Proteine2 PDF - Bioingegneria Chimica

Summary

This document discusses various techniques for protein purification, including salting out, dialysis, and chromatographic methods. It explains the principles behind each technique and how they are used to isolate specific proteins. Different types of chromatography, such as gel filtration, ion exchange, and affinity chromatography, are detailed, along with their applications and limitations.

Full Transcript

Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 utilizzato, va quindi a spostare gli equilibri delle interazioni: man mano che si addiziona sale le interazioni proteina-proteina tendono a predominare rispetto alle interazioni proteina-acqua e pr...

Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 utilizzato, va quindi a spostare gli equilibri delle interazioni: man mano che si addiziona sale le interazioni proteina-proteina tendono a predominare rispetto alle interazioni proteina-acqua e proteina-sale e ciò comporta il fatto che i gruppi idrofobici interagiscano sempre di più tra loro portando alla formazione di complessi di proteine che tendono ad avere una natura idrofobica, ma in quanto idrofobica tendono a separarsi dalla soluzione e a precipitare sul fondo del campione. L'altra tecnica che permette di fare delle separazioni grossolane è la tecnica della dialisi che viene utilizzata per fare le separazioni di componenti estremamente diversi tra loro. Essa consiste nel porre il campione che si sta caratterizzando dentro un tubo da dialisi o sacca da dialisi (solitamente sono in cellulosa o cellulosa rigenerata), caratterizzati da un certo cut-off che è una misura della porosità della membrana che identifica un peso molecolare al di sotto del quale le molecole riescono ad attraversare la membrana, per effetto del gradiente di concentrazione, e ad andare nell’ambiente acquoso circostante (detto anche buffer) e invece tutto ciò che è più grande tende a restare all'interno della sacca di membrana. Con questa tecnica si tende quindi a rimuovere i sali, che sono molecole tendenzialmente più piccole rispetto alle proteine ma non si riesce a separare ciò che è tendenzialmente simile alla proteina di mio interesse. In genere si tende a prevedere dei refresh (cioè il cambio dell’ambiente acquoso esterno) in modo da evitare fenomeni di saturazione mantenendo sempre attive le forze di diffusione per differenza di concentrazione. Una volta che si arriva a questo punto si ottiene un campione più puro rispetto a quello ottenuto con la centrifugazione differenziale ma non si è ancora riusciti ad isolare la proteina da caratterizzare. Queste tecniche non devono necessariamente essere eseguite in sequenza (anche se generalmente si usa la dialisi per togliere il sale del salting out). Tecniche cromatografiche Esistono inoltre le tecniche cromatografiche, una famiglia di tecniche (ne analizzeremo 3 che sono le più usate per le proteine che aumentano in specificità ma non necessariamente vengono effettuate tutte in sequenza, ma una o più in base alle caratteristiche del campione in esame e ai test di dosaggio di ciascuna tecnica) che permettono di fare separazioni più fini ed il principio base di funzionamento è uguale per tutte: si pone il campione all’interno di una fase liquida che si chiama fase mobile o eluente e si fa scorrere in contatto con una fase stazionaria che si presenta sotto forma di una colonna che contiene al suo interno dei beads (palline) impaccati tra di loro che presentano dei setti porosi e sulla superficie di questo impaccamento possono essere presenti gruppi funzionali differenti a seconda di come avviene la separazione nella tecnica cromatografica che si sta esaminando. La separazione si basa su come ciò che è contenuto all'interno del campione va interagire con la fase mobile e con la fase stazionaria: si fa scorrere verticalmente il campione e la fase mobile (liquida) dall’alto in contatto con la fase stazionaria quindi tutto ciò che tende ad interagire con la fase stazionaria tenderà a permanere all'interno della colonna per un tempo più lungo rispetto a tutto ciò che ha una minore affinità con la fase stazionaria che quindi tenderà ad andare verso l’uscita. Si ottengono quindi una serie di frazioni che differiscono tra loro per il modo in cui interagiscono con la fase mobile e con la fase stazionaria: uscirà più velocemente ciò che ha maggiore affinità con la fase mobile poiché tenderà ad essere meno affine con la fase stazionaria. 3 Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 Cromatografia per filtrazione su gel La prima tecnica cromatografica è la cromatografia per filtrazione su gel che opera in base alle dimensioni: ciò che esce per primo sono le molecole più grandi. Facendo scorrere dall’alto il campione, che è un aggregato di tante particelle, le componenti man mano che scendono lungo la colonna si separano e quelle più grandi non seguono il “labirinto” di pori creato dall’impaccamento dei beads uscendo più velocemente mentre ciò che è più piccolo tende ad entrare nelle porosità e ci metterà più tempo ad andare verso l’uscita. Al termine della cromatografia effettuo nuovamente i test di dosaggio per capire in quale tra i portacampioni collezionati si trova la proteina di mio interesse. Questa tecnica può anche essere sfruttata per ottenere informazioni sul peso molecolare ma è soggetta ad errori anche del 10% nella valutazione. Cromatografia a scambio ionico La cromatografia a scambio ionico fa una separazione che si basa sulla carica netta delle proteine. In sostanza in questo caso c’è una colonna cromatografica che presenta sempre dei beads ma essi espongono delle cariche, in particolare se utilizziamo una colonna in carbossimetilcellulosa abbiamo una colonna il cui impaccamento espone cariche negative se invece utilizziamo una colonna in dietilamminoetilcellulosa abbiamo un impaccamento (o resina) che espone cariche positive. L'ordine di uscita è determinato da come le proteine, aventi cariche differenti, interagiscono con la fase stazionaria: le parti aventi la stessa carica della fase mobile tenderanno ad uscire più velocemente a causa dei fenomeni di repulsione mentre quelle con carica opposta tenderanno a rimanere più tempo. Nel caso di diversa entità dell’interazione della proteina con la colonna esce più velocemente ciò che interagisce meno con la colonna mentre permane ciò che è più affine. Può capitare che alcune cariche abbiano un’affinità elettronica tale che impieghino troppo tempo ad uscire per effetto delle forze di attrazione: in questo caso si agisce sul pH della fase mobile facendo quindi instaurare delle forze di repulsione dove precedentemente c’erano delle forze di attrazione o, ad esempio, aggiungendo sale che si dissocia in modo che gli ioni di questo tendano ad attaccarsi ai beads della fase mobile “rilasciando” le particelle della proteina che tenderanno ad andare verso l’uscita. Cromatografia per affinità La cromatografia per affinità è una tecnica che sfrutta la capacità di certe proteine di interagire in maniera selettiva con determinati gruppi funzionali; è una tecnica che permette di fare separazioni più fini ed ottenere un prodotto altamente puro ma allo stesso tempo è più complessa e costosa poiché bisogna trattare la fase stazionaria per far si che sulla superficie dei beads venga esposto quel determinato gruppo chimico. Per utilizzare questa tecnica, sapendo che la proteina di mio interesse lega in modo preferenziale un determinato gruppo funzionale, bisogna andare a 4 Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 modificare la colonna in modo tale che quel gruppo sia esposto sulla superficie dei beads. Facendo quindi scorrere il campione nella fase stazionaria tutto ciò che non è affine a ciò che è esposto sulla superficie dei beads tende ad uscire velocemente mentre la proteina di mio interesse tende a legarsi al gruppo chimico e ad ancorarsi ai beads per creare dei veri e propri complessi. Per fare in modo che poi la proteina esca bisogna implementare una tecnica che la “stacchi” dal complesso proteina-gruppo funzionale che si è formato, cioè si va ad aggiungere alla fase liquida una alta concentrazione del gruppo chimico considerato in forma libera in modo tale che crei forze di competizione con i gruppi sulla superficie dei beads facendo staccare dalla colonna la proteina e portandola verso l’uscita. Anche dopo questa tecnica si effettuano i soliti test di dosaggio per trovare tra le varie frazioni quella che con la proteina che si voleva ottenere. Questa tecnica è utilizzata, per esempio, per purificare la proteina delle piante “concanavalina A” la quale viene fatta passare attraverso una colonna contenente beads che espongono molecole di glucosio alle quali si lega covalentemente. Successivamente viene aggiunto alla fase mobile dell’altro glucosio, altamente concentrato, in forma libera che staccherà la proteina dai beads della colonna eluendola verso l’uscita. Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) Le tecniche cromatografiche viste sono tecniche che vengono tipicamente condotte su delle colonne posizionate verticalmente quindi la fase mobile in cui è presente il campione si muove all'interno della colonna per effetto della gravità; negli ultimi anni queste tecniche sono state implementate in degli strumenti molto più sofisticati dove si riescono ad avere delle separazioni molto più rapide e con risoluzione superiore. Questa tipologia di strumenti, che poi differiscono in base alla natura della colonna che viene montata al loro interno, vanno sotto il nome generale di tecniche di cromatografia liquida ad alta pressione HPLC. Rispetto a prima la colonna ora non ha più l'obbligo di essere posizionata in verticale anzi molto spesso è posizionata orizzontalmente e si hanno separazioni più rapide e con maggiore risoluzione perché la colonna presenta un impaccamento molto più fine (cioè si utilizzano dei beads molti più piccoli) che aumenta il numero di siti di interazione tra la fase stazionaria e il campione (nel caso della cromatografia per filtrazione su gel abbiamo un impaccamento molto più fine il che implica che si riesce a discriminare ancora meglio le componenti del campione in termini dimensionali). Per aumentare la risoluzione si ha bisogno di avere qualcosa che porti il campione a muoversi all'interno della colonna ed è per questo che è presente un comparto pompa che spinge la fase mobile dentro la colonna (se facessimo una cromatografia classica con la colonna verticale utilizzando impaccamenti così fini le analisi sarebbero lunghissime perché il movimento avviene 5 Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 semplicemente per effetto della gravità e la fase mobile impiegherebbe tanto tempo a percorrere la colonna), avendo la