Filosofia della Medicina e Bioetica PDF
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Giulia Bartoletti
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This document is lecture notes on Philosophy of Medicine and Bioethics from a university course. The notes discuss introductory concepts and different perspectives on disease. The course covers topics like the definition of diseases, differing viewpoints between naturalism and moral philosophy, and the difference between disease (objectifiable), illness (subjective feelings), and sickness (social aspects/consequences).
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Sbobinatrice: Giulia Bartoletti Revisionatore: Jacopo Galli Filosofia della medicina (Elisabetta Lalumera)...
Sbobinatrice: Giulia Bartoletti Revisionatore: Jacopo Galli Filosofia della medicina (Elisabetta Lalumera) Lezione#1 21/10/24 Argomento: introduzione e concetti di malattia Introduzione al corso Il corso si compone di 3 moduli: il primo è filosofia della medicina, che si occupa dei concetti fondamentali, mentre gli altri due moduli sono di bioetica. Questa è un’immagine che David Foster Wallace, un romanziere americano, rispondendo alla domanda “A cosa servono le materie umanistiche?”, mostrò: ci sono due pesci che nuotano, arriva un pesce più anziano che chiede agli altri due: “Com’è l’acqua oggi?”. I due pesci continuano a nuotare e dopo un po’ uno dice: “Ma cos’è l’acqua?”. Il senso di questa storia è che le materie umanistiche possono servire a farci rendere conto dei concetti, delle pratiche e dei sistemi di pensiero in cui noi siamo immersi, proprio come i pesci nell’acqua, per eventualmente analizzarli anche in senso critico. In questa lezione si parla del concetto di malattia, nella seconda dei concetti di salute, nella terza di evidenza e nella quarta dell’intreccio tra medicina, società e valori: sulla malattia si andrà a problematizzare questo concetto e ad analizzarlo; sull’evidenza si andrà ad analizzare il concetto inteso come prova di una tesi su cui si fa ricerca, cosa vuol dire che uno studio fornisce delle prove per un’ipotesi; sui valori si andrà a capirne il ruolo nella ricerca. Questo è un corso elettivo, non valutato con un voto ma solo con un’idoneità, da ottenere in tutti e tre i moduli. La modalità d’esame è un colloquio che ha come testo il contenuto delle slide. Per eventuali approfondimenti personali si possono usare gli articoli e i testi caricati su Virtuale. Che cos’è la filosofia della medicina? La filosofia della scienza studia i problemi concettuali e metodologici delle scienze, cioè i problemi filosofici. Questa è nata circa nel 1940 come disciplina indipendente e ha una serie di domande che vengono rivolte alle scienze in generale: cos’è una teoria scientifica? Le teorie scientifiche sono vere o sono utili? Cosa significa spiegare nella scienza? La filosofia della medicina è una specializzazione della filosofia della scienza che non si occupa più delle scienze in generale, ma prende in esame ciò che equivale all’acqua dei pesci dell’esempio precedente ed è distinta dalla bioetica; cos’è giusto fare, come agire, ecc. Un problema è filosofico quando non si può spiegare in modo esaustivo con strumenti empirici (esperimento, indagine, sondaggio) e stimola opinioni molteplici. Ad esempio: cos’è la vita? Cos’è il dolore? Quello nell’immagine è l’esperimento del trolley: ci sono due persone sul ponte e altre cinque legate al binario. Se non si spinge una persona giù dal ponte, il treno ucciderà le altre cinque sul binario, se si spinge giù invece il treno ne ucciderà solo una. Cosa è giusto fare? Questo è un dilemma etico-filosofico: da un certo punto di vista è preferibile il male minore rispetto a quello peggiore, quindi il sacrificio di una persona rispetto alla morte di cinque persone. Questo punto di vista è quello utilitarista o consequenzialista, in cui la giustizia di un atto dipende dalle sue conseguenze; l’altro punto di vista è la propria etica del dovere secondo cui non si può essere responsabili della morte di una persona, qualunque siano le conseguenze, in quanto è più importante il principio etico da seguire. Questo è un problema filosofico perché è inutile risolverlo chiedendo alla maggior parte della gente che cosa farebbe, in quanto a noi interessano le ragioni per cui una risposta può avere senso e un’altra no. Non c’è una risposta corretta ma ci sono solo delle argomentazioni per ogni punto di vista. Esempio: episodio di cronaca in cui una ragazza, Shanti de Corte, era scampata all’attentato di Bruxelles e dopo qualche anno decide di non volere più vivere ed essendo in Olanda, venne autorizzata l’eutanasia (suicidio assistito). Questo è un problema etico perché a parità di evidenze (cioè conoscenze) si può argomentare per l’una o per l’altra soluzione, ma senza trovare un accordo. Esempio dolore: in medicina si misura il dolore in tante situazioni, ma questo per essere misurato deve prima essere definito. Prima questo era definito come una sensazione emotiva e sensoriale associata ad un danno attuale o potenziale dei tessuti, era quindi una sensazione spiacevole che corrisponde a qualcosa dentro il corpo. Successivamente viene ridefinito il dolore come una sensazione spiacevole associata o che assomiglia a quella associata ad un danno attuale o potenziale del corpo: questo cambiamento serve a comprendere tutti i casi di dolore atipico e aspecifico, cioè in cui il paziente non riesce a descrivere dove prova dolore. Questo fa sì che si possano prendere in carico persone con malattie che non hanno una base organica molto chiara, rendendo la terapia del dolore più inclusiva. Questo è un problema filosofico e non bioetico, è un problema di decisione medica. Quindi, la filosofia della medicina fa vedere i concetti fondamentali e le metodologie della medicina da una prospettiva esterna diversa rispondendo ad alcune domande, la cui risposta non è basata sull’evidenza. Ci sono molti problemi filosofici in medicina: nella ricerca preclinica e clinica, nella diagnosi, nel rapporto medico- paziente, nella comunicazione scientifica e sanitaria. Che cos’è una malattia? Questa è una condizione non normale rispetto alla fisiologia. Le malattie vengono catalogate nelle nosologie, un esempio è l’ICD-11, rilasciato nel 2022, è la classificazione internazionale delle malattie (International Classification of Disease) e serve ad uniformare i protocolli di ricerca e la comunicazione non spiegando nulla, ma solo descrivendo le malattie, essendo utile ad individuare le cause di morte. Un altro esempio è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ed essendo sempre aggiornato, contiene tutti i disturbi conosciuti. Alcune condizioni erano ritenuti disturbi e ora non lo sono più, altre entrano a far parte del manuale per considerare più casi possibili, anche quelli tralasciati in passato. Esiste anche un’altra nosologia, la classificazione dei tumori del WHO (cioè l’OMS, che si occupa di salute pubblica a livello mondiale) basata sull’origine, il tipo di tessuto, il grado, lo stadio. Chiedersi “Quando una condizione è una malattia?” È importante perché se una certa condizione è una malattia, ha conseguenze