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DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE COMUNICAZIONE FORMAZIONE PSICOLOGIA CORSO DI SPECIALIZZAZIONE PER IL SOSTEGNO DIDATTICO AGLI ALUNNI CON DISABILITÀ IX CICLO MATERIALE DIDATTICO DISCIPLINA: PEDAG...

DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE COMUNICAZIONE FORMAZIONE PSICOLOGIA CORSO DI SPECIALIZZAZIONE PER IL SOSTEGNO DIDATTICO AGLI ALUNNI CON DISABILITÀ IX CICLO MATERIALE DIDATTICO DISCIPLINA: PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE DI AIUTO SSD: M-PED/01 DOCENTE: COSIMO COSTA EMAIL: [email protected] SAGGI - E. Ducci, Educabilità umana e formazione, pp. 117-131; Il peso del se, pp. 144-145 (i saggi sono presenti nel testo curato da C. Costa, Per una filosofia dell’eduzione, Anicia, Roma 2014). - E. Ducci, 4. Il mondo vitale della relazionalità, pp. 69-84; 5. L’accompagnamento educativo, pp. 85-95; 1. Il rapporto io-tu nella persuasione, pp. 21-33 (i saggi sono presenti nel testo di E. Ducci, Relazione Comunicazione Libertà, a cura di C. Costa, Anicia, Roma 2019). - Platone, Mito della caverna, tra. E. Ducci, in E. Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma 1999, pp. 62-63. nel contempo germoglia una sensibilità, il proprio carico di cultura avrà una valenza più forte e intensa. Non bisogna dimenticare che solo lo specifico umano è educa- bile, né gli animali, né le piante, né gli angeli, nessuno è educabile, solo lui12. Il nostro è uno specifico isolato, non facile da conoscere; facilmente si può entrare nel fraintendimento, ed ecco il plagio, la manipolazione: false educazioni. Siccome specifico umano, l’educabilità implica un diritto primario: l’uomo in quanto essere educabile ha diritto all’educazione. Ma è raro trovare il bisogno di educazione ben compaginato, che porta alla realizzazione della propria vocazione13; in tal caso, è l’educazione che dovrebbe metter la persona nella situazione di capire tale interesse, poiché è solo nel compimento di quest’ultimo che può trovarsi la felicità14. Ora, l’incognita è riuscire a capire la stoffa della propria educabilità (perché non è standardizzata), e contemporaneamente, della propria ineducabilità. Quanto e fin dove arriva l’educabilità? Non si può educare l’orecchio di Mozart: era ineducabile per eccesso. C’è una dose in ognuno di noi di educabilità e di ineducabilità. L’educatore avrà sempre il dramma di quanto dell’una e quanto dell’altra. Ma l’educabilità umana comprende in sé la forza per svilupparsi? Ha già segnate le direzioni verso cui andare? La forza deve prenderla da qualcosa di diverso da sé? Leggiamo, nei saggi che seguono, quanto dice Ducci intorno all’educabilità, regola prima della sua fi- losofia dell’educazione. EDUCABILITÀ UMANA E FORMAZIONE in AA.VV. Educarsi per educare. La formazione in un mondo che cam‐ bia, Ed. Paoline, Roma, 2002, pp. 25‐44. Affrontare, nel vivo di un gruppo qualificato, il tema dell’e- ducabilità umana è situazione buona sia per intranearsi (cioè entra- 12 Cfr. Kant I., La Pedagogia, Arial, Messina, 2008. pp. 43-45. 13 Cfr. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, trad. Arpaia B., Guida, Na- poli, 2000 - È un termine che prendo in prestito. Ortega provocando, ammette la voca- zione propria di ogni generazione, la quale rischia di essere generazione vuota non adempiendo a quanto gli si richiede. Ognuno ha una propria vocazione che difficil- mente potrà essere scorta, ma da uomo, ogni singolo avrà anche il duro compito di in- tenderla e portarla fuori. Ognuno di noi ha il giusto elemento per trovare la propria vocazione ma l’occasione non è valida ai fini della giusta e corretta estrazione. 14 Rimando al concetto di proairesis di Epitteto, sia nelle Diatribe che nel Ma- nuale. Si veda per ulteriori approfondimenti C. Costa, La paideia della volontà. Una lettura della dottrina filosofica di Epitteto, Anicia, Roma 2008, pp.88-97. 117 re con delicatezza e decisione) non da soli (perché è sempre cosa rischiosa) nel cuore del mistero\uomo, sia per portare ad effetto il proposito di toccare il punto nevralgico e alto del rapporto interper- sonale, e non fermarsi alle forme apparenti. Il tema richiede, naturalmente, una sufficiente strumentazione oggettiva (cioè una non breve frequentazione degli scandagliatori dell'umano), accanto a questa la decisione di accettare il coinvol- gimento personale (con tutte le conseguenze), e, terzo ma non me- no importante, d’innescare una sinergia appropriata. Questo perché si vuole parlare dell’umano concreto (di cui l’educabilità rappre- senta il nucleo vivo), e di ciò non soltanto non si può parlare da so- li, ma è bene essere in molti, in tanti, con presenze diversamente autorevoli, e soprattutto (cosa determinante) non si può restare estranei o lontani, perché tutti interpellati in prima persona e, nel nostro caso, in prima persona e nella funzione che ci è stata affidata. Non potendo trattare il tema nella sua interezza è saggio espli- citare la scelta metodologica operata. Ho ritenuto opportuno privi- legiare taluni aspetti solitamente meno trattati o trattati in altri con- testi, e comprendere nella trattazione anche i dinamismi ad essi col- legati. E per quanto concerne il linguaggio ho scelto di dimensionare quello puramente razionale, di evitare il parenetico, e di lasciare il massimo spazio al linguaggio atto a invogliare, cioè a muovere la volontà verso l’agire interiore e esteriore. Quale educabilità? La riflessione, in maniera forse insolita, prende le mosse non da una generica trattazione dell’educabilità umana, ma da un movi- mento che ognuno di noi deve compiere: il ripensamento, meglio il riattingimento della propria educabilità. Si tratta di un movimento che può apparire remoto dal nostro contesto, perché va in senso contrario a quello che è il movimento proprio del ruolo di educatrici, che consiste primariamente nel- l’essere attenti all’educabilità dell’altro. Questo avvio rivela la direzione della ricerca; nello stesso tempo può considerarsi un primo elemento propedeutico per l’at- tingimento della propria educabilità: tenere o riportare il ruolo nei suoi confini. Ed è movimento né facile né spontaneo, ma di assolu- ta necessarietà. La sospensione del movimento del ruolo è, dunque, esigita per la corretta conduzione del nostro riflettere; anzi ciò avrà, come se- 118 condo effetto, una percezione del ruolo più regolare, e lo svolgi- mento del medesimo acquisterà in dignità. Va rammentato che è penosamente possibile l’identificazione con il ruolo (anche nel settore dell’educativo) sì da perdere il con- tatto immediato con le radici del proprio essere. Può formarsi come un muro compatto che immiserisce il terreno e lo rende impermea- bile. L’abitudine al ruolo può imporsi anche in breve tempo, perché dipende dal modo di intendere il rapporto tra il ruolo e l’essere per- sonale. Il ruolo affascina, ma può mortificare la realtà personale. Può sovrapporsi o addirittura sostituirsi alla vitalità della realtà per- sonale. La pericolosità è enorme quando il ruolo è quello di forma- trici. Si può (paradossalmente) essere eccellenti nel funzionare, for- se anche apparire competenti, e restare miseri nella maniera perso- nale di vivere. Si tratta di un male che, soprattutto nelle forme leggere, può restare a lungo inavvertito. Il ruolo può nascondere zone infiacchite, tessuti restati ripiegati che si guasteranno se non arieggiati. Affrontare il problema della propria educabilità prima ancora di parlare dell’educabilità dell’altro, può essere, per chi svolge la funzione di formatore, una delle occasioni per ricondurre il ruolo dentro i suoi confini. Se si scopre con rinnovata luce la natura bella e il senso forte della propria educabilità ci si avvicina diversamente all’educabilità dell’altro. Approdare a quel fascio di energie che costituisce l’educabilità Educabilità umana ha la stesso senso di perfettibilità umana, di ten- sione viva ad assimilarsi al Modello, di spinta a diventare quel io che si è. Non è uno spazio da riempire, né una serie di comporta- menti o di persuasioni da apprendere, bensì un fascio di energie inesauribili da sviluppare in tutto l’arco del vivere (c’è in noi qual- cosa di eterno). È il potenziale affidato a ciascuno di noi. Ci distin- gue l’uno dall’altro. Di lui non conosciamo né l’intensità né la mi- sura, ma possiamo concretamente esperire l’una e l’altra. Svilup- parlo è il compito di tutta la vita, compito che va svolto interamente, e non può essere copiato da altri. Dello sviluppo di questo fascio di energie (di tutte) siamo re- sponsabili. Il richiamo alla parabola dei talenti è spontaneo. Talune di queste energie possono (per motivi differenti) resta- re sopite, non godere mai del risveglio o, dopo risvegliate, ripiom- bare nel sonno. Possono essere state deformate nel loro esprimersi, 119 o possiamo (per motivi non congrui) avere impedito il loro pro- rompere nell’interiorità. Forse le si conoscono troppo poco. Va rammentato che le energie si apprezzano quando dallo stadio potenziale passano a quello attuale. Finché non passano all’atto non hanno un volto pre- ciso. Supporle, immaginarle, bramarle è poco o nulla. Necessario, anche se rischioso e faticoso, è farle passare all’atto. E per soppor- tare rischio e fatica bisogna apprezzarle, esserne convinti e appas- sionati. Non avvertirle mai come un peso. Se restano a livello di etichette da manuale non verranno mai affrontati né fatica, né ri- schio. Dobbiamo fare a noi stessi l’incantesimo per appassionarci e entusiasmarci, e così saper fare l’incantesimo agli altri, e insieme a loro ringraziare il Donatore. Più avanti parleremo di alcune di esse (anche se in forma mol- to breve), magari lasciando da parte quelle canoniche. Se vogliamo amare le energie che costituiscono quel io che siamo e che dob- biamo diventare, che accennano concretamente al compito assegna- toci, dobbiamo guardarle nella bellezza di ogni risvolto. Un secondo movimento propedeutico per impattare (e tali mo- vimenti sono preziosi perché l’impatto è necessario ma travaglioso) con la propria educabilità può essere indicato nella rivisitazione dell’ascolto, fino a toccare la competenza nell’ascolto, e problema- tizzarla opportunamente. Come per il ruolo anche qui si annida il pericolo che l’ascolto sia calibrato tutto sulla funzione di formatri- ci. Si può, paradossalmente, sviluppare l’orecchio della formatrice e lasciare che si restringa l’orecchio della persona in sé. Si ascolta, si percepisce quello che può essere utile per la funzione, o quello che chiedono le persone in formazione, ma è come se mancasse la competenza per ascoltare istanze che stimolano a continuare il cammino personale, quello che sorregge il ruolo senza identificarsi con lui. Anche gli incontri a cui partecipiamo si possono, purtrop- po, considerare come offerta di apporti finalizzati all’uso, più che apporti per il crescere personale. L’orecchio interiore può tendere a restringersi per tanti motivi. Forse sembra di aver già ascoltato tante e belle parole (forse trop- pe), ma è pur vero che resteranno sempre da conoscere realtà non direttamente professionalizzanti, ma davvero umananti. Competen- za nell’ascolto, dunque, orecchio interiore sensibile ai grandi pro- blemi che ci riguardano come soggetti umani in sé, come soggetti tesi alla molteplicità delle relazioni, e desiderosi di assolvere bene la propria funzione. 