pompa che spinge la fase mobile lungo la colonna si possono utilizzare colonne che permettono di avere risoluzioni superiori in termini di risultati dell'analisi ma al tempo stesso, anche analisi più veloci. Il sistema è quindi formato da un contenitore che contiene la fase mobile, dalla pompa che tira la fase mobile e la convoglia all'interno della colonna, da un comparto di iniezione che inietta il campione dentro il fiume di fase mobile e lo conduce alla colonna dove verrà separato, e in uscita da quest’ultima il campione è frazionato sulla base del principio dell'analisi cromatografica e o lo si può collezionare, come visto nelle fasi precedenti, o lo si può inviare direttamente verso il detector che andrà a fare delle quantificazioni (nel caso, ad esempio, dello studio dei pesi molecolari delle varie proteine). Le colonne sono tipicamente in acciaio inossidabile anziché in vetro perché l’impaccamento così fine genera pressioni anche di centinaia di Bar. Alla fine delle tecniche cromatografiche si ottengono una serie di frazioni su cui andare a fare i test di dosaggio per capire in quale di queste è presente la proteina di mio interesse ma, a volte, è necessario fare delle valutazioni sull’efficacia del processo di purificazione adottato: si può effettuare, per esempio, un’elettroforesi su gel per poter visualizzare che cosa contiene effettivamente il campione estratto cioè se al suo interno vi è solo la proteina di nostro interesse o anche altre proteine che andranno eliminate attraverso ulteriori passaggi più selettivi. Elettroforesi su gel L’elettroforesi su gel sfrutta proprio il fenomeno di elettroforesi cioè una molecola provvista di carica elettrica posta in un campo elettrico tende a muoversi con una certa velocità di migrazione v=Ez/f (E=campo elettrico, z=carica netta della molecola, f è un coefficiente frizionale che varia a seconda della massa, della forma della molecola e del mezzo nel quale essa si muove). Il set up generale consiste in un supporto verticale in carta o gel in poliacrilammide con la possibilità di applicare un campo elettrico, nella parte superiore ci sono dei pozzetti in cui è possibile caricare i campioni che si muoveranno a seconda della loro carica netta sul supporto che funziona anche come setaccio molecolare migliorando la separazione perché le proteine più corte percorreranno più strada e si troveranno più in basso rispetto a quelle più lunghe ottenendo delle bande contenenti ciascuna una proteina diversa con una dimensione diversa. Il numero delle bande presenti alla fine dell’elettroforesi diminuisce progressivamente diminuendo il numero di componenti presenti nel campione e inoltre più si converge verso la proteina di interesse più diminuisce il numero di bande e aumenta invece l’intensità. La tecnica dell’elettroforesi su gel permette di visualizzare macroscopicamente la presenza delle proteine all'interno dei campioni e permette di avere un'idea almeno qualitativa dell’efficacia della nostra purificazione: se la purificazione sta effettivamente funzionando il numero di bande nell’elettroforesi tende progressivamente a diminuire. 6 Ferrusi/D’Aulisa 09 Bioingegneria chimica (Boffito) 27/10/2020 SDS-page L’elettroforesi su gel può essere condotta in condizioni differenti e può essere sfruttata per avere informazioni sulla struttura terziaria o quaternaria della nostra proteina: dopo aver isolato la proteina di mio interesse, sottoponendola ad elettroforesi, si possono avere delle informazioni sul fatto che ciò che si è isolato è una singola catena quindi non ha struttura quaternaria o nel caso in cui la struttura sia quaternaria si possono ottenere informazioni sulle subunità che la costituiscono e sul tipo di legame che le tiene insieme (cioè se si tratta di interazioni deboli o di ponti disolfuro). In particolare si parla di SDS-page quando l’elettroforesi viene condotta in condizioni denaturanti in presenza di SDS (sodio dodecil solfato) che è un detergente anionico che va a eliminare le interazioni deboli (tutti i legami non covalenti), oppure in presenza di mercaptoetanolo o ditiotreitolo capaci di rompere anche i ponti disolfuro quindi grazie a questo si può capire se la proteina è costituita da più unità e come queste subunità interagiscono tra loro. Alla fine dell’elettroforesi si ottengono delle bande colorate (ma solo in seguito a processi di colorazione o con argento o con Coomassie blu) e in questo modo le bande che contengono le proteine diventano visibili e l’intensità del colore fornisce un’informazione sulla quantità di proteina che è contenuta all'interno di quella banda. Si riesce a testare anche quantità molto piccole (ad esempio con l’argento possiamo vedere quantità fino a 0,02 microgrammi di proteina) e si riescono anche ad avere delle separazioni abbastanza fini dal momento che otteniamo bande separate su proteine che differiscono in massa anche soltanto per il 2%. In sostanza ad ogni passaggio si possono fare delle valutazioni sull’efficacia della purificazione perché si notano il numero di bande che progressivamente diminuisce e la banda che contiene la proteina tende progressivamente a spiccare cioè a diventare sempre più evidente e ad assumere una colorazione via via più intensa. 7 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Ripresa dei discorsi iniziati la lezione precedente. L’attenzione era stata focalizzata sui processi che si seguono per estrarre e purificare progressivamente una proteina al fine di avere tra le mani un campione sufficientemente puro, contenente la proteina di interesse, da andare poi a caratterizzare in maniera più approfondita per arrivare, in ultimo, a determinarne la struttura primaria. Con struttura primaria si intende tutta la sequenza di amminoacidi in termini di quali amminoacidi sono presenti, chi sono l’ammino e il carbossi terminale e anche l’ordine in cui sono legati l’uno dopo l’altro. Elettroforesi su gel La tecnica può essere condotta con approcci differenti andando a cambiare le condizioni d’analisi; in particolare, a seconda di come viene utilizzata, è possibile sfruttarla per seguire l’andamento dei processi di purificazione in modo tale da poter progressivamente verificare che la purificazione stia procedendo in maniera corretta. Questo perché la tecnica prevede che in uscita si ottengano delle bande (le quali si possono colorare con opportuni protocolli che permettono di fare colorazioni con l’argento o con il colorante Coomassie Blu): ogni banda corrisponde a una specie proteica presente all’interno del campione. Quindi, man mano che si purifica il campione si vede progressivamente il numero di bande che compaiono sul supporto di elettroforesi che diminuisce e si converge verso la comparsa di un’unica banda la cui intensità aumenta, segno del fatto che si sta eliminando tutto ciò che non interessa: il campione alla fine diventa fortemente concentrato nella specie che si vuole caratterizzare. Secondo approcci differenti, quindi andando a cambiare i protocolli, l’elettroforesi su gel può essere condotta in condizioni denaturanti. Quando si parla di condizioni denaturanti se ne possono avere di due tipi: si può avere un protocollo che porta alla denaturazione delle proteine in termini di eliminazione delle sole interazioni non covalenti (in questo caso si usa come reagente, ovvero come elemento per eliminare le interazioni non covalenti, il sodio dodecil solfato*), oppure si può avere un approccio più “forte” che porta all’eliminazione non soltanto delle interazioni deboli, ma anche delle eventuali interazioni covalenti di tipo ponte disolfuro presenti, tramite l’utilizzo di altri agenti chimici come il mercaptoetanolo o il ditiotreitolo. Andando a condurre l’elettroforesi in queste condizioni, si riescono ad avere delle informazioni sulla natura del campione che si ha tra le mani e in particolare si può arrivare a discriminare l’eventuale presenza di subunità nel complesso proteico che è stato isolato e come queste subunità interagiscono tra loro. Quindi, in sostanza, si possono avere delle informazioni sull’eventuale presenza di una struttura quaternaria. Dunque, a seconda delle condizioni in cui l’elettroforesi su gel viene condotta, essa può essere utilizzata per seguire il processo di purificazione e verificare che la purificazione stia procedendo correttamente, oppure può essere utilizzata una volta che si possiede la proteina di interesse (una volta che si ha il campione puro) nell’ottica di investigare l’eventuale presenza di una struttura di tipo quaternario. *sigla SDS, un detergente anionico che spezza quasi tutte le interazioni non covalenti delle proteine native 1 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Le proteine più piccole si muovono più rapidamente attraverso il gel, mentre quelle più gradi restano in alto. Di conseguenza la maggior parte delle catene polipeptidiche è inversamente proporzionale al logaritmo del loro peso molecolare. Si può analizzare l’efficacia della procedura di purificazione esaminando ad ogni passaggio le frazioni ottenute tramite SDS-PAGE: le prime frazioni conterranno centinaia di proteine, ma con il procedere della purificazione il numero di bande diminuirà ed aumenterà l’intensità della banda attribuita alla proteina di interesse. Focalizzazione isoelettrica Esiste anche la possibilità di compiere l’elettroforesi utilizzando supporti particolari e, in particolare, esiste un tipo di elettroforesi, che va sotto il nome di focalizzazione isoelettrica, che permette di separare le proteine contenute all’interno del campione in base al loro punto isoelettrico. Questo è reso possibile dal fatto che il supporto su cui viene fatto scorrere il campione è un gel che presenta un gradiente di pH al proprio interno. Quindi, le proteine che si muovono nel campo elettrico (con velocità che è in funzione della carica netta), ad un certo punto avranno velocità uguale a zero proprio perché nella formula che definisce la velocità di migrazione, se la carica netta va a zero, allora la velocità va a zero. In sostanza, in questa tecnica, le componenti presenti all’interno del campione si muovono per effetto della presenza del campo elettrico all’interno del gel e andranno a cambiare la loro carica netta in funzione della posizione in cui si trovano lungo il gel, visto che questo gel presenta un gradiente di pH. In particolare, quando arriveranno in corrispondenza del pH che equivale al loro punto isoelettrico, andranno a fermarsi perché la loro velocità di migrazione sarà zero. Di conseguenza, ci sarà una separazione delle componenti presenti nel campione che sarà determinata dal punto isoelettrico, quindi, ogni banda corrisponderà a proteine che hanno quel determinato punto isoelettrico corrispondente al pH presente lungo il gradiente. Elettroforesi bidimensionale In ultimo, esiste la possibilità di fare un’analisi ancora più complessa che combina la focalizzazione isoelettrica con l’SDS-PAGE, ovvero l’elettroforesi condotta in condizioni denaturanti in presenza di sodio dodecil solfato. In questa tecnica, che va sotto il nome di elettroforesi bidimensionale, il campione viene prima sottoposto a focalizzazione isoelettrica, quindi a una separazione in funzione del punto isoelettrico, e dopo di che viene sottoposta ad elettroforesi su gel in condizioni denaturanti. Quindi, in questo caso, si riesce a fare una separazione ad altissimo grado di risoluzione. 