Riassunto Processi Cognitivi e Motivazione - Appunti di Psicologia dell'Apprendimento (PDF)

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These notes cover cognitive processes and learning in psychology (A.A. 2019-2020). They explore various approaches, including behaviorism, cognitive psychology, and neuroscience. The document also introduces key concepts like attention, perception, and memory.

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Appunti di psicologia dell’apprendimento A.A. 2019-2020 Capitolo 1: “Le basi del funzionamento cognitivo e dell’apprendimento” L’attività psichica può essere consapevole o inconsapevole e nei processi cognitivi e nell’apprendimento bisogna tenere conto di entrambe le tipologie di attività. Quattr...

Appunti di psicologia dell’apprendimento A.A. 2019-2020 Capitolo 1: “Le basi del funzionamento cognitivo e dell’apprendimento” L’attività psichica può essere consapevole o inconsapevole e nei processi cognitivi e nell’apprendimento bisogna tenere conto di entrambe le tipologie di attività. Quattro orientamenti sul funzionamento mentale e dell’apprendimento: - Comportamentismo. L’analisi si concentra sul comportamento e le sue modificazioni. - Neuroscienze cognitive. Si può comprendere il funzionamento della mente solo s si conoscono le sue basi biologiche (processi psichici + aspetti neurali-fisiologici, aree del cervello dedite a specifiche funzioni). - Psicoanalisi. La parte fondamentale della mente sono i suoi stati inconsapevoli (il famoso iceberg di Freud). - Psicologia cognitiva. Mette al centro dell’analisi i processi e le abilità della mente. Nasce negli Anni ’50 e si sviluppa maggiormente negli Anni ’60. La psicologia cognitiva sarà il focus di tutta la trattazione. La nascita della psicologia è fissata al 1879, quando il professor Wundt fondò a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale. Fu criticato quasi subito, perché il suo studio si avvaleva di uno sguardo soggettivo sulla propria mente e osservare la propria psiche implica il fatto che questa venga modificata dall’atto stesso di osservarla. Nel 1913, Watson pubblica l’articolo “Psychology as the Behaviourist views it”, che in ambito americano sancisce il successo dell’approccio comportamentista, il quale sostiene che l’unico modo di studiare la psiche sia osservare i comportamenti manifesti. Questo approccio è appoggiato dalla concezione darwinista di contiguità uomo-animale in primis e dai successivi studi di Pavlov sul condizionamento (esperimento col cane). Secondo i comportamentisti, gran parte di ciò che noi siamo è il risultato degli apprendimenti. Alla base degli apprendimenti più complessi vi sarebbe il condizionamento. il condizionamento classico mostra come alla base degli apprendimenti ci sia un’associazione tra semplice tra due eventi che compaiono più volte in maniera contigua temporalmente (Pavlov, 1916). È Pavlov a condurre l’esperimento con il cane: a uno stimolo neutro (un campanello) veniva associato il cibo. Dopo poco tempo il cane iniziava a salivare già da quando udiva il campanello, producendo quindi un riflesso condizionato. 1 Skinner e altri psicologi hanno dato in seguito importanza a un particolare tipo di condizionamento, quello operante (Skinner, 1938). Secondo questo principio, è sufficiente che a un comportamento spontaneo seguano conseguenze rilevanti per il sistema motivazionale dell’individuo (rinforzi), perché la probabilità di riproduzione del comportamento muti. Skinner compie l’esperimento della Skinner box, in cui i ratti abbassavano una leva per ricevere del cibo. Un esempio di condizionamento operante è quando un bambino con disturbo dell’attenzione disturba in classe in modo da ottenere la reazione di compagni e insegnanti. Per scoraggiare questo comportamento, compagni e insegnanti devono ignorare il soggetto quando disturba e valorizzarlo quando è tranquillo. Queste reazioni incoraggiano la comparsa del comportamento positivo del bambino e scoraggiano la comparsa del comportamento ritenuto sbagliato. Non tutti i comportamenti sono il risultato di apprendimento (Chomsky, 1957) e allo stesso tempo le associazioni più semplici spesso nascondono processi cognitivi complessi. Lo sviluppo e l’apprendimento sono influenzati dalle basi biologiche dell’individuo (i suoi geni) e dall’interazione con l’ambiente. I bambini hanno un’enorme capacità di apprendere e studiare l’interazione tra aspetti innati dell’individuo e l’ambiente è una questione centrale dell’apprendimento. Le connessioni neurali di cui siamo dotati ci rendono più o meno adatti a svolgere un compito, ma le aree cerebrali possono in ogni caso essere potenziate. Esistono due concetti trasversali a tutti gli ambiti della psicologia: - Velocità di elaborazione (speed of processing). Quanto la mente è veloce nel compiere le sue attività. Le operazioni complesse sono a loro volta composte da passi rapidissimi e semplici. Più la mente è veloce a compiere passi semplici, più riuscirà in compiti complessi e sarà in grado di combinare più operazioni e avere tempo e spazio mentale per svolgere i compiti più complessi. La velocità di elaborazione evolve negli anni della crescita per stabilizzarsi in età adulta e decrescere nella maggiore età. - Funzioni esecutive. Funzioni di controllo e gestione della mente (ne controllano e gestiscono il funzionamento). Sono associate prevalentemente ai lobi frontali (parte anteriore del cervello). Alcune delle operazioni che svolgono sono: passaggio da un compito ad un altro, gestione di due compiti concomitanti, pianificazione, organizzazione. Anche queste evolvono nel corso della vita. Le abilità di apprendimento cambiano durante lo sviluppo, tra queste la capacità di recepire e rappresentare le stimolazioni, i meccanismi sottostanti che sorreggono gli apprendimenti, come la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione e le funzioni esecutive, le conoscenze utilizzabili, le strategie e la metacognizione. 2 Capitolo 2: “Attenzione e Percezione” Attenzione L’attenzione è quel processo che opera una selezione tra tutte le informazioni che in un dato momento colpiscono i nostri organi di senso (stimoli esterni) o i nostri ricordi (stimoli interni), consentendo soltanto ad alcuni stimoli di accedere a successivi stadi di elaborazione. Per “prestare attenzione” abbiamo la facoltà di orientare i nostri organi di senso in modo da favorirla, ad esempio muovere gli occhi per includere l’oggetto di nostro interesse, spostare l’attenzione su ciò che vediamo o sentiamo anche senza fare alcun movimento. Quando “prestiamo attenzione” mettiamo in moto tre processi a cui corrispondono i tre fondamentali tipi di attenzione. PROCESSI: 1. Attivazione. Fase inziale in cui ci concentriamo sui cambiamenti che avvengono nell’ambiente circostante. 2. Focalizzazione. Fase intermedia in cui concentriamo le nostre risorse attentive sull’oggetto di nostro interesse. 3. Gestione delle risorse attentive. Mantenimento dell’attenzione. Ogni fase dell’attenzione corrisponde in particolare a un tipo di attenzione che la coinvolge maggiormente: TIPI DI ATTENZIONE. 1. Attenzione sostenuta. Associata al processo di attivazione perché l’attenzione è meglio sostenuta quando vi si associa un livello ottimale di attivazione. È la capacità di prestare attenzione a uno stesso stimolo per un tempo prolungato. È influenzata da caratteristiche personali e caratteristiche dello stimolo. - FENOMENI ASSOCIATI: abituazione: si verifica quando a causa della famigliarità di uno stimolo ripetuto, l’attenzione nello svolgimento del compito cala. Disabituazione: si verifica quando, per evitare l’abituazione, si fornisce uno stimolo nuovo che fa alzare di nuovo il livello di risorse attentive in gioco. 2. Attenzione selettiva. Associata alla fase di focalizzazione, l’attenzione selettiva ci permette di concentrarci ed elaborare in modo privilegiato le informazioni rilevanti per gli scopi che perseguiamo. Più l’informazione utile è elaborata in modo efficiente, più può essere 3 utilizzata per l’accesso ad altri processi cognitivi e guidare la scelta delle risposte. Il movimento degli occhi in particolare rappresenta la velocità delle azioni della mente. - FENOMENI ASSOCIATI Focalizzazione: Quando uno stimolo è tanto rilevante da catturare la nostra attenzione, noi ci focalizziamo su quell’oggetto. Esempio: weapon focus in soggetti che sono stati aggrediti e si ricordano molti particolari dell’arma ma poco o nulla del volto dell’aggressore. Cocktail party: capacità di selezionare gli stimoli sonori su cui dirigere l’attenzione, ignorando o attenuando gli altri, come a una festa in cui, essendoci molto rumore, concentriamo le nostre risorse attentive sulla persona che ci parla direttamente. Cecità da disattenzione: incapacità di notare altri stimoli nell’ambiente potenzialmente importanti, essendo concentrati su un dato stimolo. Cecità al cambiamento: incapacità di notare cambiamenti nella scena circostante. Esempio: il video di Simons e Chabris in cui i giocatori in bianco e in nero si passano una palla e una persona vestita da gorilla entra nella scena, cammina in mezzo a loro, si batte i pugni sul petto ed esce. Il 50% delle persone cui è stato mostrato il video non si sono accorte del gorilla perché concentrate a contare i passaggi. 3. Attenzione divisa. È la capacità che ci consente di suddividere le nostre risorse attentive su più compiti contemporaneamente ed è sotto controllo consapevole. Dipende: dalla natura dei compiti, da quante risorse attentive richiedono, dal loro grado di automatizzazione. Ad esempio, possiamo essere particolarmente efficienti in svolgere contemporaneamente due compiti come cantare e farci la doccia, perché queste due azioni coinvolgono due domini diversi. Anche parlare e guidare l’auto sono due azioni che possono essere svolte insieme perché guidare può diventare facilmente un compito automatico se lo si fa da molti anni. L’attenzione quindi agisce come un filtro che seleziona le informazioni rilevanti e scarta quelle non rilevanti. Ma a che livello è possibile affermare questo? Esistono 3 teorie sul filtro dell’attenzione: 1. Filtro precoce (Broadbent, 1958). Agisce come un “collo di bottiglia” in cui le informazioni non importanti vengono immediatamente tralasciate e decadono entro pochi secondi. Esperimento dello shadowing: si chiede di ascoltare due messaggi e di ripeterne uno. La persona non si ricorda il messaggio che non le è stato chiesto di ripetere. 2. Filtro attenuato (Treisman, 1960). Attenua o riduce la forza delle informazioni a cui non si presta attenzione. Vale a dire, tutte le informazioni arrivano al sistema cognitivo, ma arrivano debolmente e vengono tralasciate oppure sono elaborate in modo blando. 