120 Delle grandi realtà dell’umano si rischia di avere una cono- scenza misera, ripetitiva, costretta su binari soliti, scontata, e, forse, di seconda mano. La conoscenza delle grandi realtà umane può e deve arricchirsi senza posa; non la si può mai ritenere esaurita, compiuta. Riconosciamo umilmente l’incompletezza, la meschinità della nostra conoscenza di Dio e di ciò che riguarda il sacro. Siamo meno umili circa la pochezza, l’angustia, lo sbiadimento della no- stra conoscenza dell’umano. Non si tratta della conoscenza da usa- re o da vantare, ma di quella da vivere in prima persona. Quella conoscenza che appassiona e fa volere, ad ogni costo, il consegui- mento di un’umanità riuscita. D’altra parte se, circa le realtà umane, si manca di conoscenza e soprattutto di conseguente esperire personale, non si può essere comunicatori efficaci, ma soltanto persuasori scialbi, snervati, in- concludenti. Parlare per sentito dire non si addice mai a un forma- tore. Per questo va impietosamente saggiata la propria competenza nell’ascolto. A lei si associa la sensibilità capace di avvertire e decifrare il bisogno naturale, integrale, costante di educazione, presente in ogni soggetto, cioè il bisogno insopprimibile, la necessità reale di avva- lersi di cooperazione idonea per diventare quel io che siamo e che, paradossalmente, dobbiamo scegliere di essere, e di cui dobbiamo decidere la qualità. Il bisogno naturale di educazione potrebbe non essere mai sta- to ascoltato realmente dal soggetto. Tutto quello che ha ricevuto può essere stato passivamente accolto perché offerto, o addirittura perché imposto. Questa fondamentale voce interiore può non aver trovato l’orecchio adatto. Il terzo movimento propedeutico riguarda il volere – e cioè l’arte di snidare i pericolosi camuffamenti che tentano di surrogarlo –, perché nitida ne risalti la natura, e si abbia il coraggio di cogliere e dire le aporie che lo frequentano. Il soggetto umano bisogna che espressamente voglia l’attuarsi della propria educabilità, il realiz- zarsi della propria perfettibilità (non necessariamente con la preci- sione terminologica qui usata ma con vera consapevolezza esisten- ziale). Il dinamismo interiore dell’attuarsi del potenziale (educabili- tà) potrebbe non essersi mai avviato adeguatamente, perché mai si è attinta la radice del volere. Più che volere, il soggetto è rimasto all’essere voluto. Il suggerito, o l’imposto, può, infatti, soppiantare l’originalità (difficile da conoscere e scomoda da attuare) del po- 121 tenziale. La passività o l’arbitrarietà possono, inconsciamente, ma- scherarsi tanto da sembrare volizione. Il fraintendimento tra il volere e l’essere passivamente voluto, magari anche da chi sta a capo, è mortifero per il costituirsi dell’umano: illudersi di volere, e, invece, continuare, magari a lun- go, ad essere voluti nelle grandi o nelle piccole circostanze del vi- vere. Ancora una volta sono infinite le possibili contraffazioni, e su di esse la riflessione personale deve essere inclemente. Dal fascio di energie costitutivo della nostra educabilità deve affiorare, anzitutto, il volere perché assuma il posto che è suo. Co- noscere la natura del volere e soprattutto imparare a volere, saper volere è cosa basilare. Il volere si riferisce immediatamente a quel io che siamo e che dobbiamo diventare, e la cui qualità dipende tutta sia dalla decisio- ne fondamentale, sia dalle scelte singole che la esplicitano. Rammentiamo anche che possiamo volere e scegliere il che cosa, ma non sempre direttamente; esso talora è inserito in un con- tenitore più ampio o generico (scelgo il carisma di una Congrega- zione, ma non le singole leggi, prescrizioni, tradizioni). Mentre è sempre in nostro potere il come vogliamo, assumiamo, eseguiamo. Nel come siamo autonomi, siamo legge a noi stessi, pienamente re- sponsabili. Qui grandeggiano la fatica e la solitudine, perché nes- suno può risolvere al posto di un altro il come, cioè la qualità dell’agire interiore. Regole, precetti, obbedienza sono vissute bene se vissute come: sono io che lo scelgo e che lo voglio nella modali- tà esigita dalla scelta qualitativa che ho fatto circa quel io che vo- glio essere davanti a Dio. Imparare a volere, saper volere, è essenzializzare il vivere inte- riore e mettere a frutto le energie nobili. E’ vivere l’umano nel suo nucleo fondante, sì che il rapporto conoscitivo e operativo con l’altro si impernia sulla connaturalità. La conoscenza per connatu- ralità è quella meno impropria quando ci si riferisce alle grandi realtà umane, e le si considera nel vivo del rapporto interpersonale. E’ una conoscenza da volere per sé, da ricercare ad ogni costo, anche se il suo prezzo è alto. Riflettere anzitutto sulla propria educabilità (poi su quella di chi ci è affidato) non è cosa spontanea, è un agire interiore che de- ve essere coscientemente voluto, preparato e mantenuto con cura, e protratto per tutto l’arco della vita. Le energie interiori hanno una natura relazionale. Non sono destinate all’autoreferenzialità o ad uno sviluppo solipsistico. Sono 122 energie che per prorompere e andare verso la giusta direzione esi- gono la sinergia. La funzione di diventare (movimento lungo quan- to l’intero arco del vivere) quel io che siamo non la si può assolve- re da soli, occorre il dinamismo sinergico. Per sinergia si intende il convergere di più energie, della medesima natura, per il compimen- to di una funzione che un’energia da sola non potrebbe assolvere. La relazionalità sinergica interviene nel primo prorompere, accom- pagna poi lo sviluppo, ed è in lei che le energie del singolo trovano l’habitat appropriato perché la loro potenzialità si attui in ampiezza crescente. Esperire in prima persona la sinergia è condizione neces- saria per poi proporla, avviarla, sostenerla (anche quando appare impossibile), trovare il modo di superare o aggirare ogni tipo di ostacolo. Sarebbe improprio pensare di individuare le energie che costi- tuiscono l’educabilità umana fuori dalla relazionalità sinergica. Si tratta di un principio basilare che fonda un’umiltà che si potrebbe definire ontologica, consente un concreto senso del limite, una net- ta visione dello statuto relazionale preso in sé e curato adeguata- mente anche negli aspetti minuscoli. Prima energia: uditori e facitori della parola La prima energia, quella che pur rimanendo misteriosa ha un lato constatabile, è identificabile nel fatto che l’uomo ha la parola, anzi che l’uomo è uomo proprio perché ha la parola. L’enunciato sem- plice deve evocare un mare di implicanze. È giusto prendere atto che con la parola si tocca un tema im- menso, ma davvero determinante per comprendere l’educabilità umana (propria e altrui), in vista della formazione. Si tratta, ancora una volta, di un tema che non può essere trattato adeguatamente in poco spazio e in poco tempo. Per questo sarà bene accennare argo- mentazioni e motivi, corredare poi con qualche testo di riferimento, sì che ognuno possa continuare il percorso in modo corretto. Cosa fondamentale è non confondere parola e parole, queste non sono il plurale di quella, perché tra l’una e le altre c’è una dif- ferenza qualitativa, non una differenza quantitativa. Soltanto con questa distinzione il percorso è corretto e resta aderente alla realtà. Parola è l’esprimibilità dell’essere, dell’esserci. Parole sono un vei- colo convenzionale che può essere slegato dalla parola. L’uomo ha la parola (cioè può e deve esprimere l’umano in quella particolarità che è cosa propria di ognuno), e può usare le parole o come stru- 123 mento oggettivo di comunicazione a tanti livelli, o come veicolo per il pronunciamento della parola. L’animo religioso ricerca l’origine del fatto che l’uomo ha la parola, la causa di questo salto nei gradi delle cose create. Invece la visione limitata al finito e al temporaneo si ferma all’esserci di questo fatto, non ne indaga la natura ultima, ma soltanto i processi, e, soprattutto, vuole impiegare tutte le possibilità di utilizzo. Grandeggiano nella riflessione dell’animo religioso le primis- sime pagine del Genesi e il Prologo del Vangelo di Giovanni. Nel Genesi Dio ci ha svelato come è avvenuta la creazione: mediante il suo dire. Nel Prologo ci ha detto del Logos e del suo diventare car- ne e piantare la sua tenda in mezzo a noi. Qui c’è l’origine della parola che è nell’uomo, della parola che qualifica il suo essere, che ne esprime la natura relazionale, e che dice in maniera incredibile la sua dipendenza da Dio e il suo rapporto attuale con Lui. In questo cammino verso il fondo dell’essere umano è dato l’impatto con l’esperienza interiore primaria, esperienza che appar- tiene a ogni singolo, senza distinzione: scoprire vitalmente la natu- ra di tu della propria coscienza, segno indelebile dell’essere stato interpellato a mo’ di tu nell’istante in cui è avvenuta la chiamata dal nulla all’esserci. Un’esperienza né immediata né facile, ma che contiene in sé il mistero di ogni rapporto e l’energia per condurre ogni rapporto nel giusto modo. L’essere stati (e il permanerci) il tu di Dio (e riprova tangibile di ciò è l’avere la parola) dissolve ogni smarrimento interiore causato dall’isolamento. L’essere (e l’essere stato primariamente) uditore della parola consente all’uomo di diventarne facitore della parola. L’essere udi- tore presuppone e pone il rapporto vivo e attuale dell’uomo con Dio. La capacità di essere vero facitore pone il rapporto dell’uomo con i fratelli, rappresenta il primo soddisfacimento del bisogno che il soggetto ha degli altri. Bisogno insopprimibile di esprimere il proprio essere, e bisogno di avere qualcuno a cui esprimerlo. Qui si radicano la vita in comune e le forme varie della socialità, e da qui assumono il loro senso. L’udire e il pronunciare la parola disegna- no e accolgono un nodo di energie che il soggetto non finirà mai di individuare, mai esaurirà i modi di collegarsi a loro vitalmente, e di desumere da loro lo stile dei movimenti interiori. La parola, nel momento in cui è indirizzata all’altro, palesa quella scheggia minima di potere creante che ha serbato in sé, per questo infrange la muraglia cinese dell’isolamento e rende possibi- le l’incontro. La parola, come forza viva, può permeare le parole e 124 ogni altro linguaggio, conferendo a questi efficacia e riscattandoli dalla sola convenzionalità o dal mero utilizzo. La parola (che va sempre detta con tutto l’essere), può aderire alle parole e così ren- derle vive e feconde, rendere possibile ogni reciprocità, e soprattut- to la reciproca edificazione. La parola umiliata a mere parole è la causa del vanificarsi del- la comunicazione o, addirittura, dell’incomunicabilià. Il dialogo si incardina sulla parola e si serve (soltanto si serve) delle parole, anche le più alte e sofisticate. Il vero dialogo è nel mutuo scambio dell’espressione del proprio essere, della propria originalità, nella dialettica dell’ascoltare e del rivolgere la parola. Accogliere la parola dell’altro è offrire a lui l’occasione giusta per formularla meglio. Ci vuole un orecchio capace di liberarsi da interferenze e rumori, perché la parola che l’altro esprime non si snaturi, ma sia accolta nella sua vera estrinsecazione. Da qui anche l’occasione giusta perché ognuno percepisca ed esprima sempre più fedelmente la propria. Esprimere la parola è radicalmente risposta, perché la natura della parola è relazionale, essa è fatta per presup- porre e porre il rapporto tra i soggetti. L’aver la parola è la prima energia in quel fascio che costitui- sce l’educabilità umana. E’ palesemente un’energia che rinvia alla sinergia perché se l’uomo è uomo perché ha la parola, la funzione di diventare quel io che siamo si compirà nel mondo della parola ascoltata e indirizzata. Lo scoglio da superare con cura costante è quello di non can- cellare mai la differenza qualitativa che intercorre tra la parola e le parole, non umiliare la parola stemperandola nelle parole, non mor- tificare il potenziale privandolo di questa prerogativa determinante. Forse ogni dialettica di formazione (e in tal modo resta sempre autoformazione) potrebbe concretarsi nel rivolgere la parola all’altro perché l’altro possa esprimere