2 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Si fa prima scorrere la miscela di proteine che si sta analizzando in focalizzazione isoelettrica, cioè si fanno scorrere su un gel che presenta un gradiente di pH. Quindi si avrà la comparsa di tante bande, ognuna delle quali conterrà al proprio interno proteine che hanno, in corrispondenza di quel valore di pH, il loro punto isoelettrico. Quello che si ottiene in uscita dalla focalizzazione isoelettrica, nell’elettroforesi bidimensionale viene poi sottoposto a SDS- PAGE. Quindi si va, per ogni banda ottenuta in focalizzazione isoelettrica, a farla scorrere sul supporto di elettroforesi in presenza di sodio dodecil solfato e si guarda quante bande compaiono. Ci si può trovare nel caso della prima banda dell’immagine, dove c’è una banda in focalizzazione isoelettrica che, scorrendo in elettroforesi in condizioni denaturanti, ha originato una banda (quindi si può dire che c’è una catena polipeptidica che presenta quel punto isoelettrico). Tuttavia ci sono casi come quello dell’ultima banda in cui ci si ritrova ad avere, in focalizzazione isoelettrica, un’unica banda (una frazione di proteine che presentano quel punto isoelettrico) ma, nel momento in cui si fa scorrere in elettroforesi in presenza di SDS, si “splitta” (separa) in tre bande. Queste, quindi, corrispondono a tre diverse catene polipeptidiche che hanno lo stesso punto isoelettrico ma differiscono per il loro peso molecolare dal momento che in elettroforesi si fa una separazione che è funzione del peso molecolare (visto che, nella formula che definisce la velocità di migrazione, si ha che la velocità di migrazione è in funzione sia della carica netta, che di un coefficiente frizionale che è a sua volta in funzione del peso molecolare). In sostanza, andando a combinare la focalizzazione isoelettrica con l’SDS-PAGE, si riescono ad ottenere delle informazioni molto più dettagliate andando a combinare le informazioni sul numero di catene polipeptidiche e il loro peso molecolare (che sono state ottenute con l’SDS-PAGE) con l’individuazione dei punti isoelettrici (che sono stati ottenuti a partire dalla foc alizzazione isoelettrica). Il processo di purificazione viene caratterizzato passo per passo dal test di dosaggio che permette di verificare la presenza, all’interno delle varie frazioni che collezioniamo, della proteina interessata. Andando a combinare i risultati che si ottengono da queste valutazioni, che sono valutazioni di visualizzazione (fatte tramite elettroforesi) e di quantificazione (fatte tramite test di dosaggio), è possibile andare a caratterizzare, per ogni step del processo di purificazione, diversi parametri. I parametri sono:  Proteina totale: quando si definisce la quantità di proteina presente ad ogni tappa del processo di purificazione. Questa quantità si può ottenere calcolando la concentrazione di proteina su un campione e moltiplicandola per il volume totale del campione. La concentrazione di proteina si calcola attraverso degli specifici test di dosaggio che semplicemente quantificano la presenza di proteina (tipicamente sono dei test di tipo colorimetrico). Si valuta semplicemente la presenza di proteina nel campione. 3 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020  Attività totale: quando si fa una misurazione, tramite opportuno test di dosaggio, dell’attività delle proteine. L’attività totale è l’attività sul singolo campione moltiplicata per il volume del campione totale. Si verifica che all’interno del campione ci sia quella proteina specifica che si sta isolando.  Attività specifica: è il rapporto tra l’attività totale e la proteina totale. Indica in che frazione, all’interno del mix di proteine, è presente la proteina funzionale, cioè quella che si sta cercando di isolare.  Resa: è la quantità di attività (espressa in percentuale) che viene recuperata ad ogni tappa della procedura di purificazione. In sostanza si valuta se nei vari step di purificazione c’è una perdita di attività, perché non si può escludere che nei vari step di purificazione una parte della proteina interessata possa andare persa. Questo perché nei processi di separazione una parte entra nelle frazioni che vengono scartate o perché va incontro a fenomeni di denaturazione che la disattivano e nel disattivarla fanno sì che quando si conducono i test di dosaggio non si trova più (questo è il principale rischio che si corre nella purificazione).  Livello di purificazione: è una misura dell’aumento di purezza del campione, definita come rapporto tra l‘attività specifica valutata all’i-esima tappa, cioè ad uno specifico step del processo, e l’attività specifica valutata all’inizio, cioè nell’estratto iniziale. L’aspetto più importante è riuscire a trovare l’ottimo, cioè il giusto bilanciamento tra la resa e il livello di purificazione. Cioè si dovrebbe cercare di convergere ad avere un campione che sia molto puro, ciò significa che all’interno del campione si può assumere di avere la proteina interessata con pochi “prodotti indesiderati”, ma al tempo stesso si deve avere una resa accettabile. Quindi significa che se si ha una proteina purissima, quindi si è riusciti a isolarla molto bene, ma si ha una quantità veramente piccola, il rischio è di non avere recuperato una quantità sufficiente di materiale per poter fare le caratterizzazioni successive. È per questo che spesso, nella definizione dei protocolli di estrazione e purificazione, bisogna trovare un bilanciamento tra ottenere una buona purificazione accompagnata però da una resa accettabile. Questo è molto importante perché non ci si può neanche accontentare di avere livelli di purezza bassi, altrimenti i risultati che si otterrebbero negli step successivi sarebbero “sporchi”, cioè presenterebbero diverse impurezze che ci porterebbero a degli errori nelle definizioni delle caratteristiche della proteina che si ha tra le mani. Nell’immagine è riportato un esempio di risultati ottenuti conducendo l’elettroforesi su gel nei vari step del processo di purificazione. Si parte dall’ omogenato (1), poi il frazionamento salino (2), che è quello che è stato chiamato salting out, e le varie forme di cromatografia (3,4 e 5). Si vede come nel progredire nel processo di purificazione il numero di bande e la loro relativa intensità va diminuendo, mentre si tende a convergere verso la comparsa di un’unica banda di intensità di colore più forte che è corrispondente dalla proteina che si voleva isolare. 4 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Nella tabella invece sono riportate le valutazioni dei parametri elencati prima nei diversi passaggi del processo di purificazione. Si vede come il livello di purificazione tende ad aumentare man mano che il processo di purificazione, estrazione ed isolamento della proteina target procede, così come la quantità percentuale, cioè la valutazione della resa di ciò che si riesce ad estrarre, tende invece a diminuire. L’ottimo è, appunto, riuscire a trovare un buon bilanciamento tra purificazione e resa del processo. Ultracentrifugazione Ci si occupa, ora, di trovare altre informazioni sul campione estratto. La prima tecnica che si considera è una tecnica che può essere utilizzata per ottenere sia delle informazioni sulla natura della proteina isolata, sia come step lungo il processo di purificazione: può avere un’applicazione duale. Questa tecnica si chiama Ultracentrifugazione e prevede di nuovo l’utilizzo di uno strumento, simile a quello visto per la centrifugazione differenziale, ma in questo caso si parla di “ultra” centrifuga dal momento che le velocità con cui la ultracentrifugazione viene condotta sono più alte rispetto a quelle di una centrifugazione classica. Quando si conduce un’ultracentrifugazione si possono ottenere informazioni sulla massa, sulla densità e sulla forma di una proteina. Questo perché il principio di separazione delle componenti presenti all’interno del campione si basa sul loro coefficiente di sedimentazione. Minore è il coefficiente di sedimentazione, minore è la velocità di movimento che la componente proteica avrà durante il processo di centrifugazione. Quindi, se c’è un mix di proteine, queste si muoveranno lungo il tubo della centrifuga con velocità differenti a seconda del loro coefficiente di sedimentazione. In particolare, quando si vuole utilizzare l’ultracentrifugazione come elemento per condurre delle separazioni (si parla, nello specifico, di ultracentrifugazione su gradiente), si parte da un setup come quello raffigurato nell’immagine a: il campione è posto sulla sommità del tubo da centrifuga e all’interno del tubo è presente una sorta di setaccio, che è in forma di gel, il quale presenta al proprio interno un gradiente di densità. Durante il processo di ultracentrifugazione le componenti presenti all’interno del campione inizieranno a muoversi lungo questo gradiente di densità presente nel tubo con velocità differenti in base al loro coefficiente di sedimentazione. Dunque, in uscita dall’ultracentrifugazione ci saranno bande differenti (nel tubo) e ogni banda conterrà al proprio interno specie proteiche che sono caratterizzate dall’aver uno stesso coefficiente di sedimentazione. Quindi, se si usa questa tecnica per separare, si può poi collezionare le diverse frazioni che si sono separate per utilizzarle negli step successivi. Se invece si vuole ottenere un’informazione sul coefficiente di sedimentazione della proteina isolata, si studia come questa si posiziona all’interno del gradiente di densità durante il processo di ultracentrifugazione a cui è stata sottoposta. 5 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Il coefficiente di sedimentazione è un parametro che dipende da tante variabili, nel senso che è il risultato di una combinazione di contributi derivanti dalla massa, dalla densità e dalla forma. Quindi, se si vuole correlare la velocità di sedimentazione con i vari parametri, si deve assumere che uno vari e gli altri due rimangano costanti. 1) Massa. In generale, la velocità di sedimentazione è strettamente correlata alla massa: in particolare massa maggiore implica maggiore velocità di sedimentazione (questo vale se si confrontano componenti con la stessa forma e la stessa densità). 