sulla ricerca, sulle policy sanitarie, sul modo in cui le persone percepiscono la loro esperienza e su come la società considera questa condizione. Quindi a seconda del concetto di malattia che abbiamo, alcune condizioni diventano malattie e altre no. Esempio: se si considera il concetto di fiore del botanico, questo ha a che fare con lo sviluppo della pianta; quindi, se si chiedono a lui dei fiori, può portare un mazzo di carciofi, perché secondo il suo concetto sono sempre fiori. Di solito però si vogliono delle rose o dei tulipani perché si usa un altro concetto di fiore, perciò a seconda del concetto che si considera, un’azione o l’altra sono corrette. Tornando alla definizione di malattia data all’inizio (condizione non normale rispetto alla fisiologia), se una persona ha 4 denti in più si trova in una condizione non normale rispetto alla fisiologia, però questa non è una malattia. Con questo esempio la prima definizione non sarebbe corretta. Anche l’omosessualità fino agli anni 80 era considerata una malattia, come un disturbo mentale dello sviluppo sessuale; dopo alcuni anni i medici si chiedevano come depatologizzare l’omosessualità e lo fecero cambiando il concetto di malattia. Prima il disturbo mentale era una disfunzione dello sviluppo cognitivo, emotivo e affettivo, dopo invece, questo viene associato ad una disfunzione ma anche ad un danno per la persona e l’omosessualità non viene più considerata tale. Quando una condizione diventa una malattia, la sofferenza del paziente viene validata e riconosciuta. Esempio: la pedofilia finché non è agita, è considerata disturbo mentale, quando è agita diventa reato, ma la distanza tra l’aspetto legale e quello patologico è molto sottile; in questi casi è molto difficile tracciare una linea tra il crimine e il disturbo (come per la piromania). La malattia ha 3 aspetti: - Disease: è la condizione del corpo di cui si occupa il medico, accessibile oggettivamente e misurabile - Illness: è come si sente la persona, quindi il senso di disagio, sofferenza, debolezza, che corrisponde o non corrisponde ad una malattia - Sickness: è il correlato sociale della malattia, il considerare o meno una condizione come malattia Però non tutte le illness sono deisease, non tutte le disease sono sickness; quindi, non è sempre vero che questi aspetti combaciano. Per esempio, nella nostra società la gravidanza non è una malattia però dà un senso di sofferenza (sickness). Il medico si occupa soprattutto della disease, studiandone gli aspetti oggettivi, ma in parte anche della illness. Queste nozioni sono importanti perché permettono di capire che la malattia ha anche un aspetto interiore e soggettivo, che è irriducibile agli altri. Nei casi più semplici, se c’è una malattia, c’è anche una illness e il paziente ha dei diritti (cioè delle forme di tutela) e dei doveri. Dal punto di vista filosofico ci sono due posizioni sul concetto di malattia: - Naturalismo: la definizione di malattia può essere espresso in termini di fatti e non occorre nessun giudizio di valore - Normativismo: per distinguere malattie da non malattie è necessario fare ricorso a valori Un fatto può essere vero o falso, è la descrizione di un dato così come si presenta (es. definizione di libertà); un valore è un giudizio che viene da principi o intuizioni morali pratiche, si basa su una valutazione personale (es. la libertà è un bene). Non si possono derivare i valori dai fatti, quello che si apprende con l’esperienza sono dei fatti e l’uomo con la sua morale può dare valore a questi fatti. Esempio: la completa maturazione della fragola rappresenta uno stadio tra tanti, ha una certa composizione e un certo colore e quando è matura significa che è buona per noi A volte si è in disaccordo sui valori, nonostante sono state svolte tutte le esperienze e tutte le valutazioni del caso, che però sono tutte diverse. Per esempio, si può essere d’accordo oppure no sull’invio di armi in Ucraina, nonostante siano stati analizzati gli stessi fatti. Se entrambe le parti sostengono due valori diversi, ci sarà comunque un disaccordo che non si riesce a risolvere. In medicina ci sono tanti di questi problemi di valore, che sorgono sulla scienza ma che non si possono eliminare semplicemente facendo dell’altra scienza, perché sono a livello di principi e non di dati. Esempio: i LEA sono i livelli essenziali di assistenza, cioè i servizi sanitari che lo Stato propone e tutte le regioni li hanno. Si può essere in disaccordo sui servizi proposti, sul valore di ISEE al di sotto del quale sono gratuite, perciò essere in disaccordo sui valori. In questa vignetta c’è un’illusione ottica: si possono vedere 3 o 4 bastoncini. Questi due signori non hanno la possibilità di mettersi d’accordo perché uno lo vede da una parte e l’altro dall’altra. Però esiste una razionalizzazione del disaccordo sui valori, mentre non esiste quando si parla di gusti: le emozioni e i gusti sono importanti ma non sono tutto quello che serve per capire il disaccordo sui valori, anche se a volte quando si discute di questioni etiche le emozioni possono manifestarsi però deve esserci sempre il modo di dare motivazioni e ragioni di una scelta valoriale. In filosofia esistono: - Concetti descrittivi: sono quelli in cui non si esprime nessun giudizio sul concetto e ci si basa solo su fatti - Concetti normativi/valutativi: sono quelli in cui si esprime anche una valutazione, questi concetti non sono basati solo sui fatti, ma anche sui valori e interessi Persona sana o malata: si descrive un fatto o un valore? Il Naturalismo afferma che il concetto di malattia è privo di valori, si può avere tutto ciò che serve basandosi solo sui fatti. Se si deve decidere cosa è malattia e cosa no dentro ad una nosologia, bisogna semplicemente fare della scienza. Il Normativismo afferma che il concetto di malattia costitutivamente valutativo, sono valori e norme che determinano quali condizioni sono malattie; infatti, descrizione e valutazione non sono separabili. Si usa anche un’idea naturalista di malattia: la malattia è uno stato interno in cui la normale capacità funzionale è deteriorata, in cui cioè una o più funzioni organiche operano a un livello al di sotto dell’efficienza tipica oppure in cui la capacità funzionale è ridotta a causa di agenti ambientali. Per esempio, si portano gli occhiali perché l’occhio funziona ad un livello al di sotto dell’efficienza tipica. Esempio: la fenilchetonuria è una condizione in cui c’è un enzima che non è prodotto in maniera sufficiente; perciò, la fenilalanina accumulandosi nel corpo diventa tossica, causando difficoltà cognitive. Risulta che la malattia è causata da un funzionamento sotto soglia di un organo. La funzione di una specifica parte del corpo è il contributo che quella parte dà al funzionamento generale del corpo e quando c’è una sotto funzione, subentra la malattia. Questo grafico rappresenta la malattia dell’ipercolesterolemia: si presenta quando si è molto fuori norma, cioè quando si è oltre il valore considerato normale. L’idea di malattia che è stata descritta è estendibile ad altre specie animali e vegetali ed è compatibile con la misurazione perché si può capire quale parte del corpo misura