3. Filtro tardivo (Deutsch&Deutsch 1963, Duncan 1980). È la teoria più accreditata. Secondo questa teoria, tutte le informazioni sarebbero elaborate dal sistema cognitivo e solo in seguito ne verrebbe valutata la salienza. In altre parole, noi elaboriamo tutte le informazioni, ma teniamo in considerazione solo ciò che ci interessa, tralasciando il resto. Effetto Stroop (Stroop, 1935): dimostra che non tralasciamo alcuna informazione. Vengono mostrati i nomi dei colori scritti un colore diverso da quello indicato dal significato, ad esempio “rosso” scritto in blu. Quando ci chiedono di dire il colore che vediamo e non la parola, impieghiamo più tempo a elaborare l’informazione perché siamo “distratti” dal significato della parola. Quando lo stimolo è congruente (“rosso” scritto in rosso) siamo molto veloci. Al contrario 4 quando lo stimolo non è congruente impieghiamo più tempo a elaborare l’informazione che ci serve e tralasciare quella che non ci serve. Teorie recenti evidenziano come abbiamo un certo grado di controllo sulla tipologia di filtro che vogliamo utilizzare in base alle caratteristiche del compito (Johnston e Heinz, 1978). Secondo un altro punto di vista invece saremmo dotati di un sistema ibrido (Yantis e Johnston, 1990). I processi controllati - richiedono un alto investimento di risorse attentive; → si basano sulla consapevolezza e l’intenzionalità di raggiungere uno scopo; - possono essere eseguiti solo uno alla volta; - richiedono maggiore tempo; - hanno il vantaggio di poter esser modificati nel breve periodo per adattarsi ad ambienti e situazioni nuove; Quando noi svolgiamo molte volte un compito che richiede controllo, il processo per svolgere quel compito può diventare automatico. Esempi possono essere: guidare, scrivere, leggere, calcolare, ecc.; I processi automatici quindi: - sono dei processi che cadono al di fuori della nostra consapevolezza per effetto della pratica; - non richiedono sforzo attentivo o intenzioni precise; - non sottraggono attenzione e ci permettono di destinare le nostre risorse attentive ad altre attività svolte contemporaneamente; Errori di attenzione. I processi automatici possono interferire con i processi volontari e creare quelli che vengono chiamati errori di attenzione (Reason, 1990). Un “errore di modo” è un’azione automatica inopportuna nel momento in cui la si svolge, come ad esempio cercare di togliersi gli occhiali senza rendersi conto che non li si sta portando. Un “errore di cattura” è invece l’attivazione erronea di uno schema, come ad esempio recarsi in una stanza e non sapere come mai ci si trova lì. Norman e Shallice (1986) ipotizzano l’esistenza del SAS, Sistema Attentivo Superiore, che controlla la sequenza delle nostre azioni e monitora il grado di controllo richiesto per eseguirle. Il SAS agisce anche a livello volontario, in quanto ha accesso al mondo esterno e alle intenzioni di un individuo e interviene aumentando le risorse attentive per una data azione al bisogno. Percezione Attraverso gli organi di senso, riceviamo delle sensazioni. Però perché queste siano elaborate abbiamo bisogno di elaborarle. Questo può essere fatto attraverso la percezione, un processo 5 costruttivo di strutturazione delle sensazioni. Queste vengono quindi organizzate in oggetti, eventi e situazioni e siamo in grado di dare un significato. Così siamo in grado di immagazzinare le sensazioni e di riutilizzarle per risolvere problemi come spostarsi nello spazio, riconoscere e afferrare oggetti, ecc. Esistono due tipi di percezione e si dividono in base a che processo seguono. Bottom-up: l’elaborazione è guidata dai processi sensoriali. Le informazioni sensoriali sono sufficienti alla percezione dello stimolo, che ha un proprio “ordine interno” e lo elaboriamo nel modo più lineare possibile. Top-down: l’elaborazione procede a partire dai nostri processi cognitivi superiori. Lo schema di conoscenza influenza la nostra percezione. Costruiamo la nuova conoscenza sulla base di quelle già possedute. Percezione bottom-up Gli psicologi della Gestalt (1912, Germania) hanno individuato dei principi secondo cui lo stimolo avrebbe una propria forma e struttura organizzata che permette un tipo di percezione bottom-up. Per la nostra percezione visiva, è importante il paradigma figura-sfondo: quando riconosciamo un oggetto, istintivamente la parte meno estesa rappresenta la figura e la parte più estesa lo sfondo, come nella figura di Rubin, in cui si può vedere alternativamente un calice o due volti uno davanti all’altro. Nella percezione, anche le costanti percettive hanno la loro importanza; secondo questo principio, un’immagine che presenta stesso colore, forma, grandezza viene percepita uguale dalla nostra retina anche quando cambiano le dimensioni dell’immagine o la luce che la retina riceve. Organizziamo percettivamente gli stimoli in base al contesto in cui percepiamo lo stimolo. Attivando l’attenzione selettiva possiamo percepire i dettagli oppure l’insieme. Questo è determinato dalle caratteristiche dell’individuo, dal suo stile cognitivo. Esistono infatti persone più globali, che percepiscono un oggetto nel loro insieme, o persone più analitiche, che si concentrano sui dettagli. Normalmente si passa da un’elaborazione globale a una locale, cioè si passa dall’insieme ai singoli elementi che lo compongono, ma una non chiarezza nel contesto può portare a una percezione meno precisa, in cui sarà possibile trovare un numero più alto di variabili individuali. Nella percezione bottom-up, attuiamo dei principi di organizzazione percettiva: Principio di vicinanza → dato un insieme di elementi uguali, quelli vicini tra loro tendono a essere percepiti come un gruppo; elementi vicini vengono inclusi nel gruppo a scapito di quelli lontani; Principio di somiglianza → si tende a raggruppare gli elementi che si assomigliano e a percepirli come un’unica figura, mentre il resto diventa lo sfondo; Principio di buona continuazione → l’immagine che ha il minor numero di interruzioni o cambiamenti diventa un’unità percettiva. Principio di chiusura → tendiamo a “completare” una figura quando la percepiamo per darle una forma coerente (triangolo di Kanisza); 6 Principio di contiguità o destino comune → la contiguità è la vicinanza nel tempo o nello spazio; secondo la nostra percezione, l’elemento precedente diventa causa di quello successivo (ad esempio, dati due punti A e B, se si accende prima l’uno e poi l’altro, la nostra percezione ci fa credere che il punto luminoso si sia spostato da A a B); Principio di regione comune o contrasto cromatico → gli stimoli che si trovano in un’area comune tendono a essere considerati come un gruppo; Percezione top-down Quando percepiamo elementi che ci sono famigliari (già presenti nella nostra esperienza) non ci focalizziamo su tutti i dettagli, ma cogliamo quelli che bastano a raggiungere il nostro scopo. Quando ci concentriamo su qualcosa che già conosciamo, i nostri occhi si fissano meno e per un tempo più limitato rispetto a quando incontriamo un elemento di cui non abbiamo esperienza. In questo modo riconosciamo con più rapidità quello che ci sta di fronte, anche se ciò significa che a volte perdiamo di vista dei dettagli potenzialmente rilevanti. L’astrazione è l’estremizzazione del processo di percezione top-down, in quanto ci permette di immagazzinare l’informazione sensoriale in categorie o schemi già immagazzinate in memoria. Schematizzare un’informazione significa “comprimerla” per fare in modo che occupi meno spazio. Quando osserviamo, non ricordiamo esattamente tutto ciò che abbiamo visto, ma estraiamo dalla scena le informazioni fondamentali. Sviluppo di attenzione e percezione Sviluppiamo attenzione e percezione sin dai primi mesi di vita. L’attenzione sostenuta va crescendo nel corso dell’esistenza: più piccoli sono i bambini, meno saranno propensi a spendere tempo svolgendo lo stesso compito. Per quanto riguarda l’attenzione selettiva, i processi inibitori che la permettono si accrescono durante l’età scolare. Prima è più frequente che i bambini prestino attenzione a ogni stimolo, anche quelli irrilevanti. Si verifica quindi una crescita cognitiva che riduce la confusione cognitiva e accresce la capacità di elaborare informazioni complesse. I neonati discriminano gli stimoli sin dalla nascita e la loro vista si sviluppa rapidamente. Sin dalla prima infanzia, i bambini hanno esperienza di percezione bottom-up e top-down. I processi cognitivi di memoria, pensiero e linguaggio rendono possibili le prime astrazioni degli stimoli e i bambini imparano a passare dallo schema senso-motorio a alla rappresentazione interna dell’oggetto, alla sua simbolizzazione. 7 Capitolo 3: “La memoria” È un sistema attivo che ci permette di codificare, elaborare, conservare e recuperare le informazioni. Si può affermare che abbiamo più tipi di memoria perché questa è formata da sistemi interconnessi complessi. La memoria svolge tre funzioni principali, descrivibili attraverso la metafora del computer: 1. Codifica. Le informazioni vengono elaborate in un formato che la nostra memoria possa contenere, come quando un testo a mano viene trascritto con la tastiera su un pc. 2. Immagazzinamento e conservazione. L’input codificato viene spostato in memoria in attesa di essere utilizzato. Ad esempio, il testo trascritto sul pc viene immagazzinato per un uso futuro. 3. Recupero. L’informazione codificata e immagazzinata in precedenza viene ritrovata in memoria e utilizzata. Ad esempio, quando il testo scritto ci servirà, andremo a cercarlo nella sua cartella per aprirlo. Modello mnestico di Atkinson e Shriffrin (1968) Secondo questo modello, le informazioni vengono trattate da tre tipi di memoria: memoria sensoriale, memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT). Ognuno di questi sistemi ha una funzione specifica, una capacità e una durata. In questi sistemi hanno importanza anche le strategie utilizzate per memorizzare. Memoria sensoriale. Mantiene le informazioni solo per qualche frazione di secondo, il tempo necessario a spostarle nella memoria a breve termine. Ma attenzione: non tutte le informazioni vengono effettivamente spostate nella MBT. Ogni senso ha il suo specifico deposito sensoriale, in particolare l’udito fa affidamento alla memoria ecoica, mentre la vista alla memoria iconica. Memoria a breve termine (MBT). In questo magazzino, le informazioni rimangono circa dai 15” ai 25”. La capacità della memoria a breve termine si attesta tra le 2 e le 7 unità. Qui il sistema della memoria di lavoro (ML) permette una prima elaborazione delle informazioni contenute nella MBT. La ML permette di aggiornare, inibire e alternare fra più compiti per permettere una migliore elaborazione (Baddeley e Hitch, 1974). Baddeley (2001) ha elaborato uno schema della ML che comprende 3 principali sezioni con funzioni diverse tenute insieme da un sistema Esecutivo Centrale: - Loop fonologico o memoria di lavoro verbale (MLV): elabora e mantiene l’informazione linguistica. È formato da un magazzino fonologico e un meccanismo di ripetizione. Il primo capta l’informazione acustica e verbale, il secondo permette la ripetizione subvocalica e codifica in codice fonologico parole scritte e figure. Questo meccanismo ha grande importanza nella comprensione del linguaggio, nell’apprendimento linguistico, nell’acquisizione del lessico e nel calcolo e risoluzione di problemi. - Taccuino visuo-spaziale o memoria di lavoro visuo-spaziale (MLVS): mantiene ed elabora stimoli con caratteristiche visuo-spaziali, come immagini di elementi semplici o figure. Questa ha un ruolo fondamentale anche nella formazione di immagini mentali e nella 8 localizzazione spaziale di elementi, quindi entra in gioco in discipline come la geometria, il disegno, le scienze. - Buffer episodico: immagazzina temporaneamente informazioni conservate in codice multimodale, vale a dire scene ed episodi (in cui ci sono immagini, suoni, informazioni temporali, ecc.). questo sistema funge da intermediario tra sottoinsiemi con codici diversi e li combina in rappresentazioni unitarie, rappresentative e coerenti. ❖ Sistema Esecutivo Centrale: tiene insieme le funzioni sopra elencate. La funzione di coordinazione di questo sistema è gestita dal SAS, Sistema Attentivo Superiore, un’azione di controllo volontario che coniuga le informazioni provenienti dall’esterno con quelle dell’individuo. Per misurare la capacità della ML si una lo span, un test in cui alla persona viene chiesto di ricordare il maggior numero di elementi tra quelli presentati. Ad esempio, è possibile misurare lo span della memoria di lavoro