2) Densità. In maniera analoga, a parità di forma e massa, maggiore densità implica maggiore velocità di sedimentazione. 3) Forma. Per quanto riguarda la forma, a parità di massa e densità, quando ci si trova di fronte a particelle allungate, si avrà velocità di sedimentazione minore rispetto a una particella sferica. Questo tipo di considerazioni valgono a patto che due parametri restino costanti e il terzo vari. Nel complesso è molto difficile, essendo il coefficiente di sedimentazione il risultato di una combinazione di tre contributi (massa, densità e forma), trarre delle conclusioni ben definite e univoche quando si confrontano le bande tra di loro, perché bisognerebbe conoscere qual è il parametro che effettivamente cambia e se gli altri due restano costanti. Quindi, in linea di massima, quando si fa l’ultracentrifugazione si separa in funzione del coefficiente di sedimentazione e minori coefficienti implicano minori velocità. A parità di due parametri, si può correlare il terzo con la velocità di sedimentazione come riportato nell’elenco sopra. Spettrometria di massa Una volta che la proteina è stata isolata, si inizia a cercare di investigarla, cioè di ottenere delle informazioni sulle sue caratteristiche. In primis si fanno delle valutazioni sulla massa. Con l’ultracentrifugazione si possono ottenere indirettamente delle informazioni anche correlabili alla massa ma in maniera non univoca, poiché la velocità di sedimentazione non è in funzione solo ed esclusivamente della massa. Un altro metodo che si può utilizzare per ottenere informazioni di massa di peso molecolare è la cromatografia per filtrazione su gel, che però permette di ottenere informazioni sul peso molecolare pur essendo accompagnata tipicamente da degli errori. Quando si fanno valutazioni di peso molecolare con la cromatografia per filtrazione su gel si parla di errori che possono arrivare all’ordine del 10-15%. Se si vogliono, invece, fare delle valutazioni della massa delle proteine più precise, è necessario ricorrere a strumenti molto più sofisticati, che vanno sotto il nome di spettrometri di massa. Gli spettrometri di massa presentano tutti 3 componenti principali e prendono poi nomi leggermente diversi a seconda di come cambiano queste componenti. C’è sempre una sorgente a livello della quale il campione viene sottoposto a un processo di ionizzazione, c’è un analizzatore che separa gli ioni peptidici generati a livello della sorgente secondo un principio caratteristico di ciascun analizzatore e poi c’è un rivelatore che è il sistema che misura e rivela gli ioni peptidici separati a livello dell’analizzatore. Quindi c’è sempre una sorgente a livello della quale le molecole vengono sottoposte ad un processo di ionizzazione. Dopo di che si trova l’analizzatore che, secondo un certo principio, separa gli ioni e, in 6 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 particolare, la separazione degli ioni viene fatta in base al rapporto massa/carica (m/z). Al livello del rivelatore gli ioni separati vengono rivelati, cioè quantificati. In uscita si ottiene uno spettro di massa che riporta in ordinata un’intensità, mentre in ascissa il rapporto massa/carica. Quindi, per ogni massa/carica individuata a livello dell’analizzatore, si avrà un certo picco la cui intensità è funzione di quanto quella specie peptidica ionica con quello specifico valore m/z è presente nel campione. A partire dallo spettro ottenuto in uscita dallo spettrometro di massa è possibile risalire, attraverso un’analisi tutt’altro che semplice dei risultati, alla massa della proteina analizzata. Per quanto riguarda la grandezza riportata in ordinata nello spettro, si parla genericamente di intensità perché a seconda del tipo di sistema di rivelazione usato, questa intensità può poi assumere una forma diversa. In linea di massima in ordinata c’ è una quantificazione, quindi l’altezza dei picchi che si vede sullo spettro dà indirettamente una quantificazione di quanto quella specifica specie è presente nel campione. Il tipo di spettrometro di massa che tipicamente si utilizza quando si caratterizzano le proteine è lo spettrometro di massa MALDI-TOF. Il termine identifica la natura della sorgente di ioni e il tipo di analizzatore: MALDI = Matrix-Assisted Laser Desorption/Ionization mentre TOF = Time Of Flight. L’idea è quella di avere il campione bombardato con un laser pulsato e, in uscita, si generano degli ioni proteici o peptidici che vengono poi accelerati da un campo elettrico all’interno dell’analizzatore. In questo caso l’analizzatore è di tipo TOF (tempo di volo): in effetti all’interno dell’analizzatore gli ioni peptidici generati nella sorgente vengono separati in funzione del loro tempo di volo, cioè del tempo che le particelle impiegano per correrlo e questo tempo di volo è funzione della loro massa. Quindi gli ioni incidenti sul detector sono gli ioni separati sulla base del rapporto m/z usando come principio di separazione quello del tempo di volo, ovvero il tempo che ciascuno ione impiega per passare dalla sorgente al rivelatore (o detector). Il TOF è funzione del rapporto m/z, quindi, di fatto, all’interno dell’analizzatore gli ioni si separano in funzione di questo parametro, quindi al detector arriveranno in un ordine determinato dal rapporto massa/carica. Gli ioni incidenti sul detector provocano l’emissione di elettroni. Il segnale viene amplificato e registrato da un sistema di conteggio. 7 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Identificazione degli amminoacidi Si studia ora come sia possibile ottenere delle informazioni sulla struttura primaria delle proteine. Si ipotizza di aver estratto la proteina interessata, di averne definito con le tecniche di elettroforesi in condizioni denaturanti se è presente o meno una struttura quaternaria e di averne definito la massa: bisogna ora investigare quale sia la struttura primaria della proteina, cioè capire quali sono gli amminoacidi al suo interno e poi capire come questi amminoacidi sono legati l’uno all’altro, quindi in che ordine sono legati. Si parte innanzitutto dalla classificazione degli amminoacidi presenti nella catena, indipendentemente dal loro ordine e dalla loro quantificazione. Il legame peptidico, che è il legame che si instaura tra i vari residui amminoacidici, è un legame che una volta che si forma si caratterizza da un’elevata stabilità. Questo implica che, per poter isolare i residui amminoacidici, nell’ottica di poterli poi identificare, bisogna sottoporre il campione a dei processi molto drastici che hanno lo scopo di rompere tutti i legami peptidici: questo è il punto di partenza essenziale per capire quali aminoacidi ci sono nella catena e in quale quantità. Quindi, nell’ottica di risalire alla ricostruzione della struttura primaria, in primis bisogna distruggere la struttura primaria stessa. La proteina viene sottoposta ad un processo di idrolisi che permette la rottura di tutti i legami peptidici al suo interno e di conseguenza, in uscita si ottiene un idrolizzato (il risultato, appunto, di questa reazione di idrolisi) che contiene un mix di amminoacidi. In sostanza si parte da un campione che conteneva delle catene peptidiche e in uscita si ottiene un campione che non contiene più le catene lunghe, bensì i singoli “blocchettini”, cioè i singoli elementi costituenti le catene. La reazione di idrolisi è una reazione che avviene in condizioni molto forti perché il legame peptidico, una volta che si forma, presenta una buona stabilità ed è per questo che l’idrolisi viene condotta per lunghi tempi (24h), ad alte temperature (110°C) e in condizioni fortemente acide (in presenza di acido cloridrico HCl 6N). In uscita dalla reazione di idrolisi si ha un mix di residui amminoacidici: questo serve ad identificarli e in quale quantità. Per risalire poi all'ordine si passa ad un altro approccio che va a fare delle rotture selettive della catena peptidica in precisi punti in corrispondenza di precisi legami peptidici. Quindi il primo step successivo all’idrolisi è identificare gli amminoacidi. Per poter fare questo si utilizza la cromatografia a scambio ionico. Si tratta di una cromatografia condotta su colonne di polistirene solfonato che presentano una carica negativa. Quindi si fa una separazione dei residui amminoacidici in funzione della loro carica netta, visto che anche gli amminoacidi (non solo le proteine) hanno una carica che è funzione dell’ambiente in cui si trovano, la quale sarà più o meno positiva o negativa in base a dove ci si colloca rispetto al loro punto isoelettrico. Dunque ogni amminoacido si trova a scorrere nella colonna in maniera differente in base alla sua carica netta. In particolare, la fase mobile in cui viene condotta la cromatografia è una fase che cambia il valore di pH (da 3,25 a 4,25 e infine 5,28). Andando a modulare la natura della fase mobile si riesce a far eluire dalla colonna i diversi amminoacidi separati gli uni dagli altri, andando a sfruttare delle variazioni della loro carica netta in funzione del pH della fase mobile in cui si trovano. In uscita si ottiene uno spettro come quello in figura: in ordinata c’è una misura di assorbanza, mentre in ascissa c’è il volume di eluizione. 