la propria parola. [Trattare un simile tema in così povere battute è davvero scor- retto, per questo mi permetto di sollecitare la lettura delle opere di Ferdinand Ebner, sia Parola e amore, sia La parola è la via, Anicia, Roma; e di Martin Buber, Il principio dialogico, San Paolo, Milano.] Seconda energia: capaci di amare La capacità di amare è indubbiamente un’altra delle energie mas- sime che costituiscono l’educabilità umana. Difficilissimo parlarne, impossibile parlarne in breve. Nell’affrontare questo tema, tenen- dolo raccordato al precedente, viene spontaneo rilevare come effet- 125 tivamente nell’educabilità si annodino tutti i volti del mistero uo- mo. Qui, davvero, fanno capo le massime realtà umane. Fin qui de- ve arrivare l’interrogare sull’uomo se vogliamo che i problemi sia- no concreti e le sollecitazioni feconde. L’amare è un’energia di cui tutti sappiamo (o crediamo di sa- pere), di cui tutti abbiamo fatto esperienza (o speriamo di averla fatta), che, però, non possiamo padroneggiare né concettualmente né all’atto pratico. L’interrogativo formulato già da Platone resta ir- risolto: come far sì che l’oggetto d’amore diventi soggetto d’amore, che cioè l’altro da amato diventi amante? Il cristianesimo ha portato la problematicità dell’amare al pun- to culmine, ha aperto la strada all’intensificarsi illimitato di tale energia, ha fatto, paradossalmente, dell’amare il precetto per anto- nomasia, e così ha svelato che nell’uomo c’è una capacità di amare quasi infinita. Qui non mi propongo né di risolvere il quesito platonico, né di illustrare il senso, la natura, la possibilità del precetto cristiano, li- mito il mio compito a poche istanze, quelle che mi paiono diretta- mente connesse con l’educabilità. Per il cristianesimo l’amare umano è originariamente un ri- amare. Abbiamo già sostato su questa strada a proposito dell’aver la parola, e della priorità, nella coscienza umana, della natura di tu rispetto alla natura di io. L’amare è per il cristiano ontologicamente una risposta, perché la risalita mediante l’avere la parola giunge al sentirsi amati, al sentirsi il tu di Qualcuno. Qui grandeggia il dina- mismo della conoscenza per connaturalità, si è nel mistero del teo- morfismo. L’uomo porta in sé un mistero di amore, un misterioso sapersi oggetto d’amore, una coscienza che può crescere e intensi- ficarsi durante tutto l’arco del vivere. Siamo nati per – già presagi- va l’Antigone di Sofocle – rispondere all’amore. E, in forza di ciò, il cristianesimo tende nell’uomo la capacità di amare l’altro uomo fino ai vertici dell’amicizia, da un lato, fino ai vertici dell’amore per i nemici dall’altro. Il radicamento vitale nel primo fondamento (quello sopra rammentato), se reale e non soltanto pensato o anelato, porta con sé (e dà la possibilità di realizzazione) la rimozione di ostacoli precisi. Rammentiamone qualcuno. - La chiusa egoistica, anche quella derivabile dalla mancata ma- turazione affettiva. 126 - Qualsiasi atteggiamento interiore o esteriore di disprezzo dell’uomo (non dare all’altro, per qualsiasi motivo, il prezzo che è suo e che gli spetta). - Il fraintendimento dell’aver bisogno dell’altro sulla linea dell’utilizzo. - La voglia inumana di far soffrire l’altro. - L’inconcepibile paura dell’altro. - L’autoinganno, cioè il camuffare a se stessi sentimenti impro- pri quasi fossero amore. Questi primi tratti elementari lasciano intravedere piccoli sen- tieri che conducono all’educabilità e alla formazione. Primaria è la qualità di immotivato che l’amore deve avere (non dipendere cioè, e quindi non deve essere condizionato, dalle qualità dell’oggetto, e ciò per una povera somiglianza con la moda- lità di amare propria di Dio), annodata strettamente con la concre- tezza (deve cioè riguardare un concreto oggetto di amore, una per- sona reale non qualcosa di astratto). Tra le tante sollecitazioni che si possono rintracciare a questo proposito c’è quelle contenuta in una pagina bella di Kierkegaard negli Atti dell’amore. Una pagina segnata dalla peculiarità dell’e- ducativo incastonato nell’amare. L’enunciato è che amare una per- sona equivale a intuire acutamente le sue proprietà, volerle amoro- samente, e cooperare al loro pieno sviluppo senza lasciare nessun marchio. Le proprietà proprie dell’altro, quel quid che lo segna e lo in- dividualizza e di cui nessuno è privo, sono la sua originalità non misurabile con moduli oggettivi, sono il cuore della sua dignità (non intaccabile da niente). Volere la loro piena attuazione è far sì che l’altro sia qualcuno per qualcuno, nella celebrazione dell’u- nicità. La maternità o la paternità possono avviare a percepire l’unicità di quell’essere umano che è il figlio. La mancanza di que- sta massima esperienza va colmata. Il compito, per colui che ama, è di volere profondamente le proprietà proprie dell’altro, fondamento della sua unicità. Perché quelle proprietà costituiscono la struttura del suo essere, la forza del suo agire, la sua sconfinata possibilità di instaurare rapporti. Vanno volute profondamente anche se non so- no identiche o simili a quelle di colui che ama, né rispondenti ai suoi canoni di apprezzamento e di rispetto. Non vanno cancellate, nascoste sotto una proiezione delle proprie, né si possono dichiara- 127 re non trovabili soltanto perché cercate con un cuore meschino o uno sguardo cieco. Questo, per altro, è un esercizio buono per imparare ad amare in modo concreto, per uscire dal bozzolo dell’egoismo (in cui è tan- to facile ricascare), e persino per volere intensamente lo sviluppo delle proprietà proprie. Qui accestisce la gioia, anzi, qui è la fonte della gioia, a patto che si tenga aperta ogni possibilità di sinergia. L’annodarsi di esse- re amati, amare, attizzare la capacità dell’altro lo si può accennare così. La prova più grande di amore è far esperire l’essere amati, ma il senso di essere amati lo si possiede nella misura in cui lo si è esperito, la veridicità, però, di tale esperito è nell’atto interiore dell’amare. Impossibile non riandare alle intuizioni e agli scandagli di Giovanni, Paolo, Agostino, Tommaso e tanti altri. Forse si dovreb- bero maggiormente frequentare le loro pagine per cogliere il cuore dell’educabilità e la grande posta della formazione come vero aiu- tare l’altro nell’attuazione della sua capacità di amare. Nell’amare si annida tutto il mistero umano come mistero di rela- zionalità eterna, perché l’amare (in tutta la vitalità del suo dinamismo), come proclama Paolo ai cristiani di Corinto, non cesserà mai. Terza energia: liberi interiormente Si può ancora trascegliere da questo fascio l’energia-libertà, e so- prattutto considerare il potere che ha l’uomo di compaginarsi un’autentica libertà interiore. La libertà interiore rappresenta per il soggetto un diritto primario, anche rispetto alla stessa libertà este- riore nelle sue tante forme. Ma è un diritto che ognuno deve assicu- rare da sé a se stesso. Si può estendere ad altri i benefici di una li- bertà esteriore ottenuta, ma quanto alla libertà interiore può esserci soltanto un aiuto misurato, l’effetto è tutto e solo del soggetto che se ne impossessa. Per la libertà interiore, come per le precedenti realtà grandi dell’umano, è impossibile parlare di definizioni, può essere accen- nato qualche tratto, qualche aspetto che la faccia amare e, di conse- guenza, volere, nonostante il suo alto prezzo. Si può partire dal processo di emancipazione. Il soggetto può essere emancipato da ogni schiavitù interiore (per questo il forma- tore prendeva, negli stoici, l’appellativo di emancipatore), e mutare così la sua condizione interna. Questo verrà da subito, nel pensare 128 occidentale, inteso come il massimo beneficio da offrire all’essere umano. Se le schiavitù esteriori sono evidenti e facilmente disapprova- te, le schiavitù interiori, invece, sono ingannevoli, sfuggenti, facil- mente ammantate di tratti simili a quelli della libertà. Alcune schiavitù interiori pesano, opprimono, ma molte di loro sembrano securizzare o conferire tono al soggetto. La rimozione delle schiavitù esterne non soltanto non facilita direttamente la rimozione di quelle interiori, ma, per assurdo, po- trebbe rafforzarle o crearne di nuove. Ed è proprio e soltanto la ri- mozione delle schiavitù interiori che rende il soggetto non condi- zionabile, infatti non ha padrone da temere, né ricatti o coercizioni inchiodanti, in una parola, tale rimozione lo rende libero. Nella dizione classica, quella formulata da Aristotele nel libro I della Metafisica, è detto libero colui che è a causa di se stesso, chi prende da se stesso il motivo, la forza, la direzione per il pro- prio agire. Tra i tanti pensatori che hanno assunto ed enfatizzato questo sintagma, è bello ricordare Tommaso. Lui lo utilizzerà an- che commentando Giovanni 15, 15: il tratto bello in cui Gesù dice ai suoi di averli chiamati amici e non servi; li ha, infatti, considerati liberi, e Tommaso annota, cioè causa sui. Colui che attinge la forza che causa il suo agire interiore da se stesso questi è libero, perché, ancora una volta, attinge direttamente da quel punto ontologico che segna la sua dipendenza liberante da Dio. C’è anche una suggestione forte di Dostoevskij. Per le infinite capacità del suo genio, e per le incredibili esperienze del suo vivere Dostoevskij intravede e descrive l’uomo come un essere capace di infinito bene e infinito male. Questo sconfinato potenziale può in- durre nell’uomo la paura della libertà assegnatagli da Dio, e la vo- glia di consegnarla, al fine di non doverla più gestire da sé e sop- portare gravosa solitudine e responsabilità. Talune Istituzioni sono pronte ad accoglierla, a sottrarla all’uomo, sì che lui si senta secu- rizzato anche se resta inesorabilmente mutilato (utile ripercorrere le tappe della Leggenda del grande Inquisitore). E’ questa un’intuizione inquietante che costringe a rintracciare costantemente la linea di demarcazione tra la fuga e il dono, tra il disimpegno e l’impegno. La libertà interiore è l’avvio alla estirpazione della capacità di infinito male. Un infinito male alla portata di tutti, basti pensare al far soffrire gli altri. Di questo male infinito possiamo essere colpe- voli tutti, senza eccezione. E’ un male di cui è difficile liberarsi, 129 perché infinite sono le sofferenze che si possono infliggere, anche senza che questo appaia minimamente. La tentazione di far soffrire gli altri è la più pesante tentazione di superbia e di orgoglio, perché gestire la sofferenza altrui è assurdo impeto di onnipotenza. Soprat- tutto la sofferenza morale può essere inflitta con facilità incredibile e per motivi pseudo giusti. L’individuazione e la denuncia di ogni schiavitù interiore, la rimozione continua di esse e della radice cat- tiva consentono l’atto fondamentale della libertà interiore: la deci- sione di diventare quel io che siamo (chiamato dal nulla all’esserci per un atto di amore e con un’interpellanza diretta), la scelta della qualità di questo medesimo io (che può avere come Modello e Mi- sura soltanto Dio), e, in base a questo, la motivazione (la forza che muove) per ogni altra scelta, grande o piccola. Per volere la libertà interiore, volerla per sé come il beneficio grande, volerla con i suoi rischi, le sue solitudini, le sue pretese, bisogna esserne affascinati, essere innamorati di lei, aver perso la testa per lei. Ma perché que- sto avvenga la si deve intravedere nella sua bellezza concreta. In- sufficiente sarà la concettualizzazione più esatta, la presentazione logica più stringata. Bisogna che qualcuno, lasciando trapelare la propria libertà interiore, offra all’altro il dono di intravederla. Quando c’è, la libertà interiore trapela da tutto l’essere, dal modo di parlare, di agire, di scegliere, di desiderare, di comportarsi con chi sta in alto e con chi sta in basso. La totalità dell’essere e dell’agire rivelano la presenza della libertà interiore. Soprattutto si avverte che è lei a dare al soggetto il senso della tenuta nella mas- sima diversità degli accadimenti, consente di affrontare nel giusto modo la sfortuna, ma soprattutto la fortuna, la povertà, ma soprat- tutto la ricchezza, l’insuccesso, ma soprattutto il successo, di teme- re ciò che va temuto e non temere ciò che non va temuto. Se della libertà interiore ci si invoglia quando essa trapela, non quando di essa si parla, ne consegue che chiunque ha il senso del per l’altro deve intensificare la cura nel compaginarsi una libertà interiore bella, armoniosa, coraggiosa, rischiosa, senza confonderla con l’arbitrio, il tutto permesso, la capricciosità dissimulata. Inva- dere, mortificare, soffocare la libertà dell’altro è un’azione tutta di- sumanante. Compaginarsi un libertà interiore robusta è fare il mas- simo beneficio a sé e, contemporaneamente, agli altri, perché l’es- serci della libertà interiore è rivelatore di un aiuto ricevuto, messo a frutto e partecipato, è entrare in una dinamica di reciprocità vitale. La natura relazionale della libertà è tutta esplicita: la libertà si av- verte, si celebra, si intensifica nell’impatto con un’altra libertà. 