verbale. Lo schema del modello di Baddeley comunica che non solo a partire dalle esperienze attiviamo i nostri sistemi temporanei, infatti succede spesso che i nostri sistemi temporanei siano al contrario attivati dalla nostra memoria a lungo termine: ogni volta che riattiviamo delle informazioni già immagazzinate, cioè che le recuperiamo dalla memoria, i nostri sistemi temporanei le rielaborano e questo ci permette di arricchire quella esperienza già presente in noi e immagazzinarla nuovamente arricchita. Più conoscenze abbiamo di ciò che intendiamo immagazzinare, meno sarà il carico sui nostri sistemi e più avremo facilità a svolgere questo compito. La connessione tra ML e MLT è stata confermata dagli studi sugli effetti della posizione seriale: quando ricordiamo una lista di elementi, tendiamo a ricordare più frequentemente le ultime parole della lista per l’effetto recenza (le ultime parole sono ancora attive nei nostri sistemi temporanei) e le prime parole della lista per l’effetto priorità (le prime parole ripetute sono trasferite più facilmente nella MLT e recuperate con più facilità). Memoria a lungo termine (MLT). Questo sistema comprende tutta la conoscenza di un individuo. Gli altri sistemi sono solo un’anticamera della memoria a lungo termine, che comprende tutte le informazioni che vengono dai noi memorizzate, che sia per qualche minuto o per tutta la vita. Al suo interno esistono diversi sistemi mnestici, organizzati secondo lo schema che segue: 9 MLT Memoria Memoria procedurale dichiarativa Memoria Memoria semantica episodica Memoria Memoria prospettica/ autobiografica retrospettiva ❖ Memoria procedurale È la conoscenza relativa ad abilità e abitudini, vale a dire tutte quelle conoscenze che riguardano come fare qualcosa. Non sempre siamo consapevoli di dove e quando abbiamo appreso queste abilità. Attività gestite da questa memoria possono essere scrivere, leggere, andare in bici, fare calcoli semplici. ❖ Memoria dichiarativa Riguarda le informazioni personali e fattuali. Si divide in due categorie: memoria semantica e memoria episodica (Tulving, 1972). 10 → Memoria semantica: ci permette di immagazzinare le conoscenze sul mondo, ad esempio quello che studiamo. È come un dizionario mentale di conoscenze di base indipendenti dallo spazio-tempo. → Memoria episodica: ci permette di immagazzinare informazioni collegandole con il contesto spazio-temporale. Grazie a questo tipo di memoria siamo ad esempio capaci di ricordare dettagli temporali e spaziali di un evento. La memoria episodica si divide a sua volta in altri tipi di memoria: o Memoria autobiografica: si riferisce ai ricordi di eventi della nostra vita personale. o Memoria retrospettiva e prospettica: la prima si riferisce agli eventi del passato della nostra vita, la seconda collega le nostre intenzioni del passato alle azioni che svolgiamo nel futuro. Definisce i nostri schemi di comportamento, li mantiene a livello consapevole e ci permette di attuarli al momento opportuno. Immagazzinamento in memoria È un’importante funzione della memoria che ci permette di stoccare tutte le conoscenze dei diversi sistemi di memoria a lungo termine. Per poter memorizzare informazioni, è necessario che vengano convertite in un formato adatto alla nostra struttura; in questo i processi temporanei di memoria rivestono una grande importanza. Quando vogliamo immagazzinare un’informazione, sarà più facile per noi se quell’informazione ha significato per noi e se è connessa a sua volta con altre informazioni già possedute. In altre parole, più carichiamo di significato un’informazione nella fase di codifica, più sarà facile per noi immagazzinarla. Esistono dei processi detti strategie di memoria che ci aiutano a memorizzare delle informazioni nel modo più efficace in relazione alla loro tipologia. Recupero delle informazioni È una funzione importantissima: ci permette di estrapolare dalla memoria l’informazione di cui abbiamo bisogno. Tuttavia, il processo di recupero di informazioni a volte potrebbe non funzionare; è il caso di quando non riusciamo a farci venire in mente qualcosa che eravamo sicuri di sapere. In effetti, alcune situazioni favoriscono un immagazzinamento e recupero efficace delle informazioni, ad esempio: - Codifica approfondita del materiale: se ci siamo preoccupati di memorizzare il materiale senza dare importanza al suo significato, è probabile che il nostro processo di recupero sarà fallimentare. Dare un significato al materiale che desideriamo memorizzare ci aiuterà enormemente nel processo. - Emozioni congruenti: uno stato emotivo-motivazionale diverso da quello utilizzato per memorizzare le informazioni potrebbe rendere meno efficiente il nostro recupero, ad esempio se memorizzassi in uno stato emotivo di calma, potrei fallire nel ricordare in un momento di ansia, come quello dell’esame. 11 - Contesti congruenti: recupero meglio se lo faccio nello stesso contesto di cui ho immagazzinato, ad esempio nella stessa stanza. - Presenza di indizi per il recupero: è dimostrato che la presenza di cue o indizi nelle domande che aiutano il recupero lo rendono più facile. Ad esempio, ricordare la risposta di una domanda aperta dovrebbe essere più difficile rispetto a ricordare la risposta a una domanda a scelta multipla, in cui sono presenti indizi (ricordo attivo vs. riconoscimento). Anche il fenomeno dell’interferenza può rendere difficile il recupero di un’informazione: ciò si verifica quando associamo più elementi a uno stesso stimolo e cerchiamo di recuperare uno degli stimoli a partire dallo stesso elemento, ad esempio casa-maison e casa-house. Quando noi pensiamo “casa” e vogliamo recuperare uno dei due termini stranieri, potremmo sbagliarci e recuperare quello indesiderato. L’interferenza può essere retroattiva quando non ricordiamo dei due elementi quello che abbiamo memorizzato per primo, proattiva quando non riusciamo a recuperare ciò che abbiamo memorizzato in seguito. La condizione di oblio si verifica invece quando delle informazioni vengono perse in modo irreversibile. Strategie di memoria e metamemoria Le strategie di memoria ci vengono in aiuto quando intendiamo memorizzare delle informazioni. Funzionano perché la memoria non è un sistema statico e può essere aiutata nel processare il materiale in entrata e il suo recupero. Ci sono 6 principali strategie: 1. Reiterazione meccanica. È la strategia più classica. Si svolge ripetendo più volte in maniera meccanica a livello vocalico o subvocalico le informazioni che vogliamo memorizzare. Può essere utile con certi tipi di materiale, ma non è universalmente efficace. 2. Ripetizione elaborativa. Si fa ripetendo il materiale da memorizzare cercando di comprenderlo e creando dei nessi logici, dei collegamenti con delle informazioni già presenti in memoria. 3. Organizzazione del materiale. Consiste nel raggruppare o classificare gli stimoli sulla base del loro significato. In questo modo il numero di elementi da ricordare si riduce. 4. Associazione. Significa collegare tra loro le conoscenze da memorizzare e collegarle a conoscenze pregresse. 5. Mediazione o creazione di storie. Trasformiamo qualcosa di difficile in qualcosa di facile attraverso l’uso di un terzo elemento che ci permette di associare due elementi tra loro. 6. Formazione di immagini mentali. Rappresentiamo dentro di noi le informazioni di tipo sia visivo sia verbale. Le immagini mentali possono essere di vario genere: singole, con associazioni di immagini anche insolite o interattive. La codifica può avvenire tramite codice verbale, immaginativo o entrambi. Queste strategie ci aiutano in particolare a compiere il recupero delle informazioni. Ciò che ci spinge a scegliere una strategia e non un’altra però è in particolare la nostra metamemoria, cioè la conoscenza e il controllo che noi abbiamo sul nostro stesso sistema mnestico. In particolare, chi ha una buona metamemoria riesce meglio nei compiti di natura mnestica perché sa che strategia 12 scegliere in relazione al problema che vuole risolvere e come mettere in campo le proprie forze in modo da riuscire nel compito. La metamemoria comprende in particolare: le conoscenze e le abilità che riguardano ciò che il soggetto sa e crede, le strategie che usa e la motivazione che lo spinge. Sviluppo dei sistemi di memoria, delle strategie e della metamemoria La memoria di lavoro aumenta dai 4-5 anni di età progressivamente fino all’adolescenza, in cui si attesta su valori simili a quelli di un adulto. La memoria procedurale e dichiarativa si sviluppano precocemente. La memoria autobiografica segue un andamento diverso: è raro ricordare eventi precedenti ai 2 anni di età; i ricordi aumentano dai 2 ai 5 anni, mentre dopo i 6 è sempre più frequente avere memoria di eventi personali e non. In ogni caso, il mancato ricordo si può manifestare a causa di una codifica non adeguata dello stesso. La memoria autobiografica aumenta a partire dai 2 anni perché in quest’età avviene lo sviluppo del linguaggio e degli schemi concettuali. I genitori hanno un ruolo importante nella formazione della memoria del bambino perché fanno domande e aiutano lo sviluppo della sua spontanea capacità di narrare. In questo modo il bambino organizza le proprie esperienze su un asse temporale e causale. Memoria episodica e memoria semantica vengono integrate grazie alla capacità di organizzare fatti ed eventi della propria vita in script, delle rappresentazioni generali di una tipica sequenza di eventi. La memoria si amplia grazie all’aumento delle capacità di base, tra cui la velocità di elaborazione, che riduce i tempi di acquisizione delle informazioni. Anche l’ampliamento delle conoscenze generali ci rende più abili nel ricordare, così come l’uso delle strategie di memoria e l’expertise in un determinato ambito. Tra le strategie di memoria, la reiterazione meccanica viene messa in atto spontaneamente dai bambini a partire dai 7 anni. Dai 9-10 imparano a organizzare le informazioni e nell’adolescenza a elaborarle, dare un significato e collegarle tra loro. Tuttavia, le strategie di memoria possono presentare dei problemi nella realizzazione in alcuni casi: si ha un deficit di produzione quando un bambino conosce una strategia ma non riesce ad applicarla perché richiede troppo sforzo e un deficit di uso quando la utilizza ma il cambiamento non porta a migliori risultati. Questo si può verificare quando non si ha la dimestichezza necessaria per riprodurre quella strategia. Questi stati rilevano comunque di una certa conoscenza della memoria da parte del bambino, in effetti la metamemoria si sviluppa già a partire dai 3-4 anni di età. Le conoscenze sulla memoria si sviluppano in particolare dopo i 4 anni fino ai 12 anni in relazione con il successo a compiti di ricordo. Come aiutare la memoria: - Stimolare il recupero di conoscenze pregresse; - Presentare il contenuto in modo accattivante; - Aiutare l’elaborazione a livello profondo; 13 - Fare sì che il contenuto venga elaborato con modalità verbale e visuo-spaziale; - Supportare la conoscenza dei principali sistemi di memoria e delle loro funzioni; - Promuovere un atteggiamento metacognitivo verso la propria memoria e l’uso delle strategie; - Far fare esperienza nell’uso flessibile delle strategie in relazione al materiale, al contesto, al soggetto, alle modalità di verifica; 14 Capitolo 4: “Il Pensiero” Il pensiero è formato da un insieme di processi che rendono disponibili informazioni su cui lavorare e permette di costruire rappresentazioni mentali di un problema o una situazione, che possono assumere una forma proposizionale (parole e affermazioni) o basarsi su immagini. Immagini mentali. Permettono in certi casi una migliore