8 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Assorbanza. Gli amminoacidi, in linea di massima, non sono sensibili alla luce visibile: se si colpiscono con una radiazione nello spettro della luce visibile, essi non reagiscono (non danno risposta). Al tempo stesso esistono gli amminoacidi con catena laterale aromatica che invece reagiscono con radiazioni luminose nel campo del visibile con lunghezza d’onda dell’ordine dei 260-280 nm, mentre tutti gli amminoacidi danno interazione con la luce UV nel campo UV molto basso, ovvero per lunghezza d’onda dell’ordine di 210 nm. Quindi si fa eluire il campione lungo la colonna cromatografica e in uscita si dimostra la presenza di amminoacido andando a fare delle valutazioni di interazione con la luce a lunghezze d’onda dell’ordine di 210 nm. In sostanza la misurazione che si ha in ordinata (nello spettro) è un valore di assorbanza valutata a 210 nm all’incirca. Ci si deve immaginare il flusso della fase mobile che esce dalla colonna, in cui gli amminoacidi sono stati posizionati in fila indiana: si avrà la comparsa di un picco dove c’ è interazione con la luce e una linea di base (assenza di picco) dove invece dove non c’è campione, ovvero non c’ è interazione con la luce. Volume di eluizione Il volume di eluizione è il volume di fase mobile necessario affinché quella specifica specie riesca ad uscire dalla colonna. Si immagina la colonna cromatografica e il campione che scorre, trasportato dal fiume della fase mobile: ogni specie, per poter uscire dalla colonna, deve essere spinta dalla fase mobile. Questo vuol dire che ogni specie, per uscire dalla colonna, ha bisogno di un certo volume di fase mobile che la porti verso l’uscita. Questo volume di fase mobile che causa l'uscita di ogni componente dalla colonna si chiama volume di eluizione. In alternativa al volume di eluizione può capitare che si trovi il tempo di eluizione che è il tempo necessario affinché la specie fuoriesca dalla colonna. Sono due modi diversi per definire all’incirca la stessa cosa: si può ragionare in termini di volume o di tempo e si ottiene in uscita uno spettro (si chiama elugramma) dove ci saranno tutte le specie separate tra loro in base al volume di fase mobile che serve per farle uscire o in base al tempo necessario a farle uscire. Dunque nell’elugramma si vedono tanti picchi; ogni picco corrisponde ad un amminoacido. Nel caso in figura si può dire che dentro all’idrolizzato erano presenti 5 amminoacidi perché ci sono 5 picchi. L’altezza del picco dà indirettamente una valutazione della quantità di amminoacido presente nel campione. Ad esempio, nell’immagine, l’amminoacido Gly è presente in maggiore quantità rispetto all’Ala. Il passo successivo è quello di indicare a cosa corrisponde ciascun picco. Per esempio, in relazione all’immagine, ci sono 5 picchi: bisogna dire che il primo picco è l’acido aspartico, il secondo la 9 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 glicina e così via. Per fare questo è necessario passare attraverso un processo che va genericamente sotto il nome di “calibrazione”. Si sottopone all’analisi degli amminoacidi standard. Quando si fa scorrere l’idrolizzato si formano tanti picchi, ma non si sa a che amminoacido corrisponde ciascun picco. Tuttavia, se si comprano i singoli amminoacidi e uno per volta si sottopongono all’analisi cromatografica, vorrà dire che quando, per esempio, l’amminoacido aspartico si fa scorrere lungo la colonna uscirà un solo picco (perché dentro la colonna cromatografica è entrato solo quello). Allora si può dire con assoluta certezza che il picco che esce corrisponde all’acido aspartico, dunque si può sapere che in corrispondenza di quello specifico volume di eluizione o tempo di eluizione esce l’acido aspartico. Stesso processo per la Leucina. Questo si può affermare perché si sono fatti scorrere in colonna degli standard, cioè dei campioni noti. Quando si fa scorrere l’idrolizzato che si ottiene distruggendo una catena peptidica, non si può sapere in partenza sapere a quale amminoacido corrisponde un picco. Per riassumere: una volta distrutta la catena polipeptidica la si fa scorrere in cromatografia a scambio ionico; compaiono dei picchi. L’altezza relativa dei picchi dà un’idea di quanto ciascun amminoacido è presente nell’idrolizzato. Per riuscire ad identificare i picchi bisogna riferirsi ad una calibrazione, cioè delle analisi fatte su amminoacidi standard che hanno permesso di dire in quale posizione dell’elugramma esce ciascun amminoacido. Le tecniche cromatografiche, però, permettono anche di collezionare le varie frazioni in cui viene separato il campione. Quindi, la cromatografia a scambio ionico, così come la si usa per identificare gli amminoacidi, si può utilizzare anche per separarli: in uscita si può avere un campioncino che contiene ciascun amminoacido presente nel campione. Le frazioni amminoacidiche collezionate facendo la cromatografia a scambio ionico si possono quantificare. In questo modo si può affermare quanti residui di ciascun amminoacido ci sono. Dunque questa cromatografia si trova ad avere un duplice ruolo: quello di permetterci di identificare gli amminoacidi, ma anche di separarli e collezionarli separatamente gli uni dagli altri. Saggio colorimetrico Come si fa ora a dire quanti residui di ciascun amminoacido ci sono all’interno del campione? Si fa attraverso saggi colorimetrici. In sostanza si colorano gli amminoacidi in modo tale da poterli quantificare facilmente. Riprendendo il discorso sulla capacità degli amminoacidi di interagire con la luce, è stato detto che gli amminoacidi di per sé sono insensibili alla luce visibile, ma se trattati opportunamente si possono far diventare colorati. Il fatto di colorarli porta a poter condurre le analisi con strumenti meno sofisticati, che vanno sotto il nome di “spettrofotometri UV visibile”, e permette anche di fare delle considerazioni qualitative: se si colorano gli amminoacidi con questi saggi colorimetrici, generando quindi campioni che hanno un colore, l’intensità del colore dà già subito l’idea sul fatto che un amminoacido possa essere presente in quantità superiore a un altro. Il saggio che si utilizza per colorare gli amminoacidi separati con la cromatografia a scambio ionico si chiama “saggio colorimetrico della ninidrina” o “Kaiser-test” (più comunemente). Succede che due molecole della ninidrina reagiscono con il gruppo amminico degli amminoacidi dando origine ad un complesso come raffigurato nella parte cerchiata che ha la caratteristica di presentare un 10 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 colore sui toni del blu/violetto. Si parte da un campione trasparente (gli amminoacidi non sono colorati) e si induce una reazione che porta ad ottenere un campione colorato. Il campione colorato si può caratterizzare molto più facilmente andando a sottoporlo ad un’analisi con lo spettrofotometro UV visibile che porta a d avere una valutazione dell’intensità del colore. Ma l’intensità del colore è direttamente proporzionale a quanto amminoacido è presente nel campione perché la ninidrina si lega ai gruppi amminici secondo un rapporto ben definito. Fa eccezione soltanto la prolina che, a differenza di tutti gli altri amminoacidi, invece che darci come prodotto della reazione un prodotto sui toni del blu/violetto, fornisce un prodotto dei toni del giallo. Questo comunque non è un problema perché anche sul giallo è possibile fare le quantificazioni. Ogni campione che si colleziona dalla cromatografia si sottopone al saggio colorimetrico e si ottengono dei campioni colorati. Si deve poi andare a quantificare i campioni colorati con lo spettrofotometro: si presenta una lampada e un monocromatore, in uscita dal quale vi sono delle radiazioni luminose ad una specifica lunghezza d’onda. Questa radiazione luminosa colpisce il campione, dal quale uscirà la stessa radiazione luminosa uguale a sé stessa o differente a seconda del fatto che siano avvenute o meno, all’interno del campione, delle interazioni. Quindi se il raggio incidente non interagisce con il campione, uscirà uguale a sé stesso (non c’è stato alcun assorbimento di energia); se invece, quando la radiazione luminosa colpisce il campione, avviene un’interazione, vorrà dire che l’intensità del raggio in uscita sarà diversa rispetto all’intensità del raggio in ingresso. Partendo da questi valori di intensità è possibile definire un parametro che si chiama “assorbanza”: è quello che lo strumento ci darà in uscita. L’assorbanza ha la seguente formula: 𝐼 𝐴 = log 0. 𝐼1 I₀ è l’intensità della radiazione incidente; I₁ è intensità della radiazione in uscita. 11 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Dove non c’è interazione l’assorbanza vale zero perché il rapporto vale 1. Quindi il segnale in uscita si presenta con una linea di base di valore 0. Dove invece c’è interazione, nello spettro in uscita compare un picco che deriva dal fatto che il rapporto è diverso da 1 e in particolare l’altezza di questo picco è tanto maggiore quanto maggiore è stata l’interazione. Dunque in uscita si ottiene un andamento come quello del grafico in figura in cui ci sarà l’assorbanza in ordinata e la lunghezza d’onda in ascissa. In sostanza, quello che lo strumento fa è, per ogni lunghezza d’onda, all’interno di un intervallo definito, vede se c’è interazione. Se non c’è interazione la curva va a 0, se c’è interazione si genera un picco. Partendo dal valore di assorbanza che si trova in corrispondenza del picco si può risalire alla concentrazione del campione. Per fare questo si passa attraverso la legge di Lambert e Beer: 𝐴 = 𝜀 ∙ 𝑐 ∙ 𝑙. L’assorbanza è direttamente proporzionale a c, dove c è la concentrazione del campione e, facendo riferimento al nostro caso specifico, c è la concentrazione dell’amminoacido interessato. ε e l sono delle costanti: l è la lunghezza del cammino ottico, cioè la distanza che la radiazione luminosa compie all’interno del campione (vedi immagine sopra); ε è il coefficiente di estinzione molare, è una costante caratteristica di ciascun amminoacido ed è noto dalla letteratura. Dunque ε è conosciuto, l è un parametro geometrico conosciuto perché dipende dalla geometria del campione, A si misura con lo spettrofotometro, quindi posso ricavare c. Conoscere c significa conoscere la concentrazione di ciascun amminoacido, quindi si può risalire a quanti residui amminoacidici sono presenti all’interno della proteina per ciascuna delle frazione isolate dalla cromatografia per scambio ionico. Il saggio della ninidrina permette di rilevare quantità fino a 1 μg. Per quantità più basse è necessario utilizzare un altro saggio che utilizza come mezzo per produrre il segnale un altro reagente che si chiama fluorescamina. Questa va sempre a legarsi con il gruppo amminico (come la ninidrina) e ciò che si ottiene è un prodotto altamente fluorescente. Quindi quando la ninidrina non riesce a dare dei risultati attendibili perché la concentrazione di amminoacido è troppo bassa, si ricorre alla fluorescamina, la cui reazione con il residuo amminoacidico genera un prodotto altamente fluorescente 12 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 che di nuovo si può andare a quantificare. La fluorescamina riesce a determinare quantità fino a 1ng. Identificazione dei residui Si è giunti quindi a isolare i residui amminoacidici, a identificarli e quantificarli. Il passaggio successivo è quello di andare a determinare i residui amminoterminale e carbossiterminale. Per l’identificazione del residuo amminoterminale eistono 2 metodi: un metodo colorimetrico che utilizza il cloruro di dabsile o cloruro di dansile e un altro che si chiama “degradazione di Edman”. Il primo metodo che prevede la colorazione del residuo amminoterminale, prevede di partire dalla catena intera (dunque non dall’idrolizzato ma dalla catena intera che non è ancora stata idrolizzata). Nel momento in cui la catena viene messa in contatto con il reagente cloruro di dabsile, esso va a legarsi covalentemente con il residuo amminoterminale. Quello che succede è schematizzato nell’immagine. Il cloruro di dansile si trova di fronte a una catena polipeptidica e va riconoscere selettivamente al residuo amminoterminale e va a legarsi, in particolare, con il gruppo amminico terminale dando origine