sotto soglia. La normalità statistica va messa su classi di riferimento, indicizzate ad età, sesso, etnia: ciò che è normale per una persona di 50 anni, non lo è per una persona di 20. Esempio: tutti gli uomini di 98 anni hanno una presenza di cellule maligne nei polmoni, secondo questa definizione si dovrebbe dire che il tumore non è una malattia perché diventa una condizione statisticamente normale. Questo esempio però solleva due problemi: - Dimostra che non basta la normalità statistica per definire una malattia perché ci potrebbero essere malattie universali che sono condizioni di normalità per alcune fasce d’età (come la carie nei bambini). - Problema della soglia: dov’è che esattamente si mette il valore soglia? Non è chiaro il fatto che ci sia una differenza netta tra i punti di questa distribuzione. Perché le persone che presentano un certo valore sono malate e le altre no? Sicuramente bisogna misurare delle soglie perché quando si parla di malattia, devono esserci dei confini netti per misurare e fare diagnosi: le soglie di un parametro vengono posizionate in modo abbastanza arbitrario con la necessità di trattare e curare una persona. Esempio: la soglia dell’infertilità è cambiata molto nel tempo, adesso una donna può essere curata fino a 47 anni. Quindi la malattia non è l’anormalità statistica ma bisogna aggiungere qualcosa di più perché ci sono state condizioni che si vorrebbero chiamare malattie, ma che hanno proprio tutti (esempio: carie) e perché la soglia di normalità non è sempre facile da capire senza mettere in gioco interessi, valori, precauzioni. Georges Canguilhem elabora questa idea: possiamo arrivare davvero alla normalità guardando semplicemente la fisiologia degli organi? Secondo lui una variazione statistica non si può già chiamare malattia, l’anomalia non è malattia ma è solo una variazione biologica (esempio: persone con sei dita, con denti soprannumerari) o un tipo di configurazione meno adattabile; infatti, nella malattia c’è “pathos”, cioè sofferenza o qualcosa che non va. Sull’emofiliaco lui dice che è semplicemente meno adattabile, gli altri possono adattarsi a qualsiasi ambiente, ma lui deve essere protetto: è l’ambiente che lo rende malato, non è la sua anormalità e lui si trova in una situazione meno adattabile a tutti gli ambienti. La sua idea è che un’anomalia si trasforma in malattia quando non è adattabile, quando è una condizione che non permette alla persona di funzionare nell’ambiente in cui si trova. La frontiera tra il normale e il patologico ha a che fare con l’essere adatti ad un certo ambiente, essere capaci di, essere in grado di e tutto questo non è puramente oggettivo ma è valoriale e normativo. Questo è un concetto normativista: la malattia è un processo che provoca uno stato di disagio, sofferenza o disabilità; si parte dallo svantaggio della persona e poi si valuta la condizione che lo provoca. Teorie normativiste: Si prendano come esempio le erbacce, cioè piante che danno fastidio alle coltivazioni e sono svantaggiose per l’uomo, analogamente la malattia è uno stato fisico indesiderabile, che reca danno e che ci rende meno adattabili alla nostra vita. Esempio: essere una persona nera negli anni 50 provocava un danno, un ostacolo ma per noi non è una malattia. Il problema delle teorie normativiste è che togliendo la parte fisiologica e la parte eziopatologica alla malattia, non si riesce a distinguere la sfortuna di trovarsi in una società che non accoglie quel tipo di corpo e la malattia vera e propria. Nel 1851 Dr. Cartwright trattò una malattia mentale, la drapetomania, che spinge le persone di colore a scappare dalle piantagioni di cotone sostenendo che se queste persone fossero state trattate con gentilezza, se avessero ricevuto da mangiare e dei vestiti, sarebbero guarite da questa malattia. Questa è una situazione svantaggiosa per gli schiavi di colore, quindi è una malattia. Qual è il concetto di malattia che usiamo oggi? La malattia si riferisce ad una deviazione da un fenotipo normale e questa si presenta al medico tramite un paziente che ha dei sintomi; qui c’è sia l’idea statistica (deviazione dal fenotipo normale) ma anche l’idea di uno stato di disagio e sofferenza (i sintomi). Questa definizione considera anche il sistema valoriale e il giudizio personale su ciò che è giusto poter fare. Ci troviamo di fronte ad un naturalismo critico che considera come malattie quegli stati più o meno divergenti dal fenotipo, che però causano danno a chi ne soffre. Sbobinatrice: Chiara Garoia Revisore: Lorenzo Pretolani Filosofia della medicina (Elisabetta Lalumera) Lezione #02 22/10/2024 Argomento: concetti di malattia e di salute CONCETTI DI MALATTIA Posizioni intermedie: il naturalismo critico Si parte dall’idea che una patologia è una variazione di presentazione fenotipica “normale” che parte dai sintomi e dalle sofferenze del paziente. Quindi non tutte le anomalie sono definite “patologiche” ma il “patologico” è qualcosa che poi viene validato da un riscontro clinico, dal fatto che qualcuno o qualcosa dice che questa anomalia ha anche un danno. Il concetto di malattia ha sia una parte descrittiva, quindi in termini di media, variazione rispetto alla classe di riferimento, ma ha anche delle considerazioni di tipo valutativo. Questo tipo di variazione è meglio non averla: o perché porta a una sopravvivenza minore perché magari è causa di problemi alle funzioni vitali dell’organismo o perché provoca sofferenza. Per esempio, il fatto che una donna non sia fertile dopo i 45 anni non fa né diminuire la sua capacità in prospettiva di sopravvivenza né la sopravvivenza della specie però fa soffrire nella società e per questo l’infertilità è considerata condizione patologica coperta dal servizio sanitario nazionale. Si può ammettere che il problema della soglia nella definizione delle patologie necessita di giudizi di valore, ma si può notare che si tratta di una discussione interna alla scienza medica. Per questo, il ruolo delle società scientifiche, consensus conferences e discussioni tra pari è centrale nella ricerca contemporanea in medicina. Quindi: non è vero che non si può fare scienza del patologico, come conclude Canguilhem, bensì bisogna ammettere che nella scienza del patologico intervengono considerazioni di valutazione del rischio e delle conseguenze etico-pratiche, non nella definizione di malattia, ma nel delimitare l’estensione del concetto in casi particolari. Abbiamo, dunque, una situazione di naturalismo critico. Un esempio molto centrale è quello dell’obesità. Disease e valori: naturalismo critico L'obesità L'obesità per l’OMS (organizzazione mondiale della salute) è una malattia, non è un fattore di rischio bensì qualcosa che è causa di morte, correlata a molte altre patologie. Questa idea si è sviluppata intorno al 2015-2016 a partire dalla società scientifica americana che si occupa delle vie metaboliche. L'obesità è stata medicalizzata (una condizione si medicalizza quando la si incorpora nel dominio della medicina). L’obesità è in aumento in tutti i Paesi, anche in quelli che una volta venivano chiamati “in via di sviluppo”, e tra le cause c’è anche la crescita della media della popolazione (molte