memorizzazione, ma servono soprattutto a rappresentare una situazione, pianificare una serie di azioni, prendere una decisione o risolvere un problema. Le immagini mentali quindi aiutano il pensiero. Le immagini mentali possono avere caratteristiche diverse: possono essere tridimensionali, colorate, analogiche (= avere la stessa dimensione che nella realtà), e possono essere messe in relazione tra loro. Se si ha una buona capacità di immaginazione, spesso si ottengono punteggi alti in test che misurano la creatività. Concetti. Il concetto è un insieme di caratteristiche associato a uno specifico oggetto o esemplare. Grazie al concetto, riconosciamo un oggetto come esemplare di una categoria e vi attribuiamo delle proprietà tipiche. Il prototipo è quell’oggetto che racchiude in sé tutte le proprietà essenziali di un concetto. Formiamo concetti per mezzo della categorizzazione, che avviene tramite delle inferenze di tipo induttivo o deduttivo. Nel primo caso, dalle caratteristiche si arriva al concetto, nel secondo, al contrario, dal concetto nel suo insieme si arriva alle singole caratteristiche. Può accadere che le caratteristiche di un concetto non siano ben definite e che quindi rimangano fuzzy. Non tutto ciò che fa parte della nostra realtà è classificabile in concetti, per questa ragione acquista in particolare importanza l’uso del linguaggio per cercare di definire ciò che non è facilmente definibile. Pensiero e linguaggio. Il linguaggio è un importante aiutante del pensiero: linguaggio e pensiero interagiscono anche a livelli elevati, come quando un certo ragionamento o una decisione vengono facilitati dal pensiero ad alta voce o dalla stesura di note scritte. Secondo lo psicologo russo Vygotskij, usiamo il linguaggio prevalentemente per interagire con altri e da questa interazione impariamo concetti nuovi e le attività più complesse del pensiero sono favorite. In questa visione, impariamo ad autoregolarci proprio grazie all’interazione con l’altro e siamo in grado di assimilare le regole imposteci dall’esterno grazie al linguaggio. Ragionamento. Ragionamento e risoluzione dei problemi (problem solving) sono altre due forme di pensiero aiutate dai concetti e dalle immagini mentali. Il ragionamento può essere deduttivo o induttivo. - Ragionamento deduttivo: altrimenti detto sillogismo. Si basa su due premesse che portano a una conclusione, ma la sua veridicità o falsità dipende da conoscenze già presenti nelle premesse. Questo tipo di ragionamento si articola su 4 fasi: 1) Comprensione delle premesse (creazione di modelli mentali delle premesse) 2) Integrazione delle premesse (costruzione di un modello mentale del problema nel suo complesso) 3) Estrazioni delle conclusioni (si individuano nel modello mentale le relazioni tra premesse utili alla risoluzione del problema) 15 4) Ricerca di contro-esempi (valutazione di un modello alternativo per trovare una soluzione alternativa) Esistono sillogismi categorici, lineari e condizionali: - Sillogismi categorici: si basano sulla presenza di un soggetto, un predicato e un termine medio. La conclusione mette in relazione soggetto e predicato eliminando il termine medio. Questo sillogismo nasconde il pericolo del belief bias, in cui se il parlante ritiene plausibile una conclusione, tenderà ad abbracciarla anche se non è il caso. - Sillogismi lineari: detti anche problemi seriali a tre termini. Esprimono relazioni tra tre ordini. Per risolverlo, si devono collegare la prima e la seconda premessa con il termine medio che ricorre in entrambe. - Sillogismi condizionali: si basano su una premessa ipotetica “Se A allora B.”. in questo tipo di ragionamento, le persone tendono a cercare una conferma al posto di una smentita, anche quando sarebbe più facile provare che l’affermazione NON è vera rispetto a provare che lo sia. È più automatico cercare di confermare le ipotesi piuttosto che smentirle, ma in caso di pratica in questo ragionamento, detto ipotetico-deduttivo, si registrano miglioramenti. - Ragionamento induttivo: in questo ragionamento, una regola viene inferita da una serie di esempio specifici o osservazioni. Facciamo spesso errori di valutazione perché non possiamo calcolare la probabilità (= grado di certezza) di un evento. Il ragionamento induttivo è uno dei modi che utilizziamo per dare un senso a ciò che ci circonda. Gli errori di valutazione che compiamo sono spesso dovuti alle euristiche, cioè alle scorciatoie di pensiero con cui cerchiamo di raggiugere una soluzione. Tversky e Kahneman (1973) hanno individuato 3 tipi di euristica: 1) Euristica della rappresentatività: si tende a dare più peso alla rappresentazione più comune in una certa categoria. Tendenza a ignorare le frequenze di base. 2) Euristica della disponibilità: porta a stimare come più probabile un evento sulla base della facilità con cui ci vengono in mente esempi di quell’evento. La maggiore disponibilità in memoria di quell’evento ci fa pensare che sia più probabile anche se potrebbe non essere così. 3) Euristica dell’ancoraggio-aggiustamento (o accomodamento): il giudizio è influenzato dalle informazioni iniziali, che vengono confermate nonostante tutto ciò che le contraddice o le mette in discussione. È frequente che venga utilizzato un ragionamento induttivo in molti ambiti della vita, da quello personale-affettivo sino alle sfere della vita pubblica, come l’economia e la politica. Anche in questi ambiti si tendono a utilizzare euristiche, che influenzano spesso negativamente le decisioni creando conseguenze che si ripercuotono tanto sui singoli quando sulla collettività a seconda dell’ambito in cui vengono applicate. 16 Problem solving. Cherubini (2012) ha individuato le tre componenti principali della risoluzione di problemi: 1. Rilevazione del problema. È importante e per nulla scontato essere capaci di individuare un problema. In questa fase si confronta la situazione attuale con i propri obiettivi. 2. Rappresentazione del problema. Dopo averlo individuato, è necessario rappresentarsi il problema in modo adeguato: una rappresentazione non adeguata (inesatta o non abbastanza dettagliata) può pregiudicare la risoluzione di un problema. È necessario inoltre in questa fase recuperare le conoscenze pregresse e creare lo “spazio del problema” che comprende la sua rappresentazione e le sue diverse possibilità. 3. Ricerca della soluzione. Si considerano le ipotesi formulate e si pianificano i processi di risoluzione. Viene applicata prima una analisi (una scomposizione del problema in componenti più semplici) e poi una sintesi (una ricomposizione degli elementi in un modo mirato alla risoluzione). Spesso le risorse a nostra disposizione per la risoluzione di un problema sono limitate. Quando queste finiscono, possiamo abbandonare la risoluzione del problema oppure decidere di investire ancora risorse in seguito. Per risolvere un problema spesso è necessario utilizzare procedure semplificate simili alle euristiche. Le quattro principali sono: - Analisi mezzi-fini: identificare le differenze tra lo stato attuale e gli obiettivi e individuare le azioni atte a diminuire la differenza. - Generazione e verifica: generare una strategia, applicarla, misurarne i risultati, valutare e applicare un’altra strategia in caso di non risoluzione. - Ricerca per astrazione: rappresentare il problema con grafici, diagrammi, analogie. - Ricerca in salita: selezione dello stato successivo solo in caso di miglioramento della condizione attuale. Ogni problema ha le sue caratteristiche, che determinano nella maggior parte dei casi delle differenze nella ricerca di soluzioni. In primo luogo, esistono problemi ben strutturati e problemi poco strutturati. I problemi ben strutturati prevedono una serie preordinata di mosse per essere risolti. Fanno parte di questo gruppo in particolare i problemi matematici. I problemi poco strutturati al contrario non prevede una rigida serie di passaggi perché spesso è un problema inedito di cui si rileva la presenza ma da cui non si sa ancora bene cosa si vuole ottenere, vale a dire quali sono gli obiettivi della sua risoluzione. Un punto di arrivo in questo caso va trovato o costruito. Per risolvere questo tipo di problemi è spesso necessario il pensiero produttivo basato sull’insight. Spesso si fallisce nell’uso dell’insight per effetto della fissità funzionale, cioè non essere capaci di individuare le funzioni alternative di un oggetto. Altre ragioni per le difficoltà nel trovare soluzioni alternative possono essere ostacoli culturali, emotivi o di apprendimento. 17 Pensiero creativo. Detto anche pensiero divergente (Guilford, 1971), in quanto produce qualcosa di nuovo, viene attivato nelle situazioni in cui sono possibili più vie d’uscita o di sviluppo. È il contrario del pensiero convergente, che viene attivato in situazioni in cui è possibile una sola risposta e rispetta regole definite e codificate. Il pensiero divergente è caratterizzato da: - Fluidità (= permette di produrre tante possibilità, indipendentemente dalla loro qualità o adeguatezza); - Flessibilità (= permette di passare da una successione di idee a un’altra); - Originalità (= permette di trovare idee insolite); - Elaborazione (= permette di percorrere tutte le fasi della linea di pensiero dall’inizio alla fine); - Valutazione (=permette di selezionare le idee migliori tra quelle prodotte); Problem solving matematico di Lucangeli (1998) 1) Comprensione del testo del problema 2) Rappresentazione del problema Categorizzazione Pianificazione → Abilità di calcolo 3) Soluzione del problema → Autovalutazione In questo schema, la comprensione del problema è un passo fondamentale della sua risoluzione. Sviluppo del pensiero. Un bambino inizia a formare concetti (categorizzati) e immagini mentali a 2 anni, età in cui inizia a manifestare le prime forme di simbolizzazione. Le rappresentazioni semplificate di eventi e situazioni (categorizzazioni) compaiono precocemente, ma diventano più importanti dai 6-7 anni. A questo proposito, la teoria del fuzzy trace afferma che le persone codifichino le esperienze sulla base di tracce letterali (verbatim) o tracce sfocate (gist), che conservano il contenuto essenziale dell’oggetto senza tutti i suoi dettagli. Studi evidenziano che fino ai 5-6 anni è frequente l’uso di verbatim, in seguito si afferma l’uso del gist, che è un concetto semplificato. La capacità di risolvere un problema appare precocemente, già intorno ai primi anni di vita. Verso i 7-8 anni, i bambini acquisiscono delle idee sul proprio modo di pensare, diventano quindi più consapevoli dei propri pensieri. Più si ha esperienza di ragionamento, più si può sviluppare questa abilità e diventare esperti nel ragionamento. 