ad una catena dove il suo terminale amminico non è più il terminale amminico di partenza ma ha legato il reagente che è stato addizionato. Se questa nuova catena è poi sottoposta a idrolisi, si otterrebbe di nuovo un mix di residui amminoacidici, ma quando questi residui vengono separati con la cromatografia, si noterà la presenza di uno che sarà fluorescente mentre tutti gli altri non lo saranno. Il residuo amminoacidico che è fluorescente è il residuo amminoacidico amminoterminale, visto che prima, nella reazione, si è fatto sì che il cloruro di dansile reagisse con l’amminoterminale. Non è possibile fare la colorazione con il cloruro di dabsile dopo l’idrolisi perché dopo l’idrolisi tutti gli amminoacidi sono separati quindi il reagente non si legherebbe solo selettivamente con l’amminoterminale, ma si legherebbe a tutti, perché tutti gli amminoacidi, una volta idrolizzati avrebbero il loro gruppo amminico. Quindi bisogna fare la colorazione prima di fare l’idrolisi in modo tale che poi, all’idrolisi del campione, di tutti i residui separati ce ne sia solo uno fluorescente, il quale è per forza il residuo amminoterminale. Il metodo del cloruro di dansile è un metodo molto sensibile che ha come svantaggio quello di essere un metodo distruttivo: quando si fa la colorazione con il reagente e si idrolizza la catena si riesce a determinare l’amminoterminale ma, avendo distrutto la catena, non si riesce a utilizzarla per altre informazioni. È per questo che in alternativa al cloruro di dansile si può individuare l’amminoterminale in maniera più controllata e sistematica utilizzando una degradazione ciclica che va sotto il nome di “degradazione di Edman” e che permette di ricostruire, sebbene con un discreto rischio di errori, la struttura primaria della sequenza. 13 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Per quanto riguarda il carbossiterminale esistono dei metodi colorimetrici simili a quello del cloruro di dansile o, molto più frequentemente, l’amminoacido carbossiterminale viene identificato facendo una reazione con un enzima che si chiama “carbossipeptidasi”. Questo enzima, al momento in cui viene addizionato all’interno di un campione che contiene la sequenza intera, stacca solo ed esclusivamente il residuo carbossiterminale. In sostanza si riesce selettivamente a rompere solo il legame peptidico che c’è a livello del residuo carbossiterminale, quindi si stacca il carbossiterminale che può poi essere identificato tramite cromatografia a scambio ionico con lo stesso approccio spiegato in precedenza. Domande Il processo però non discrimina l’ordine degli amminoacidi? Il processo distrugge tutto, quindi non si può determinare l’ordine in cui sono legati: da questo processo si ottiene una sorta di “minestrone” di residui amminoacidici e lo si utilizza per capire quali amminoacidi ci sono e per capire in quale quantità sono presenti ciascuno di essi. Per poter risalire all’ordine non si usa un approccio di questo tipo, ma si passa attraverso un approccio diverso che fa delle rotture selettive della catena peptidica in corrispondenza di precisi legami peptidici. Quindi si fa prima una quantificazione e successivamente una identificazione? Quello che si fa tipicamente è la calibrazione, cioè far scorrere gli amminoacidi commerciali (standard) uno per volta all’interno della colonna per capire ciascun amminoacido dove esce e quindi arrivare ad ottenere la fascia di frecce indicata in rosso, la quale ci permette di dire ciascun amminoacido, in che punto dell’elugramma esce. Dopo di che si fa scorrere l’idrolizzato (cio che si ottiene in uscita dall’idrolisi). L’idrolizzato scorre, compaiono tanti picchi e a questo punto, confrontando la posizione dei picchi ignoti con la posizione degli amminoacidi definiti facendo la calibrazione, si può identificare ogni specie. Come si capisce la separazione in base al pH? Il protocollo che si segue è stato ottimizzato ed è standardizzato. Sicuramente nel definirlo sono stati utilizzati gli amminoacidi liberi: nell’ottimizzare la variazione della fase mobile si è fatto in modo che tutti gli amminoacidi potessero essere separati tra loro, cioè che ognuno avesse una specifica posizione e non ci fossero sovrapposizioni. Quindi la separazione condotta in base al pH secondo il gradiente è stata ottimizzata per avere in punti diversi i vari amminoacidi in modo tale che non ci fossero dubbi nell’identificazione dei picchi. 14 Uazzaz/Boussaid 10 Bioingegneria chimica (Boffito) 29/10/2020 Quindi alla scala pH sono associati i vari amminoacidi con cui confrontiamo l’idrolizzato? Questa non è una scala, è il modo in cui la fase mobile cambia durante l’analisi. Cambiando la fase mobile ci si mette nella condizione di riuscire a far uscire tutti gli amminoacidi secondo un ordine ben preciso, ben separati tra loro. Questo perché, cambiando il pH della fase mobile si altera l carica netta degli amminoacidi, quindi si cambia come gli amminoacidi interagiscono con la fase stazionaria, che è la colonna in polistirene solfonato. Di conseguenza, cambiando il modo in cui reagiscono si riesce a farli uscire in fila indiana. Così si capisce quali sono gli amminoacidi della proteina ma non come sono disposti nella catena? Si. L’ordine si capisce in maniera totalmente differente. Fare la reazione di idrolisi e di rottura di tutti i legami peptidici consente di dire: quanti sono gli amminoacidi (il numero di picchi corrisponde al numero di amminoacidi diversi), quali sono (per confronto con l’elugramma della calibrazione) e in quale quantità sono presenti. Ma assolutamente non si può dire in che ordine siano. Quindi abbiamo contemporaneamente sia l’effetto della variazione di pH che del volume di eluzione per individuare gli amminoacidi? No. Quando si usano queste tecniche cromatografiche il volume di eluizione è il volume di ciò che esce. Tale volume non si porta dietro il fatto che la fase mobile è cambiata nel tempo. Si deve immaginare di avere in ascissa il tempo di eluizione anziché il volume, ovvero il tempo che scorre a partire da quando comincia l’analisi. Durante l’analisi, quindi man mano che il campione scorre lungo la colonna, si varia il pH della fase mobile con delle tempistiche che sono determinate dalle ottimizzazioni dei protocolli. Quindi in uscita ci sono i picchi che escono in tempi diversi e questo fatto è determinato dal fatto che a sua volta il pH è cambiato e cambiando quest’ultimo cambia il modo in cui l’amminoacido reagisce con la fase stazionaria. Dunque ci si ritrova ad avere degli amminoacidi che prima erano attaccati alla colonna perché avevano attrazione nei suoi confronti (colonna carica negativamente e amminoacido carico positivamente), ma, cambiando il pH, si cambia il bilanciamento delle cariche, quindi l’amminoacido diventa di carica netta negativa, tende a staccarsi ed eluire. Quindi sulle ascisse c’è un tempo o un volume, cioè si analizza nel tempo o man mano che la fase mobile scorre cosa cambia, ma il determinante dell’ordine di separazione è il fatto che la fase mobile cambia nel tempo e cambia il pH, quindi cambiando il bilanciamento di cariche cambia il modo in cui gli amminoacidi interagiscono con la fase stazionaria e vengono portati all’uscita. 15 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Ripasso: reazione con il clorurlo di dansile. Si è parlato del metodo che tipicamente si utilizza per risalire all’identificazione dell’amminoacido ammino-terminale delle sequenze peptidiche. Si è fatto riferimento alla colorazione con un reagente fluorescente che prende il nome di cloruro di dansile. Questo composto reagisce con un gruppo α-amminico, privo di carica. Ciò che succede quando si fa questo tipo di colorazione è schematizzato qui: La catena polipeptidica viene fatta reagire con il cloruro di dansile che attacca selettivamente il gruppo ammino-terminale della catena. La catena polipeptidica intera dalla parte del residuo ammino-terminale è attaccata al cloruro di dansile. Lo step successivo è quello di sottoporre la catena così marcata al processo di idrolisi che va a rompere tutti i legami peptidici all’interno della sequenza, dando in uscita un mix di amminoacidi che conterrà al suo intento un amminoacido marcato. Sfruttando le tecniche cromatografiche questo mix può essere separato. Tra tutti gli aminoacidi ce ne sarà uno che darà un segnale in fluorescenza. Questo amminoacido sarà quello ammino- terminale.  È una tecnica sensibile che però soffre di uno svantaggio: Per poter identificare l’amminoacido ammino-terminale è necessario distruggere completamente la sequenza peptidica. È una tecnica distruttiva che non può essere ripetuta una seconda volta sullo stesso campione perché per poterla portare fa termine bisogna distruggere tutto il campione e poi non lo si può riutilizzare. Per questo motivo esiste un altro approccio. La degradazione di Edman È un processo di degradazione delle catene polipetidiche che viene fatto in maniera controllata. Non si determina in un unico step la rottura di tutti i legami peptidici presenti nella catena, ma si conduce una rottura progressiva della catena. Attraverso questa tecnica si può sia determinare l’amminoacido ammino-terminale sia risalire alla struttura primaria. 1 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Quello che viene fatto è schematizzato nella figura: si parte da una catena integra lunga (una sequenza di amminoacidi legati tra loro da legami peptidici). Viene addizionato all’interno del campione un marcatore, ossia il reagente di Edman (identificato con il triangolo). Esso si lega in maniera selettiva sull’amminoacido ammino-terminale in posizione 1 attraverso un legame covalente. In questo modo l’amminoacido ammino-terminale è marcato. Facendo un passaggio di release (rilascio/distacco) si distacca dalla catena soltanto l’amminoacido in posizione 1 che che era stato marcato. Una volta staccato è possibile identificarlo sfruttando le tecniche cromatografiche. La degradazione di Edman è un processo che può avvenire in maniera ciclica: nel primo ciclo si riesce a staccare l’amminoacido 1 e a lasciare integra la catena, a partire dall’amminoacido 2 questa stessa catena può essere sottoposta da capo a degradazione, perché quando l’amminoacido 1 viene distaccato e allontanato si ha nuovamente una catena polipeptidica, la quale ha ancora un gruppo ammino terminale. In sostanza in condizioni ideali facendo la degradazione di Edman in maniera ciclica è possibile identificare nel primo passaggio il primo amminoacido della sequenza e nei passaggi successivi step dopo step tutti gli amminoacidi e di conseguenza anche l’ordine in cui sono legati tra loro. Per fare la degradazione ci sono degli apparecchi chiamati sequenziatori automatici, che operano cicli di degradazione in maniera automatizzata arrivando ad analizzare una sequenza di 50 amminoacidi in meno di un’ora. Il limite della degradazione di Edman Ad ogni ciclo è possibile staccare un solo amminoacido in condizioni ideali. Nel processo di marcatura ci si dovrebbe trovare nella condizione in cui la reattività di quel residuo ammino-terminale nei confronti del marcatore è sempre la stessa: dato che l’amminoacido tende a reagire con il marcatore con cinetiche differenti, si rischia di non marcare sempre tutto l'amminoacido ammino terminale e di farne rimanere un po’ indietro. Questo implica che quando si procede con la marcatura ciclica non ci si ritrova sempre a staccare un solo amminoacido, ma si potrebbe trovare nel sequenziamento l’identificazione di più amminoacidi in corrispondenza dello stesso ciclo. Questo perché non si riesce ad avere un totale controllo su come i residui amminoacidici reagiscono con il marcatore, dunque il processo non è efficiente al 100%. 