persone anziane soffrono di obesità). In generale, l’obesità è definita dall’OMS un’epidemia, quindi qualcosa di cui preoccuparsi veramente. Però, c’è anche un discorso che è stato fatto sulla questione che, quando una condizione come l’obesità migra dall’essere una caratteristica o un fattore di rischio e diventa malattia, c’è il problema della stigmatizzazione. Essere malati può, infatti, sia significare che è possibile chiedere protezione e cura, sia implicare una diversità. La stigmatizzazione è un processo, studiato in psicologia, che si sviluppa in vari stadi: innanzitutto si attribuiscono delle caratteristiche negative ad un certo gruppo di persone, poi questa idea si rafforza, si rafforza l’identità collettiva e si aggiungono altre qualità negative. Successivamente si distanzia questo gruppo e lo si percepisce distante fino ad arrivare all’ultimo stadio: l’esclusione dalle attività. La persona che appartiene al gruppo stigmatizzato, inoltre, può (e frequentemente lo fa) autostisgmatizzarsi, cioè interiorizza le caratteristiche negative che vengono proiettate sul gruppo e le autorealizza. Ci sono malattie di cui le persone affette se ne vergognano: o perché hanno a che fare con abitudini di cui queste persone sentono di doversi vergognare o perché la società le prende in questo modo. Molti disturbi mentali sono stigmatizzanti: non si è davvero capaci di parlarne con tanta leggerezza come l’insorgenza di episodi psicotici o di comportamenti bipolari. Dunque, una malattia può essere stigmatizzante. C’è una linea di pensiero, gli obesity studies, questi lavori anche di sociologia o movimenti come il Fat Pride dicono che in realtà l’obesità è un modo di essere, un modo di vivere, è semplicemente un corpo diverso; quindi, non vogliono la stigmatizzazione ma l’orgoglio della condizione. Mentre gli Stati Uniti sono d’accordo che l’obesità sia considerata una malattia metabolica, la società europea si discosta da questa idea e la rifiuta appellandosi al fatto che la misurazione dell’obesità non è perfetta. La misurazione dell’obesità, infatti, avviene tramite l’indicatore BMI (Body Mass Index) che tiene conto solo della massa e non dello stato di salute vero e proprio (per esempio una persona può avere un BMI alto ma avere molta massa muscolare ed essere dunque in forma). Per questo motivo per la società europea continua ad essere solo un fattore di rischio proprio poiché i confini non sono poi così netti. La tendenza generale, comunque, è quella di considerare l’obesità come una malattia e non come un fattore di rischio per altre malattie anche se non tutti sono d’accordo; questo mostra come temi quali l’obesità siano ancora oggi molto controversi. La medicalizzazione e le “malattie controverse” La medicalizzazione è la conversione di una condizione in malattia. Un gruppo di persone può avere un vantaggio se la propria condizione è medicalizzata, come le persone che hanno una dipendenza. Per esempio, se la dipendenza da gaming viene medicalizzata, allora viene riconosciuta come malattia e quindi per questo comportamento c’è ricerca, c’è una parziale possibilità di cura e magari l’individuo affetto riesce ad avere qualche protezione o esenzione. Quindi la medicalizzazione può avere dei lati positivi, negativi e perfino essere impropria: a volte quando si legge di medicalizzazione in contesti non medici spesso si usa questa parola per dire quando la medicina esagera e si prende dentro parte della vita che non dovrebbero essere medicalizzate. La medicalizzazione impropria si accompagna a rischi di etichettature inutili, trattamenti peggiorativi, disturbi iatrogenici e sprechi economici, nonché al costo-opportunità che deriva dal fatto che vengono tolte risorse al trattamento e alla prevenzione di malattie più gravi. In un senso più psicologico, essa può alimentare ossessioni malsane rispetto alla malattia, rendere oscure o confuse le spiegazioni politiche o sociologiche dei problemi di salute e suscitare un interesse eccessivo per le soluzioni farmacologiche, individualizzate, o privatizzate. Una critica, infatti, che viene spesso fatta in questo contesto è: ci sono le aziende farmaceutiche, le mitiche Big Pharma, che per vendere l’ennesimo prodotto “inventano” una nuova malattia, medicalizzano una condizione che può essere l’ansia di parlare in pubblico, il desiderio femminile ipoattivo oppure tutte quelle situazioni un po’ al limite. Il desiderio femminile di ipoattivo si trova nei manuali di disturbi mentali ed è un caso di medicalizzazione impropria poiché, in parte, causato da un prodotto farmacologico delle Big Pharma. Ecco come è nato: qualche decennio fa ha cominciato ad essere molto diffuso il Viagra, farmaco che aiuta i problemi di disfunzione rettile per gli uomini e, da qui, si è creato un mercato di farmaci che aiutano la vita sessuale anche delle persone più anziane. Allora è sorta una critica: perché non si trova anche una molecola che aiuta le donne in menopausa ad avere desiderio e funzionalità fino a qualsiasi età con un piccolo aiuto farmacologico chiamato Flibanserin. In concomitanza con l’uscita del farmaco è nato quindi questo nuovo disturbo, che non è di tipo organico o ormonale ma mentale. (In realtà ci sono anche discussioni che fanno vedere che ci può essere un vero bisogno percepito, che ci sono associazioni di pazienti che l’hanno richiesto, perciò la situazione non è così semplice e non si può considerare in assoluto medicalizzazione impropria.) Disease e valori: pro e contro la medicalizzazione In caso di incertezza sull’evidenza disponibile, si ragiona su vantaggi e svantaggi etici e pratici del considerare una certa condizione come malattia. Vantaggi: ci sono più risorse e più ricerca, c’è una garanzia di validità migliore dei trattamenti e la presa in carico da parte del sistema sanitario. Infatti, per i sistemi non universalistici, come quello USA, bisogna avere un codice, una diagnosi per entrare in un percorso di cura perché l’assicurazione copre solo alcuni codici (in base al pacchetto di assicurazione che si ha vengono coperti più o meno codici). Le malattie vengono quindi codificate e se il codice non rientra nell’assicurazione non si viene curati. In Italia non c’è l’obbligatorietà della diagnosi per entrare in un percorso di cura però, se qualcosa è malattia o no resta rilevante (ad esempio l’infertilità o tutte quelle condizioni che prima non erano medicalizzate ed oggi lo sono come i disturbi dell’apprendimento). Svantaggi: possibile stigmatizzazione o medicalizzazione impropria. In particolare, per quanto riguarda l’obesità: oggi ci sono medicinali molto discussi che le persone usano contro l’obesità come l’Ozempic e simili. Il fatto di considerarla malattia ha dunque permesso di convogliare risorse di ricerca e di assistenza per le persone obese. Ci sono ancora, però, molte voci, dal punto di vista etico e bioetico, contrarie, che pensano che considerare l’obesità una malattia ghettizzerà ancora di più le persone obese portandole a situazioni di esclusione sociale. Sentirsi malati quindi potrebbe portare a questo effetto di auto esclusione sociale. Nell’articolo sopra riportato, Peter Singer, un filosofo utilitarista, si chiede