18 Come far sviluppare il pensiero e il ragionamento: - Far sperimentare il problem solving in molti ambiti diversi. - Presentare e far sperimentare diversi modi in cui si può arrivare a una soluzione in modo sistematico o intuitivo. - Proporre esperienze di categorizzazione, costruzione di immagini mentali, ragionamento, problem solving già alla scuola dell’infanzia. Capitolo 5: “Intelligenza e differenze individuali nei processi cognitivi” L’intelligenza è una funzione complessa che coinvolge aspetti cognitivi di base, come la memoria di lavoro, o superiori, come il pensiero o il ragionamento. L’intelligenza è: → ciò che ci rende simili in quanto esseri umani; nella sua accezione generale è ciò che ci rende umani, la capacità quindi di intelligere, di comprendere la realtà. → ciò che ci rende diversi uno dall’altro; nella sua accezione differenziale è ciò che in ogni individuo differisce, cioè i modi diversi in cui ognuno di noi affronta compiti cognitivi. Ognuno di noi ha una teoria dell’intelligenza: alcune persone la considerano una cosa unitaria difficilmente modificabile e migliorabile (entità), altre invece credono che possa essere modificata in seguito a opportune stimolazioni (teoria incrementale). Per “misurare” l’intelligenza, sono stati introdotti dei test, che prevedono prove di carattere visuo- spaziale o verbale a seconda di cosa si propongono di misurare. Il risultato può essere unitario (QI globale) oppure la misura può essere variegata, corrispondendo a una visione multipla dell’intelligenza. Nello studio dell’intelligenza vengono proposti in particolare confronti tra gruppi. I confronti tipici che vengono proposti sono: 1. Tra esseri umani e animali (filogenesi) 2. Tra esseri umani di diverse età anagrafiche (ontogenesi) 3. Individui con funzionamento intellettivo tipico e individui con funzionamento “atipico” (=disabilità intellettiva) Teorie e forme dell’intelligenza Le cinque classi fondamentali sono: unitaria, globale-maturativa, multipla, gerarchica, cognitiva. 19 Teorie unitarie. Spearman nel 1904 è stato il primo a ipotizzare la teoria unitaria dell’intelligenza. Sottoponendo i volontari a diversi test, rilevava che tutti i risultati erano riconducibili a una “abilità unitaria”, perché statisticamente chi era in difficoltà in un test spesso lo era anche in altri. L’ipotesi di Spearman fu quindi che l’intelligenza fosse un fattore generale g integrato da abilità secondarie a seconda del compito da svolgere. Il fattore g è stato chiamato QI globale. Un metodo per misurarlo erano le matrici progressive di Raven (1938). In questa teoria, le funzioni generali dell’intelligenza si sviluppano parallelamente all’età. Teorie globali-maturative. Secondo questa teoria, l’intelligenza sarebbe un costrutto formato da un insieme di funzioni generali che si sviluppano parallelamente all’età dell’individuo. Le scale utilizzate per misurare l’intelligenza secondo questo approccio sono le Binet-Simon e le Wechsler, che si compongono in generale di diverse prove differenziate in base alla fascia di età cui si vuole somministrare il test. Gli ambiti di indagine sono sia verbale sia visuo-spaziale. Una misura di questo tipo poteva individuare il livello intellettivo tipico di una certa fascia di età. Oggi, con i nuovi modelli di queste scale, siamo in grado di calcolare la deviazione, ovvero quando il risultato ottenuto da un individuo si discosti dalla media della sua fascia di età di appartenenza. Queste teorie rappresentarono un grande passo avanti nella concezione dell’intelligenza, perché furono le prime a non vederla come un valore unitario e assoluto. Teorie multicomponenziali. Dette anche teorie “multiple”, hanno criticato il fattore g in quanto rappresentativo dell’intelligenza di una persona. Ogni persona infatti ha specificità e particolarità che gli altri non posseggono e può essere allo stesso tempo eccellente in un compito e pessima in un altro. Secondo questa teoria, la nostra intelligenza sarebbe costituita da diverse componenti separabili tra loro che rappresentano una panoramica delle nostre abilità intellettive. Secondo Gardner (1983) avremmo 7 tipi di intelligenza, ad esempio: linguistica, musicale, logico- matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, intrapersonale, interpersonale. È chiaro tuttavia che alcune di queste forme di intelligenza siano più “utili” nella vita di tutti i giorni rispetto ad altre, ad esempio l’intelligenza logico-matematica rispetto a quella musicale. Secondo Sterberg e Spear-Swerling (1997) invece i tipi fondamentali di intelligenza sarebbero 3: analitica (relativa a capacità astratte, come il ragionamento logico), pratica (applicazione concreta dei nostri apprendimenti) e creativa (individuazione di strade nuove e soluzioni originali). Si è cercato di risolvere la spaccatura tra le teorie unitarie e le teorie multiple grazie alle teorie gerarchiche. Teorie gerarchiche. In queste teorie, diverse abilità possono essere classificate, ma queste hanno un ordine gerarchico e sono tutte collegate a un fattore centrale comune. Secondo Carroll (1993) esisterebbero 3 diversi livelli di abilità: 1. Strato III (“fattore g” unitario); 2. Strato II, composto da 9 abilità ampie che differenzia tra “componente cristallizzata” dell’intelligenza Gc, derivante da esperienze precedenti e “intelligenza fluida” Gf basata su capacità logiche e fluide indipendenti dall’esperienza; 3. Strato I, con abilità ristrette; Il Test WISC-IV, il test psicologico più usato al mondo, può essere ricondotto a più di una teoria sull’intelligenza, infatti si può considerare dal punto di vista delle teorie globali e unitarie perché 20 propone l’esistenza del QI globale come valore, alle teorie multiple perché misura aspetti differenziati e gerarchiche perché questi aspetti possono essere ordinati secondo una gerarchia. È importante valutare l’intelligenza con strumenti multicomponenziali, perché il QI potrebbe essere penalizzato dalle aree di difficoltà dell’individuo. I test devono fornire una stima unitaria del QI e dei diversi fattori che lo compongono. Il test WISC-IV (Wechsler Intelligence Scale for Children) si basa su un modello di intelligenza proposto da Cattell, Horn e Carroll (CHC), la theory of Cognitive Abilities, in cui si descrivono abilità ampie e più ristrette. Qui il fattore g è scomposto in molteplici abilità: comprensione verbale (CV), memoria di lavoro (ML), ragionamento percettivo (RP) e velocità di elaborazione (VE). Il valore del Quoziente Intellettivo Totale è quindi ridotto a favore del valore delle singole componenti. CV = COMPRENSIONE VERBALE RP = RAGIONAMENTO VISUOPERCETTIVO ML = MEMORIA DI LAVORO VE = VELOCITÀ DI ELABORAZIONE CV + RP = INDICE DI ABILITÀ GENERALE (IAG) ML + VE = INDICE DI COMPETENZA COGNITIVA (ICC) Indice di comprensione verbale. Misura della formazione del concetto verbale → ascoltare una domanda, recuperare informazioni per rispondere, ragionare, rispondere, esprimersi ad alta voce. Le prove utilizzate sono: vocabolario, somiglianze e comprensione. Indice di ragionamento visuo-percettivo. Ragionamento non verbale e fluido → risoluzione di problemi, esaminare un problema, sfruttare abilità visivo-motorie e visuo-spaziali, organizzare pensieri, creare ipotesi e verificarle, dare importanza alle informazioni visive, sentirsi a proprio agio in situazioni nuove o inaspettate, imparare facendo. Le prove corrispondenti sono: disegno con i cubi, concetti illustrati e ragionamento con le matrici. Indice di memoria di lavoro. Capacità di memorizzare nuove informazioni e immagazzinarle nella MBT → concentrazione e manipolazione delle informazioni. È un indice sensibile all’ansia. È collegato all’apprendimento e all’automonitoraggio. Le prove usate sono: memoria di cifre e riordinamento lettere-numeri. Indice di velocità di elaborazione. Abilità di focalizzare l’attenzione, rapidità di analisi, capacità di discriminazione, capacità di ordinare sequenzialmente le informazioni visive. → persistenza, capacità di pianificazione; sensibile alla motivazione, alla capacità di lavorare in un tempo limitato e alla coordinazione motoria. Le prove corrispondenti sono: cifrario e ricerca di simboli. Indice di abilità generale. Rappresentano maggiormente la componente dell’intelligenza cristallizzata. ML e VE vengono tralasciati perché sottostimano il QIT. A volte l’IAG viene proposto come sostituto del QIT perché di difficile interpretazione. Indice di competenza cognitiva. Competenza con cui la persona elabora certi tipi di informazioni cognitive utilizzando velocità visiva e controllo mentale. Spesso nei DSA questo punteggio è più basso dell’IAG. 21 Teorie cognitiviste dei meccanismi di base dell’elaborazione. Individuano nella ML l’abilità di base che permette lo svolgimento di molte funzioni cruciali dell’intelligenza. La velocità di elaborazione e la memoria di lavoro potrebbero essere connesse, perché la velocità di elaborazione potrebbe dipendere da quanto efficientemente si riesce a tenere in mente la regola per lo svolgimento di un compito. L’efficienza della ML determina l’adeguatezza delle funzioni esecutive e la capacità di risolvere problemi dipende da quanti elementi l’individuo riesca a tenere a mente (elaborare) nello stesso momento. → Modello a cono delle 4 componenti della teoria dell’intelligenza basata sul controllo della ML: è una schematizzazione di Cornoldi (2007); secondo questo modello, le strutture sopra menzionate sarebbero organizzate in modo gerarchico e la ML sarebbe l’abilità fondamentale delle 4. BASE DEL CONO: le abilità sono +LEGATE ALLA SPECIFICITÀ DEL COMPITO e -LEGATE AL CONTROLLO DELLA ML (es.: ricordare una frase o una breve serie di parole); APICE DEL CONO: le abilità sono +LEGATE AL CONTROLLO DELLA ML e -LEGATE ALLA SPECIFICITÀ DEL COMPITO (es.: ricordare solo l’ultima parola di una serie di molte frasi); Le abilità descritte sono integrate da 3 fattori esterni alle strutture intellettive di base, quali: 1. Esperienza: agisce su abilità più specifiche e influenzate dal tipo di contenuto da elaborare. 2. Fattori motivazionali-culturali: agiscono sulle operazioni intellettive suscitando interesse, propensione ad applicarsi, scelte di campo. I fattori culturali concorrono a determinare la motivazione e le decisioni prese su quali aspetti valorizzare e portare avanti con più impegno. 3. Fattori emotivi-metacognitivi: come una persona percepisce e conosce la propria mente, stima le proprie abilità e affronta emotivamente i compiti cognitivi. Incidono maggiormente sui processi altamente controllati. Il Quoziente Intellettivo (QI) I punteggi ottenuti nei testi di intelligenza vengono trasformati nel valore del QI. Il punteggio del QI permette di evidenziare le differenze tra persone, di collocarle nella fascia dei normodotati, al di sotto o al di sopra. Il punteggio medio del QI è 100 con una deviazione standard di 15, cioè è compreso tra 85 e 115. Al di sotto di 85 fino a 70 si può parlare di funzionamento intellettivo limite, al di sotto di 70 si ha la disabilità intellettiva. Al di sopra di 115 fino a 130 il profilo intellettivo si definisce vivace, oltre 130 si è plusdotati. Stern (1912) proponeva una classificazione dell’intelligenza basata sull’età anagrafica. I test erano volti a sapere se un bambino di una certa fascia di età sapesse svolgere compiti intellettivi tipici della sua età anagrafica, se fosse capace di svolgere solo compiti per bambini più piccoli o se fosse in grado di svolgere anche quelli di età anagrafiche superiori. Il concetto diffuso era quindi quello dell’età mentale. Binet e Simon utilizzavano questo criterio per collocare i bambini in classi di bambini della stessa età, di età inferiori o superiori. Oggi questo concetto è stato superato e per collocare l’intelligenza su una scala di valori si utilizzano le deviazioni standard, ovvero di quanto un risultato si discosta dalla normalità per una certa fascia di età. 22 Differenze individuali nei profili di intelligenza Il 70% della popolazione ha un QI compreso tra 85 e 115. I DSA hanno un QI in norma accompagnato da difficoltà in alcune aree specifiche a seconda dei casi. Spesso i punteggi più bassi si rilevano nella ML e nella VE. Al contrario sono normali o sopra la norma nel ragionamento. I FIL (funzionamento intellettivo limite) hanno un QI compreso tra 70 e 85, ma presentano assenza di punti di forza nell’intelligenza e nell’apprendimento e altre debolezze. Più del 13% della popolazione ha un QI compreso in questa fascia, ma lo stato di FIL viene assicurato solo in presenza delle condizioni sopra descritte. Anche la disabilità intellettiva è soggetta alla presenza di certi