2 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 La degradazione di Edman idealmente porta ad identificare la sequenza primaria tramite questa marcatura sequenziale di tutti i residui amminoacidici uno dopo l’altro. Questo è possibile perché il reagente di Edman attacca selettivamente l’amminoacido ammino terminale. A causa dei limiti di questo processo nella degradazione non si riescono a conoscere tutti gli amminoacidi presenti nella sequenza e non si ha una sicurezza assoluta sull’ordine in sono legati gli uni con gli altri. Questa problematica va ad aumentare quando si ha che fare con sequenze lunghe. In linea di principio con la degradazione di Edman si può sequenziare ogni tipo di proteina. Nella pratica di solito i peptidi che vengono scomposti non sono più lunghi di 30-50 amminoacidi. Alto metodo condotto in parallelo: Metodo della sovrapposizione di peptidi Si va a trattare la sequenza polipeptidica con dei reagenti specifici che vanno a rompere i legami peptidici in maniera selettiva e specifica. Non viene indotta l’idrolisi di tutti i legami contemporaneamente, ma di specifici legami peptidici. Si parla di rottura di tipo chimico ed enzimatico utilizzando dei reagenti che riconoscono in maniera specifica i diversi legami peptidi in base al tipo di residuo aminoacidico che lo va a generare.  Esempio: La tripsina va selettivamente a rompere il lato carbossilico dei legami peptidici in cui sono coinvolti residui di lisina e arginina e in maniera analoga ci sono altri reagenti che riconoscono legami peptidici che coinvolgono residui differenti. Se si parte dalla sequenza intera e si va ad addizionare uno di questi reagenti non si avrà in uscita una rottura totale della sequenza, ma una rottura selettiva, così da ottenere in uscita delle sequenze peptidiche più corte. Facendo la rottura con reagenti diversi (inseriti uno alla volta) si ottengono in uscita tanti peptidi diversi e confrontandoli tra di loro, a seconda del tipo di rottura fatta, è possibile nei casi più semplici, per sovrapposizione dei peptidi, risalire alla struttura primaria. In alternativa, quando si ha a che fare con catene più lunghe, si combina la sovrapposizione dei peptidi con la degradazione di Edman e con le tecniche cromatografiche, al fine di arrivare (combinando i risultati dei vari approcci) a ricostruire la sequenza primaria della catena polipeptidica. 3 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020  Esempio Si parte da catene polipeptidiche lunghe che vengono sottoposte a rottura con diversi reagenti, i quali vanno a rompere legami peptidici diversi in base ai residui aminoacidici coinvolti in quei legami. In questo caso sono state fatte delle rotture usando la tripsina ottenendo 3 peptidi diversi. Successivamente è stata fatta una rottura con l'agente BrCN e infine per digestione con termolisina. In uscita da ciascuna rottura si ottengono peptidi differenti. Sulle catene corte si vanno a confrontare tra di loro i peptidi che si ottengono per poter trovare in un peptide informazioni su come gli altri sono legati tra di loro. In poche parole se si considera il peptide che si ottiene con la termolisina (che va dalla leucina all’ acido glutammico) e lo si confronta con quelli che si ottengono dalla rottura con la tripsina, dentro questo peptide ottenuto con la termolisina in realtà è possibile vedere delle frazioni di peptidi Tr1 Tr3, ottenute con la rottura con tripsina. Siccome all’interno è possibile ritrovare delle parti degli altri 2, si può dire che tra il Tr1 e il Tr3 c’è un legame peptidico, in particolare tra l’arginina che è terminale del peptide Tr1 e la serina che è il terminale del peptide Tr3. Con una semplice sovrapposizione dei peptidi si confrontano tra loro i peptidi ottenuti e dal confronto è possibile ritrovare dentro un peptide informazioni su come altri peptidi sono legati in sequenza uno dopo l’altro. Combinando la sovrapposizione con la degradazione di Edman (e può essere utilizzata perché ci si trova nella condizione in cui funziona meglio, ossia polipeptidi più corti) con le tecniche cromatografiche è possibile progressivamente ricostruire la sequenza polipeptidica come la si vede, dal residuo ammino terminale identificato con la degradazione di Edman fino al residuo carbossiterminale. Quest’ultimo può essere identificato con metodi colorimetrici, ad esempio reagenti fluorescenti o colorati che vanno a legare selettivamente l’amminoacido ammino terminale oppure utilizzando un enzima specifico che stacca l’amminoacido carbossiterminale che è la carbossi peptiasi (molto più frequente). 4 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Analisi struttura terziaria (non ci addentriamo su come si possono ottenere informazioni sulla struttura terzista) Per studiare la struttura terziaria si va progressivamente a risalire a come le catene polipeptidiche sono organizzate nello spazio e come gli amminoacidi in questi ripiegamenti vanno a posizionarsi gli uni rispetto agli altri. Per poter ottenere delle informazioni di questo tipo si usano:  la spettroscopia a risonanza magnetica nucleare (nella slide il termine infrarossa è errato) che determina la struttura atomica delle catene peptidiche (ad esempio permette di identificare gruppi che si trovano in estrema vicinanza anche se nella sequenza primaria non sono affatto vicini)  la cristallografia a raggi x che permette di avere una visualizzazione della struttura proteica (possibilità di rivelare l’esatta posizione nello spazio degli atomi). Questa tecnica permette di ottenere la miglior risoluzione perchè la lunghezza d’onda dei raggi X corrisponde alla lunghezza di un legame covalente. Entrambe sono tecniche sofisticate che permettono di risalire a come gli aminoacidi sono organizzati nello spazio. Si vanno a definire delle vicinanze tra residui amminoacidici. Sintesi peptidica Finora si è parlato di come distruggere le proteine per ottenere informazioni sulla loro natura e sulla loro strutturali. È importare avere la possibilità di costruire delle sequenze peptidiche ad hoc poichè: 1. I peptidi sintetici possono essere utilizzati come antigeni nell’ottica di indurre la formazione di specifici anticorpi che si possono utilizzare nella stimolazione della sintesi di specifici anticorpi nella risposta immunitaria. 2. L’utilizzo di peptidi sintetici permette di isolare i recettori di molti ormoni e altre molecole segnale. L’utilizzo di peptidi sintetici è alla base della funzionalizzazione, nella modifica superficiale delle colonne utilizzate nella cromatografia di affinità. Essa richiede di modificare la colonna in modo da attaccare nella fase stazionaria elementi che vengono poi riconosciuti da ciò che viene fatto scorrere e andrà selettivamente ad attaccarsi alla colonna. 3. I peptidi sintetici possono servire da farmaco. È il caso della vasopressina che è un ormone che stimola il riassorbimento di acqua nel tubulo distale del rene e nei pazienti affetti da diabete insipido la vasopressina è carente. Per ovviare alla carenza di vasopressina questi pazienti la assumono dall’esterno come farmaco, che è un analogico sintetico della vasopressina. 4. I peptidi sintetici vengono sfruttati nello studio delle regole del razionale, che sottintende la tendenza delle varie catene ad organizzarsi nello spazio secondo precise regole. Esempio: La sintesi di una sequenza peptidica e lo studio di come essa si organizza nello spazio permette di studiare i meccanismi che sottintendono la tendenza dei residui amminoacidici di assumere una conformazione piuttosto che un’altra. 5 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 5. Applicazione (spesso utilizzata nel settore biomedicale). Si sfruttano i peptidi sintetici per avviare e condurre delle reazioni di funzionalizzazione dei biomateriali. Si parte da substrati polimerici o metallici che vengono sottoposti a dei trattamenti, in uscita dei quali la superficie è stata decorata con delle sequenze peptidiche, in modo che ciò che si va ad impiantare all’interno dell’organismo venga maggiormente riconosciuto e sia capace di indurre specifiche risposte all’interno del sito di impianto. Una sequenza peptidica di sintesi che viene utilizzata è la sequenza RGD che è una sequenza che va a stimolare i processi di adesione cellulare. Si parte da un substrato che non ha nessuna caratteristica bioattiva e viene rivestito con una sequenza. Viene indotta e favorita una risposta biologica di adesione al substrato che altrimenti o non si avrebbe o si avrebbe in maniera meno forte.  Come si fa la sintesi peptidica? Nelle catene polipeptidiche gli amminoacidi sono legati gli uni con gli altri secondo una sequenza ben stabilita. In laboratorio la sintesi deve essere condotta step dopo step, per far sì che ogni amminoacido vada a legarsi al suo vicino nell’ordine che si desidera. Si fa crescere la sequenza peptidica addizionando un amminoacido dopo l’altro. Idealmente: 1. Si parte da una resina che funge da supporto e da punto di partenza delle sequenze peptidiche. La resina è l’elemento su cui si va ad attaccare il primo amminoacido della sequenza. Passaggio dopo passaggio si inseriscono gli altri. 2. Ad ogni step si lava il campione per non rischiare di eliminare anche la sequenza che sta crescendo, perché è attaccata con un legame covalente ad un supporto solido. Facendo i lavaggi si elimina la frazione di amminoacido che non ha reagito, questo perché nell’ottica di favorire la reazione l’amminoacido viene addizionato in largo eccesso (per aumentare la probabilità che si attacchi alla catena in crescita). Quello che non reagisce si lava via con dei lavaggi. Gli aminoacidi sono caratterizzati dalla presenza diversi gruppi funzionali altamente reattivi. Su tutti gli amminoacidi c’è un gruppo carbossilico e uno amminico che sono i gruppi determinanti, coinvolti nella formazione del legame peptidico. 