130 L’analisi del fascio di energie che costituisce l’educabilità umana, il tentativo di scioglierlo sì che ogni energia riveli tutta le bellezza del volto è soltanto principiato nella riflessione di questo incontro. Ognuno moltiplicherà i propri percorsi. Qualche tratto conclusivo. Riattingere la propria educabilità è operazione salutare sia come persone, sia come formatrici, perché mediante tale movimento si realizzano cose che altrimenti sfuggi- rebbero. La prima è un fondato stupore, un sorprendente entusia- smo per le grandi potenzialità interiori sì che una decisione appassio- nata costringa a volerne l’attuazione massima per sé e per gli altri, ad ogni costo, e il timore e tremore sia affiancato da una passione smi- surata. Il secondo è la pace che, pur nella rilevazione della faticosi- tà e del rischio, promana per la intravista osmosi tra queste stesse energie, e per il loro sfociare in una sinergia che man mano cresce di apporti e quindi di intensità. E ultimo, perché addentrandosi nel- la propria educabilità, intuita e vissuta come inesauribile mistero, la persona, imboccando il cammino diritto, impatta con il punto del rapporto ontologico del suo essere con l’essere di Dio, e scopre la gioia della dipendenza liberante. LA DIMENSIONE EDUCABILE DELL’UOMO da Postille di filosofia dell'educazione, in "Il Quadrante scolastico", 1995, n. 64, pp. 95‐97. La dimensione educabile dell'uomo è la ragione forte della fi- losofia dell'educazione, la giustificazione del suo esserci. Con il di- re questo si fa una constatazione che pare tutta scontata, ma che in- vece rischia di avere, sovente, lo spessore di un enunciato formale. Forse anche perché l'espressione stessa - dimensione educabile dell'uomo - ha talvolta uno spessore nominale. E' bene invece fare ogni tentativo per dirla, e dirla in modo convincente e concreto. Sappiamo tutti che è cosa specificamente umana. Se più esperti nel settore, sappiamo che può essere detta avvalendosi di diversi lin- guaggi. Ma rimane sempre sfuggente e misteriosa. Essa merita indubbiamente un approccio di seria deduzione, si avvale, per la sua collocazione reale di un serio processo induttivo; resterebbe, però, sistema chiuso qualora non ci si avvalesse di quel- le che si possono definire «opinioni autorevoli». Ed è su quest'ul- timo aspetto che vorrei maggiormente fermare l'attenzione perché solitamente l'attenzione e la riflessione privilegiano i primi due. 131 mento stesso dell'universo, che risulta dall'ordinamento e dalla con- catenazione delle cause, dato che la causa prima, nella sua straordi- naria bontà, dà alle altre realtà non solo di esistere ma anche di essere a loro volta cause» (a.1, c). E la seconda, similmente, statuisce che «tutti gli agenti inferiori non operano che per accidens » (ibidem). Qui non è negata la causalità del maestro, si nega che il sogget- to sia vera causa del proprio sapere. Al «se» può dunque giungere una risposta negativa sia se il do- cere è considerato dalla parte del doctor, sia se lo si considera dalla parte del discipulus. Resta comune la negazione del potere causante dell'una o dell'altra causa prossima in rapporto all'effetto, che è l'ac- quisizione del sapere. Vanno dunque riesaminati i due poteri cau- santi, ognuno in sé e nell'ipotetico intreccio con l'altro. Tommaso impone alla riflessione uno spostamento prospettico. Lumeggiato (esaurientemente altrove e qui soltanto di rimando) il processo di cui si avvale il soggetto per acquisire un particolare rap- porto al reale, il quesito si modifica. Non si tratta più di sapere se si possa causare il sapere in un altro, ma invece se e come ci si possa rapportare al suo processo senza né condizionarlo né snaturarlo, bensì aiutandolo e corroborandolo. Fondamentale è l'acquisizione (su cui si tornerà più avanti) del- la certezza che il sapere è effetto di detto processo del soggetto in rapporto alle cose esistenti. Si tratta dunque di stabilire «se» è possibile causare, in seconda battuta, quel potere causativo di sapere che, in prima battuta (nel passaggio dal nulla all'esserci) è stato originato dalla stessa causa pri- ma; e ravvisare nel potere causativo del soggetto stesso un particolare genere di autonomia, che, per altro, non fenomenicizzi il docere. Non si tratta dunque di un «se» né metodico né convenzionale; piuttosto è un «se» dalla cui soluzione, e primamente da essa, dipendo- no il «se» del docere e le qualità che dovrà possedere il maestro. IL PESO DEL SE da Il Volto dell’educativo in Preoccuparsi dell’educativo, a cura di E. Ducci, Anicia, Roma 2002, pp. 21‐22. Solitamente si scivola su questo primo scoglio per affrontare con dovizia di motivi e di mezzi il come avvenga l'azione educati- va. Ma il come è astratto quando non lo precede il se l'uomo possa e debba essere educato. Si riversa sul se, non primamente sul co- 144 me, l'interesse struggente e sempre insoddisfatto per l'educabilità, realtà felicemente inafferrabile e perennemente indicibile. Qui si avverte l'oscillazione tra attivo o passivo, potenziale potente o po- vero, mistero, enigma o mistero\enigma, libero o necessario, mani- polabile o inviolabile. Trattenersi su questo primo stadio il tempo necessario, al fine di strettire l'ignoranza e l'indifferenza apatica, è azione impopolare ma fruttuosa; connota di serietà il sapere peda- gogico. Quando si pone correttamente il se ci si intranea, di diritto, nelle dinamiche dello spirito incarnato fino a toccare il suo appar- tenere alla trascendenza, e le modalità di siffatto appartenere. A lui rimanda il problema dell'enigmatico inizio del movimento, del co- me il soggetto passa dallo stare al camminare, dal sogno al risve- glio; di come si avvia al diventare autonomo. Eventi questi non im- perabili né controllabili, di valore infinito, degni di stupore. Sulle modalità tutte dell'azione educativa, su tutte le aggettiva- zioni di educazione (intellettuale, morale, estetica, sociale, etc.) pe- serà la posizione o non della domanda capitale, e poi la soluzione ipotizzata; anche però la delicatezza leggera con cui essa viene af- frontata, perché, se è vero che non c'è mediazione nell'aut aut, è anche vero che la distinzione non è precisa ma sfumata. Questo movimento primario del sapere pedagogico rimanda all'intensità ontologica attribuibile a ciò che si definisce causa se- conda, al senso e al valore della persona umana in quanto tale. 9. LE SUE FONTI A tal punto, è utile formulare una domanda: da dove si attin- gono le categorie vitali della filosofia dell’educazione? La risposta è subito detta: dalle fonti. Anzitutto, la filosofia dell’educazione di impostazione duccia- na, non conosce limitazioni di fonti. Là, dove si parla dell’umano, se ne parla in maniera profonda, e i grandi dell’umano sono le fonti della filosofia dell’educazione. Le fonti però bisogna saperle incon- trare, avvicinare e scegliere, certis ingeniis inmorari et innutriri oportet 16. Andare alle sorgenti non è un rito o un agire meccanico. Per scovare una sorgente, anzitutto, ci vuole fiuto; devo muovermi, de- 16 Lo stesso Seneca, a proposito delle fonti in Lettere a Lucilio, I, 2. 145 4. Il mondo vitale della relazionalità L’isolamento non è originario nella persona: è il ri- sultato di una chiusura, il tentato soffocamento di un’energia. La relazionalità, invece, è originaria. È ori- ginaria in tutto il reale. Tutto il reale è nella relazione e per la relazione. È cosa comune ad ogni ente essere in rapporto a, conformato per, in tensione verso, sia per la valutazione quantitativa di sé, sia e maggiormente, per l’emergere e l’identificarsi della qualità che lo di- stingue. Il mondo della relazione è fascinoso e sconfinato. Tale si rivela anche se soltanto si rifletta sulla relazio- nalità visiva, fosse pure limitandosi alla sola percezio- ne del colore e delle possibili infinite sfumature. L’eterogeneità del composto umano (con le sue componenti: fisiche, psichiche e spirituali) irrompe nel mondo della relazionalità con effetti incalcolabili. Il termine “relazionalità-relazione”, nella direzione dell’umano, indica qualcosa di singolarmente inquie- tante, complesso, profondo, inesauribile. Da sempre si  In AA. VV., Isolamento e handicap, Atti del VI Congresso In- ternazionale sull’isolamento, Roma 15-18 ottobre 1998, Phoenix, Ro- ma 1999, pp. 52-62. 69 Edda Ducci indaga, senza esaurirlo, il senso della sua natura e delle sue dinamiche. Il riscontrarne gli effetti, invece, è con- sueto, ma sovente inefficace per l’intervento. Nel pensiero occidentale la riflessione sulla relazio- nalità umana ha preceduto, ed è cosa naturale e logica, quella sull’isolamento. Questa si è dipanata con lentez- za, acquistando man mano sicurezza di analisi e sensi- bilità appropriata, affrontando le molte e molto diversi- ficate forme di violenza che provocano l’isolamento stesso e le sempre troppo impacciate forme di risana- mento. Ovviamente l’isolamento è conoscibile e dici- bile soltanto in rapporto di contrasto con la relazione, come mortificazione, privazione o assenza di essa. La relazione, nella sua apparente normalità e naturalezza, non finisce di stancare l’indagine, e di stupire per la sua complessità e, forse, per il suo mistero. La riflessione sulla relazionalità è una riflessione nata adulta circa talune specifiche potenzialità. Basti pensare alla perfezione del dialogare platonico. Il dia- logare è un momento alto della relazione interpersona- le. Non è circoscrivibile al pur complesso ambito della razionalità, ma si espande a varie potenzialità della persona, tra cui, non ultima, la capacità di sintonizzare e sincronizzare il proprio cammino interiore verso la verità al cammino interiore dell’altro. Così come un indubbio momento alto della relazione interpersonale è l’amicizia che Aristotele indaga a fondo e propone quale vertice della qualità del vivere personale e quale comportamento etico qualificante la politica. La rela- zionalità del singolo, nella valenza interpersonale del dialogo e dell’amicizia, ha trovato ed espresso da subi- to alcuni tratti essenziali del suo essere, senza, per al- tro, chiudere l’indagine o relegarla ai margini. Il pensare ha continuato, nei millenni, il proprio corso avvicinandosi ora più ora meno al vivere quoti- 70 Il mondo vitale della relazionalità diano. Ogni riflessione sulla relazionalità umana non può non attingere dal vivere quotidiano e su lui misu- rare progressi e insuccessi, soprattutto se intende giun- gere con verità e realtà alle speculazioni più alte e