parametri, quindi il ritardo mentale certificato rappresenta circa l’1% della popolazione. Disabilità intellettiva. Comporta debolezza generalizzata in tutti gli aspetti intellettivi esaminati attraverso i test. Inizialmente si è tentato di assimilare la disabilità mentale con un ritardo e si è cercato di fare paragoni tra persone affette da disabilità intellettiva e bambini molto piccoli. Tuttavia i bambini piccoli hanno una grande elasticità e plasticità mentale che li rende abili nell’imparare dall’esperienza, mentre un disabile intellettivo non raggiunge mai quello stadio. Forme eccezionali di intelligenza. La plusdotazione è riconducibile alla capacità di svolgere compiti intellettivi elevati, il “genio” è invece determinato da 5 fattori in particolare: 1. Caratteristiche cognitive generali particolari; 2. Specifiche abilità in particolari forme intellettive; 3. Creatività; 4. Personalità centrata sul conseguimento di competenze e prodotto in particolare; 5. Contesto culturale favorevole; Può essere utile operare alcune distinzioni tra persone che si collocano in fasce caratterizzate da un profilo intellettivo particolare: - i talentosi sono persone con forme altamente specifiche di intelligenza, ma non sono necessariamente competenti in compiti cognitivi che esulano da quell’ambito; - i creativi riescono a esprimersi e trovare soluzioni a cui nessuno arriva; - i geni sono la combinazione di fattori eterogenei, sono apprezzati per qualcosa che hanno prodotto in un certo contesto storico-sociale; - i gifted ottengono risultati intellettivi elevati nella quasi totalità dei compiti cognitivi proposti, compresi quelli di cui non hanno esperienza; - i superesperti sono per l’appunto molto esperti in qualche particolare attività; Quando si parla di quoziente intellettivo e di confronto tra fasce di popolazione, si deve quindi fare riferimento ai gifted. Aspetti evolutivi dell’intelligenza e ruolo dell’esperienza L’intelligenza aumenta con l’età in modo progressivo e senza discontinuità nella maggior parte dei casi. L’intelligenza è per il 70% stabile e ereditabile. Gemelli separati alla nascita precocemente infatti presentano livelli praticamente uguali di intelligenza. Inoltre, test proposti in età evolutiva quando 23 l’istruzione scolastica ricevuta non ha ancora molto peso, possono predire il grado di successo scolastico e lavorativo di un bambino. Il decorso dell’intelligenza quindi può essere modificato per il restante 30%, che rappresenta comunque un valore significativo. Bambini privati di un ambiente stimolante dove crescere risentono molto a livello intellettivo, anche per questo motivo viene in aiuto la scuola proponendo attività ed esperienze volte alla stimolazione intellettiva dei bambini e dei ragazzi. Due persone con lo stesso livello di intelligenza alla nascita ed esposte a stimoli diversi avranno un’intelligenza diversa sotto più aspetti. È importante quindi concentrarsi anche sulla zona di sviluppo prossimale (Vygotsij, 1966), ovvero le potenzialità di sviluppo della nostra intelligenza. Applicare: - Somiglianze e differenze; - Conoscere l’intelligenza ci permette di identificare un profilo; - Quando si svolge un compito non conta solo l’intelligenza, ma anche l’esperienza, i nostri obiettivi, le nostre emozioni, la nostra metacognizione. - Possiamo somministrare un test per orientare e valorizzare le competenze; Capitolo 6: “La metacognizione” La metacognizione è il costrutto che ci permette di controllare i nostri processi cognitivi e di riflettere su di essi. La conoscenza metacognitiva è l’insieme di idee sviluppate da ciascun individuo sul funzionamento della mente in generale e in particolare sul funzionamento della propria (Cornoldi, 1995). Può includere auto-valutazioni, strategie, nozioni, credenze, pensieri, percezioni. Prima di svolgere un qualsiasi compito cognitivo, noi lo stimiamo, vale a dire valutiamo quanto possa essere impegnativo, il tempo che ci servirà per svolgerlo, e mettiamo in campo la nostra esperienza (o inesperienza) rispetto a quel compito. Produciamo stime relative a un qualsiasi compito prima, durante e dopo il suo svolgimento, stime di successo, di conoscenza e di sapere. Le stime metacognitive sono metagiudizi sulle nostre conoscenze. Dinanzi a un qualsiasi compito cognitivo, ci valutiamo come capaci o non capaci e ci figuriamo aspettative di successo o insuccesso. Non sempre siamo abili nello stimare un compito cognitivo, tanto è vero che spesso sovrastimiamo le nostre capacità. L’esperienza nell’affrontare compiti simili ci aiuta a ridimensionare le nostre stime e a fornire a noi stessi stime più veritiere. Più un compito ci è famigliare, più sarà accurata la nostra stima. Tramite la stima metacognitiva siamo coscienti di possedere o meno una conoscenza, anche se non disponibile al momento (effetto punta della lingua) e possiamo dare risposte che siamo in grado di giudicare come più o meno accurate. Le stime metacognitive sono spesso sottoposte a euristiche, le più frequenti sono quelle della disponibilità e della rappresentatività. In questi casi giudichiamo come più probabili o frequenti elementi o avvenimenti che giudichiamo come più rappresentativi o che sono maggiormente 24 disponibili in memoria. Occorre evitare le euristiche perché sfalsano le nostre stime, rendendole troppo alte o al contrario troppo basse. Monitorare il funzionamento della mente Il monitoraggio o controllo metacognitivo è l’insieme dei processi autoregolativi adattati per verificare la corretta applicazione e l’efficacia di un’attività o strategia, eventualmente decidendo di cambiare modo di agire per la risoluzione di un compito (Brown 1975, Cornoldi 1995). Brown individua 4 processi nel controllo metacognitivo: 1) Predizione del livello di prestazione, stima della difficoltà, anticipazione del risultato; 2) Pianificazione, ovvero organizzazione di tutte le azioni che conducono all’obiettivo; 3) Monitoraggio, ovvero controllo dell’attività cognitiva durante lo svolgimento del compito; 4) Valutazione dell’uso di una strategia nella sua globalità; Modello di Borkowski e Muthukrishna (1992) Confrontare compiti tra loro ci porta a scegliere alcune strategie piuttosto che altre, le quali generano un risultato più o meno positivo. Valutando il nostro risultato, otteniamo percezioni, motivazioni e rappresentazioni che nel futuro ci spingeranno ad affrontare o evitare compiti simili a quello affrontato. 25 Teorie implicite: sono fatto così o posso migliorare? TEORIA ENTITARIA TEORIA INCREMENTALE Teoria cognitiva statica: sono fatto così e Teoria cognitiva dinamica: posso cambiare non posso cambiare. e sviluppare la mia intelligenza. Posso giustificare in questo modo tutto ciò che Esercizio, esperienza e applicazione possono non so fare o ciò che non ho interesse a fare. cambiare la mia capacità di svolgere compiti, Posso avere un’elevata ansia da prestazione se migliorare le mie conoscenze e le mie non posso evitare il compito e la tendenza a competenze. Quando svolgo un compito sono scegliere compiti facili per dimostrare quanto coinvolto e anticipo la soddisfazione di quando sono bravo o per paura di essere visto come l’avrò portato a termine. Ho sempre voglia di incapace o non portato in un compito. Spesso imparare cose nuove. rinuncio a un compito perché ho paura del Mi impegno in modo strategico fallimento. (=metacognitivo) e un insuccesso non si traduce in un giudizio sulla mia persona, ma solo sulle modalità con cui ho affrontato il compito. Provo un senso di sfida nello svolgere il compito e tendo a persistere finché non ce la faccio. Queste due teorie si allacciano al perché dello svolgimento di un compito, cioè cosa si cerca di ottenere svolgendolo. Questi obiettivi sono validi sia per chi apprende, sia per chi insegna. Si dividono in: obiettivi di padronanza, di dimostrazione, di risultato. OBIETTIVO MOTIVI PER AFFRONTARE PAURE IL COMPITO Padronanza Migliorarsi, crescere, imparare Non riuscire a padroneggiare il nuove abilità compito, a gestirlo e di sentirsi incompetenti Ottenere risultati Voglia di ottenere buoni Non riuscire a raggiungere i risultati e standard personali propri obiettivi e standard come feedback Dimostrazione di abilità Ottenere giudizi positivi dagli Di ricevere giudizi di altri, competere incompetenza, di essere vinti, di fare brutta figura. L’ambiente, tramite i feedback o la trasmissione di obiettivi può determinare la presenza di una teoria entitaria o incrementale e il suo cambiamento nel tempo. Spesso gli insegnanti tendono a trasferire sui propri alunni la propria concezione entitaria o incrementale. 26 Stili attributivi Sono le ragioni che individuiamo di fronte a un successo o a un insuccesso. Possono essere interne o esterne, più o meno controllabili e stabili. Si dice sia uno “stile” attributivo perché tendiamo ad applicare lo stesso modello a una varietà di situazioni. Secondo il processo attributivo noi attribuiamo a un successo o a un insuccesso una o più cause. Secondo Weiner (1985) le attribuzioni si classificano in base a 3 dimensioni: locus of control, stabilità, controllabilità. Queste generano 8 possibili attribuzioni: Caratteristiche dell’attribuzione ATTRIBUZIONE LOCUS OF CONTROL STABILITÀ CONTROLLABILITÀ Interno Stabile Controllabile TENACIA Incontrollabile ABILITÀ Instabile Controllabile IMPEGNO Incontrollabile TONO DELL’UMORE Esterno Stabile Controllabile PREGIUDIZIO Incontrollabile FACILITÀ DEL COMPITO Instabile Controllabile AIUTO Incontrollabile FORTUNA Gli stili attributivi rivestono importanza nella capacità di rimotivarsi dopo un insuccesso o di desistere. Le attribuzioni definiscono degli stili (auto)attributivi del successo o dell’insuccesso come quanto segue (in ordine di efficacia): IMPEGNO → Se mi impegno, riesco. Se non riesco, non mi sono impegnato abbastanza. Provo soddisfazione e orgoglio se riesco in un compito e senso di colpa se non riesco. Dopo un insuccesso sono pronto a rimotivarmi e sento dentro di me un senso di sfida (++). IMPOTENTE → Non sono capace, se riesco è merito dell’aiuto di qualcun altro. Mi sorprendo se riesco e provo gratitudine verso chi mi ha aiutato. Se non riesco invece mi vergogno e mi sento apatico. Se posso evito i compiti, soprattutto se sono nuovi per me. NEGATORE → Io sono bravo, se non riesco è colpa degli altri. Ho molta fiducia in me e ho un atteggiamento superbo. Se non riesco in un compito, mi arrabbio. Preferisco evitare l’impegno. PEDINA → Per quanto impegno possa metterci e per quanto io sia abile in un compito, la sua riuscita o meno sarà indipendente da me. Mi sorprendo e sono grato se riesco nel compito, ma se non riesco sono rassegnato a questo fatto. Ho poca fiducia in me stesso e tendo a non impegnarmi nei compiti. 