perché, in un mondo in cui si deve distribuire le risorse mondiali in modo equo e fare stare bene più persone possibili, bisogna dare più risorse gratuite alle persone obese. Per esempio, perché sull’aereo una persona di 50 kg con un bagaglio un po’ più pesante rispetto ai limiti deve pagare e una persona che pesa 110 kg non paga nulla? In un mondo in cui le risorse dovrebbero essere distribuite equanimemente, la persona obesa sta consumando più risorse mediche, ambientali, energetiche. Gli utilitaristi come Singer, infatti, sono coloro che optano sempre per il maggior bene possibile e quindi per il minore male possibile anche a costo di fare un’azione che al momento sembra moralmente sbagliata, per ottenere il bene massimo. Quella che perseguono è un’etica consequenzialista è un’etica delle conseguenze delle azioni morali e non della responsabilità di quest’ultime. Il suo ragionamento è molto forte e tende a colpevolizzare la persona obesa. Il punto importante del suo discorso è che presuppone che l’obesità sia una responsabilità della persona obesa. Tornando all’esempio precedente: come tutti sono responsabili di avere una valigia piccola quando si sale sull’aereo, così la persona obesa ha la responsabilità della sua condizione. L'obiezione che si può fare a questo punto di vista, e che in parte è risolto se l’obesità è considerata come malattia, è che questa non è una condizione di cui si è responsabili. Un altro effetto del concetto di malattia, infatti, è che, quando si ritiene qualcuno malato, si toglie un po’ di responsabilità a quella persona: la malattia toglie la colpa. La responsabilità dello stile di vita rimane ma non quella della malattia. Per esempio, se una persona non finisce un lavoro o fa un danno sul lavoro perché si sente male non ha nessuna responsabilità; oppure, in contesti legali, alcune patologie e alcuni stati di malattia sono scusanti, decolpevolizzano. Domanda: ragionando su questo, il fatto che viene definita malattia l’obesità, non presuppone poi il rischio di andare incontro ad un'autogiustificazione da parte del malato obeso, che si scrolla di ogni responsabilità non provando ad uscire da questa condizione patologica? Risposta: da questo punto di vista l’argomento obesità è un terreno molto infuocato. A inizio anni 2000 si facevano molte campagne di salute pubblica contro l’obesità volte a far suscitare paure e un senso di colpa alle persone per indurle ad avere uno stile di vita più corretto dal punto di vista alimentare e del movimento. Lo stato di malattia in parte deresponsabilizza, toglie la colpa e un po’ li responsabilizza: è un equilibrio molto sottile. Oggi si vede sempre di più che l’obesità è definita in molti contesti scientifici come una malattia, però, a livello sociale e sociologico c’è ancora molta discussione e alcune parti della comunità scientifica non sono completamente d’accordo. Domanda: se si classifica l’obesità come fattore di rischio e non come malattia, dal punto di vista sociale non si rischia che il sistema sanitario nazionale non offra delle cure anche alle persone che appartengono alle classi sociali meno abbienti? In molti Paesi dove la sanità è pubblica non vengono garantite per fattori di rischio le risorse ai pazienti; quindi, non ci dovrebbe essere una terza via? Risposta: esattamente. Se non si considera l’obesità come malattia non si dà il farmaco antiobesità se costa troppo a tutti coloro che ne avrebbero bisogno. Se è semplicemente un fattore di rischio come tanti altri, allora la copertura dei sistemi sanitari non arriva a coprire tutte le spese. La malattia garantisce la copertura sanitaria, protezione dalla colpa ma dall’altro lato può dare un po’ di stigma e un atteggiamento meno responsabile da parte delle persone. Avere un equilibrio è difficile, equilibrio che cambia a seconda delle condizioni. Per quanto riguarda l’obesità, la tendenza è sempre più verso la medicalizzazione. Infatti, nei grandi numeri, un BMI alto è condizione di obesità e quindi una condizione clinicamente rilevante. Altre “malattie controverse” La fibromialgia: c’è una bellissima storia di come la comunità delle pazienti è riuscita a far entrare questa condizione fra le malattie. In concomitanza con il cambiamento del modo in cui si misura il dolore, sono entrate a far parte delle vere malattie anche condizioni come questa. Prima era considerata una semplice condizione che colpiva soprattutto la popolazione femminile che si manifestava in stati di ansia e “disturbi funzionali”. Un altro caso interessante è quello del Long-Covid. Durante la pandemia nel 2021 su Twitter ha cominciato a formarsi una comunità di persone che si raccontavano i sintomi post guarigione. Quindi, dopo che l’infezione non era più presente, le persone continuavano a manifestare e riportarsi una serie di sintomi, di problemi che riguardavano debolezza muscolare, fatica, insonnia, problemi olfattivi, aritmie. Questa questione è diventata numericamente importante ed è adesso quasi tranquillo che si arrivi ad una diagnosi indipendente; quindi, il Long- Covid è considerato una malattia. Molte malattie lasciano postumi (per esempio una polmonite aggressiva può anche lasciare segni post guarigione visibili attraverso una radiografia) ma sono solo condizioni associate alla fine della malattia (non esiste la post polmonite). Invece nel caso del Covid è stato deciso che poteva avere senso classificare i postumi come una malattia anche per dare una protezione sanitaria a persone che dopo aver avuto il Covid uno, due o tre volte non riuscivano, per esempio, a lavorare come prima. Questo articolo mostra la discussione sui vari criteri diagnostici possibili per identificare il Long-Covid. Disturbo da accumulo (disposofobia): chi ne soffre sono perlopiù persone anziane che non riescono a liberarsi degli oggetti che accumulano; quindi, hanno ambienti stipati, come stanze stipate di giornali, di oggetti in cui non ci si riesce a muovere creando perciò situazioni anche pericolose. Ecco un caso emblematico: negli Stati Uniti negli anni 30 due fratelli, entrambi affetti da questo disturbo, vivevano chiusi in un grande appartamento a New York e ad un certo punto il pavimento è crollato per l’accumulo di carte e libri che quei signori avevano per decenni accumulato. Questo disturbo è, dunque, mentale ed è stato difficile farlo entrare nella gnoseologia psichiatrica perché non si capiva bene se potesse essere una variante del disturbo ossessivo compulsivo. Quello che in realtà ha dato grande spunto ed enfasi alla vita della malattia è stato che tante persone, soprattutto i familiari di chi ne era affetto, hanno lamentato questa condizione sollecitando la ricerca e così, dal 2005, la disposofobia è considerata una malattia. Informazioni riguardanti gli esami Le date in cui sarà possibile dare l’esame saranno programmate per inizio gennaio, fine gennaio e fine febbraio. Inoltre, a metà dicembre ci sarà un pre-appello che non potrà essere registrato subito su Alma Esami ma sarà convalidato iscrivendosi a quello di gennaio. La modalità è quella del colloquio orale che verte sui tre moduli svolti: in particolare saranno fatte 2/3 domande per ogni modulo. CONCETTI DI SALUTE