uni- versali, e se intende essere guida fidata di un percorso salutare di umanazione. Oggi la riflessione approda a quei pensatori che ve- dono la relazionalità interpersonale (considerata nella forma e nei contenuti, nella realizzazione o nell’in- successo) non come tema marginale da trattare a mo’ di complemento quando si parli dell’umano e dei suoi problemi vitali, ma come tema centrale dal quale di- pendono realizzazioni importanti per il soggetto, solu- zione di aporie e di disagi, efficacia reale circa la quali- tà della convivenza umana e la salvaguardia da subdoli elementi di corruzione. Circoscrivendo il discorso sulla relazionalità umana all’educativo l’analisi prende un andamento più conte- nuto e meno generico, e può avere come punti solidi di fondazione il movimento ampio del dialogismo, della filosofia e pedagogia dell’incontro, della pneumatolo- gia a partire da Kierkegaard e Dostoevskij; soprattutto se si privilegia il reperire indicazioni non limitate alla prassi, ma concernenti sia le ragioni radicali che muo- vono e reggono l’agire, sia le coordinate capaci di con- tenerlo e direzionarlo. In tal modo, per altro, l’attenzione si deve corretta- mente appuntare sull’educatore, o meglio, su chiunque si adopri per secondare l’esprimersi della relazionalità del soggetto con azione diretta o rimuovendo gli osta- coli che ne limitino, ne blocchino l’espressione, pon- gano, cioè, l’altro in una situazione di isolamento. Quasi a mo’ di conseguenza da principi saldi e da rea- lizzazioni personali concrete l’attenzione si sposterà, 71 Edda Ducci poi, naturalmente sul portatore di richieste o di bisogni, sullo stato del suo potenziale e sui probabili ostacoli. La prima chiusura o il primo soffocamento che sembra naturale chiamare in causa, per avvertire tutta l’urgenza di «risolverlo», è proprio quello degli opera- tori. Un’espressione povera o ristretta della relazionali- tà propria, ma prima ancora una conoscenza impropria e parziale che induca ad una valutazione stretta, asfitti- ca e ad una volizione astenica, frenano l’efficacia dell’agire o distorcono le diagnosi. Infatti l’acume con cui si individua lo stato patologico, e la forza con cui si vuole e per cui ci si adopra circa la rimozione degli ostacoli all’espressione della relazionalità nell’altro sono necessariamente proporzionate al senso reale, e alla reale attuazione che la relazionalità ha nell’ope- ratore. Una motivazione non radicata su principi tanto evidenti, e da tutti esperibili, è inficiata di astrattezza, e perde naturalmente di efficacia. Assurdo asserire la re- lazionalità come il bene proprio della persona e non ri- cercarla e volerla primamente per sé. Non si dimentichi che è sul concreto che si effettuano l’aiuto e l’in- tervento. Inoltre, quando il bisogno d’intervento è maggiore e le terapie o tecniche da mettere in atto sono numerose, sofisticate e con parvenza di autosufficienza, a causa di tale deprecabile astrattezza si verificherebbe l’assenza del fattore umano personale proprio là dove si tratta di operazioni squisitamente umane, che si appellano al grumo di umano nell’altro. Con questa attenzione (concreta e vitale) il dire che il senso per l’autoeducazione e per l’educativo potrà e dovrà affiancare tutti gli interventi non può più esser considerato un’affermazione presuntuosa e, forse, scientificamente infondata, ma soltanto un rilievo di estrema naturalità logica. Rappresenterebbe piuttosto 72 Il mondo vitale della relazionalità una contraddizione in termini occuparsi e curare qual- cosa di riguardante specificamente l’umano – come la chiusura o il soffocamento della relazionalità –, avva- lendosi di tanti mezzi ma escludendo la forza del- l’offerta di relazionalità concreta che può giungere all’io in difficoltà o in situazione di chiusura dall’io at- tuato e armoniosamente sviluppato dell’operatore. For- se è qui il segreto per salvaguardarsi dalla parzialità e dall’inefficacia dell’intervento, e dal «professionismo» esasperato perché proprio al soggetto gravato da ogni genere di debolezza urge esser fronteggiato da un io concreto e di chiara identità. Per valorizzare ed esprimere al meglio la relaziona- lità umana è momento primo e fondante il conoscerne la natura e il dinamismo. Imprevedibili sono le igno- ranze e le approssimazioni che possono insidiare la co- noscenza di cotesta realtà. È forse corretto avviare semplicemente alcuni percorsi di riflessione, coscienti che l’approfondimento è inesausto, lo stupore conti- nuo, la fatica non indifferente, e il coinvolgimento in prima persona mai delegabile o eccessivo. Anzitutto “relazionalità” è una parola pesante. È buona cosa inciampare nel suo spessore. Per conoscere la realtà che essa significa è richiesto, come si è detto, il coinvolgimento personale non limitato alla concet- tualizzazione ma espanso a tutta l’interiorità, perché si tratta di cosa che esprime un movimento vitale, e que- sto si apprende con il riviverlo. Parlarne con serietà, volendone una efficace comunicazione, diventa una esercitatio: relazionalità è anzitutto una modalità del nostro essere personale in situazione concreta di con- vivenza. La conoscenza reale della relazionalità (meglio: il senso per la relazionalità), della sua natura propria e dei suoi dinamismi, deve, dunque, logicamente prece- 73 Edda Ducci dere il discorso circa l’isolamento. Senza siffatto punto di riferimento si correrebbe il rischio di descrivere l’isolamento privi di coordinate concrete, coordinate precise e sfumate nella loro essenzialità. Come scopri- re e sollecitare le inspiegate e inspiegabili risorse rela- zionali se non si è sapienti in esse? Il mondo vitale della relazionalità esprime la perfe- zione dell’umano ma anche l’incompiutezza umana. L’analisi assume così un’andatura faticosa e severa, e uno scomodo procedimento circolare. L’incompiutezza dell’umano richiama il bisogno di apertura, di solleci- tazioni adeguate perché le capacità indefinite e infinite siano risvegliate e chiamate, dice, cioè, il vitale biso- gno dell’alterità e dell’alterità appropriata, parla di ne- cessità di incontri qualificati. La perfezione è avvertita come struggente nostalgia di pienezza. Di questi ele- menti si compagina il termine relazionalità in tutta la sua estensione umana. L’alterità che fronteggia e si offre alla relazionalità, e di cui questa ha vero bisogno, è varia, molteplice e composita. Differenti sono anche i percorsi che rendo- no possibile l’attuarsi della relazione, e differenti sono le leggi che regolano questi stessi percorsi. Le compo- nenti dell’umano sono davvero eterogenee ed eteroge- nei sono i partners che pongono la relazionalità in atto. D’altra parte, però, la persona è unitaria nel fondo del suo essere, e tende infaticabile ad una unitarietà sem- pre più totale. Vi è confluenza, osmosi tra le differenti relazioni che si instaurano, ma non interscambiabilità. Le leggi sono ferree. Il mondo sconfinato del possibile relazionarsi con la bellezza e il cosmo: suoni, colori, odori, forme, sapori, figure..., la delicatezza e ricchezza di questo primo campo di relazionalità fa meglio avvertire il pericolo di diventare poveri di ciò che non costa o è di facile ac- 74 Il mondo vitale della relazionalità quisizione, sì che il possibile estendersi di tale isola- mento infici il campo della relazionalità tutta. La per- sona si edifica in una crescita pluridimensionale, equi- librata, armonica, libera da lacune o assenze. Inoltre, l’incontro con il cosmo può, dapprima, avviare e asse- condare l’intenzionalità d’incontro, con movimento na- turale, principiando una dialettica preziosa per l’effettuarsi della relazione interpersonale. Ma la dia- lettica può anche essere capovolta. (Il prima e il poi non ha alcuna valenza cronologica.) L’incontro con l’altro soggetto umano è, qualitati- vamente, altra cosa; risponde ad altro genere di biso- gni, esige specifiche condizioni. A livello di sfera psi- chica, ma ben maggiormente a livello di sfera spiritua- le, la legge par diventare più ferrea. Si ha relazione in atto – e quindi la relazionalità dell’io è risvegliata, chiamata in causa e avviata al soddisfacimento delle sue potenzialità – quando l’io non è in situazione di in- contro generico, bensì d’incontro con l’interiorità dell’altro io. Questo disegno noto e generico della rela- zione interpersonale si articola meglio in due posizioni apparentate. La prima richiama la necessità che l’incontro debba essere non con un generico alter-ego, ma con il tu (Jacobi, Ebner, Buber). La seconda asseri- sce che per l’espressione massima delle potenzialità dell’io s’impone la presenza di una misura a lui supe- riore, assoluta, sì che l’io potrà cogliere appieno la propria valenza e goderne «davanti a Dio» (Kierke- gaard). La ricchezza che la varietà di queste posizioni porta all’analisi non esclude affatto la possibilità di indivi- duare un denominatore comune: l’io esplicita la pro- pria relazionalità (sinonimo di vita e di pienezza di vi- ta) in situazione d’incontro reale con un io diverso da lui, perché soltanto nell’attualità di relazione egli giun- 75 Edda Ducci ge all’identità propria. La professionalità, le meravi- gliose terapie e tecniche non perdono affatto il loro va- lore, ma per la legge della relazionalità svolgono sì funzioni preziose ma non possono svolgere la funzione di risveglio, di chiamata, di attualità di particolare rela- zione tutta e sola qualificante l’io come soggetto. Nell’umano ci sono, dunque, potenzialità che esi- gono una chiamata, connaturata e commisurata, insur- rogabile. E questa esige il vincolo attuale tra l’io e il tu. Si pensi all’amare, al parlare, alla libertà interiore, al sorridere. Queste potenzialità, squisitamente umane, esigono la chiamata dicibile come iniziazione, che il chiamante, cioè, sia uno già, per l’avvenuta iniziazio- ne, in rapporto vitale con la realtà in questione, e quin- di, unicamente per questo, atto a offrire iniziazione nella situazione di io-tu. La persona va iniziata a parla- re, ad amare liberamente, a sorridere. All’occhio basta aver davanti fisicamente il colore, per l’umano non ba- sta la figura fisica o la professionalità della persona: l’io deve essere in presenza del tu. La prima chiamata di coteste potenzialità sarà appropriata se avrà la forza e le movenze dell’iniziazione. Chiamata, iniziazione, prima apertura segnano il risveglio della relazionalità nell’uomo, presuppongono e pongono la relazione at- tuale. La relazionalità è un’energia, quella umana è un fa- scio di energie da esperire e di cui godere. Limitandoci al campo sconfinato dell’impiego di queste energie nelle dinamiche interpersonali si potrebbe parlare di un assumere dall’altro per diventare maggiormente se stessi, di un vivere veramente per sé (dunque crescere e realizzarsi nello statuto relazionale) vivendo per gli altri, (mai utilizzando gli altri!), della cura nel provare e coltivare il bisogno degli altri perseguendo una giusta autonomia relazionata. È la descrizione semplice e 76 Il mondo vitale della relazionalità piana di una realtà su cui il pensare non cessa di scava- re, e ogni singolo non finisce mai di esperirla nel posi- tivo, che giunge fino a diventare meraviglioso, e nel negativo, che arriva presto al doloroso e al tragico. Una conoscenza parziale, impropria, che non sia di- ventata vitale o che ignori le leggi della relazionalità (fino al «senza il tu non esiste l’io») comporta uno spreco dell’umanità propria, e, di conseguenza, un fare a meno della forza appropriata e commisurata nella lot- ta allo spreco o alla mortificazione dell’umano. Si trat- terebbe di un grande disaccordo tra le proprie energie ignorate, e quindi frenate, e l’efficienza di aiuto o di te- rapia. Quasi usare una protesi dove e quando non c’è bisogno, o usare una protesi senza