Riassunto Diritto Internazionale Conforti PDF
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Università degli Studi di Napoli Federico II
Conforti
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Questo documento riassume il Diritto Internazionale di Conforti, concentrandosi sulla distinzione tra diritto internazionale pubblico e privato. Il riassunto approfondisce i meccanismi di produzione, accertamento e attuazione coattiva delle norme internazionali, con particolare attenzione all'adattamento del diritto internazionale nell'ordinamento statale italiano. Il testo evidenzia l'importanza del diritto internazionale sia nelle relazioni interstatali che nell'applicazione pratica all'interno degli ordinamenti nazionali.
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lOMoARcPSD|2480514 Riassunto Diritto Internazionale Conforti Diritto internazionale privato e processuale (Università degli Studi di Napoli Federico II) Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) ...
lOMoARcPSD|2480514 Riassunto Diritto Internazionale Conforti Diritto internazionale privato e processuale (Università degli Studi di Napoli Federico II) Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 1. Introduzione del diritto internazionale. Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della comunità degli Stati. Si tratta di un complesso di norme che nascono dalla cooperazione tra gli Stati e si collocano al di sopra di ogni stato. Si dice anche che il diritto internazionale regola i rapporti tra Stati, ma questa definizione è un po' equivoca perché oggi si assiste alla tendenza al c.d. "internazionalismo", perché il diritto internazionale disciplina anche molti aspetti commerciali, sociali ed economici e non è più un semplice "diritto per diplomatici", ma viene continuamente applicato direttamente dai giudici interni, nazionali. E' pertanto opportuno distinguere la definizione: 1) Formale (nel senso che crea obblighi e diritti per gli Stati) Dalla definizione 2) Materiale (nel senso che regola i rapporti interindividuali, cioè interni alle singole comunità statali). Oggi si tende anche a distinguere il diritto internazionale pubblico dal diritto internazionale privato. In realtà bisogna precisare che non si tratta di due branche dello stesso ordinamento, ma di due ordinamenti diversi: il diritto internazionale privato è formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato, stabilendo quando esso va applicato e quando invece il giudice nazionale deve applicare le norme del diritto privato straniere. In Italia la materia è regolata dalla legge 218/95. Ad esempio l’art 20 della legge del 1995 diche “la capacità giuridica delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale” ciò vuol dire che il giudice italiano applicherà alla capacità giuridica delle persone il codice civile e le altre norme privatistiche italiane se la persona ha la cittadinanza italiana, se invece la persona è straniera, il giudice applicherà la legge nazionale della medesima. Il diritto internazionale privato riguarda l’ordinamento statale, il diritto internazionale pubblico riguarda l’ordinamento della comunità degli stati. È vero che il diritto internazionale pubblico (in esso compreso il diritto dell’UE) tende a regolare anche rapporti interni allo stato ed anche rapporti oggetto del diritto privato ma ciò significa soltanto che lo stato ha l’obbligo di tradurre le norme internazionali che di simili rapporti si occupano in norme interne). Tuttavia non essendovi omogeneità tra il diritto internazionale privato e pubblico, la qualifica di pubblico è superflua se non erronea. In realtà il diritto della comunità internazionale e cioè il d. internazionale non è né pubblico né privato tale distinzione ha senso solo con riguardo all’ordinamento statale. 2. Quadro sintetico delle funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto internazionale. Anche nell'ordinamento internazionale troviamo tre funzioni: 1. Funzione normativa. 2. Funzione di accertamento del diritto. 3. Funzione di attuazione coattiva delle norme. 1. Per quanto attiene alla funzione normativa, bisogna distinguere tra: 1 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 diritto internazionale generale: ossia tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e diritto internazionale particolare : norme che vincolano solo una ristretta cerchia di soggetti di solito quelli che hanno partecipato alla loro formazione. L'articolo 10 della Costituzione italiana fa riferimento alle norme di diritto internazionale generale. Queste norme generali sono innanzitutto le consuetudini, che si formano nella comunità internazionale attraverso l'uso: di queste norme può affermarsi l’esistenza solo laddove si dimostri una prassi consolidata nel tempo seguita dagli stati. La caratteristica di questo tipo di norme è che, a differenza degli ordinamenti interni, è la fonte primaria ed ha dato luogo ad uno scarso numero di norme. A parte le norme strumentali (che regolano i requisiti di validità ed efficacia dei trattati che quindi si limitano a disciplinare un0ulteriore fonte normativa) quelle consuetudinarie materiali (che impongono direttamente obblighi e riconoscono diritti) non sono molte. Sebbene esistano anche consuetudini particolari le tipiche norme del diritto internazionale particolare sono invece i trattati (o patti, accordi, convenzioni) internazionali che vincolano solo gli Stati contraenti. Essi sono al contrario delle norme consuetudinarie assai numerosi e costituiscono la parte più rilevante del d. internazionale. Infatti oggi si tende a regolare molti rapporti della vita sociale dello stato proprio attraverso i trattati. Il trattato è subordinato alla consuetudine così come nel diritto statale il contratto è subordinato alla legge. Al di sotto dei trattati troviamo un'altra fonte: i procedimenti previsti da accordi detti anche fonti di terzo grado, sono fonti di diritto internazionale particolare. Essi traggono la loro forza dai trattati internazionali che li prevedono e vincolano solo gli Stati aderenti ai trattati stessi. In questa categoria rientrano molti atti delle organizzazioni internazionali, ossia delle varie Associazioni fra Stati, come l'ONU, l’Unione Europea etc. Il problema principale che le organizzazioni di questo tipo pongono è quello della sistemazione dei loro atti tra le fonti internazionali. In realtà le organizzazioni internazionali non hanno poteri legislativi quindi non hanno poteri vincolanti nei confronti degli stati membri e lo strumento di cui si servono normalmente è la raccomandazione, che non è vincolante, ma ha valore di mera esortazione. Non mancano però casi in cui le organizzazioni emanano decisioni vincolanti. Forza vincolante hanno tra l’altro proprio gli atti dell’organizzazione che più a vicino ci interessa e che presenta caratteri del tutto sui generis cioè l’Unione europea. Le decisioni vincolanti degli organi internazionali si trovano nella gerarchia delle fonti al di sotto degli accordi in quanto proprio da un accordo il c.d. trattato istitutivo ciascuna organizzazione prende vita. Lo stato cioè è vincolato dalla decisione in quanto con l’accordo costitutivo dell’organizzazione si è impegnato a rispettarla. 2. Per quanto concerne invece la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale, nell'ambito della comunità internazionale prevale una funzione arbitrale, che poggia sull'accordo tra le parti, accordo diretto a sottoporre la controversia ad un determinato giudice. Ciò che quindi è l'eccezione nel diritto interno, diventa la regola nell'ordinamento internazionale. Anche la corte internazionale di giustizia (CIG) il massimo organo giudiziario delle Nazioni unite ha funzione essenzialmente arbitrale. Non mancano però istanze giurisdizionali istituzionalizzate ossia tribunali permanenti istituiti da singoli trattati ed innanzi ai quali gli stati contraenti possono essere citati da altri stati contraenti o da singoli individui. Anche in questi casi cmq il fondamento della competenza del giudice resta pattizio nel senso che solo gli stati che hanno accettato in un modo o nell’altro detta competenza possono essere convenuti in giudizio a differenza del diritto statale dove la sottoposizione 2 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 alla funzione giurisdizionale è imposta dalla legge. Occorre però sottolineare che tali istanze giurisdizionali internazionali sono cresciute enormemente. 3. Per quanto attiene invece ai mezzi che vengono utilizzati nel d. internazionale per assicurare coattivamente l'osservanza delle norme e reprimerne le violazioni, occorre riconoscere che sono quasi tutti riportabili alla categoria dell'autotutela (altra diversità dal diritto interno per cui farsi giustizia da sé è solo un’eccezione nell’eventualità che non possano intervenire gli organi statali). Si desume che il d. internazionale poggia su rapporti di mera forza. Il diritto internazionale è vero diritto? Ci si chiede, considerate le caratteristiche, se il diritto internazionale sia in realtà un vero diritto e quali argomenti si possano addurre per dimostrare la sua obbligatorietà. Tale argomentazione ha impegnato ed impegna i cultori più rappresentativi della materia. Contrapposto a questi sforzi sta lo scetticismo che si manifesta sia a livello scientifico sia a livello umano che pone l’accento sulla mancanza di mezzi idonei a costringere i singoli stati a rispettare le norme e le sentenze di d. internazionale. Nessuno nega e non sarebbe possibile farlo che delle norme si formino al di sopra dello stato per consuetudine per la stipulazione di accordi ciò che si nega è che si tratti di un vero e proprio fenomeno giuridico. Una soluzione proposta di tale problema (dell’obbligatorietà) esiste: il diritto internazionale per ricevere concreta e stabile attuazione deve passare attraverso i giudici interni che devono applicarlo e quindi farlo rispettare; gli ordinamenti statali quindi devono prevedere con regole più o meno simili in tutti i paesi che il d. internazionale sia osservato al pari del diritto statale quindi interno: ad esempio l'articolo 10 della Costituzione italiana impegna al rispetto delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, inoltre i trattati stipulati dal nostro Paese generalmente sono oggetto di una legge ordinaria che ne ordina l'applicazione. Il rispetto del diritto internazionale non può che essere assicurato dagli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza ed è assicurato nei limiti i cui si determina tra gli operatori giuridici interni dei vari paesi quella solidarietà internazionale che spesso manca tra i governi. Quanto qui esposto è una formulazione in termini moderni della teoria positivistica tedesca del 19esimo secolo di Jellinek, che considerava il diritto internazionale come il frutto di un' autolimitazione del singolo Stato, poiché non esistono veri e propri mezzi giuridici per reagire efficacemente ed imparzialmente alle violazioni delle norme internazionali. Ciò che bisogna superare è però l'idea dell'arbitrio del singolo Stato, altrimenti si legittimerebbe la possibilità dello Stato stesso di sciogliersi liberamente in qualsiasi momento da qualunque impegno internazionale. Il diritto internazionale può essere anche considerato avendosi riguardo esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale a livello delle relazioni internazionali e quindi senza richiamare in alcun modo in causa gli ordinamenti giuridici statali. Esso appare quindi sotto tale aspetto come un punto di riferimento e di sostegno di una sana diplomazia. Tale testo si propone di avvicinarsi ad un discorso compiuto del d. internazionale attraverso un approccio internistico cioè soffermandosi sui problemi di adattamento tra diritto statale e diritto internazionale con particolare attenzione al diritto statale italiano naturalmente. Il testo è rivolto in particolar modo agli operatori giuridici interni o meglio intende formare coloro che lo diventeranno 3 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 particolarmente dei giudici e dei pubblici funzionari. 