva di grande prestigio nel Paese: era stato l’organizzatore dell’Armata Rossa e poteva attribuirsi il merito della vittoria bolscevica nella guerra civile. Tuttavia, a partire dal 1922, il peso politico di Stalin era cresciuto costantemente. Nell’aprile di quell’anno Stalin era stato nominato segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Questa carica gli permise di impadronirsi della macchina del partito e di controllare la sempre più numerosa burocrazia sovietica. Controllare il partito significava controllare lo Stato, quindi detenere un potere decisivo sulla società. Il notevole «peso morale» di Trockij non poteva contare, invece, su alcuna stabile struttura di potere. Egli così guidava la cosiddetta «opposizione di sinistra». Un fatto importante che rafforzò Stalin nei confronti dei suoi avversari fu il riconoscimento (1924-25) dell’URSS come Stato sovrano dalla maggior parte dei Paesi europei che instaurarono con l’Unione Sovietica regolari relazioni diplomatiche. In questo modo si rafforzava l’idea che il momento rivoluzionario si fosse concluso e che si aprisse una fase di consolidamento e stabilizzazione. Il compito immediato era quindi quello di fare dell’URSS una grande potenza industriale e militare. Lo scontro fra i due schieramenti si risolse con la netta affermazione di Stalin. Nel 1927 Trockij e i suoi sostenitori furono addirittura espulsi dal partito. Stalin rimase il capo incontrastato dell’Unione Sovietica. Il solo Bucharin, fra i grandi capi bolscevichi, restava per il momento al suo fianco. Trockij iniziò un lungo esilio, che si sarebbe concluso nel 1940 a Città del Messico, quando venne ucciso da un sicario di Stalin. L’industrializzazione forzata Nel 1927 si verificò nell’URSS la peggiore crisi economica dagli anni del comunismo di guerra. La NEP venne accusata di aver favorito le campagne, i commerci e la piccola industria, penalizzando la grande industria e il proletariato urbano. Si imponeva ora una svolta radicale. D’altra parte la NEP era stata sempre considerata dai dirigenti del partito una soluzione di ripiego. Stalin decise quindi di industrializzare il Paese nel più breve tempo possibile e di realizzare il controllo completo dell’economia da parte dello Stato. Il fine proclamato restava l’instaurazione del socialismo. L’industrializzazione forzata implicava evidentemente trasformazioni decisive anche negli altri settori economici e in tutta la società russa. Il periodo che va dal 1928 al 1939 fu segnato di conseguenza da una serie di sviluppi politici, economici e sociali strettamente collegati tra loro. L’obiettivo dell’industrializzazione venne perseguito senza badare ai costi umani, sociali ed economici. Nel 1928 venne lanciato il primo piano quinquennale per l’industria, che fissava gli obiettivi della crescita industriale. Si doveva aumentare soprattutto la produzione di quelle materie prime (ferro, carbone, petrolio, acciaio, gomma) necessarie a loro volta per la produzione di macchinari e di beni di consumo. Veniva privilegiato così lo sviluppo dell’industria pesante, compiendo una scelta che avrebbe indirizzato anche la futura evoluzione dell’industria sovietica. La mobilitazione ideologica Gli ingenti investimenti necessari all’industrializzazione furono reperiti comprimendo enormemente i consumi interni e introducendo il razionamento di molti beni di consumo. Gli operai vennero sottoposti a ritmi di lavoro pesantissimi e ad una rigida disciplina. Poiché mancava personale altamente qualificato, il governo sviluppò l’istruzione tecnica e soprattutto fece ricorso a personale straniero, per lo più tedesco o americano, molto ben pagato. Per far fronte alla domanda di forza lavoro, venne immesso nelle industrie un gran numero di contadini, reclutati forzatamente nelle campagne: il contadino scelto per il trasferimento non poteva rifiutarsi di lasciare il proprio villaggio. In questo modo la popolazione delle città aumentò sensibilmente. Per sostenere un tale sforzo produttivo venne organizzata anche un’abile operazione propagandistica. Il regime cercò in ogni modo di mobilitare e motivare gli operai ai quali chiedeva enormi sacrifici. I lavoratori migliori venivano promossi e premiati con onorificenze. Nell’URSS di Stalin veniva promossa una vera e propria tecnica organizzativa del lavoro individuale, lo stachanovismo, che aveva come fine il raggiungimento dei migliori risultati in termini di efficacia produttiva. Grazie a questo sforzo immenso, l’Unione Sovietica divenne nel giro di pochi anni una grande potenza industriale. La produzione della grande industria crebbe, nel periodo 1928-1932, del 40%. Nel 1932 fu lanciato il secondo piano quinquennale (1933-37). I risultati ottenuti superarono le previsioni: la produzione globale dell’industria ebbe un incremento pari al 121% rispetto al 114% previsto. Il terzo piano quinquennale, che avrebbe dovuto porre le basi materiali per l’edificazione del