preoccuparsi che si atrofizzi la dimensione che dovrebbe avvalersi della protesi. L’agire vitale, nell’umano, è sempre personalizzato, nel senso che deve essere vivente in chi agisce, vero direzionarsi di energie verso l’altro, energie impiegate per risvegliare le energie simili nell’altro. Coteste energie hanno una natura e un andamento specifico. Palesano la loro valenza e la loro propensio- ne alla sinergia (con le altre energie) quando sono dire- zionate all’altro (alle energie simili dell’altro) in modo diretto. Possono purtroppo ripiegarsi su se stesse, nel tentato assurdo ritorno alla fonte, fino ad accartocciarsi e rimanere soffocate. Questo minimo enunciato, questo scarno disegno delle energie e della loro espressione, può desumere chiavi interpretative e valida sensibilizzazione per una sua lettura corretta dal percorso di riflessione fatto dall’umanità nei suoi momenti alti e nei suoi momenti di stasi. Potrebbe e dovrebbe avvalersi di ogni genere comunicativo, sostare e familiarizzare con i pensatori e gli scrittori più diversificati per tempo e per sistemi di 77 Edda Ducci riferimento. Nella relazionalità, nella sua espressione o nel soffocamento dell’isolamento è davvero in sintesi tutto il mistero umano (soprattutto del dolore umano), di ogni singolo e di ogni convivenza. Nella riflessione oggettivata che si distende nei millenni si accumulano e si assommano diagnosi, analisi, proposte su perfe- zioni e incompiutezze, autonomie e bisogni, gioia e do- lore, progresso e regresso, indicazioni di percorso o al- lertamenti circa strade sbarrate o fuorvianti. Per questo ci si sente sempre ignoranti circa la relazionalità uma- na, e, di fatto, lo si è. Parallelo può ora considerarsi il percorso verso il fondo dell’isolamento, realtà dolorosa e, sovente, mor- tificante per ogni singolo e per ogni generazione. Real- tà soggetta a condizionamenti di ogni genere, frutto di violenze esercitate su ogni parte, importante o piccola, del soggetto. Essa assedia tutti, ma grandeggia in con- dizioni limite sia fisiche, sia psichiche, sia spirituali. Infinite sono le forme di isolamento che il soggetto può soffrire e di cui chiede di essere liberato. Spesso l’isolamento è diagnosticato con ritardi incredibili, spesso non si rivela mai come tale, ma è nascosto da effetti che non sembrano legati a lui. Difficilissimo in- dividuare quello spirituale; delicato il rimuoverlo per- ché in esso è impigliata la libertà. Se è non giusto apprezzamento dell’uomo ogni par- cellizzazione dei suoi “disagi”, e ogni intervento che non tenga conto della tensione all’unitarietà tipica del suo essere, il disagio-malattia che va sotto il nome di isolamento può indurre con facilità al non giusto ap- prezzamento dell’uomo qualora nel diagnosticarlo e curarlo lo si tenga troppo e unicamente collegato con la causa prossima (o presunta tale) del suo esserci. L’isolamento (lo si è più volte affermato) è, per sua natura, negazione o assenza di una positività: l’energia 78 Il mondo vitale della relazionalità relazionale espressa e direzionata. Di conseguenza va rammentato il principio elementare: considerare, cioè, come naturale il movimento inteso ad aumentare lo spazio della relazionalità (anche con il cosmo oltre che con i soggetti) perché si riduca realmente quello dell’isolamento. Ma soprattutto sapere che non si dà uscita dall’isolamento senza l’avviamento alla relazio- ne giusta. Ma per questo la relazionalità del soggetto operatore dovrà affiancare quella del “professionista” per non parcellizzare e incorrere nel non giusto ap- prezzamento dell’altro e delle sue esigenze, espresse o non. È ora bene accennare in concreto al fascio di ener- gie che costituisce la relazionalità umana, anche se do- vrà trattarsi di un accenno rapido. La premessa fatta era però indispensabile. Poteva infatti darsi il caso che di un discorso sulla relazionalità in sé non si avvertisse la necessità e forse neanche l’opportunità. Poteva sem- brare corretto che si passasse oltre slargando il discor- so sull’impiego o lo spreco di dette energie senza fon- darne il rimando unitario. L’ambivalenza fondamentale di detto fascio di energie, cioè il loro essere naturalmente costituite per rivolgersi verso l’alterità, ma tuttavia rivolgibili anche indietro – unicamente verso se stessi con movimento snaturante –, richiede nel soggetto, accanto ad una co- noscenza ricca e invogliante, la forza di motivazione per evitare ogni spreco o manomissione delle proprie energie. Per ogni soggetto, ma soprattutto per chi opera sui soggetti, è necessaria una decisione netta circa la loro direzione: essa lo concerne prima come singolo e poi come professionista o terapeuta; è una decisione da cui dipendono equilibrio e crescita personale: verso l’alterità o nel ripiegamento solipsistico. 79 Edda Ducci La possibile duplicità di direzione delle energie sot- tenderà il rapido cenno che è ora opportuno fare di queste. L’attenzione ad essa consentirà di intravedere gli esiti di sano appagamento del soggetto o di frustra- zione quasi nella filigrana di ogni disegno. È opportuna una precisazione elementare. La rela- zionalità si concreta nell’incontro, lì assume i tratti rea- li. Incontrare è mettersi sul cammino, in direzione giu- sta. La prima giustezza di percorso può individuarsi nella convinzione vitale che ogni soggetto umano pos- siede, per diritto di natura, l’energia relazionale, in po- tenza o in via di attuazione, facilmente espansa o se- riamente impedita. La relazionalità non è cosa da dare al soggetto. Lui la possiede. Ma infinitamente delicato e, talora, doloroso è il risvegliarla, il chiamarla all’atto, il condividerla in pienezza. L’incontro è davvero il senso forte di relazionalità come sinergia. L’incontro è la falsariga appropriata per il disegno delle energie. Tra le energie che compaginano la relazionalità spicca quella che riguarda l’ambito della parola, la pa- rola come manifestazione primaria della relazionalità interpersonale – la parola detta e ricevuta, il dialogo e l’ascolto. Per i pensatori che fanno capo al Neues Denken – un nuovo modo di pensare radicato sulla relazione – le istanze antropologiche, anche quelle più diversificate, concordano su di un sintagma semplice: l’uomo è tale perché ha la parola. L’aver la parola è il riferimento fondante e giustificante tutto il mondo dell’esprimersi relazionale; comprende, infatti, tutti i linguaggi senza eccezione. La parola ha in sé una forza che rivela analogie con il potere creante: incarna a pieno l’energia relazionale e pone in atto l’evento della relazione essenziale, quel- 80 Il mondo vitale della relazionalità la interpersonale, configurandosi come veicolo, come legame qualificante tra l’io e il tu. La parola, però, sprigiona forza quando non è co- stretta nel monologo, né umiliata a strumento di domi- nio o mortificata nel suo essere relazionale, e quando, mediante l’essere espressa, pone l’altro nella situazione reale di interlocutore. La parola è esigente, gelosa della propria funzione, fragile e invincibile nell’impiego. L’aver la parola può essere in una persona realtà oscurata e impedita, ma mai realtà assente o cancellata. La parola si esplicita nel senso concreto di dialogo. In questo il legame tra l’io e il tu esprime pienamente la dinamicità per la con- fluenza di dire e ascoltare. Il dialogare nella sua essenzialità è realtà poco nota. Può indurre in errore una conoscenza approssimativa che lo riduca tutto a strumento terapeutico, a mezzo di persuasione o a metodo didattico. Queste forme parzia- li possono valere per un’apprensione iniziale di detta realtà, ma non conducono al cuore di essa. L’esercizio per entrare nella realtà del dialogare ri- guarda direttamente il vivere, una modalità qualificata di vivere. L’energia contenuta nella propria parola è impiegata per incontrare l’altro nella comune tensione al vero: la verità su se stesso, sul proprio esistere, sul senso dell’uomo in genere, sulle infinite possibilità di gioia e di dolore, di bene e di male, di bello e di me- schino di cui si compaginano le situazioni concrete. Profonda è la distanza tra dialogo vita e dialogo me- todo. Non comporta la scadenza a metodo l’uso parzia- le o limitatissimo imposto da un ostacolo oggettivo. L’ostacolo che inficia inesorabilmente il dialogo è il distacco volutamente operato tra l’espressione dialetti- ca e la fonte di essa, cioè la vitalità della parola. La pa- rola, fatta per essere detta a qualcuno, può subire 81 Edda Ducci un’operazione di ripiegamento e sotto apparenze dia- logiche si possono contrabbandare monologhi sterili, manipolazioni avvilenti o semplici appelli nozionistici. Il dialogo vita è una forza liberante nella sua pro- fonda valenza sinergica, nel suo essere sinergico. Dia- logare è un essere rivolti l’uno verso l’altro, soggetto verso soggetto; presuppone dunque la capacità di vol- tarsi, liberati dai legami, e di voltarsi verso la realtà abbandonate le ombre. Il dialogare porta in sé tutto il mistero dell’ascolto. L’uno è per l’altro occasione dis- sigillante. L’alternativa ultima è tra il rivolgersi reale e il ripiegamento. Simile al percorso della parola è quello della capa- cità di amare (che dice il fondo ineffabile dell’io pro- teso al tu), della libertà concretamente attuata (che so- stanzia l’interiorità nella forma risentita dell’identità mediante l’altro), della scansione del tempo (enigmati- ca possibilità di sincronia tra due tempi interiori). Il ri- piegamento di una di queste energie condiziona il ri- piegamento delle altre, così come (felicemente!) l’a- pertura opera il medesimo condizionamento. Qui si impone, però, il rilevamento di una situazione più ri- marcabile: la chiusa egoistica e l’utilizzo. Due forze violente, due handicap etico-spirituali che portano alle forme più esasperate e subdole d’isolamento. Il mondo della relazione, in genere, è indubbiamen- te scosso ad ogni livello del macro e del microcosmo, ma, ancora una volta, quello della specifica relazionali- tà umana (l’implicazione di io-tu) è scosso con forza immane e tutta mascherata. Forse è l’assillo di giungere a far sì che l’io non ab- bia più bisogno del tu, a trovare surrogati soddisfacenti per un io di cui si è ribassato il prezzo, surrogati piani- ficabili e padroneggiabili, perché il soggetto umano – 82 Il mondo vitale della relazionalità forte della parola, della libertà e della capacità di ama- re – non lo è. L’insidia al mondo vitale della relazionalità umana segna, forse, la più tragica svolta epocale. 83 5. L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare Sul titolo che mi è stato affidato – L’accompagna- mento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare – un titolo bello, pensato con molto amore, faccio una breve precisazione, quasi un accordo fra noi, per sape- re qual è il percorso che faremo insieme. Accompa- gnamento evoca il camminare insieme, forse, però, ag- giungerei che accompagnamento è il seguire attiva- mente una crescita; inoltre metterei a fuoco educativo, un termine sempre molto complesso: sembra di com- prenderlo subito poi ci si accorge che evoca qualcosa di problematico. Evoca, anzitutto, una certa asimmetri- cità: c’è qualcuno che conduce e c’è qualcuno che è condotto, che è accompagnato. Vorrei, però, riandare al senso forte della prima formulazione fatta dai greci, dove il verbo παιδεύω vuol dire soprattutto nutrire, al- levare; quindi educativo, sotto questo angolo visuale, precisa che il nostro argomento, l’accom-pagnamento educativo, è un camminare insieme e un nutrire, quindi  In AA. VV., Se seguirai la tua stella... Liberi e coraggiosi per discernere e perseverare, Pontificia Università S. Tommaso D’A- quino in Urbe, Istituto “Mater Ecclesiae”, Roma 2006, pp. 65-76. 