Concetti di salute e benessere e le scienze del benessere Mentre il concetto generale di malattia in medicina e nella ricerca non è operazionalizzato e non corrisponde a nessuna misurazione, il concetto di salute e benessere sono associati a misurazioni e test. Ci sono tanti modi per definire, concepire e operazionalizzare la salute e il benessere. Ogni anno a giugno esce la classifica del Paese più felice del mondo e di solito al primo posto ci sono Paesi nordici come la Finlandia. Per stilare questa classifica ci sono degli indicatori formali che misurano il benessere del Paese, tra cui la soddisfazione delle persone, quanto si sentono sicure, la disponibilità dei servizi sociali ecc. Questa variabile si è cominciata a misurarla in economia negli anni 90 perché in fondo è utile sapere che cos’è il benessere di una popolazione o di un gruppo e non è sempre ovvio che coincida con il PIL o con il grado di ricchezza. Come scrive uno degli economisti che hanno iniziato nelle scienze del benessere in economia: un Paese potrebbe avere un momento di grande ricchezza perché ci sono molti funerali. Quindi ricchezza e benessere sono due concetti differenti. Negli anni 90, dunque, si è iniziato a misurare il benessere in tante scienze quali l’economia e la psicologia per capire tutti gli aspetti della vita delle persone che hanno a che fare con la loro soddisfazione e con le condizioni positive della loro vita. Anche in medicina si misura sempre di più la salute e il benessere. Per esempio, in un trial clinico che riguarda il tumore al seno metastatico si misurano due modalità diagnostiche, si vede qual è la più efficace e quella più accurata ma ci si chiede anche qual è quella che fa stare meglio le persone. Un altro caso è la sperimentazione di un farmaco contro il mal di testa che per il trial che lo ha scoperto ha molta più efficacia rispetto agli altri ma ha un costo troppo elevato in termini di sonnolenza quindi le persone sono scontente, non sono felici e il benessere diminuisce. Quindi, oggi, in tutti i trial e in tutti gli studi che valutano l’efficacia dei trattamenti medici (diagnostica, medicine, chirurgia, fisioterapia) si misura anche il benessere. Una ricerca recente, fatta dal sociologo e professore dell’Università di Bologna Ivo Quaranta, ha fatto vedere che a seconda dei quartieri in cui uno vive la salute di alcuni è migliore di quella di altri. La sua idea è quella che la salute è correlata non all’aria che si respira ma a fattori socioeconomici. Quindi, la salute è misurabile. La babele della salute Nel 2022 un articolo di review (articolo che riassume sistematicamente tanti studi sul tema) fa vedere che se si guardano tanti studi pubblicati dal 2009 al 2020 c’è una grande confusione su come si misura la salute: ci sono tante misurazioni diverse e diverse interpretazioni da parte di professionista sanitario e persona in cura. Ecco quanto riportato: «Sulla base della varietà di concetti di salute provenienti da prospettive diverse, concludiamo che per ogni prospettiva e persino per ogni individuo, la salute può avere un significato diverso. Pertanto, sembra impossibile scegliere o definire un concetto di salute adatto a tutti i contesti. Tuttavia, nell’interazione tra operatori e consumatori di assistenza sanitaria (e anche nella politica sanitaria) è importante che il significato di «salute» sia chiaro a tutti gli attori coinvolti, per evitare malintesi» Quindi ci sono tanti diversi concetti di salute. Salute minimale La salute minimale si riferisce alla salute come assenza di malattia. È un concetto negativo perché viene definita la salute in termini di un qualcosa che non c’è, ovvero la malattia. Marcello Malpighi, scienziato morto a fine Seicento, cercava di capire come funzionasse la circolazione nel sangue e con un microscopio arrivò a vedere come erano fatti gli alveoli dei polmoni e a capire vagamente come funzionava la respirazione (gli mancava poco per arrivare a capire che negli alveoli avviene anche l’ossigenazione del sangue). Lo scienziato tagliava a pezzetti le rane, animali e tutto quello che poteva essergli utile per capire come erano fatti gli organi; era un precursore della patologia. A partire da questi studi sul corpo la medicina ha capito che la sofferenza delle persone era legata a condizioni specifiche del corpo. Il patologo, dunque, è colui che sa qual è lo standard e che vede se tutto è nella norma, è in grado di analizzare tessuti, organi e profilo molecolare per fare questo. Questo concetto triste di salute come assenza di malattia fa parte delle fondazioni della medicina moderna. “si può fondare la medicina conoscendo il modo meccanico in cui opera la natura quando non è impedita”. Salute è quindi quando la natura opera senza impedimenti. Altra citazione del medico francese Leriche: “la salute è la vita nel silenzio degli organi”, perché la salute non dà nessuna sensazione, il corpo si sente quando fa male. Primo paragrafo di un testo di anatomia e fisiologia del 2014 «Il corpo umano è come una macchina altamente tecnica e sofisticata. Funziona come un’entità unica, ma è composto da una serie di sistemi che lavorano in modo interdipendente. Ogni sistema è associato a una funzione specifica che è normalmente essenziale per la salute dell’individuo. Se un sistema si guasta, le conseguenze possono estendersi agli altri e possono ridurre notevolmente la capacità di dell’organismo di funzionare normalmente. Il funzionamento integrato dei sistemi corporei garantisce la sopravvivenza» Che cosa permette di fare un concetto così restrittivo di salute? Permette di distinguere la salute dall’enhancement, il potenziamento estetico. Per esempio, per avere una base per decidere che fare la rinoplastica per bellezza è un problema solo estetico, invece alcune rinoplastiche sono un problema funzionale, allora si sta usando un concetto di salute come assenza di malattia. La salute, inoltre, non è necessariamente legata a sofferenza o disagio. Questo concetto da un lato dà molto potere alla medicina perché è il medico, la visita medica e la scienza medica che decidono se si è o non si è in salute però delimita anche: la medicina si occupa solo delle malattie e tutto il resto no. La medicina non si occupa sono delle anomalie, di quello che viene fuori dall’autopsia quando si è morti o dai test di laboratorio o di imaging. Si occupa anche di questioni che hanno a che fare con il dolore con cui non si capisce la causa, il disagio che si può avere per delle condizioni sistemiche, digestive, funzionali e quindi quello del clinico è un concetto più ampio: malattia non è solo disfunzione ma è anche danno e sofferenza alla persona. Modello biomedico della cura e modello biopsicosociale Il modello biomedico della cura è l’idea che il focus della cura, della ricerca e dell’assistenza sia sul togliere le malattie, sul cercare di eliminare o prevenire le malattie. Alcuni affermano che è un modello riduzionista. Il modello biomedico si occupa per esempio di trovare farmaci, cure e prevenzione per le malattie. Non si occupa delle condizioni ambientali e non si occupa necessariamente delle condizioni psicologiche (di questo se ne occupa il modello biopsicosociale). Ha