3. Lo Stato come soggetto di diritto internazionale. Altri soggetti e presunti tali. Se definiamo il diritto internazionale come il diritto della comunità degli Stati, bisogna specificare cosa intendiamo per Stato, poiché, a livello di definizione, possiamo distinguerlo in Stato-comunità o in Stato-organizzazione ( o stato-apparato o stato-governo). La prima accezione fa riferimento ad un insieme di individui quindi una comunità che si stanzia su una porzione di superficie terrestre ed è sottoposta a delle regole che la tengono unita. La seconda, invece, è costituita dall'insieme di governanti, cioè degli organi che esercitano sui singoli associati il potere di imperio. Questi fenomeni sono entrambi reali e vengono “definiti” dalla teoria generale del diritto. La qualifica di soggetto del diritto internazionale spetta però solo allo Stato-organizzazione, allo Stato- apparato. Sono infatti gli organi statali che partecipano alla formazione delle norme internazionali, sono loro i destinatari delle norme internazionali materiali e sono sempre loro che rispondono per eventuali violazioni delle norme internazionali. Ovviamente, quando parliamo di organi statali facciamo riferimento a tutti gli organi, sia quelli del potere centrale che quelli del potere periferico. Lo Stato-organizzazione deve presentare però dei requisiti per poter essere considerato tale: 1. il primo è l' effettività ( requisito essenziale) del proprio potere su di una comunità territoriale. Pertanto la qualifica di soggetto internazionale deve essere negata ai Governi in esilio (fenomeno che ebbe la sua manifestazione più significativa durante la seconda guerra mondiale quando vari governi dei territori occupati dai nazisti si rifugiarono a Londra ) nonostante siano riconosciute ai loro componenti dallo stato ospitante certe prerogative sovrane per motivi politici, alle organizzazioni o fronti, o ai comitati di liberazione internazionale che abbiano sede in un territorio straniero, dove abbiano costituito una sorta di organizzazione di governo. Tipico esempio di comitato di liberazione all’estero è stato per tanti anni l’organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) con sede a Tunisi anche dopo il 1988 quando venne proclamato lo Stato di Palestina nonostante non avesse base territoriale. 2. il secondo requisito essenziale ai fini della soggettività internazionale dello stato è l' indipendenza o sovranità esterna. Occorre cioè che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro stato. In tal senso non sono soggetti del diritto internazionale gli Stati membri di Stati federali (perché, anche se talvolta possono essere autorizzati dalla Costituzione federale a stipulare accordi con Stati terzi, devono normalmente avere il consenso del Governo centrale), né le Confederazioni che è un'unione fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani, creata in genere per scopi di difesa che comunque devono giungere ad una decisione comune per questo è (forse) esclusa l’indipendenza e di conseguenza la soggettività internazionale. Il requisito dell'indipendenza deve essere inteso con cautela: non coincide con la perfetta possibilità di determinarsi da sé, poiché l'interdipendenza è oggi una delle caratteristiche sempre più marcate delle relazioni internazionali (stati satelliti, stati deboli, stati con truppe straniere...). 4 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 Bisogna allora intenderlo in senso formale: è indipendente uno stato il cui ordinamento è originario, cioè tragga la sua forza giuridica dalla propria Costituzione e non da quella di un altro Stato. Il dato formale cede però di fronte al dato reale quando di fatto l’ingerenza da parte di un altro stato nell’esercizio del potere di governo è totale e quindi il Governo indigeno è un governo fantoccio e come tale privo di soggettività internazionale. Un esempio attuale di governo fantoccio è la repubblica turco-cipriota. Quando ricorrono i due requisiti, l'organizzazione di governo acquista la qualità di soggetto internazionale automaticamente: non è necessario il riconoscimento. Il riconoscimento, come anche il non-riconoscimento, è un atto meramente lecito che attengono alla sfera della politica ma non producono conseguenze giuridiche. Generalmente infatti il riconoscimento da parte degli Stati preesistenti rivela l’intenzione di stringere rapporti amichevoli di scambiare rappresentanze diplomatiche e di avviare forme più o meno intense di collaborazione mediante la conclusione di accordi. La maggiore o minore intensità che si intende imprimere alla collaborazione viene di solito sottolineata rispettivamente con la formula de jure cioè a pieno e quella del riconoscimento de facto. Quando si nega al riconoscimento valore giuridico si viene a respingere soprattutto la tesi che esso sia costitutivo della personalità internazionale. Si viene cioè a negare la possibilità che gli stati preesistenti possano esercitare potere di ammissione nella comunità internazionale a quell’organizzazione che si viene ad affermare attraverso i caratteri dell’effettività e dell’indipendenza. Bisogna però ammettere che la tesi ha il merito di cogliere una tendenza che è stata sempre presente nella prassi internazionale anche se poi non è mai riuscita a tradursi in precise norme giuridiche. Gli stati preesistenti infatti tendono a giudicare se lo stato nuovo “meriti” o meno la soggettività ancorando il loro giudizio ad un certo valore o una certa ideologia. In passato non meritava la soggettività uno stato non cristiano per esempio oggi non merita la soggettività uno stato non democratico e che quindi viola i diritti umani. Tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali x il semplice motivo che gli stati possono essere d’accordo sul valore da porre a base del riconoscimento ma divergono poi sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto. ( a volte l’ammissione è stata burocratizzata è il caso della dichiarazione di Bruxelles sul riconoscimento dei nuovi stati nell’Europa orientale. I 12 paesi comunitari si dichiararono disposti a riconoscere gli stati che via via si fossero formati seguendo un processo democratico purchè avessero presentato vari requisiti essenziali: rispetto per la carta delle nazioni unite e per l’atto finale della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, il rispetto dei principi sulla tutela delle minoranze, l’osservanza della regola dell’inviolabilità ecc… le repubbliche formatesi vennero quindi invitate a presentare domanda e mote vennero accolte). Quando si richiedono altri non necessari come quello che il nuovo Stato non debba costituire una minaccia per la pace e la sicurezza per la pace, che il suo Governo goda del consenso del popolo e che non violi i diritti umani, questi non sono necessari ai fini dell'acquisto della soggettività internazionale, ma servono soltanto per valutazioni politiche degli altri Stati per valutare se stringere rapporti d'amicizia. Nella comunità internazionale attuale non mancano stati che temporaneamente o permanentemente minacciano la pace o violano i diritti umani, sebbene i principi del diritto internazionale obblighino gli stati a tutt’altro, ma è anche vero che tali obblighi non condizionano ma presuppongono la personalità giuridica dello stato medesimo. Sembra risolto anche il problema della soggettività del Governo (o Partito) insurrezionale: gli insorti in quanto tali non sono soggetti del diritto internazionale e il Governo c.d. legittimo potrà prendere i provvedimenti che reputa più opportuni (fatti salvi però i movimenti di liberazione nazionale). Se 5 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 tuttavia i ribelli nel corso della guerra civile riescono a dare vita ad un'organizzazione di governo che controlla effettivamente una parte del territorio, la personalità non può negarsi, indipendentemente dal fatto che tale personalità sia destinata ad estinguersi qualora l’insurrezione non abbia successo. La maggior parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, sia pure limitata, degli individui, persone fisiche e giuridiche. Essa trae spunto soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali che obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo; sempre più spesso, inoltre, l’individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il proprio diritto, ad organi internazionali appositamente creati: alla tutela dell’interesse individuale sia accompagna l’attribuzione all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto consuetudinario fornisce ampia materia per sostenere la personalità internazionale degli individui: i c.d. crimina juris gentium comprendono i crimini di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e dunque quei reati per i quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente assegnatigli. Parte della dottrina non accoglie questa tesi. In definitiva, è vero che molte norme internazionali si prestano ad essere interpretate come regole che si indirizzano direttamente agli individui, ma è anche vero che la comunità internazionale resta ancora strutturata come una comunità di governanti e non di governati. La personalità internazionale dell’individuo è comunque stata affermata anche dalla Corte Internazionale di Giustizia (per la prima volta nel 2001). Numerose sono le norme internazionali che tutelano le minoranze etniche, ma esse non assurgono a soggetti di diritto internazionale in mancanza di strumenti di azione diretta. Nella prassi internazionale si parla spesso di ‘diritti dei popoli’: il termine ‘popolo’ è usato solo in modo enfatico e può essere tranquillamente sostituito dal termine ‘Stato’. Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parla in relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, che si occupano dei governati come contrapposti ai governanti. A parte i diritti umani, l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di autodeterminazione dei popoli. Esso è regola di diritto internazionale positivo, non solo è contenuto in testi convenzionali, come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma ha acquistato carattere consuetudinario attraverso una prassi sviluppatasi ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta ONU sia in certe solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione. Anche la Corte Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario. Non è facile indicare quale sia l’esatto contenuto del principio di autodeterminazione dei popoliin quanto principio giuridico. A nostro avviso se si guarda alla prassi effettiva degli stati il principio di autodeterminazione non ha ancora oggi un ampio campo di applicazione. Tale principio come ha affermato anche la CIG si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero (c.d. autodeterminazione esterna), in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza: l’autodeterminazione comporta il diritto dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti e di scegliere liberamente il proprio regime politico. Perché il principio sia applicabile, salvo il caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non deve risalire oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale. (IRRETROATTIVITà DEL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE) Quando si tratta di territori nei quali il Governo straniero, presente con le proprie forze armate, si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di ‘aiuto’, il principio di autodeterminazione si applica con molta difficoltà, imponendo a entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. Circa l’autodeterminazione dei territori coloniali, si è formata una regola nell’ambito dell’ONU che attribuisce all’Assemblea generale la competenza a decidere, con effetti 6 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte dei territori medesimi: l’Assemblea deve conformarsi al principio di autodeterminazione, altrimenti la sua decisione è illegittima e senza efficacia. L’autodeterminazione dei territori coloniali deve coordinarsi poi con il principio dell’integrità territoriale, in base al quale occorre tenere conto dei legami storico- geografici del territorio da decolonizzare con uno Stato contiguo formatosi anch’esso per decolonizzazione: il principio di autodeterminazione deve cedergli il passo solo quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma importata dalla madrepatria. È da escludere invece che il diritto internazionale richieda che tutti i Governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e siano costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna). Siano ancora lontani da una situazione del genere anche se è vero che la maggior parte degli stati tende a considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia, democrazia intesa come legittimazione democratica dei governi. Dunque, il diritto internazionale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentire l’autodeterminazione. Lecito è considerato poi l’appoggio fornito ai movimenti di liberazione nazionale. Non si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli alla autodeterminazione: come nel caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale intercorrono esclusivamente tra gli Stati; è nei confronti di tutti gli Stati che l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste ed è nei rapporti tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti di liberazione nazionale non può essere considerato illecito. Il principio di autodeterminazione è legato ad una determinata epoca storica l’epoca dell’indipendenza dei paesi in via di sviluppo. Esso è servito ad assicurare il dominio di ciascun popolo sul e nell’ambito del proprio territorio. Nell’epoca attuale caratterizzata dalla globalizzazione economica il problema non è più quello di garantire a tutti i popoli detto dominio ma di proteggere i popoli più deboli dall’invadenza dei poteri forti sia pubblici che privati internazionali. Poteri che non si lasciano bloccare dalle frontiere territoriali. Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali, (ONU, UE) ossia alle associazioni fra Stati dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni. Gli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi connessi alla loro attività vengono considerati come produttivi di diritti ed obblighi veri e propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera giuridica degli Stati membri, in quanto cmq la personalità giuridica degli stati e quella delle organizzazioni restano distinte. Sintomatico è l’art. 300 del Trattato della Comunità europea, secondo cui gli accordi conclusi dall’organizzazione vincolano anche gli Stati membri; di disposizioni del genere non vi sarebbe bisogno se, per regola generale, non valesse il contrario. La personalità di tutte le organizzazioni internazionali è stata nettamente affermata dalla Corte Internazionale di Giustizia in un parere (1980) sull’interpretazione dell’accordo (1951) tra Organizzazione Mondiale della Sanità ed Egitto. Non bisogna confondere la personalità di diritto internazionale delle organizzazioni con la loro personalità di diritto interno: se un’organizzazione internazionale acquista immobili o contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di quest’ultimo a stabilire entro che limiti essa ha la capacità di farlo. Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti. Alla Chiesa cattolica, anche nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui venne meno ogni suo dominio territoriale, la personalità internazionale è stata sempre per tradizione riconosciuta. Essa si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali ma, data l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano, anche in tutte le situazioni che presuppongono il governo di una comunità 7 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 territoriale. Una parte della dottrina italiana riconosce la qualità di soggetto internazionale anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. L’Ordine ha governato un tempo su Rodi e, fino alla fine del Settecento, su Malta; intrattiene rapporti diplomatici con molti Paesi e ha ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite. La sua attività principale ha carattere assistenziale, funzione nobile ma non tale da giustificare il possesso della personalità internazionale. 8 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 PARTE PRIMA LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI 4. Il diritto internazionale generale. La consuetudine ed i suoi elementi costitutivi. Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli Stati, hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi di un certo comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della necessità del comportamento stesso. Due sono gli elementi che caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. Tale concezione è detta dualistica ed è stata da molti studiosi criticata in quanto la consuetudine deve essere considerata come una prassi prescindendo dall’opinio iuris in quanto ammettendolo inevitabilmente si arriverebbe a a considerare la consuetudine nata da un errore. L’opinio iuris quindi dovrebbe essere considerato come un elemento psicologico e non costitutivo. La critica alla teoria dualistica ha il difetto di fondarsi però su argomenti troppo logici, che in astratto possono essere esatti ma che sono stati sovvertiti dalla pratica. Infatti secondo la CIG e i così i tribunali internazionali per la formazione della consuetudine sono indispensabili entrambi gli elementi. È anche vero che, almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto come socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull’opinio juris sive necessitatis, mancherebbe però la possibilità di distinguere tra mero ‘uso’, determinato ad es. da motivi di cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche. L’esistenza o meno dell’opinio juris sive necessitatis è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale: i trattati costituiscono uno dei punti di riferimento più utilizzati nella costruzione di una regola consuetudinaria internazionale, ma possono essere interpretati sia come conferma di norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di nuove norme e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo un’indagine sull’opinio juris, solo la ricerca tendente a stabilire se gli Stati contraenti abbiano inteso il vincolo contrattuale nel primo o nel secondo senso può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria. Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi convenzionale, sia pure costante e ripetuta nel tempo, quando è chiaro che il principio medesimo è il frutto delle concessioni che una parte degli Stati contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre concessioni. Il Tribunale Iran-Stati Uniti (istituito nel 1981) si è rifiutato di dedurre un principio di ‘indennizzo parziale’, applicabile all’espropriazione ed alla nazionalizzazione di beni stranieri, dalla prassi dei c.d. lump-sum agreements, accordi mediante i quali lo Stato nazionale dei soggetti i cui beni sono stati nazionalizzati o espropriati all’estero accetta dallo Stato nazionalizzante o espropriante una somma globale, solitamente inferiore all’intero valore dei beni. Secondo il Tribunale, i lump-sum agreements sarebbero frutto di transazioni e quindi non indicativi di norme di diritto internazionale generale. L’elemento dell’opinio juris serve infine a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, cioè il comportamento diretto a modificare o ad abrogare una determinata consuetudine attraverso la formazione di una consuetudine nuova o semplicemente di una ‘desuetudine’, dal comportamento che costituisce invece un mero illecito 9 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 internazionale. Circa la diuturnitas, se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel volgere di pochi anni. Il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della comunità internazionale. Il fattore tempo (di formazione della consuetudine) resta è ineliminabile, essendo le c.d. consuetudini istantanee una contraddizione in termini e un fenomeno che non può generare almeno per noi, norme giuridiche, per la mancanza di quel carattere di stabilità che è insito nel d. non scritto. Tutti gli organi statali possono partecipare al procedimento di formazione della norma consuetudinaria. Possono concorrere non solo gli atti ‘esterni’ degli Stati (trattati, note diplomatiche, comportamenti in seno ad organi internazionali) ma anche atti ‘interni’ (leggi, sentenze, atti amministrativi). Non vi è alcun ordine di priorità tra tutti questi atti, ma solo la maggiore importanza dell’uno o dell’altro a seconda del contenuto della norma consuetudinaria. Nella formazione di certe norme consuetudinarie, precisamente di quelle che più sono destinate a ricevere applicazione all’interno dello stato è la giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo, si pensi al campo delle immunità o a quello delle cause di invalidità e di estinzione dei trattati. Tale funzione e svolta dalle corti supreme statali con particolare autorità. Esse hanno un ruolo decisivo nella creazione del diritto consuetudinario ed è loro compito, di fronte a consuetudini antiche che contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali, promuoverne, sia pure con cautela, la revisione. Riepilogando la consuetudine crea diritto generale e come tale si impone a tutti gli stati abbiano o meno questi partecipato alla sua formazione. Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli stati sorti dal processo di decolonizzazione ossia dagli stati i quali oggi costituiscono la maggioranza dei membri della comunità internazionale. Essi sostengono che il vecchio diritto internazionale si sia formato in epoca diversa rispondendo a esigenze diverse, pertanto non può pretendere di vincolare uno stato che nasca oggi con esigenze e interessi opposti. Da qui la pretesa di rispettare solo le norme consuetudinarie preesistenti da essi liberamente accettate. Il problema della contestazione del diritto consuetudinario con riguardo ai paesi sorti dalla decolonizzazione è ormai superato, va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione della norma consuetudinaria provenga da un singolo Stato o da un gruppo di stati. Nel primo caso (deriva da uno stato singolo) la contestazione anche ripetuta (fenomeno del c.d. persistent objector), è irrilevante; a maggior ragione, non occorre la prova dell’accettazione della norma consuetudinaria da parte dello Stato nei cui confronti questa è invocata; se tale prova fosse necessaria la consuetudine dovrebbe configurarsi come accordo tacito. Verrebbe meno l’idea sentita di un diritto internazionale generale comune ai vari soggetti internazionali. Ma quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più gran parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria. Prima però di arrivare alla conclusione che un determinato settore non è regolato o non è più regolato da norme consuetudinarie l’interprete deve fare ogni sforzo per cercare di trovare un minimo comune denominatore nell’atteggiamento degli stati ai fini della ricostruzione di principi magari generalissimi. I paesi in via di sviluppo tendono oggi a sopravvalutare l’importanza ai fini della ricostruzione del d. generale attuale di tutta una serie si risoluzioni. Si deve qui precisare, quindi che le risoluzioni (raccomandazioni) delle organizzazioni internazionali non hanno forza vincolante e le norme in esse contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in consuetudini internazionali, 10 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 ossia se sono confermate dalla diuturnitas e dall’opinio juris, oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali; si dice che tali risoluzioni appartengono al ‘diritto morbido’ (soft law). Tale termine è impreciso e ambiguo si usa per indicare cmq la non obbligatorietà. Il che non esclude che il soft law, così come le raccomandazioni possano costituire l’avvio alla formazione della consuetudine o la premessa alla conclusione di accordi internazionali. La consuetudine può considerarsi diritto spontaneo , e tale espressione viene usata soprattutto per mettere in luce che il diritto non scritto non deriva da una vera e propria fonte formale ma è opportuno sempre tenere presente che la consuetudine non si origina da materiale informe ma da ben precisi e ben individuabili atti degli stati. Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza di consuetudini particolari, cioè vincolanti per una ristretta cerchia di Stati (ad es. le consuetudini regionali o locali). È possibile, nel caso di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite. Ciò non accade allorché si tratti di organizzazioni internazionali che comprendono un organo giurisdizionale destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo (la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha stabilito, in una sentenza del 1994, che “una semplice prassi non può prevalere sulle norme del Trattato”). Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L’analogia è da intendersi come una forma di interpretazione estensiva consiste nell’applicare una norma ad un certo caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto. Nell’ambito del d. consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale che non esistevano all’epoca della formazione della norma (ad es. l’applicazione delle norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla navigazione aerea). 5. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (che è chiamata a dirimere una controversia ad essa sottoposta) annovera fra le fonti i “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Detti principi sono indicati nell’articolo al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si tratta quindi di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di diritto costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio o consuetudinario. Circa tale principi molto è stato detto e nessuna terminologia sembra convincere. A nostro parere due requisiti devono sussistere perché principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto internazionale. Occorre innanzitutto che essi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati; in secondo luogo, occorre che siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno necessari anche sul piano internazionale. ( questo è il requisito più importante). Costituiscono una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti. Circa l’opinio juris sive necessitatis, essa è presente in quelle regole intese dagli 11 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 organi dello Stato come aventi un valore universale, come necessariamente applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e quindi anche in quello internazionale. Per ogni altra regola uniforme di diritto interno occorrerà volta a volta accertare l’opinio iuris dal p.d.v. internazionale. Nell’accertamento dell’opinio juris a livello internazionale è necessario molto rigore onde non pervenire alla conclusione che qualsiasi uniformità di norme generali statali crei diritto internazionale generale. Con questa riserva la categoria dei principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali è idonea ad aprire all’interprete prospettive interessanti di ricostruzione di norme internazionali. A parte le vecchie regole di giustizia e di logica giuridica essa può costituire una delle strade per affermare la natura internazionalistica di quei principi oggi universalmente propugnati che mirano a salvaguardare la dignità umana e ad attuare una migliore giustizia sociale. Il ricorso ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili può essere assai utile per estendere la sfera dei rapporti tra stato e sudditi regolati dal diritto consuetudinario. Il ricorso ai principi generali del diritto è particolarmente attuato nella materia della punizione dei crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali. Se il primo requisito per l’esistenza di un principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati, ne deriva che la ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista nell’ordinamento statale; ciò sempre che, come di solito avviene, l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale. Ad es. i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali fanno parte, al pari delle norme consuetudinarie, dell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 101 Cost. (“L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”); dato che, in virtù dell’art. 10 Cost., la contrarietà di una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi anche in caso di contrarietà ad un principio generale di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili. 6. Altre presunte norme generali non scritte. L’equità e il ruolo della giurisprudenza interna e internazionale nella formazione del diritto internazionale generale. La c.d. frammentazione del diritto internazionale. Una parte della dottrina (Quadri) pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categoria di norme generali non scritte, i principi ‘costituzionali’ connaturati con la comunità internazionale. Questi sarebbero le norme primarie del diritto internazionale, “espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale” e comprenderebbero quelle norme volute e imposte dalle “forze prevalenti” in un dato momento storico nell’ambito della comunità internazionale. Tra i principi, alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati. I principi formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda. L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si spiegherebbe quindi in quanto voluta e imposta dalle forze prevalenti della comunità internazionale. Così consuetudine ed accordo sarebbero fonti di secondo grado. Ma la dottrina comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali considera la consuetudine fonte primaria, esaurente il diritto internazionale generale, mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza dalla consuetudine (si ritiene cioè che la norma pacta sunt servanda sia una norma consuetudinaria). I principi materiali potrebbero avere qualunque contenuto a seconda che le forze prevalenti si combinino x volere una certa disciplina di una determinata materia(Quadri cita quello che ha 12 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 sancito la libertà dei mari). Ciò che non convince è che, seguendo tale tesi, un gruppo di Stati o anche un solo Stato potrebbe imporre, disponendo della forza necessaria, la propria volontà a tutti gli altri membri della comunità internazionale. Inoltre, l’interprete interno, dovendo stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia così come vuole l’art. 10 Cost. si dovrebbe chiedere di volta in volta se non vi siano ‘imposizioni’, in una determinata materia, da parte delle forze dominanti nella comunità internazionale. È vero che alla base di una norma non scritta vi è spesso un’imposizione e che il ruolo di grandi potenze è sempre di primo piano nella formazione del d. internazionale ma se all’iniziale imposizione non fa seguito l’elemento di stabilità e continuità non è possibile ammettere l’esistenza di un principio. Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il “comune sentimento del giusto e dell’ingiusto” e soprattutto ci si chiede se all’equità possa ricorrere il giudice internazionale o interno che sia chiamato a risolvere una questione di d. internazionale. A parte la c.d. equità infra o secundum legem, ossia la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente interpretativo, ed a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale è espressamente autorizzato a giudicare ex aequo et bono, la risposta è negativa. L’equità svolge un ruolo importante soltanto nell’ordinamento inglese. La prassi internazionale però non avalla una trasposizione dall’ordinamento inglese a quello internazionale. È da escludere non solo l’equità contra legem, contraria cioè a norme consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare le lacune del diritto internazionale: se il diritto internazionale è lacunoso ciò significa che gli stati non hanno obblighi da osservare o diritti da pretendere e l’equità non può essere idonea a crearli. L’equità va inquadrata nel procedimento di formazione del diritto consuetudinario: spesso il ricorso all’equità si atteggia come una sorta di opinio juris sive necessitatis o anzi di opinio necessitatis in quanto esso ha luogo quando una norma si sta formando o modificando. Quando una sentenza interna ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto consuetudinario, essa influisce direttamente sulla formazione della consuetudine: le decisioni dei Tribunali interni costituiscono infatti una delle categorie più importanti di comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta ma relativa, trattandosi di una decisione autorevole ma proveniente da un singolo Stato. Circa le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è invece indiretta, dato che non si tratta della prassi degli Stati, ma è assai incisiva per il contesto in cui è esercitata. Quando poi a pronunciarsi è la Corte Internazionale di Giustizia, ossia “l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite” (art. 92 Carta ONU), l’influenza è massima, visto che esprime l’opinio juris sive necessitatis della massima Organizzazione mondiale. Anche questa opinione però deve trovare prima o poi riscontro nella prassi degli Stati. Si dice che la moltiplicazione delle istanze giurisdizionali internazionali, con la possibilità di decisioni discordanti, mini l’unità del diritto internazionale e si paventa la ‘frammentazione’ di quest’ultimo; cosicché da taluni si auspica un ruolo centrale per la Corte Internazionale di Giustizia. In realtà, il pericolo non sussiste: sulle interpretazioni discordanti delle sentenze sarà la prassi degli Stati ad operare la scelta definitiva. Del tema si è occupata la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite a partire dal 2002, ma finora i lavori non hanno approdato a nulla. 7. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione. Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale consuetudinario data dalla fine del 13 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 XIX secolo. Fino alla prima guerra mondiale furono le norme del c.d. diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi scritti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre). Tentativi di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma senza risultati. È con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso slancio con una serie di trattati multilaterali. L’art. 13 della Carta ONU prevede che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite intraprenda studi e faccia raccomandazioni per “…incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì (1947) come proprio organo sussidiario la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite (CDI). Questa è composta da esperti che vi siedono a titolo personale (cioè da individui che non rappresentano alcun Governo) ed ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a determinate materie procedendo a studi, raccogliendo dati della prassi e predisponendo in tal modo progetti di convenzioni multilaterali internazionali che poi di solito o in seno all’assemblea generale o in sede di apposite e solenni conferenze di stati vengono adottati e infine aperti alla ratifica e all’adesione da parte degli stati stessi. La commessione ha finora predisposto varie convenzioni di codificazione coprendo quasi tutti i settori del diritto internazionale. Si può dire che l’epoca delle grandi codificazioni si è conclusa e la Commissione si occupa attualmente di temi assai specifici oppure tende a rivedere convenzioni di codificazioni già esistenti. Inoltre sempre più spesso l’opera della commissione sfocia in progetti che magari proprio su proposta della commissione stessa non vengono tradotti in convenzioni. Le principali convenzioni sono: Convenzione di Vienna (1961) sulle relazioni ed immunità diplomatiche; Convenzione sulle missioni speciali (1969); Convenzione di Vienna (1963) sulle relazioni consolari; Convenzioni di Ginevra (1958) sul diritto del mare; Convenzione di Vienna (1969) sul diritto dei trattati; Convenzione di Vienna (1986) sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; Convenzione di Vienna (1978) sulla successione degli Stati nei trattati; Convenzione di Vienna (1983) sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stati; Convenzione di Montego Bay (1982) sul diritto del mare; Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione (1997); Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (2004). La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono progetti di accordi di codificazione: l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha spesso seguito altre strade: ha convocato conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato redatto oppure la redazione del progetto è stata affidata ad organi sussidiari dell’assemblea come i Comitati ad hoc. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione la loro particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di individui indipendenti che esprimono opinioni personali ma di individui rappresentanti gli Stati e che devono seguire delle istruzioni. Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli Stati contraenti, cioè valgono solo per gli Stati che li ratificano. (non possono cioè considerarsi al pari del d. consuetudinario generale).Ciò per vari motivi: Non è il caso di riporre un’illimitata fiducia nell’opera della Commissione, perché nell’opera di ricostruzione delle norme internazionali influisce la mentalità dell’interprete che siede in Commissione; Come dimostra un esame obiettivo dei lavori delle conferenze degli stati indette volte x volta x esaminare approvare e ratificare i progetti della CDI gli stati fanno ciò che si fa sempre nelle 14 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 trattative cercano di salvaguardare i propri interessi cercando di far prevalere le loro convinzioni; inoltre, l’art. 13 della Carta ONU parla non solo di codificazione ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale e spesso è stata invocata quest’espressione per introdurre nell’accordo norme che in effetti erano abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale generale. L’accordo di codificazione costituisce quindi un valido punto di partenza per l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, nella materia disciplinata dall’accordo medesimo; ma egli dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati; e solo se la verifica risultasse positiva egli potrà applicare la norma dell’accordo di codificazione a titolo di diritto generale. Ammesso pure che l’accordo di codificazione corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua redazione, è ben possibile che in epoca successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della mutata pratica degli Stati in tal senso si è espressa anche la CIG. Nessun dubbio sorge circa l’inapplicabilità agli Stati non contraenti di una norma codificata ma non più corrispondente al diritto internazionale generale. Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di un’autorità nell’ambito della comunità internazionale impedisce che si instauri quel rapporto tra diritto consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del primo nei settori dove esiste il secondo: consuetudini e accordi sono in linea di principio fra loro derogabili e nulla vieta dunque che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore. L’interprete deve essere estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice e deve dimostrare che la consuetudine si è formata col concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano applicabile anche nei rapporti inter se. Se la dimostrazione è data l’accordo deve soccombere. 8. segue. Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU. Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare, in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti fra Stati ma più spesso riguardano rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). (sui diritti del fanciullo sul divieto dell’utilizzo di armi nucleari e sull’eliminazione della discriminazione razziale). Le Dichiarazioni di principi non costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali (l’atto tipico che essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione atto avente mero valore esortativo) e il carattere non vincolante delle sue risoluzioni, ivi comprese le Dichiarazioni di principi, è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri, come i Paesi occidentali. Se l’assemblea avesse poteri legislativi, i paesi del terzo mondo che detengono la maggioranza in seno ad essa disporrebbero del diritto internazionale generale. Le Dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini dello sviluppo del diritto internazionale del suo adeguamento alle esigenze di solidarietà e di interdipendenza sempre più sentite nel mondo di oggi. 15 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 Non si tratta di accordare loro una forza vincolante che non hanno si tratta di riconoscere il contributo che con esse l’assemblea ONU dà alla formazione del diritto internazionale sia pure nel quadro delle fonti tipiche di tale diritto quali la consuetudine e l’accordo. Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ONU. Circa il diritto pattizio, certe Dichiarazioni o parti di esse hanno valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle Dichiarazioni che equiparano l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta. Ma poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli Stati, anche tali Dichiarazioni per la Carta restano mere raccomandazioni. È vero però che, equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, si utilizzi un espediente verbale per sancire puramente e semplicemente che quel principio è ormai obbligatorio, dal che risulta lecito presumere fio a prova contraria che gli Stati che partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi. È agevole ammettere tale presunzione altrimenti bisognerebbe concludere che le dichiarazioni di principi del tipo in esame rappresentino per dirla in termini privatistici delle dichiarazioni non serie o rese con riserva mentale. La situazione non cambia nel caso che la dichiarazione consideri l’inosservanza di un principio come violazione del diritto internazionale generale anziché della Carta. Anche in tal caso è legittimo presumere per gli stessi motivi che sussista una sincera volontà di obbligarsi. Le Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate, in vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma semplificata. 9. I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare. La terminologia usata è varia (trattato, convenzione, patto, ecc.; si usa poi il termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali; scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche; a seconda della materia ivi contenuta) ma la natura dell’atto, quella propria degli atti contrattuali, non muta. L’accordo internazionale può essere definito come l’incontro delle volontà di due o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi. Non va accolta, in quanto ambigua e poco rispondente alla realtà la distinzione ,elaborata dalla dottrina tedesca del XIX secolo e ancora aperta, fra trattati normativi e trattati-contratto (o trattati- negozio): i primi, considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche, sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la condotta di un numero rilevante di Stati (come la rinuncia alla guerra x es.), mentre nei secondi, fonti di diritti e obblighi, ossia di rapporti giuridici, non di norme, le parti muoverebbero da posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni più o meno corrispettive (gli accordi commerciali x es.). La distinzione non ha senso, non avendo senso la contrapposizione fra norma e rapporto giuridico: qualsiasi atto obbligatorio che vincoli qualcuno produce per ciò stesso una regola di condotta. Né ha senso parlare di parti unite e contrapposte essendo un dato comune a tutti i trattati. L’uso del concetto di accordo normativo ebbe motivazioni prevalentemente di teoria generale derivando dal convincimento che solo la volontà dello stato, quale si esprime attraverso la legge, fosse idonea a creare diritto e che pertanto anche nel diritto internazionale si dovesse ricostruire qualcosa di 16 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 simile alla legge, qualcosa che attuasse un’unione, a fini legislativi, della volontà di più stati. Può accettarsi la distinzione fra norme astratte, regolanti una situazione o un rapporto ‘tipo’ e vincolanti i destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto, e norme concrete, regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato. I trattati possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti, sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi istitutivi di fonti acquistano oggi grande importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali, i quali, oltre a disciplinare direttamente certi rapporti fra Stati membri, demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori. I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità ed efficacia. Tale complesso di regole forma il c.d. diritto dei trattati, cui è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 (in vigore dal 1980 e ratificata dall’Italia nel 1974) questa è la più importante e quella alla quale si riferisce la sua sfera di applicazione tocca soltanto i trattati conclusi tra stati dopo la sua entrata in vigore. Vanno menzionate anche la Convenzione di Vienna del 1978 (in vigore dal 1996), sulla successione degli Stati nei trattati, e la Convenzione di Vienna del 1986 (mai entrata in vigore), sui trattati stipulati fra Stati e Organizzazioni internazionali o fra Organizzazioni internazionali. È opinione universalmente seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia libertà in materia di forma e procedura per la stipulazione: l’accordo può risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli Stati, purché di identico contenuto e purché dirette ad obbligarli. L’accordo può realizzarsi istantaneamente o aversi al termine di complicate procedure, può essere scritto o orale, può essere consegnato in un documento ad hoc o può risultare da processo verbale di un organo internazionale o dallo scambio di note diplomatiche ecc…Non ha carattere tassativo l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella Convenzione di Vienna (artt. 7-16), elencazione che tra l’altro è limitata agli accordi “conclusi per iscritto” e quando ci si descrive il procedimento di formazione dei trattati non ci si può riferire a precise e vincolanti norme giuridiche, neppure si può dare alla descrizione carattere tassativo dovendosi necessariamente limitarsi a quelle procedure che vengono più frequentemente usate dagli stati. Ancora oggi, comunque, il procedimento normale o solenne di formazione del trattato, ricalca quello seguito all’epoca delle monarchie assolute. All’epoca la stipulazione del trattato era di competenza esclusiva del Capo dello Stato; esso era negoziato dai rappresentanti del Sovrano, definiti ‘plenipotenziari’ in quanto titolari di pieni poteri per la negoziazione, che predisponevano il testo dell’accordo (da approvare all’unanimità) e lo sottoscrivevano. Seguiva la ‘ratifica’ da parte del Sovrano ed occorreva, infine, che la volontà del Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti con lo scambio delle ratifiche. Anche oggi il procedimento normale di formazione del trattato si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono organi del Potere esecutivo o agiscono per suo mandato. L’art. 7 della Convenzione di Vienna stabilisce che una persona è considerata come rappresentante dello Stato “…se produce dei pieni poteri appropriati…”; i pieni poteri sono ‘appropriati’ allorquando promanano dagli organi competenti in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese (dal Potere esecutivo in Italia). Lo stesso art. 7 prevede che possano rappresentare lo stato senza produrre pieni poteri i capi di stato o di governo o i ministri dell’estero. 17 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 La fase della negoziazione è tanto più complessa quanto più numerosi sono gli stati che partecipano alla negoziazione medesima e importante è la materia da regolare: per esempio i trattati multilaterali come i trattati di pace, di codificazione ecc..di particolare rilievo sono negoziati dai plenipotenziari nell’ambito di conferenze diplomatiche rette da regole procedurali preventivamente concordate e spesso assai dettagliate; per quanto riguarda l’adozione del testo la vecchia regola dell’unanimità va cedendo il passo al principio di maggioranza e, talvolta, le due regole si combinano allorché sia prevista la votazione a maggioranza solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per giungere ad un’adozione concordata. I negoziati si concludono con la firma (o la parafatura, apposizione delle sole iniziali) da parte dei plenipotenziari. La firma (almeno nel procedimento normale cioè quello in questione) non comporta ancora alcun vincolo per gli Stati: essa ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi negoziati. La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna è la ratifica. La competenza a ratificare è disciplinata da ogni singolo stato con proprie norme costituzionali. Da un p.d.v. comparativo e con approssimazione può dirsi che il capo di stato abbia competenza a ratificare ma tale potere concorre con quello del potere esecutivo. Circa l’ordinamento italiano, l’art. 878 Cost. dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionale previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere; l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle Camere è necessaria, e va data con legge, quando si tratti di trattati che hanno natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le due norme vanno combinate con l’art. 89 Cost. secondo cui “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. È opinione comune che la ratifica rientri tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non possa rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la ratifica governativa ma di cui possa soltanto sollecitare il riesame prima della sottoscrizione: il che dimostra che il potere di ratifica è, quanto al contenuto, nelle mani dell’Esecutivo e, per le categorie di trattati indicate dall’art. 80 Cost., insieme del Potere esecutivo e di quello legislativo. Alla ratifica (o conclusione o anche approvazione) è da equiparare l’adesione (o accessione), che si ha, nel caso di trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà diretta a concludere l’accordo promana da uno Stato che non ha preso parte ai negoziati; la possibilità di partecipare all’accordo a beneficio di Stati che non lo hanno negoziato deve essere prevista nel testo medesimo (c.d. clausola di adesione), occorre cioè che il trattato sia aperto. L’adesione non è altro che la ratifica di un accordo predisposto da altri e si capisce perché di essa non si parla neppure nelle costituzioni, la competenza ad aderire rientrando in quella a ratificare. L’adesione di cui parliamo implica partecipazione diretta al trattato multilaterale aperto da parte dello stato che è rimasto estraneo ai negoziati. Una volta formatasi la volontà dello stato attraverso le deliberazioni degli organi costituzionalmente competenti il procedimento di formazione si conclude con lo scambio o con il deposito delle ratifiche: nel primo caso l’accordo si perfeziona istantaneamente, mentre nel secondo, che è la procedura adottata di solito per i trattati multilaterali, via via che le ratifiche vengono depositate, l’accordo si forma tra gli Stati depositanti (di solito, però, si prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in vigore, neppure fra gli Stati depositanti, finché non si raggiunga un certo numero di ratifiche. Allo scambio e al deposito, l’art. 16 della Convenzione di Vienna aggiunge la notifica agli Stati contraenti o al depositario. 