socialismo, fu interrotto dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Il settore che si sviluppò maggiormente alla fine degli anni Trenta fu quello degli armamenti, anche a causa delle tensioni internazionali. La collettivizzazione forzata Negli anni dell’industrializzazione forzata, le autorità sovietiche piegarono totalmente l’agricoltura alle necessità dell’industria. Lo Stato assunse il controllo delle campagne confiscando le terre dei kulaki. Tutti i contadini furono costretti ad entrare in grandi unità produttive collettive: i kolchozy e i sovchozy. Poiché i kulaki reagirono con violenza alle espropriazioni, nel 1929 Stalin proclamò la necessità di eliminarli come classe. Bucharin e i suoi sostenitori si opposero, affermando che non si doveva spezzare l’alleanza tra il regime e i contadini. Ma vennero accusati di essere «deviazionisti di destra» e furono sconfitti, così come era successo agli oppositori «di sinistra». La collettivizzazione continuò adottando una spietata repressione. Tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e al trasferimento nelle fattorie collettive vennero considerati «nemici del popolo», come tali arrestati e, dopo processi sommari, fucilati o deportati in Siberia. I kulaki dunque furono eliminati non solo come classe, ma anche fisicamente. Complessivamente alcuni milioni di persone furono vittime della collettivizzazione forzata. Alla fine degli anni Trenta, lo Stato controllava totalmente le campagne; ogni attività indipendente, commerciale o produttiva, era di fatto proibita. L’eliminazione di ogni opposizione Parallelamente alle grandi trasformazioni economiche l’URSS conobbe, nel corso degli anni Trenta, un processo di eliminazione integrale di ogni possibile opposizione a Stalin e alla sua politica. Gli anni tra il 1935 e il 1938 si caratterizzarono per le grandi epurazioni o purghe: tutti i vecchi dirigenti bolscevichi che in qualche modo opponevano resistenza al potere di Stalin, furono accusati di complotto, di alto tradimento, di antibolscevismo, vennero condannati e giustiziati. Spesso le prove della colpevolezza erano le confessioni degli imputati estorte con la tortura. Nel 1939 erano stati eliminati 110 dei 139 membri del Comitato centrale in carica durante il XVII congresso del partito nel 1934, e 1108 dei 1966 delegati presenti a quello stesso congresso. Anche Bucharin, accusato di «trockijsmo», fu processato e fucilato nel 1938. Una purga altrettanto radicale colpì l’esercito tra il 1937 e il 1938: vennero fucilati 3 dei 5 marescialli dell’URSS, 60 dei 67 comandanti di corpo d’armata, 133 dei 199 comandanti di divisione, i 10 primi ammiragli e migliaia di altri ufficiali. Non vi fu strato della popolazione risparmiato dal terrore di massa. La repressione colpì anche decine di migliaia di professionisti, tecnici, intellettuali: chi non veniva giustiziato era deportato nei campi di lavoro detti gulag. Complessivamente, si stimano in circa 3 milioni le vittime dello stalinismo. Il totalitarismo e il culto del capo L’economia, la cultura, le arti, la stampa, tutto venne controllato, censurato e guidato. Il governo imponeva in ogni settore della vita civile e militare una rigida disciplina facendo leva sul patriottismo: tutto, infatti, dalle lettere alle scienze, doveva concorrere alla «difesa» e all’esaltazione della patria socialista. L’URSS, dunque, presentava tutte le caratteristiche dello Stato totalitario: l’esistenza di un partito unico, la statalizzazione di tutta l’economia, il monopolio dell’attività sindacale e politica da parte del partito dominante, il monopolio della cultura e dei mezzi di comunicazione ed informazione. Complemento decisivo all’edificazione dello Stato totalitario fu il culto del capo, cioè di Stalin, che interessò tutta la società sovietica. Il capo incarnò la continuità del processo rivoluzionario: egli era l’infallibile successore di Lenin, colui che aveva compiuto ciò che il suo predecessore aveva solo iniziato. L’intera storia del bolscevismo venne riscritta dagli storici staliniani, e in essa la figura di Stalin giganteggiava al di là di ogni realtà storica. Tutti gli errori e gli insuccessi vennero attribuiti all’attività dei sabotatori, dei «nemici del popolo» e degli oppositori. Insieme a tutti questi aspetti bisogna in ogni caso riconoscere che Stalin e la sua politica godevano del consenso di milioni di Sovietici, che vedevano il loro Paese trasformarsi velocemente in una grande potenza industriale, nella quale la piaga dell’analfabetismo veniva combattuta efficacemente e i servizi sanitari, assistenziali e sociali interessavano milioni di persone che non ne avevano mai beneficiato prima. Ma accanto al miglioramento delle condizioni generali delle masse stava la fine di ogni tratto democratico nella vita sociale: il terrore, il conformismo di massa, il dominio della burocrazia, il monopolio del potere caratterizzavano la società sovietica.