il focus sulle cause biologiche e fisiche delle malattie, sugli interventi farmacologici e chirurgici. Questo modello è affine all’idea della salute come assenza di malattia. In un modello biomedico dell’obesità ci si occupa di trovare dei farmaci per l’obesità e di capire come vengono tollerati, si cerca di capire dei modelli ormonali e genetici. Non si occupa, per esempio, di cosa mangiano le persone, dei loro orari, del tipo di legislazione alimentare che c’è nel Paese in cui vivono. I fattori ambientali e psicologici influiscono ma non costituiscono l’esito clinico. Il modello biopsicosociale, invece, è un modello della malattia e della salute in cui i fattori bio, psico e sociali hanno lo stesso peso e quindi per spiegare una condizione patologica come l’obesità si usa non soltanto il modello metabolico, genetico e ormonale, ma anche per esempio, dove abita la persona, se ci sono dei parchi pubblici, cosa mangia, quante ore di lavoro ha e le variabili psicologiche. Il modello biopsicosociale è un modello della cura e della sanità che integra insieme anche fattori sociali e psicologici. Il problema è che è difficile integrarli: è molto più facile, infatti, fare esperimenti controllati sui corpi che fare esperimenti controllati su variabili come l’ambiente o la psicologia. Il modello biomedico della cura può avere dei vantaggi anche se dà l’impressione di essere vecchio e stantìo. Per esempio, se si vuole misurare la salute dei quartieri di Bologna bisogna misurare l’incidenza di casi di diabete, di malattie cardiovascolari, accessi al pronto soccorso e disturbi mentali diagnosticati. In questo caso la salute è intesa come assenza di malattia poiché permette di fare delle misurazioni abbastanza semplici sulla salute delle popolazioni. Quando si devono fare lavori molto importanti di medicina sociale o di salute pubblica per far vedere, per esempio, che la salute correla con la disoccupazione o con l’istruzione o con la parità di genere, si misura spesso l’incidenza le malattie, quindi si misura la salute negativamente. Le disuguaglianze di salute sono disuguaglianze di assenza di malattia. Il modello ICF per misurare la disabilità In parte la disabilità si definisce a partire dall’assenza di malattia. Secondo l’ICF (International Classification of Function in Disability and Health), la disabilità si definisce in base a quanto il problema causato dalla malattia (impairment) interagisce con l’ambiente in cui la persona disabile è. questo dà un grado di disabilità. Una persona può avere un altissimo grado di malattia e un bassissimo grado di disabilità. Per esempio, al giorno d’oggi molte persone con disabilità di tipo motorio se si trovano in strutture adeguatamente attrezzate, hanno un basso grado di disabilità mentre le stesse persone un secolo fa, quando ancora non esistevano ascensori, rampe per disabili o altri tipi di aiuti, avevano un grado di disabilità più elevato. La disabilità, dunque, è il rapporto tra la patologia, l’impairment che la persona ha e l’ambiente. Quindi due persone con la stessa patologia possono avere gradi di disabilità molto diversi tra loro. Concetto vs Modello Il modello è una spiegazione causale e meccanicistica, astratta di un certo fenomeno. Quindi, mentre il modello dà i fattori e il meccanismo che producono un certo fenomeno, il concetto è la definizione del fenomeno e come lo misuri. Per esempio, il COVID 19 è una malattia di natura virale (concetto, definizione). Il come si produce, come funziona il virus che entra nella cellula rappresentano il modello. Il modello spiega e il concetto definisce. Ci possono essere diversi modelli degli stessi fenomeni: per esempio, ci sono tanti modelli che spiegano le cause dell’obesità: alcuni genetici, alcuni ormonali. Sulla schizofrenia, poi, ci sono una decina di modelli. Sbobinatore: Clementina Aicardi Revisore: Emma Zani Filosofia della medicina (Elisabetta Lalumera) Lezione #3 23/10/2024 Argomento: La salute e l’evidenza e i tipi di studi LA SALUTE Salute minimale Il concetto di "salute minimale" afferma che la salute è definita dalla completa assenza di patologie. Questo approccio ha segnato il passaggio della medicina da arte a scienza; consentendo di distinguere tra l’ambito propriamente medico e quello che concerne il potenziamento, l’estetica e le altre applicazioni conoscitive del corpo umano. Tali ambiti aggiuntivi si configurano come elementi secondari rispetto all’obiettivo primario della cura. Consideriamo, ad esempio, il caso di una persona anziana che desideri sottoporsi a un’operazione di trapianto di capelli. Questa persona non presenta alcuna patologia ed è in salute; l’intervento in questione, dunque, considerando la salute in senso minimale, e quindi come mera assenza di malattia, verrebbe discriminato come trattamento non curativo. Il concetto di salute minimale, pertanto, depotenzia in qualche modo il ruolo del paziente in quanto: la salute è un dato fornito dall’esame clinico; Può emergere un conflitto con l’autonomia, intesa come la possibilità della persona di vivere secondo i propri principi di salute (il concetto di autonomia lo ritroveremo nelle lezioni di bioetica). Salute come capacità di raggiungere gli obbiettivi vitali Continuando l’analisi concernente il concetto di salute, una bella definizione proposta e che in parte implementa quella precedente afferma che una persona può essere considerata in stato di salute quando è in grado di conseguire i propri obiettivi vitali. Uno dei motivi per cui è stata riformulata la definizione di salute riguarda la popolazione anziana e il concetto di "healthy aging", ovvero l'invecchiamento in salute. Questo concetto solleva interrogativi riguardo al tipo di salute che possiamo concepire e progettare per una popolazione estremamente anziana, come quella prevista per l'Italia. In questo contesto, la definizione di salute intesa come capacità di raggiungere i propri obiettivi vitali emerge come un approccio adeguato e promettente. ‘The end of disease and the beginning of health’ di Richard Smith è un editoriale (articolo pubblicato in una ricerca scientifica dove l’autore esprime la sua opinione articolata) che offre una riflessione approfondita sui molteplici concetti di salute che possono emergere in relazione a tale definizione. Nell'articolo del 2008, Smith sostiene di considerarsi in buona salute nonostante il suo sovrappeso, la calvizie, l'astigmatismo e la presenza di dolori muscolari, oltre all'assenza di un controllo regolare dei suoi esami del sangue. Egli si descrive, pertanto, come una “massa di imperfezioni”, ma afferma di sentirsi comunque in salute. La concezione di salute che ritiene più adeguata per sé e per individui a lui simili è quella attribuita a Sigmund Freud, sebbene non si possa rintracciare tale citazione in alcuna delle opere di questo pensatore: la salute come “la capacità di amare e lavorare”. Egli chiarisce che i suoi obiettivi di vita consistono nell'amare e nel lavorare, mentre per un'altra persona questi obiettivi potrebbero includere attività come la guida veloce o la pratica di uno stile di vita sportivo. La sostanza di tale argomentazione è la proposta di rivedere il concetto di salute, non