18 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo internazionale ‘deve’ essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite. La registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato. Normalmente, tutti gli accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta ufficiale dell’ONU, la United Nations Treaty Series. Spesso gli stati avvalendosi dell’ampia libertà di cui godono in materia seguono procedimenti diversi da quello normale. Le procedure alternative possono distinguersi a seconda che: sfocino comunque nella ratifica (o in un atto equivalente) oppure si caratterizzino per un differente modo di manifestazione della volontà da parte degli Stati. Tra le prime sono inquadrabili le numerose variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della firma (ad es. per molti trattati predisposti da organizzazioni internazionali, alla negoziazione diretta si sostituisce la discussione e l’approvazione da parte di un organo dell’organizzazione). La firma viene sempre più spesso, nel caso di accordi multilaterali, differita nel tempo: il testo del trattato, una volta redatto di plenipotenziari, è ‘aperto’ alla firma e alla ratifica degli Stati; tale firma non ha più funzione di autenticazione del testo ma costituisce una generica dichiarazione di disponibilità. Circa le procedure nelle quali la manifestazione di volontà dello Stato non consiste nella ratifica, è fondamentale il fenomeno dei c.d. accordi in forma semplificata (o accordi ‘informali’): tale è l’accordo concluso per effetto della sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari, e che si ha quando, dallo stesso testo o dai comportamenti concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. L’art. 12 della Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a) quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o è stato espresso nel corso della negoziazione”. A tale categoria di accordi sono da riportare anche gli scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili, sempre che dagli strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti di vincolarsi immediatamente. Per aversi un accordo in forma semplificata è necessario che dal testo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di obbligarsi; ciò perchè la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese tra Governi, cui spesso si dà il nome di accordi, ma che non hanno natura di accordi in senso giuridico essendo tale natura esclusa da quanto risulta dal testo o dalle dichiarazioni di coloro che lo sottoscrivono. Tali intese valgono se e finchè applicate dalle parti. In una zona di confine fra intese non giuridiche e accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando le parti prevedono nel trattato o in dichiarazioni separate che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore. Tali accordi da alcuni vengono considerati vincolanti da altri simili alle intese e quindi non vincolanti. La competenza a concludere accordi in forma semplificata, al pari della competenza a ratificare, è regolata da ciascuno Stato con proprie norme costituzionali. Circa l’ordinamento italiano, la stipulazione in forma semplificata sarebbe secondo la tesi di Cassese da escludere solo quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 80 Cost. (trattati aventi natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che importano variazioni del territorio od oneri alle 19 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 finanze o modificazioni di leggi); in tutti gli altri casi il Potere esecutivo è libero di decidere, insieme alle altre parti contraenti, che forma dare all’accordo e che procedura seguire (tale tesi, nel silenzio della nostra Costituzione, è ricavata da un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 Cost. e sembra essere confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente durante i quali si ribadì che solo gli accordi più importanti necessitano della sottoposizione a ratifica). La categoria degli accordi in forma semplificata è riconosciuta dal legislatore: la L. n. 839/84, nel riordinare la materia della pubblicazione degli atti normativi della Repubblica italiana nella Gazzetta Ufficiale, prevede, all’art. 1, che tale pubblicazione avvenga per “…gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma semplificata…”. Un limite alla competenza del Governo a stipulare accordi in forma semplificata è dato dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente previsto dalla Costituzione, di concludere accordi segreti. La prassi degli accordi in forma semplificata trova origine in quegli executive agreements statunitensi, stipulati dal Presidente ed esenti da ratifica (di competenza del Senato), che hanno per oggetto materie tecnico-amministrative e materie che rientrano nelle competenze del Presidente quale Comandante delle forze armate e responsabile della politica estera. Un problema molto importante nasce se il Potere esecutivo si impegna autonomamente e definitivamente sul piano internazionale relativamente a materie per le quali la Costituzione richiede il concorso del Parlamento? (e, sia pure formalmente, del Capo dello Stato). Il Governo ha spesso utilizzato in Italia così come in altri paesi la forma semplificata per accordi che rientravano palesemente nelle categorie dell’art. 80 Cost. per i quali occorreva quindi l’intervento del Parlamento sotto forma della legge di autorizzazione alla ratifica, e la ratifica da parte del P. della Repubblica: l’esempio più significativo è costituito dalla domanda di ammissione dell’Italia alle Nazione Unite (la Carta ONU è chiaramente un trattato di natura politica e la partecipazione dello Stato all’Organizzazione importa oneri finanziari di rilievo), avvenuta con un atto del Ministro degli Esteri (emanato nel 1947 e accolto dall’Assemblea generale nel 1955). La dottrina evita eccessi estremistici e, da un lato, esclude che per il diritto internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso validi, che l’Esecutivo abbia cioè, come si riteneva avesse un tempo il Capo dello Stato, lo jus repraesentationis omnimodae; dall’altro, esclude che qualsiasi vizio, anche soltanto formale, dal punto di vista interno, possa inficiare la validità internazionale dell’accordo. Varie sono le teorie che vengono sostenute: INTERNISTICA: secondo alcuni il diritto internazionale si rifarebbe nella materia alla ripartizione di fatto delle competenze esistenti all’interno dello stato al momento della stipula dell’accordo ppoure rinvierebbe alla costituzione vivente quale si forma attraverso la prassi, come contrapposta alla costituzione formale, o ancora terrebbe conto delle prospettive che per l’accordo concluso dall’organo incompetente sussistono di ricevere nonostante tutto esecuzione; INTERNAZIONALISTICA: altri più vicini a questa tesi internazionalistica fanno leva sulla buona fede sostenendo che l’accordo sarebbe valido tutte le volte che la violazione del diritto interno non sia riconoscibile dalle parti contraenti. Al di là delle varie soluzioni ‘internistiche’ o ‘internazionalistiche’, l’art. 46 della Convenzione di Vienna (abbastanza vicina alla soluzione internazionalistica) stabilisce che “1) Il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato come vizio 20 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. 2) Una violazione è manifesta se obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede”. Considerando che: quando i governi si impegnano sul piano internazionale per materie che rientrano nella sfera di competenza di altri organi e in particolare dei parlamenti, questi (i governi) sono soliti procurarsi prima o dopo una qualche forma di assenso o approvazione da parte dell’organo interessato. Di fronte ai casi in cui vengono avanzate sul piano diplomatico richieste di esecuzione o denunce di violazione di accordi conclusi esclusivamente dall’Esecutivo è estremamente difficile stabilire se ciò avviene con la convinzione di sollecitare il rispetto di veri e propri impegni di carattere giuridico o solo per motivi politici o di propaganda: denunce di violazioni e richieste di esecuzione si hanno su detto piano anche per accordi che non hanno carattere giuridico. (il dato più importante) costituito dalla giurisprudenza interna in particolare dalla massa di sentenze provenienti da più stati che non intendono applicare trattati conclusi dai loro governi in violazione di norme interne fondamentali sulla competenza a stipulare senza preoccuparsi della riconoscibilità della violazione da parte degli altri contraenti. Stando così le cose riteniamo che l’art. 46 corrisponde al diritto internazionale generale quando codifica il principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato; una violazione del genere si ha quando sia mancato, nelle materie elencate nell’art. 80 Cost., il concorso del Parlamento. Tale articolo non corrisponde al diritto consuetudinario, risentendo di una concezione prettamente diplomatica del d. internazionale, nella parte in cui enuncia il principio della buona fede quindi il principio della riconoscibilità o meno della violazione ad opera dell’altro o delle altre parti contraenti: l’accordo concluso dall’Esecutivo senza la relativa competenza costituzionale resta un’intesa priva di carattere giuridico che vale finchè vale. Una simile intesa acquista valore di vero e proprio accordo internazionale in senso giuridico nel momento in cui l’organo messo da parte manifesti, implicitamente o esplicitamente, il suo assenso, e purché esso adoperi lo stesso strumento formale (la legge, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, nelle materie elencate dall’art. 80 Cost.) previsto dalla Costituzione per il suo intervento. Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono gli accordi che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla comunicazione, da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state adempiute le procedure previste dal diritto interno per “rendere applicabile nel territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali accordi toccano materie rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del Parlamento con una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di esecuzione. Circa la capacità delle Regioni di concludere accordi internazionali, la Corte costituzionale prese in un primo tempo una posizione drastica in senso antiregionalista affermando l’incompetenza delle regioni in tema di formulazioni di accordi con soggetti propri di altri ordinamenti (sent. n. 170/75). La materia venne poi regolata dal D.P.R. n. 616/77, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di svolgere “attività promozionali all’estero” senza il preventivo assenso governativo. 