27 Sviluppo della metacognizione Sin da bambini formiamo la nostra metacognizione, ma alcuni compiti relativi a questa possono essere svolti solo con il raggiungimento di un certo grado di sviluppo delle capacità di pensiero. Nelle prime fasi della nostra vita infatti sviluppiamo il gioco simbolico, per poi passare al pensiero narrativo e alla teoria della mente. - 2 anni di vita: gioco simbolico. Pensiamo cose che non esistono nel momento in cui lo facciamo perché “facciamo finta che…” o “facciamo che…”. Attraverso questo processo acquisiamo la capacità di fare ipotesi (dapprima elementari) rispetto a un nostro agire. - 3 anni di vita: pensiero narrativo. Rappresentiamo la realtà, creiamo nessi logici e collegamenti temporali e spaziali. Comunichiamo la nostra interiorità, la nostra emotività e i nostri atteggiamenti. Attraverso questo modello di pensiero rappresentiamo noi stessi e iniziamo a comprenderci e conoscerci interiormente. Sostiene la capacità di memoria autobiografica precoce e si contrappone al pensiero paradigmatico, tipico delle scienze esatte, caratterizzato da un linguaggio decontestualizzato. Dai 5-6 anni generiamo le nostre storie personali, abilità necessaria a raccontare come funziona la nostra mente. - 4 anni e mezzo di vita: teoria della mente. Si riferisce alla capacità di proiettarsi nel punto di vista dell’altro. Con questa capacità, la persona è in grado di prevedere e comprendere gli stati mentali degli altri che sottostanno a comportamenti e atteggiamenti. Si favorisce la comprensione dell’altro e l’empatia e così facendo anche la comprensione del sé. 28 Capitolo 7: “La Motivazione” È ciò che ci spinge o meno a svolgere un compito. Tutti siamo guidati dai motivi impliciti. Sono dei tratti di motivazione che ci portano, anche inconsapevolmente, a essere attratti da stimoli, situazioni, compiti. Murray ne individua 3: - RIUSCITA; - DOMINANZA; - AFFILIAZIONE; Ogni motivo implicito genera una spinta all’avvicinamento al compito e una paura corrispondente che ci allontana. In effetti, è normale sentire un senso di ambivalenza nei confronti dei compiti che ci troviamo a svolgere, perché siamo spesso indecisi se svolgerlo o meno in base ai nostri motivi impliciti. MOTIVO AVVICINAMENTO ALLONTANAMENTO Riuscita Speranza di avere successo e Paura dell’insuccesso e di non acquisire padronanza di una riuscire a padroneggiare il situazione; compito/ situazione; Dominanza Avere impatto sugli altri conPaura di essere dominati, azioni, comportamenti, idee; controllati, che altri abbiano persuasione; potere su di noi e ci obblighino a fare ciò che non vorremmo; Affiliazione Sentirsi accettati, accolti, Paura di essere rifiutati o desiderio di vicinanza; esclusi; Ogni essere umano sente questi bisogni dentro di sé e le paure associate in percentuali differenti a seconda del carattere o della situazione. Le differenze individuali possono essere molto marcate perché dipendono da tre fattori fondamentali. Il primo è proprio degli esseri umani, è quindi costituzionale e ci accomuna tutti. Gli altri due sono invece in relazione con le autovalutazioni: il primo è la stima di successo (cioè di riuscire, dominare e esseri o meno), le seconde sono le emozioni anticipate (la previsione delle emozioni che proveremo quando avremo svolto il compito, soddisfazione, rabbia, tristezza, serenità, ecc.). Anticipare emozioni positive ci rende più motivati, anticipare emozioni negative può diventare un deterrente allo svolgimento di un compito. Stime di successo ed emozioni anticipate sono determinate da: - esperienze pregresse; - rappresentazioni di sé; - reazioni dell’ambiente; Nello svolgere un compito il nostro desiderio latente è di soddisfare i nostri motivi impliciti, anche se, come dice la parola stessa, noi non siamo necessariamente coscienti di averli. È importante favorire una rappresentazione di sé positiva al fine di costruire la motivazione della persona. Una continua frustrazione dei motivi impliciti genera stress, insoddisfazione e incapacità di dispiegare il proprio potenziale. 29 La percezione di competenza Fa parte delle rappresentazioni, è il “sentirsi capaci” in un compito, si ricollega al saper fare, quindi alla conoscenza di strategie e alla pratica pregressa. Riuscire a fare qualcosa rappresenta una forte spinta motivazionale, infatti siamo spinti a fare ciò che ci riesce meglio e preferiremmo evitare quei compiti che non ci riescono. Noi desideriamo naturalmente dominare le situazioni e siamo motivati a riuscirci, che è alla base del nostro sentirci competenti. Manifestiamo il nostro bisogno di dominare la situazione con la richiesta di “fare da soli” e in questo senso è cruciale il ruolo degli adulti che possono incoraggiare o scoraggiare questo comportamento con conseguenze sul comportamento del bambino. Un adulto che si intromette continuamente, non lascia concludere e che in qualche modo ostacola i tentativi di padronanza dei bambini, riduce la loro motivazione perché dà loro il messaggio di non essere capaci e fa aumentare ansia da prestazione, incertezza e bisogno di conferme. Al contrario, un adulto che incoraggia un bambino a fare da solo fa aumentare in lui la sua percezione di competenza, con effetti positivi sulla sua motivazione. Approvare i tentativi di padronanza favorisce l’aumento della percezione di competenza e permette al bambino di sbagliare. Sbagliare nell’apprendimento è una tappa importante, perché fa scoprire l’apprendimento al bambino e gli dà la possibilità di agire per migliorare e conquistare. L’autoefficacia È la percezione di controllo di una situazione, il pensiero di farcela o non farcela. È anticipatoria e specifica per un certo compito o situazione. Più avrò autoefficacia (percezione di controllo di una situazione), più acquisirò motivazione (e sarà quindi più alta la probabilità che io riesca nel compito). Essere convinti che il proprio agire può modificare una situazione è una buona fonte di autoefficacia. Bandura descrive l’esercizio di controllo per promuovere l’autoefficacia, che si basa su 4 punti: 1. Affrontare compiti e situazioni e avere successo; Il successo non è necessariamente da misurare come il miglior risultato, ma anche solo un tentativo dopo una serie di rinunce. In ogni caso è necessario affrontare il compito e non tirarsi indietro. 2. Vedere altri che riescono; È importante perché ci invita a immaginare noi stessi in situazioni simili, in questo modo alimentiamo la percezione di potercela fare, genera emozioni anticipate di soddisfazione e ci fa provare un senso di sfida. 3. Persuadersi di riuscire (persuasione verbale); Quello che ci diciamo è importante: pensieri positivi ci motivano, pensieri negativi aumentano la percezione di non potercela fare e ci ostacolano. 4. Gestire l’emotività negativa; Ogni compito del nostro vissuto porta con sé emozioni positive o negative a seconda della nostra esperienza. Avere emozioni negative è normale, ma è importante anche gestirle per evitare che il vissuto negativo interferisca con lo svolgimento del compito occupando la nostra memoria di lavoro con rappresentazioni, pensieri e un linguaggio interiore negativo. 30 Se ci pensiamo competenti in un compito è più probabile che sceglieremo di svolgerlo. Questo meccanismo è in grado di influenzare quindi le nostre scelte. Tuttavia, è importante allo stesso tempo che il compito abbia valore per noi. Teoria aspettative x valori Secondo Wigfield ed Eccles (2000), la motivazione è il risultato di una moltiplicazione fra le aspettative di riuscita e il valore che attribuiamo a quel compito. Le aspettative dipendono da stime di fattibilità e percezione di competenza, invece il valore è da attribuirsi ai nostri obiettivi o a quelli altrui. Wigfield ed Eccles individuano 4 dimensioni del valore: 1) Valore intrinseco: la piacevolezza del compito; 2) Utilità: a cosa serve farlo? 3) Importanza del risultato; 4) Costo: quanto è faticoso farlo? Il costo in particolare è una dimensione che va acquistando sempre più incidenza su questo processo. È importante in questo senso dare gli strumenti giusti per affrontare una situazione e diminuire la percezione del costo e far risaltare il valore del compito. In questo modo è possibile innescare il processo che porta alla motivazione per lo svolgimento di tale compito. Curiosità e interesse Berlyne (1971) afferma che la curiosità è una caratteristica innata dell’essere umano e osservabile da subito nei bambini. La curiosità ci spinge a esplorare l’ambiente circostante ed è guidata dagli stimoli, che possono essere molteplici, ad esempio novità, complessità, incongruenza (una cosa nuova e intrigante, ad esempio). La curiosità però è transitoria e una volta trovata una risposta a una domanda ed estinta la curiosità bisogna trovare un altro stimolo per fare sì che si riaccenda. Non è così per l’interesse, perché l’interesse è stabile e si sviluppa nel tempo, fissandosi su certi temi e argomenti più che su altri. Ognuno ha degli interessi individuali, ma esistono anche interessi situazionali, creati da un ambiente che presenta elementi “catch”. Costruire l’interesse significa aumentare la comprensibilità di un argomento, spiegare il valore di un compito, proporre novità. Stimolare la novità e il piacere della scoperta aumenta la curiosità e va a lavorare sull’area di sviluppo prossimale, in questo modo si può unire qualcosa di cui si è già a conoscenza con qualcosa che non si conosce e stimolare la voglia di impadronirsi di concetti e savoir- faire nuovi. 31 Capitolo 8: “Le emozioni” L’origine delle emozioni: la teoria controllo-valore (Pekrun, 2006) Pekrun individua nella percezione di controllo e nel valore i due antecedenti delle emozioni. Questi due sono in relazione moltiplicativa tra loro, di conseguenza si accrescono a vicenda. La percezione di controllo ci dice che siamo capaci di sostenere una situazione o di svolgere un determinato compito e siamo coscienti che il raggiungimento di un risultato dipende da noi. Il valore invece è il significato o l’importanza che noi diamo a quel compito. La combinazione di alti o bassi livelli di percezione di controllo e valore dà origine a emozioni diverse: - Alto livello di controllo x alto livello di valore = sentirsi capaci di gestire una situazione/ compito importante (gioia, divertimento) - Basso livello di controllo x alto livello di valore = non sentirsi capaci di gestire qualcosa che per noi è importante (ansia) - Basso livello di valore x alto/basso livello di controllo = percezione di non importanza di un compito (noia) Per gestire l’apprendimento anche sotto il profilo emozionale è importante sostenere le due percezioni di valore e controllo. Ciò è possibile se si agisce sugli antecedenti distali, che sono: Istruzione: efficacia didattica (qualità dell’istruzione), comunicativa (emozioni piacevoli) strategica (per il ruolo attivo dello studente); Supporto all’autonomia: promozione di strategie efficaci; Comunicazione di obiettivi, aspettative e valori: cosa l’ambiente comunica; Le emozioni si trasformano: la teoria comunicativa Usiamo le emozioni per comunicare agli altri le nostre impressioni e intenzioni. Tuttavia, attraverso le emozioni comunichiamo significati a noi stessi, offrendoci una interpretazione di una situazione e della nostra identità. Avere una reazione emotiva ci dà l’idea di cosa è veramente importante per noi. In altre parole, è importante osservare come ci sentiamo e come reagiamo. Secondo Oatley e Johnson-Laird, le emozioni ci danno un’idea del livello di raggiungimento degli obiettivi che stiamo perseguendo, vale a dire ci dicono a che punto siamo nel perseguirli e quali sono importanti per noi. Più l’emozione sarà forte, più quell’obiettivo sarà per noi importante. Nelle tappe di raggiungimento di un obiettivo proviamo quindi una gamma di emozioni positive e negative che ci comunicano molte cose sullo stato e l’importanza dei nostri obiettivi personali. Quando ci cimentiamo a perseguire un obiettivo, le emozioni iniziali sono quasi sempre negative: la tristezza per la lontananza o la perdita di un obiettivo, la paura dell’incertezza dell’inizio, la rabbia quando vediamo il nostro obiettivo ostacolato, in seguito il coinvolgimento dopo la rabbia e la soddisfazione e controllo conseguenti o il ritorno all’incertezza e alla paura per l’abbandono dell’obiettivo. Certe volte possiamo oscillare tra emozioni negative a lungo senza riuscire a concretizzare il nostro agire nelle emozioni positive di soddisfazione e coinvolgimento. 