85 Edda Ducci un percorso e una crescita. Credo che questo sia il sen- so forte inteso da chi ha strutturato il titolo. Diciamoci subito che la pluralità di sensi di educativo ha sempre costretto a una riflessione molto attenta quelli che si sono occupati del problema, e se ne sono occupati pic- coli e grandi, se ne sono occupati i grandi, ma anche i ripetitori, quelli che ci sono più a portata di mano, per- ché il problema di accompagnare l’essere umano nella realizzazione di sé è un problema che non può non in- quietare tutti: da lui dipende la qualità del nostro vive- re insieme. Tra piccoli e grandi, ho scelto i grandi pensatori e ne ho scelti tre. Siccome qui c’è qualcuno che è stato mio alunno, penseranno che il primo non potesse non essere Platone, cioè senza Platone è impossibile parlare dell’educativo. Ed è così. Il secondo è Epitteto, altret- tanto forte in questo contesto. Il terzo è Dante che, ve- dremo, offre spunti originalissimi. Credo che questi tre autori (ma non sono i soli) sia- no insuperabili per due motivi: il primo è che riescono a individuare e a dire nella maniera appropriata, nella maniera più consona i perenni dinamismi dell’umano. Di tanto in tanto ci sembra di scoprire qualcosa circa i dinamismi dell’umano, se, però, ci confrontiamo con le intuizioni del passato, vediamo che la novità è relativa. Il secondo è la modalità efficace con cui presentano i rapporti interpersonali. Siccome si parla di accompa- gnamento educativo, sapere come può avvenire il rap- porto interpersonale ha un valore forte. Riflettiamo, dunque, su alcune istanze offerte da questi tre auctores. Sono pensatori di alta genialità, hanno qualcosa di forte e di vivo, il loro dire è come l’unghiata del leone: è un’unghiata che arriva in pro- fondità, e non la si può confondere con le unghiate piccole. 86 L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare Cominciamo a vedere cosa ci suggerisce Platone per un accompagnamento educativo, per un accompa- gnamento che dica percorso e dica crescita: due ele- menti indispensabili. Mi avvalgo di un testo, che tutti conoscete, per il percorso che vogliamo fare insieme: il VII libro della Repubblica, che ritengo il testo fondamentale per la paideia. Mi fermo sul verbo ἀναγκάζω: l’educatore, anzitutto, deve sapere che il soggetto si avvia e perse- vera nel percorso se qualcuno lo costringe. Si tratta di uno dei verbi più inquietanti, c’è il pericolo di fermarsi alla prima sensazione che può dare questo verbo, cioè qualcosa di estrinseco, qualcosa di forzato; invece va riscoperta la necessarietà che il verbo ἀναγκάζω con- tiene. Il movimento iniziale lo possiamo vedere in questo modo: fare avvertire al soggetto una vera necessarietà interiore. Non è, dunque, un movimento estrinseco che venga da fuori, è anzi un render possibile il movimento interiore, è provocare l’avvio, far sì che il soggetto av- verta tutto il bisogno di attivare dinamismi che lo por- tino ad essere quell’io che può e che, dunque, deve es- sere. È un movimento che si radica su un bisogno, for- se il bisogno per eccellenza, quello di diventare quell’io che possiamo e quindi dobbiamo essere, è render possibile un salto di qualità nel vivere: non è più un vivere piatto, comincia ad essere un vivere qua- lificato, un dirigersi verso l’alto. Seguono poi quattro verbi indicanti i quattro dina- mismi che il costringere attiva. Ritengo che non siano mai stati superati in un discorso educativo; essi sono: alzarsi, cioè passare da una posizione statica a una po- sizione di movimento, girarsi, forse il più importante perché pare che si sia voltati dalla parte sbagliata e quindi non riusciamo a orientarci, incamminarsi, cioè 87 Edda Ducci non rimanere fermi, e alzare lo sguardo, compiere cioè il movimento più significativo. Inoltre, quello che sollecita fortemente in questo te- sto è che il costringere non va fatto una volta per tutte, va ripetuto, va tenuto presente ogni qualvolta una si- tuazione porta al soggetto gravezza, smarrimento, do- lore, perché il soggetto potrebbe essere indotto a fer- marsi, a disattivarsi, forse a tornare come era prima. Quindi l’autentico senso di accompagnamento consiste nel non indicare qualcosa di parziale: deve portare il soggetto al movimento totale compaginato dai quattro verbi. Non è difficile illustrare il testo platonico, tanto bello e denso, ma la domanda che impone è una do- manda intensa: quali forze deve possedere l’educatore per avere la capacità di costringere? Non si chiede quale tecnica deve possedere, perché la tecnica si fa presto ad acquisirla, e di tecniche ce ne possono essere tante, c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. La tecnica serve ma è secondaria, è qualcosa che può anche essere sostituita. La forza, invece, l’energia misteriosa che deve avere chi accompagna è quella di attivare il mo- vimento del soggetto, costringere nel modo detto, scansata la pericolosità di costringere nell’accezione di forzare da fuori. Non costa fatica forzare da fuori, per- suadere, condizionare, rendere dipendente. Allora, pe- rò, non parlo più di accompagnamento. L’accompagnamento esige che sprizzi l’energia del soggetto verso la propria realizzazione. Questa forza da dove viene all’educatore? Gli viene dall’aver fatto e dal continuare a fare i quattro movi- menti, essi devono essere vissuti dall’educatore, deve conoscerli per esperienza personale continuata. Deve conoscere per esperienza personale, e quindi per espe- rienza vitale, questi quattro movimenti, ma deve anche sapere, sempre per averlo esperito non per averlo de- 88 L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare dotto logicamente, dove essi portano: voltarsi verso dove? Incamminarsi verso che cosa? Alzare lo sguardo da quale parte? L’indicazione di Platone ci porta ad approfondire in maniera elementare l’accompagnamento; è una indica- zione sobria, ma è un’indicazione essenziale. Il riflet- terci sopra ci fa scoprire tanti aspetti da curare, da ap- profondire. L’averci indicato questo tipo di costringi- mento e questi quattro movimenti è, secondo me, insuperabile. Il verbo παιδεύω, da cui παιδεία, evoca il nutrire: non è soltanto fare insieme il percorso, ma nutrire. Sempre Platone, nel Protagora, formula la famosa domanda: di che si nutre l’anima? E risponde: di insegnamenti, cioè di conoscenze metabolizzate dall’educatore, di verità che sono particolarmente assimilabili e quindi metabo- lizzabili da parte del soggetto, tali da diventare un suo modo di pensare e di valutare. Il titolo mi costringe a insegnamenti ben precisi, cioè il coraggio e la forza di perseverare. Prendo, dun- que, insegnamenti, nutrimenti non in generale (che sa- rebbe pure una cosa bella, perché l’accompagnamento richiede un po’ tutto), ma già direzionati verso il co- raggio. Ancora una volta mi rifaccio alla Repubblica, ma ora al IV libro. Quando Platone affronta questo problema, per camminare, per crescere ci vuole il co- raggio, lo considera subito dall’angolatura giusta: ri- muovere la paura. La paura impedisce di camminare, di crescere e soprattutto impedisce l’atteggiamento giusto per assimilare le verità. Bisogna rimuovere la paura, e le paure son sempre tante. Contemporanea- mente alla paura, però, va rimossa l’ignoranza e l’incapacità valutativa. Mi pare che in questo modo Platone, da grande educatore, in grazia, forse, di tutto quel costringimento che Socrate aveva operato su di 89 Edda Ducci lui, ci porta ad un insegnamento molto evidente: sape- re, cioè essere convinti quali sono le cose da temere e quali sono le cose da non temere. Il coraggio non è un’iniziativa sporadica, non è un piccolo esercizio, perché, come ci dirà Aristotele “una rondine non fa primavera”, ci vuole una formazione mentale, un con- vincimento completamente assimilato, la chiarezza cir- ca le cose da temere, perché arrecano danno, e circa le cose da non temere, perché anche se sembrano pauro- se, non arrecano danno. Cotesto insegnamento, che ri- tengo molto nutriente per l’anima, prevede una cosa essenziale: un lungo sostare sulla positività e l’invo- gliamento del reale, perché per poter decidere quali so- no le cose che recano danno e quelle che non recano danno, temere le une e non temere le altre, ci vuole un vero radicamento nel positivo. Platone prende le mosse dal bello, perché per lui il bello sicuramente porta con sé il bene e il vero verso cui muoversi. Il bello ha un elemento in più per attrar- re. Siccome si tratta, in certi momenti, di non temere cose che invece apparentemente sono molto temibili, ci vuole un’attrazione completa della persona, sì che tutta la persona si muova. Platone, però, esige un qualcosa di molto importante: del bello, del bene, del vero non basta avere un’idea striminzita, o un’idea che non ab- bia niente di attraente. Qui si tratta dell’invogliamento. Non soltanto devo mostrare la positività del coraggio, deve grandeggiare la bellezza di esser liberi dalla pau- ra, cosa fondamentale per la libertà interiore e per la li- bertà esteriore: ci vuole un nutrimento molto robusto circa il positivo. Nel nostro quotidiano si presentano, per lo più, situazioni dai nomi un po’ meschini: la per- dita del buon apprezzamento degli altri e di famosità forse usurpate, di minuscoli successi e insuccessi. In- dubbiamente sono tutte cose da non temere, ma per 90 L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare non temerle devo avere una supernutrizione circa il po- sitivo. Questo tanto più se si presentano anche situa- zioni limite. In questo nostro tempo, focalizzare il bel- lo è molto significativo, perché ci siamo un po’ dimen- ticati di cos’è il bello, oppure l’abbiamo ridotto a quella formula veramente ridicola “bello è quello che piace”, e sembra che per tanti la nozione di bello si fermi proprio lì. Questo, naturalmente, non nutre, anzi sfalda anche quel poco che ci si illude di avere. Possiamo dire che il vero coraggio è una mentalità valutativa circa la realtà e soprattutto circa la qualità, la bellezza del vivere, è un aver stabilito cosa è da temere e cosa è da non temere avendo chiarito a sé il problema della qualità del proprio vivere, e soprattutto del vivere relazionato, perché il temere e il non temere mi porta nel cuore della convivenza. Nutrirci in modo da posse- dere un coraggio liberante. Il secondo insegnamento lo prendo dalle Diatribe di Epitteto che, sicuramente, tutti conoscete, per cui mi limito a piccoli cenni. Nelle pagine di Epitteto ritorna sempre, dal primo capitolo del I Libro fino in fondo, la famosa espressio- ne ben nota: distinguere “cosa dipende da noi” e “cosa non dipende da noi”. Questa istanza di Epitteto è fon- damentale per l’accompagnamento educativo. Epitteto induce il suo ascoltatore a discernere prima di tutto ciò che nella vita dipende da noi da ciò che nella nostra vi- ta non dipende da noi. Sarebbe bello esemplificare, questo sarebbe un ottimo esercizio per noi stessi prima che per aiutare gli altri. In tutto il raggio del nostro agi- re, del nostro essere, cosa dipende da noi e cosa non dipende da noi? L’elenco può essere molto lungo da tutte e due le parti e il discernimento prezioso. Di nuo- vo ci diremo che l’educatore, per aiutare il soggetto a discernere ciò che dipende da lui e ciò che non dipende 91 Edda Ducci da lui, deve aver avuto per il suo vivere questo discer- nimento, e deve continuarlo. È un prezioso discerni- mento che deve diventare fattivo: perché quando avrò individuato cosa dipende da me e cosa non dipende da me, sarò in grado di direzionare gli sforzi e i desideri, di evitare lo spreco di energie per realizzare quello che non dipende da me e invece impiegarle tutte per realiz- zare quello che dipende da me. Indubbiamente è im- portante avere una certa chiarezza (una chiarezza fon- damentale non ce l’avremo mai) sì da dare il senso all’agire. Inoltre questo può aiutarci