3. Nell’ottica di avere in uscita la sequenza peptidica che si desidera, oltre a mettere gli aminoacidi uno dopo l’altro nell’ordine desiderato, è necessario pilotare la reattività dei singoli aminoacidi. Si deve fare in modo che soltanto i gruppi che effettivamente si vogliono far reagire reagiscano. Per fare questo gli amminoacidi che si utilizzano nella costruzione delle sequenze peptidiche sono modificati in maniera tale che soltanto i gruppi che devono reagire siano disponibili e gli altri gruppi risultino protetti. 6 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Nella pratica: 1. Si parte dalla resina che è una DCC (DiCicloesilCarbodiimmide) alla quale si attacca il primo amminoacido attraverso il suo gruppo carbossilico. Gli amminoacidi sono modificati: hanno il gruppo COOH libero e disponibile a formare legami peptidici o ad attaccarsi alla resina. Il gruppo amminico è protetto da un gruppo t-Boc (gruppo tert-butilossicarbonilico) il quale fa sì che non sia reattivo. È importante che sia protetto in modo che i gruppi COOH si attacchino alla resina e non ci sia rischio che gli amminoacidi si attacchino tra di loro. Usare un amminoacido con una funzionalità protetta fa sì che non si abbia il rischio di reazione reciproca tra gli amminoacidi, perché l’unico gruppo reattivo è quello carbossilico che può andare a legarsi solo alla resina. Una volta che si attacca il 1 amminoacido alla resina, si toglie il gruppo Boc, il 2 amminoacido da addizionare deve legarsi al primo e lo fa al livello del gruppo amminico dell’amminoacido precedente, il quale reagisce con il gruppo COOH dell’amminoacido che si va ad aggiungere. 2. Si addiziona un nuovo amminoacido che ha la configurazione di prima, cioè ha il gruppo carbossilico libero e quello amminico protetto. In questo modo all’interno del volume di reazione è possibile pilotare le reazioni che possono avvenire. Gli unici gruppi funzionali disponibili a reagire tra di loro sono il gruppo carbossilico del amminoacido 2 e il gruppo amminico dell’amminoacido 1. Non ci sono altri gruppi che possono reagire tra di loro. Ad ogni step viene liberato il gruppo amminico della catena in crescita e si addiziona il nuovo amminoacido (che avrà il gruppo amminico protetto e quello carbossilico libero). 3. Nell’ultimo step, quando è stata ottenuta la catena polipeptidica desiderata, si fa una reazione di distacco della sequenza peptidica dalla resina: in uscita si avrà la sequenza completa con il residuo il carbossiterminale e il residuo ammino terminale. La crescita della catena viene fatta partendo dal residuo carbossiterminale, ossia il primo amminoacido che si va ad attaccare alla resina. L’ultimo amminoacido inserito è quello che poi diventerà l’amminoacido ammino terminale. 7 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Nel processo che viene condotto in realtà si deve considerare che esistono degli amminoacidi che hanno anche altri gruppi reattivi come la lisina (che ha una catena laterale che termina con un gruppo amminico) oppure il glutammato o l’aspartato (che hanno dei gruppi carbossilici). Quando si vanno ad inserire nella catena questi tipi di amminoacidi sono presenti delle protezioni anche nelle catene laterali per impedire reazioni non desiderate. Esistono diversi gruppi protettori che si possono utilizzare: cambiando il gruppo protettore si possono pilotare quali gruppi vengono liberati e quali no. Esempio: si utilizza il gruppo Boc sul gruppo amminico degli amminoacidi, perchè è un gruppo facilmente rimovibile in condizioni non eccessivamente drastiche. Per protezione nelle catene laterali si utilizzano dei gruppi differenti, che non vengono tolti nelle condizioni in cui viene tolto il Boc altrimenti si libererebbero durante la crescita delle catene dei gruppi funzionali, i quali potrebbero reagire generando un prodotto diverso da quello che si voleva in origine. Questi gruppi protettori che vengono inseriti nelle catene laterali verranno eliminati soltanto quando la sintesi peptidica è finita. DOMANDA 1: Anche chi ha bisogno di insulina usa peptidi sintetici? Probabile sì: in tutti i casi in cui è necessario fornire dei farmaci di natura peptidica si ricorre all’utilizzo di peptidi sintetici che permettono di avere un elevatissimo controllo sul prodotto che viene somministrato. Esiste l’insulina sintetica. È prodotta da batteri che producono insulina umana, viene però definita sintetica perché prodotta da batteri geneticamente modificati. Deriva da batteri geneticamente modificati. Dove le catene non sono eccessivamente grandi è possibile fare dei processi di questo tipo, esistono degli strumenti che permettono di fare sintesi peptidica in maniera automatizzata, altrimenti la sintesi può essere fatta in laboratorio ma è un processo estremamente lungo poiché ci sono molti step. Domanda 2: Il lavaggio avviene prima della rimozione del gruppo Boc? Sì. Il lavaggio viene prima della rimozione del gruppo Boc. In realtà il lavaggio viene fatto in condizioni blande, utilizzando soluzioni acquose che non rischiano di danneggiare la sequenza in crescita. Normalmente si addiziona l’amminoacido, si aspetta affinché si possa attaccare e si formi il legame peptidico, a quel punto si lava via tutto ciò che non è di interesse e si stacca il gruppo Boc. Se si togliesse il gruppo Boc prima di fare il lavaggio si potrebbero avere dei gruppi Boc eliminati e dei gruppi amminici liberi con conseguente formazione di legame tramite l’amminoacido aggiunto in eccesso. Si attacca, si lava, toglie gruppo BOT e si attacca l’amminoacido successivo. 8 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Gli enzimi Un enzima è una proteina in grado di catalizzare delle reazioni chimiche. Gli enzimi svolgono un ruolo fondamentale e partecipano alla quasi della totalità delle trasformazioni chimiche che avvengono a livello cellulare. Gli enzimi fanno sì che delle reazioni (che non catalizzate avverrebbero con cinetiche estremamente lente) possano avvenire con delle velocità adeguate, per garantire agli organismi di poter svolgere tutte le funzioni in maniera corretta con delle cinetiche adeguate. Gli enzimi svolgono in maniera così efficace la loro funzione attraverso un’altissima specificità nella loro attività. Gli enzimi riescono a riconoscere in maniera specifica e selettiva le biomolecole con cui devono interagire, ovvero i substrati.  Reazioni che avvengono in catena (pathways metabolici) Nelle reazioni che avvengono in catena il prodotto di ogni reazione diventa reagente nella reazione successiva. Affinché questa catena di reazioni possa avvenire e si arrivi all’ultimo step, è necessario che tutti gli step avvengano con velocità adeguate. Gli enzimi nei pathways svolgono un ruolo fondamentale: permettono di regolare adeguatamente le varie reazioni che vanno a costituire questa catena di processi e nel catalizzarle fanno si che il prodotto di una reazione si vada a formare in concentrazioni adeguate in tempi ottimali, affinché la reazione successiva possa avvenire. Garantiscono quindi che le catene di reazioni possano avvenire con cinetiche adeguate, portando nei tempi corretti all’ottenimento del prodotto finale. Come lavorano gli enzimi nell’ottica di aumentare le cinetiche delle reazioni? Lavorano stabilizzando gli stati di transizione. Normalmente nelle reazioni si parte da dei reagenti e arriva a dei prodotti. Nel passaggio da reagenti a prodotti sono presenti degli stati di transizione, ovvero delle condizioni intermedie in cui i legami chimici che si dovevano rompere sono in fase di rottura e quelli che si devono formare sono in fase di formazione. Gli enzimi stabilizzano gli stati di transizione che sono solitamente ad elevata energia, abbassandola, favorendo il loro raggiungimento. Il fatto stesso che gli enzimi vadano a stabilizzare in maniera selettiva gli stati di transizione fa si che essi debbano avere una elevatissima specificità nei confronti delle reazioni stesse. Tra le varie reazioni potenzialmente possibili gli enzimi sono in grado di discriminare quale deve realmente avvenire. Il grado di specificità degli enzimi si manifesta sotto diversi punti di vista:  La specificità è nei confronti del tipo dei reagenti con cui vanno ad interagire. Quando avviene l’interazione i reagenti si trovano nella conformazione ottimale e nell’orientamento ideale necessario affinché le reazioni avvengono.  La specificità è nei confronti dei legami chimici e della reazione che avviene. 9 Rossitto/Maglie 11-Bioingegneria chimica (Boffitto) 3/11/2020 Gli enzimi sono proteine capaci di catalizzare delle reazioni, attraverso il loro elevato potere catalitico. Quando si parla di enzimi si fa riferimento ad una particolare classe di proteine. Quando si parla di catalizzatori in senso generale bisogna fare attenzione a non associare il termine di catalizzatore solo esclusivamente agli enzimi. Non tutti i catalizzatori biologici sono enzimi in quanto esistono dei catalizzatori che non sono di natura proteica ma sono costituiti da RNA, ovvero i ribozimi. Gli enzimi sono proteine ma i catalizzatori non sono solo enzimi. Quello che gli enzimi fanno è aumentare significativamente la velocità con cui avvengono le reazioni. Nelle razioni biologiche che in assenza di enzimi avverrebbero con cinetiche estremamente lente, in presenza di enzimi si può avere un aumento della loro velocità di un fattore che varia tra 5 e 17. Gli enzimi non spostano gli equilibri delle reazioni. L’incremento di velocità è un incremento che avviene in egual misura sulla reazione diretta e su quella inversa. Gli enzimi velocizzano il raggiungimento degli equilibri. Nomenclatura Gli enzimi possono essere classificati con una nomenclatura tradizionale oppure con una più standardizzata. Nomenclatura tradizionale Definisce gli enzimi con dei nomi che derivano o dalla natura del substrato su cui reagiscono oppure il nome porta dentro qualche riferimento al tipo di azione che l’enzima va a svolgere. Il nome ha come suffisso –asi. Esempio: L’ureasi è un enzima che catalizza l’idrolisi dell’urea. La DNA polimerasi è un enzima che catalizza la reazione di sintesi del DNA. Vista la grande quantità di enzimi che esistono e che nel tempo vengono isolati è stata introdotta un tipo di nomenclatura più standardizzata (non è richiesto costruire la nomenclatura EC di un enzima) Nomenclatura EC La nomenclatura EC è caratterizza da 4 numeri. Il numero EC non identifica uno specifico enzima ma una specifica reazione. Mentre la nomenclatura tradizione pone il focus sul substrato o sull’attività, quella EC pone l’attenzione sulla reazione e non sul singolo enzima. Se diversi enzimi catalizzano la stessa reazione i 2 enzimi hanno lo stesso numero EC. 10

Use Quizgecko on...
Browser
Browser