32 La nostra rabbia, tristezza, paura sono espressioni diverse dell’importanza che un compito ha per noi, e più attraverseremo emozioni negative lungo il percorso, più proveremo soddisfazione quando raggiungeremo la meta. Provare emozioni negative a volte ci rende difficile cominciare e solo se cominciamo e andiamo oltre le emozioni negative possiamo provare emozioni positive. Emozioni piacevoli Le emozioni positive e negative convivono in noi perché hanno funzioni diverse. Le emozioni piacevoli, quali gioia, entusiasmo, piacere, soddisfazione sono importanti perché, secondo il modello di Friedrickson (2001) ampliano il nostro repertorio di azioni e favoriscono il senso di sfida, la voglia di mettersi in gioco, la creatività, l’attenzione, l’apprendimento. Provare emozioni positive ci dà la possibilità di sviluppare in noi l’ottimismo e la resilienza. Grazie alle emozioni positive, il processamento delle informazioni diventa più fluido e ampio, infatti le emozioni positive favoriscono la progettualità e la carica motivazionale. Più proviamo emozioni positive, più siamo propensi a provarne, si innesca così una spirale di positività: 1. Esperienza di emozioni piacevoli (gioia, entusiasmo, soddisfazione); 2. Ampliamento temporaneo di vedute e interessi; 3. Costruzione di risorse durature (ottimismo, resilienza); 4. Più prontezza nel provare emozioni piacevoli; → 1. Esperienza di emozioni piacevoli…; ecc. Siamo in grado di provare sia emozioni positive sia negative nello stesso momento perché non sono le une il contrario delle altre, bensì emozioni afferenti a diversi ambiti. Anche quando proviamo emozioni positive e negative allo stesso tempo, è importante che quelle positive prevalgano e che siano in un rapporto di almeno 3:1 con quelle negative. Per favorire l’apprendimento, è importante fare leva sulle emozioni positive, che comunichino una sensazione di soddisfazione e gioia di imparare. L’ambiente può trasmettere convinzioni, valori, attitudini che amplificano la percezione di essere capaci, di valere e fanno crescere la gioia di imparare e inducono emozioni per contagio emotivo, come nel caso dell’entusiasmo. L’entusiasmo Entusiasmo significa letteralmente “un fuoco dentro”; è quell’emozione che ci fa venire voglia di comunicare al mondo cosa ci fa stare così bene, di contagiare tutti con la nostra emozione. Nel caso dell’entusiasmo noi siamo capaci di accenderci per comunicare ciò che ci fa stare così. Nell’apprendimento, l’entusiasmo viene percepito dagli studenti, cattura la loro attenzione e favorisce un vissuto emotivo piacevole che, a sua volta, facilità l’apprendimento. Oltre che essere entusiasti sul serio, è possibile anche applicare delle tecniche per “agire entusiasticamente” e quindi comunicare l’entusiasmo anche provando semplicemente delle 33 emozioni positive che possono tradursi in questo. È possibile mettere in atto questa modalità attraverso un tipo di linguaggio non verbale (Collins, 1978): Voce. Rapida, intonata verso l’alto, ritmica, con variazioni e cambi improvvisi. Occhi. Aperti, luminosi, scintillanti, che si spostano con frequenza, scattanti. Gestualità. Frequenti gesti, ampi, variati nel tempo e che coinvolgono tutto il corpo. Volto. Espressivo e con variazioni frequenti: dalla tristezza alla gioia, alla riflessione, fiducia, sorpresa. Parole. Descrittive, varie, molto aggettivi. Atteggiamenti. Esuberanza, prontezza nell’accettare idee e sentimenti degli altri, nell’incoraggiare, sostenere e non intimorire. Un insegnante entusiasta è percepito come più capace/ efficace. Genera la sensazione di bravura del docente, che viene più facilmente seguito dagli studenti rispetto a un altro che proponga gli stessi contenuti ma con meno entusiasmo. L’entusiasmo coinvolge e favorisce la trasmissione dei contenuti, aumentando la facilità dell’apprendimento. Conoscere e controllare le proprie emozioni Quando ci troviamo in situazioni che richiedono un controllo emotivo (tipicamente rivolto alle emozioni negative) per permetterci di affrontare una determinata situazione, attuiamo l’emotional labor, altrimenti detto “costo del controllo emotivo”. Secondo Gross (2001), questo richiede un’elaborazione a livello profondo e superficiale: - A livello profondo rivalutiamo una situazione e le sue interpretazioni, modificando il nostro vissuto emotivo; - A livello superficiale moduliamo l’espressione comportamentale dell’emozione, sopprimendo la naturale manifestazione di quest’ultima; La focalizzazione dell’elaborazione a livello profondo è sul vissuto emotivo, quindi sugli antecedenti di quell’emozione, invece la focalizzazione a livello superficiale si concentra sulla risposta. L’espressione dell’emozione si verifica con l’attivazione di determinati pattern comportamentali che dipendono dal nostro vissuto. Se non elaboriamo l’emozione, la sopprimeremo superficialmente, con il rischio di danneggiare il nostro benessere. Infatti, molti sforzi di soppressione delle emozioni possono stressarci a tal punto da arrivare a un burn-out, a un esaurimento. Secondo Gross, quindi è importante riflettere sulle proprie esperienze emotive per modificare il proprio vissuto emotivo e comunicare le emozioni in modo da elaborarle e controllarle. Il modello di Frijda (2007) si propone invece di spiegare le differenze individuali a proposito del provare emozioni, infatti ci si può chiedere perché le persone abbiano reazioni emotive diverse a uno stesso avvenimento/ compito/ situazione. Secondo Frijda, ciò che accade attiva una riflessione, una valutazione cognitiva, che può generare risposte emotive e talvolta comportamenti. Valutazioni e comportamenti rimodulano il processo, andando a innescare un re-apprisal, una rivalutazione. 34 Data l’unicità di ogni contesto, pensiero e sentimento in ogni situazione, ogni emozione sarà unica. Inoltre, siamo in un certo senso “padroni” delle nostre emozioni, perché non sono gli eventi esterni a provocarle (altrimenti chiunque si trovasse in una stessa situazione proverebbe le stesse emozioni, e ciò non succede), ma al contrario sono le valutazioni che noi abbiamo rispetto a ciò che stiamo vivendo. Partendo da questo presupposto, è logico credere che in qualche modo noi possiamo agire sulle nostre emozioni e modularne lo sviluppo. Controllare le emozioni è un processo complicato che ci alleniamo ad attuare sin da bambini, ma solo il raggiungimento della maturità ci consente di svolgerlo al meglio. Bisogno infatti essere capaci di ragionare su cause e conseguenze, rappresentare situazioni, ragionare contemporaneamente su più aspetti, anticipare scenari, ecc. Capita che i bambini non abbiano le armi adatte ad affrontare certe situazioni, per questo motivo possono essere inseriti in programmi cognitivo-comportamentali che prevedono anche la simulazione di situazioni e risposte emotive e lo mettono in condizione di allenarsi a gestire l’emotività negativa. Capitolo 9: “Socializzazione e apprendimento” Il supporto sociale all’apprendimento e l’imitazione In situazioni di apprendimento, abbiamo bisogno di conforto affettivo e relazionalità. La presenza di persone durante l’apprendimento, in particolare di adulti quando apprendiamo da bambini, sviluppa la nostra capacità di autoregolazione e perfeziona le nostre acquisizioni attraverso gli aiuti e i feedback che ci vengono dati. La principale fonte di apprendimento per i bambini è l’imitazione: ciò è possibile grazie ai nostri neuroni-specchio, che si attivano in modo da permetterci di rappresentare e riprodurre ciò che vediamo, compatibilmente con la nostra maturazione biologica e cognitiva. Bandura (1973; 1977) ha sviluppato una teoria sull’apprendimento sociale chiamata modeling o modellamento: secondo questo principio, noi saremmo in grado di riprodurre il comportamento di un altro individuo che noi consideriamo un “modello”, che si tratti di comportamenti positivi o negativi (ad esempio comportamenti aggressivi). Questo accade nel momento in cui noi ci identifichiamo con quel modello; il processo di identificazione è legato ad aspetti affettivi o a giochi di ruolo/ personaggi rappresentati da chi viene osservato. La scelta sui modelli da imitare viene orientata in particolare da tre aspetti: 1. Somiglianza tra imitatore e imitato; 2. Competenza del modello; 3. Autorevolezza del modello; 35 Il bisogno di relazione (self-determination theory) Quando svolgiamo un’azione, abbiamo la volontà di sentirci liberi e di farlo senza vincoli o bisogni esterni. In altre parole, vogliamo sentirci artefici delle nostre azioni e agire autonomamente, perché quando lo facciamo accresce in noi la motivazione per il compito. Al contrario, se veniamo guidati dall’esterno, ci sentiremo meno autodeterminati e motivati. Ryan e Deci (2000) propongono la Self-determination Theory come modello per spiegare come sia fondamentale corrispondere a tre bisogni condivisi (innati, universali e fondamentali), cruciali sotto il punto di vista motivazionale e quindi passibili di influenzare grandemente l’apprendimento: 1. Bisogno di relazione: sentirsi accolti, accettati, sostenuti nello sforzo; 2. Bisogno di competenza: riuscire, percepire di sapere come fare; 3. Bisogno di autonomia: poter scegliere come organizzare la propria attività; Ognuno di questi bisogni è collegato quindi a un motivo di soddisfazione e a un motivo di frustrazione: 1. Sentire un senso di non connessione o di esclusione; 2. Sentire di non essere capaci, di non avere strumenti per riuscire; 3. Sentire di essere obbligati a fare qualcosa senza capire perché o senza possibilità di gestirla; Secondo la teoria dell’autodeterminazione, corrispondere ai tre bisogni elencati riducendo le frustrazioni degli stessi bisogni accresce la motivazione e la capacità di affrontare il compito. Bisogna oltretutto sorvegliare l’ambiente in cui avviene l’apprendimento, perché l’ambiente può comunicare significati ostili, di obbligo, non comprensione, o ancora di incompetenza. Come fare in modo che i bisogni vengano soddisfatti nel migliore dei modi e con equilibrio? Creare un ambiente caring, cioè un ambiente che fa sentire accolti nei propri sforzi. Reeve (2009) descrive questo ambiente in 5 punti fondamentali: 1) Non giudicare, far sentire competenti, capaci, valorizzare gli sforzi rispetto al risultato, accettare chi apprende nei suoi pregi e difetti; 2) Spiegare le ragioni per fare, vale a dire che esplicita perché bisogna o non bisogna fare qualcosa; 3) Accettare l’emotività negativa, ovvero rispetta l’espressione di emozioni come la rabbia, la tristezza, la noia, guidando chi apprende verso la comprensione del compito incoraggiandone lo svolgimento senza fare pressione e senza obbligare con la forza o essere intrusivi; 4) Rispettare tempi individuali e sostenere interesse e curiosità; 5) Utilizzare un linguaggio supportivo (non controllante); 36 Ambienti supportivi e autoregolazione L’autoregolazione è la capacità di sapersi controllare nel gestire autonomamente strategie e motivazioni funzionali alla riuscita e svolgere compiti considerati importanti, a cui si dà valore. Per acquisirla, entrano in gioco dei processi di internalizzazione, che vanno dalla regolazione gestita dall’esterno (da altre persone), fino al grado più alto di auto-regolazione della motivazione. La regolazione della motivazione quindi segue diverse tappe che partono dall’esterno della persona che apprende fino alla completa interiorizzazione del processo: Siamo costretti a svolgere un’attività da qualcuno di esterno: riceviamo premi ed elogi (regolazione esterna); La necessità di un motivatore esterno inizia a venire meno, svolgiamo il compito con volontà, ma con incertezza, mirando a non deludere, a non essere esclusi o non sentirci in colpa (regolazione introiettata); Svolg

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