a non rimanere condizionati dagli eventi. Gli eventi che si presentano sono sempre impastati di ciò che dipende da me e di ciò che non dipende da me, e il discernimento viene ad essere basilare, fondamentale, altrimenti rischierei di sprecare energie e forse di sprecare la vita. E la valuta- zione è fatta in base a quell’io che abbiamo deciso di essere, cioè valuto in base a quell’io che ho deciso di essere, alla qualità di quell’io che ho deciso di essere; in base a questo stabilisco i settori di appartenenza. La decisione sull’impegnarmi o non si rafforzerà nelle si- tuazioni vissute e nelle situazioni vissute in sinergia con l’educatore. Nell’accompagnamento questo è un momento vitale; all’inizio va riproposto situazione per situazione. L’educatore deve aver fatto tanta strada in questa direzione, altrimenti come fa a riconoscere ciò che dipende e ciò che non dipende? Sappiamo bene che le cose si presentano a volte in maniera mistificata e ci sembra che basterebbe uno sforzo in più e poi di- penderebbe da me, quando invece effettivamente non dipende da me; forse perché quel risultato ci attrae, ci appassiona, ci coinvolge, vorremmo che dipendesse da noi; oppure ci sentiamo moralisticamente precettati: “forse dovrei usare più impegno”. Epitteto andrebbe più frequentato perché è un maestro incredibile. In- 92 L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare dubbiamente bisogna imparare a leggerlo, infatti, a prima vista, può risultare ostico, ripetitivo e troppo asi- stematico. Il suo dire, però, è sempre concreto, efficace e rende guardinghi nell’impiego delle preziose energie interiori. Il terzo è Dante. Questo può meravigliare, ma per l’ultimo elemento del tema, per il perseverare va trova- ta un’intuizione non comune. Per questo mi appello a Dante, sia per la genialità delle intuizioni sia per l’impareggiabile perfezione nel dire (cosa quanto mai preziosa e rara). Dante ha intuito e ha detto in maniera insuperata il segreto per perseverare nonostante tutto, nonostante le situazioni più avverse, nonostante le si- tuazioni più tragiche. Lo rammento prima in prosa (poi ognuno assolverà il compito di leggere e rileggere il testo): bisogna trovare il punto vivo di una forza mo- vente direzionata, allora si persevera, perché è un pun- to vivo, non è un ragionamento, un concetto, una com- prensione, è un punto vivo, ed è il punto vivo di una forza movente; per dirlo in bellissimi termini danteschi è l’aver individuato la propria Beatrice, che per noi si può chiamare in qualsiasi modo, ma deve avere la stes- sa forza, la stessa vitalità. Virgilio ci dice concretamente i due compiti che ha l’educatore e come li deve assolvere. Lui li assolve davvero bene. Prima di tutto deve aiutare il soggetto a individuare realiter la sua Beatrice, la forza movente che lo terrà fermo su quel percorso, su quella crescita. La seconda cosa che deve fare, e che fa Virgilio da gran maestro, è il tenerla viva e presente nei momenti aspri, e opportu- namente richiamare questa presenza viva, perché sol- tanto attraverso questa presenza viva c’è l’energia per perseverare. In questa posizione dantesca, raffinatissi- ma, c’è tutto, tutto quello che ci è stato detto, a comin- 93 Edda Ducci ciare da Aristotele, sulla centralità del piacere: senza il piacere non c’è la perseveranza neanche nel bene. Qui, poi, c’è anche la dimensione del bello, così importante, perché, come abbiamo visto, tutta la persona è attratta. Siamo nel XXVII del Purgatorio, ci sono i lussurio- si e le fiamme dei lussuriosi, e Dante deve attraversare questo muro di fuoco per poter proseguire. Indubbia- mente è il perseverare in un momento limite. Virgilio prova in tanti modi a rimuovere la paura che Dante ha di quel fuoco, un fuoco veramente tremendo (e Dante ce lo dirà in modo bello): questo fuoco sarà un tormen- to, ma non la morte, e anche se Dante ci stesse dentro mille anni non gli brucerebbe neanche un capello: se tu pensi che io t’inganni, prendi la tua veste, mettila vici- no e vedrai che non si brucia. Ha provato in tutti i mo- di, c’è rimasto l’ultimo tentativo: … “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro” (vv 35-36) Penso che non si potesse dire in maniera più conci- sa e bellissima questo che è il momento duro della per- severanza. Dante dice che la sua durezza si fa “solla”, che ormai si è addolcita, ed è scomparsa la sua paura: al di là di quel fuoco c’è Beatrice e allora quel fuoco non fa più paura. Dante entra coraggiosamente, e ri- corderete la metafora bella: è un fuoco talmente forte, e questo ci rimarca la pericolosità di quest’ostacolo a continuare il cammino, che se lui avesse potuto im- mergersi in un “bogliente vetro”, (allora forse doveva essere la temperatura più alta che realizzavano) gli sa- rebbe sembrato di rinfrescarsi. Ma ripensiamo all’atteggiamento bello di Virgilio educatore, cioè accompagnatore: per confortarlo anda- va ragionando di Beatrice: 94 L’accompagnamento educativo. Il coraggio e la forza di perseverare … “Li occhi suoi già veder parmi” (v 54) Questa attualità incredibile è il modo più bello per pre- sentare la forza movente direzionata, viva, reale, affa- scinante. Come educatori dobbiamo aiutare il soggetto a individuarla, perché ci si può sbagliare, può essere una forza che non è viva o che non è adatta a noi. Concludo sintetizzando la mia riflessione così: l’accompagnamento educativo (a questo educativo cer- chiamo di dare tutta la forza), è un vivere in sinergia, con l’altro: accompagno nella misura in cui condivido la vita con l’altro, non semplicemente opero una prassi, un’attività. Accompagno attivando le mie energie e la- sciandole trapelare, non le impongo, non le millanto (e forse questo è il grande segreto dell’educatore). Accanto a questo agire personale una metodologia sensata: uno studio serio e severo dei grandi; le vere realtà dell’umano bisogna attingerle da loro; i ripetitori ci danno, per lo più, i surrogati di un nutrimento. Cer- tamente bisogna imparare a leggerli, non lesinare sulle riletture e esercitarsi nel ruminare. Non ultimo, l’esercizio personale, costante della ri- mozione della paura, e il saper godere a pieno l’esperienza impagabile della viva forza movente ben direzionata. 95 1. Il rapporto io-tu nella persuasione La cognizione piena del rapporto io-tu è anzitutto un atto di libertà e di responsabilità. Se la possibilità e il significato di questo rapporto pongono, in diversi settori della speculazione, un interrogativo preciso, il valore da attribuire al rapporto stesso esige da ognuno un ripensamento cosciente. L’analisi filosofica, psicologica, sociologica e teo- logica di questi ultimi decenni palesa la complessità di elementi e la puralità di livelli della realtà quotidiana e apparentemente semplice che è il rapporto interuma- no1. La vastità della produzione su questo argomento rende guardinghi nel riproporlo, sia pure su scala ridot- ta; la complessità del problema rende attenti nel circo- scrivere il punto su cui indirizzare l’indagine; non però dissuadono dal tentativo di approfondire anche un solo  In «Pedagogia e Vita», XXX, 6 (1971), pp. 639-644. (Le note che seguiranno sono dell’autrice). 1 Un’analisi ampia e profonda è operata dal M. THEUNISSEN in Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Berlin, Walter de Gruyter, 1965, se pure con criteri che fan risultare a volte forzata l’intepretazione data agli autori menzionati, e con una dialettica che non sempre evita il pericolo dello schematismo. Cf. TH. DE BOER, Fi- losofie van de intersubjectiviteit, in: «Algemen Nederlands tijdschrif. Vooz wjsbe geerte en psjchologie», 1968, pp. 101-112. 21 Edda Ducci aspetto di una realtà che, in quanto esistenti, ci condi- ziona e ci fa responsabili. Indagare il rapporto io-tu nel momento della per- suasione consente di inscriverlo in un contesto di esi- stenza e in una relazione qualificata; inoltre offre l’opportunità di tratteggiare la direzione che l’analisi stessa deve assumere per l’oggetto specifico che af- fronta. La persuasione è oggi l’avvenimento che rende in- quieti e ansiosi per l’aprirsi delle strade prima non spe- rate all’av-viarsi del rapporto umano, e per la perfezio- ne e l’estensione delle dinamiche e delle tecniche per- suasive. Per questo motivo immediato e per una ragione in- trinseca la dinamica della persuasione può essere as- sunta quale campo privilegiato dove il rapporto io-tu si manifesta con tonalità decise e con direzione netta. L’azione eprsuasiva, infatti, superato il momento im- maginativo e conoscitivo può incunearsi con vigore e in maniera definitiva nella dinamica della decisione, cioè a dire nel massimo di profondità del rapporto tra due soggetti, perché nel suo momento più verola per- suasione diventa possibilità di inserimento di un libero volere nel volere dell’altro al fine di imprimergli una direzione ed una intensità specifica nei diversi settori del rapportarsi umano (religioso, sociale, politico, eco- nomico) o nella dialettica interna dell’io. È chiaro che con ciò il termine persuasione è assun- to in una precisa accezzione2; d’altra parte la costata- zione dell’estensione, delle componenti, dei livelli e 2 Per l’uso retorico del persuadere (πείθω) e delle sue componenti – docere, delectare, movere – cfr. H. LAUSBERG, Handbuch der Lite- rarischen Rhetorik, München, Max Hueber Verlag, 1960, §§ 256-257. 22 Il rapporto io-tu nella persuasione delle tecniche del fenomeno eprsuasione costringe, quando il discorso vuol diventare essenziale, a sceglie- re l’accezione ritenuta più forte e comprensiva rispetto al fine proposto. La persuasione è pertanto considerata in funzione dell’agire e non del semplice conoscere e sapere; è esaminata nel suo tendere alla decisione; è vi- sta nel mistero della parola, ma è seguita nel suo insi- nuarsi nel movimento interiore del soggetto, così che il rapporto io-tu, inscritto in essa, è ricondotto agli ele- menti fondamentali. Questa limitazione di campo non scarta i molti an- goli visuali (retorico, psicologico, sociologico, etc.) che può assumere la riflessione, ma porta l’analisi a monte rispetto ad essi. Per conservare all’indagine un contesto esistenziale può essere valido riferirsi a due situazioni emblemati- che descritte, in maniera plastica, in testi celebri; essi offrono, per il loro valore metastorico e atemporale, una traccia alla riflessione sulle opposte possibilità del rapporto io-tu nella persuasione. Sono: GORGIA, En- comio di Elena, 8-14, e PLATONE, Gorgia, 523-5273. La scelta di questi testi è motivata, oltre che dall’acutezza nell’indagare il problema umano di sem- pre, dalla presenza in essi di quelli che sembrano esse- re gli elementi essenziali del rapporto. Il testo di Gorgia pare anticipare analisi odierne in- dirizzate sia al problema dell’esistenza e della cono- scenza dell’altro, sia al rapporto tra l’io e il tu; analisi ineccepibili per la perfezione tecnica, ma sovente tenu- 3 La cautela che si impone nella utilizzazione di questi passi per una tematica, sotto certi aspetti, moderna e non semplicemente riduci- bile a schemi del passato esige un’analisi rigorosa non solo della ter- minologia antica, ma dei sintagmi e dei rispettivi contesti storico- letterari. 23 Edda Ducci te sul piano della pura oggettività, nella esclusione pra- tica di qualsiasi riferimento valutativo e nella riduzione all’esserci. La pagina platonica è sottesa dalla convinzione vis- suta della inoggettivabilità e, vorrei dire, della sacralità del tu, effetto dell’acquisita coscienza del valore dell’io; e la incommensurabilità del rapporto è fondata sul ri- mando ad un parametro assoluto. La sofferta consape- volezza del valore del proprio io – l’assoluta inoggetti- vabilità – impone di conoscere e avvicinare

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