21 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 Significativa è la sent. n. 179/87 nella quale, capovolgendosi il primitivo orientamento, si sostiene che le Regioni, procuratesi il previo assenso del Governo centrale, possano stipulare non solo intese di rilievo internazionale, ma addirittura “accordi in senso proprio”, tali “da impegnare la responsabilità dello Stato” e purché si tratti di accordi che riguardino materie di competenza regionale e non rientranti nelle categorie previste dall’art. 80 Cost. La materia è ora regolata dalla L. cost. n. 3/2001 che prevede la competenza della Regione, nelle materie di sua competenza, a “concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. I casi e le forme sono disciplinati dalla L. n. 131/2003 che prevede il preventivo conferimento di pieni poteri alla Regione da parte del Governo, configurando la competenza della Regione come competenza a stipulare per conto dello Stato, e quindi impegnando la responsabilità dello Stato. Le iniziative regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri non sono da considerare come iniziative dirette a concludere e veri e propri accordi retti dal diritto internazionale , in realtà, sono delle intese o meglio dei programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una mera occasione per l’adozione di atti legislativi o amministrativi da parte delle Regioni interessate e servono solo a fornire un’interpretazione degli atti medesimi. Ad avere rilievo nel nostro ordinamento sono solo atti amministrativi o legislativi regionali che danno attuazione alla collaborazione concordata. Tali atti devono sottostare alle norme che presiedono alle competenze regionali ivi comprese le norme sulle funzioni statali di coordinamento. Quanto detto a proposito delle intese tra regioni di stati diversi vale a maggior ragione per le intese tra altre circoscrizioni territoriali o enti pubblici come i gemellaggi tra città per esempio. Anche qui si tratta di meri programmi destinati a fornire l’occasione per l’adozione di atti amministrativi interni. A meno che non si tratti di veri e propri contratti di diritto privato. Diffuso nella prassi contemporanea è il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali, sia fra loro, sia con Stati membri oppure con Stati terzi. Il potere di concludere accordi è da considerare come la manifestazione più saliente della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni. A siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 che riproduce pedissequamente la Convenzione di Vienna del 1969. Occorre far capo allo statuto di ciascuna organizzazione per stabilire quali sono gli organi competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è attribuita. Si può dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla competenza a stipulare comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme contenute nel trattato istitutivo, come tutte le norme pattizie, sono modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare da regola sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di prassi certa e sempre che non vi sia, come avviene per le Comunità europea, un organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel qual caso il fattore determinante ai fini dell’eventuale sviluppo delle competenze originarie diviene la giurisprudenza. Ciò trova riscontro grosso modo nell’art 46 della convenzione di Vienna del 1986 (riproducendo l’art 46 della convenzione di Vienna del 1962) che considera come causa di invalidità la violazione di una delle norme dell’organizzazione sulla competenza a stipulare di importanza fondamentale. A sua volta l’art. 2 della Convenzione di Vienna del 1986 precisa che per “norme dell’organizzazione” devono intendersi “le norme statutarie, le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base delle norme medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione”. Gran parte degli accordi stipulati dalle organizzazioni sono i c.d. accordi di collegamento che le organizzazioni stipulano fra loro per coordinare le rispettive attività; trattasi di intese di cui può mettersi in dubbio la natura giuridica e che sono intraducibili in termini di diritti ed obblighi delle parti 22 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 contraenti. Importanti sono gli accordi, stipulati tra le organizzazioni e gli Stati membri o con Stati terzi, che fissano il regime della sede delle organizzazioni o attribuiscono immunità e privilegi ai loro funzionari che si preoccupano di assicurare alle organizzazioni la libertà necessaria di azioni nei territori in cui sono destinate ad operare.(questi in nulla differiscono dai normali accordi giuridici internazionali). 10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra norme convenzionali. Per il trattato internazionale vale ciò che si dice per il contratto di diritto interno: esso fa legge fra le parti e solo fra le parti. Diritti ed obblighi per terzi Stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi Stati al medesimo. Può darsi che il trattato sia aperto contenga cioè la c.d. clausola di adesione o accessione la quale prevede appunto la possibilità che stati diversi dai contraenti originari partecipino a pieno titolo all’accordo mediante una loro dichiarazione di volontà: la posizione di questi stati in nulla differisce giuridicamente da quella dei contraenti originari, l’adesione di iscrive nel processo di formazione del trattato avendo efficacia pari alla ratifica da parte die contraenti originari e l’unica differenti con gli altri stati contraenti originari, quelli che aderiscono poi non partecipano all’elaborazione dell’accordo. Può darsi invece che la clausola di adesione manchi o comunque non venga in rilievo la piena e formale partecipazione di uno stato ad una convenzione già conclusa da altri, ma solo la possibilità che singoli diritti a suo favore o singoli obblighi a suo carico discendano dalla convenzione medesima. Anche in questo caso si dovrà dimostrare che diritti e obblighi siano in qualche modo accettati dallo stato terzo e che l’eventualità dell’accettazione sia, magari in modo implicito prevista nel testo dell’accordo. Quindi si dovrà dimostrare che il trattato contenga cmq un’offerta e che dallo stato terzo provenga un’accettazione, incontrandosi in tal modo 2 volontà, elemento caratteristico dell’accordo. Fuori da simili ipotesi non potrà che applicarsi l’inefficacia dei trattati nei confronti degli stati non contraenti. Le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultano vantaggiosi per i terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione su fiumi, canali e stretti internazionali, pur intercorrendo fra un numero limitato di paesi, sanciscono di solito la libertà di navigazione per le navi di tutti gli Stati), ma tali vantaggi, finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo all’accordo, (nei modi sopra indicati) possono sempre essere revocati ad libitum dalle parti contraenti e ciò testimonia il carattere riflesso per quanto riguarda il terzo. Il diritto del terzo di esigere l’applicazione del trattato o di opporsi alla sua abrogazione è sempre stato negato dalla prassi. L’art. 34 della Convenzione di Vienna del 1969 sancisce, come regola generale, che “un trattato non crea obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso”; l’art. 35 specifica che un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo Stato “se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo”; 23 Distribuzione proibita | Scaricato da Martina Corrente ([email protected]) lOMoARcPSD|2480514 l’art. 36 prevede che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano “indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non disponga altrimenti; questa eccessiva indulgenza dell’art 36 è controbilanciata dall’art. 37 che autorizza i contraenti originari revocare quando vogliono il ‘diritto’ accettato dal terzo, a meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo l’irrevocabilità. Dunque, perché nascano veri e propri diritti, occorre che le parti intendano crearli e che il terzo le accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti originari sia concepita come irrevocabile unilateralmente. (idea del contratto). Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato, espressamente o implicitamente, da un trattato concluso in epoca successiva fra gli stessi contraenti, un problema nasce se i contraenti dell’uno e dell’altro trattato coincidono solo in parte. Può darsi che uno stato si impegni mediante accordo a tenere un certo comportamento e poi con un accordo successivo a tenere il comportamento contrario; oppure può darsi che alcuni stati vincolati da un trattato multilaterale ne modifichino con accordo successivo tutte o determinate disposizioni e che la modifica o l’abrogazione tocchi anche i rapporti con le altre parti del trattato multilaterale. La soluzione discende dalla combinazione del principio della successione dei trattati nel tempo con quello dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, il trattato successivo prevale; nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due trattati, restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si troverà a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure quelli assunti col secondo accordo; operata la scelta, esso non potrà non commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile, rispettivamente verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo. La scelta può avvenire una volta per tutte e magari inconsapevolmente quando entrambi gli accordi ricevano esecuzione all’interno dello stato mediante atti legislativi o cmq atti normativi di pari grado. In tal caso infatti non potrà valere all’interno dello stato il principio della successione degli atti normativi nel tempo con la conseguente prevalenza del secondo trattato. Se poi uno solo dei 2 trattati è eseguito all’interno con legge sarà esso a prevalere per una consapevole scelta del Potere legislativo. La soluzione qui accolta favorevole alla validità ed efficacia di entrambi gli accordi incompatibili, salva la responsabilità dello stato che li abbia contratti entrambi è sostenuta dalla maggioranza della dottrina e dalla giurisprudenza. L’art. 30 della convenzione di Vienna che si occupa dell’applicazione dei trattati nel tempo dopo aver sancito, al par. 3, la regola per cui fra due trattati conclusi fra le medesime parti “il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”, stabilisce, al par. 4, che “Quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del trattato posteriore: a) nelle relazioni tra gli Stati che partecipano ad entrambi i trattati, la regola applicabile è quella del par. 3; b) nelle relazioni fra uno Stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno Stato contraente di uno solo dei trattati mede