più intesa semplicemente come assenza di malattia, ma piuttosto come un'abilità o capacità individuale di raggiungere gli obiettivi vitali. Questa concezione è presente anche nel nostro sistema sanitario e si riflette nel nostro approccio alla salute. Nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), alcune condizioni sono classificate tra le malattie poiché ostacolano l'individuo nel conseguimento dei propri obiettivi esistenziali. Un esempio di tale condizione è l'infertilità, la quale, pur non risultando statisticamente anomala e non compromettendo la sopravvivenza, influisce negativamente sulla capacità dell'individuo di realizzare una dimensione di sé, che va oltre l'aspetto biologico e si colloca su un piano ideale. In tal senso, la salute viene intesa in un'ottica più ampia, includendo il raggiungimento di obiettivi vitali. Il problema, pertanto, consiste nella necessità di determinare cosa si intenda per obiettivi vitali. Esiste una notevole variabilità in tal senso, e per questo motivo la società sviluppa in modo democratico quelli che possono essere considerati gli obiettivi vitali per gli individui. Tali obiettivi devono essere riconosciuti come apprezzabili e condivisibili dalla comunità di appartenenza e dalla società nel suo complesso. Si fa riferimento a tematiche quali il lavoro, la riproduzione, l'apprendimento, il movimento, la vista e tutte le dimensioni inerenti alla sfera emotiva e sensoriale. Ad esempio, scrivere un libro in due giorni non è sicuramente un obbiettivo vitale che la società potrebbe riconoscere, al contrario, l'implementazione di dispositivi di assistenza per la mobilità degli anziani, così come l'utilizzo di protesi, è ampiamente riconosciuta e valorizzata dalla società. Salute, benessere e guarigione (recovery) Questo modello di salute, inteso come la capacità di conseguire obiettivi vitali, ci consente di delineare una definizione di ciò che implica il processo di guarigione e il concetto di ‘recovery’. In effetti, la guarigione da un comune raffreddore, che non comporta alcuna conseguenza residuale, si distingue in modo significativo dalla guarigione da altre patologie che possono lasciare un'impronta nel corpo o da condizioni in cui la malattia persiste, sebbene in modo quasi impercettibile, comportando per esempio una certa vulnerabilità. Consideriamo un individuo che ha subito un infarto cardiaco; egli non può essere considerato la stessa persona di prima, poiché non è in grado di ripristinare le medesime capacità funzionali. Se si analizza il processo di guarigione relativo ai disturbi mentali, emerge che è improbabile che un individuo affetto da questo possa liberarsene completamente nel corso della propria vita. Piuttosto, si può affermare che una persona raggiunge uno stato di guarigione, o di recovery, quando il disturbo non costituisce più un ostacolo significativo nella sua vita. Questo concetto di recovery ci consente di affermare che la guarigione è possibile anche in assenza di una completa eliminazione della malattia. In tal senso, un individuo guarisce quando riesce a riprendere la propria vita, integrando e affrontando le sfide derivanti da questa condizione. Emerge pertanto la questione relativa al ritenere la guarigione come rispristino del paziente a una condizione fisiologica standard, in vigore prima della patologia, oppure se, al contrario, debba condurre a una condizione alternativa, ma comunque in grado di assicurare al paziente una qualità della vita che egli stesso ritenga soddisfacente. In relazione a questo tema, è opportuno considerare un esempio, sebbene estremo, fornito dal filosofo della medicina R. Canguilhem nella traduzione italiana del suo saggio Le normal et le pathologique (1966). Nel suo scritto, Canguilhem analizza il caso di un giovane che, a causa di un incidente, è stato colpito da una sega circolare in movimento, provocando la sezione trasversale del suo braccio per circa tre quarti della sua lunghezza. Il paziente è stato sottoposto a un intervento chirurgico volto a preservare l'arto, il quale, sebbene recuperato, presenta gravi limitazioni funzionali rispetto alla condizione pre-incidentale, con restrizioni significative nella flessione e nell'estensione. Tuttavia, il giovane manifesta una soddisfazione personale poiché, nonostante la grave disfunzionalità dell'arto, riesce a esercitare la professione di guidatore di carrozze, potendo così tornare al suo lavoro. Di conseguenza, egli percepisce la propria condizione come una forma di guarigione. Prendiamo in considerazione un caso opposto, riguardante un calciatore o un atleta che pratica uno sport a livello agonistico. Anche una lieve disfunzionalità può compromettere in modo irreversibile la sua carriera. Non si tratta semplicemente di un'incapacità di correre, ma piuttosto della impossibilità di ripristinare le prestazioni agonistiche precedenti. Pertanto, in questo contesto, si può affermare che l’individuo non è considerato guarito, poiché non è in grado di conseguire il proprio obiettivo vitale. I concetti contano - «I, Daniel Blake», Film di Ken Loach Si analizzi un’opera cinematografica del regista britannico Ken Loach, noto per la sua capacità di rappresentare situazioni di povertà e le difficoltà affrontate dai lavoratori. Nel film ‘ I concetti contano’, il protagonista, Daniel Blake, subisce un infarto e si rivolge a una dottoressa del servizio sanitario pubblico. La professionista, dopo averlo esaminato, conclude che Daniel sia completamente ristabilito, giacché è in grado di camminare per quindici minuti senza affaticamento, sollevare le braccia senza difficoltà e raccogliere oggetti da terra senza sforzo. Pertanto, la dottoressa lo giudica in buone condizioni di salute. Tuttavia, Daniel era carpentiere nei cantieri, un’attività professionale intrinsecamente pericolosa, e non è più in grado di svolgere tale lavoro, poiché non riesce a rimanere appeso ai ponteggi. Di conseguenza, egli non si considera in buona salute e richiede un sostegno economico per invalidità; tuttavia, le autorità britanniche lo classificano come idoneo al lavoro, negandogli il riconoscimento della sua condizione. Il fine, dunque, si articola attorno al conflitto tra due concezioni di salute: una definita minima, secondo la quale la mera capacità di camminare e sollevare le braccia esclude l'esistenza di patologie, e un'altra concezione di salute, di natura positiva, che si fonda sulla capacità di conseguire obiettivi, nel contesto specifico della possibilità di lavorare. Vantaggi del concetto di salute come raggiungimento degli obbiettivi vitali Quindi i vantaggi di questo concetto di salute sono: é adattabile a popolazioni come anziani o persone con disabilità; dà un ruolo centrale alla persona (autonomia) nella gestione e valutazione della propria condizione, è la persona a decidere la sua condizione; non più medicina come normalizzazione dei corpi (prospettiva dei Disability studies), non c’è un corpo ideale, si può stare bene nella propria disabilità nella misura in cui non sia incapacitante. Problemi del concetto di salute come capacità di raggiungere gli obiettivi vitali Il problema consiste quindi nel distinguere tra le capacità (e le limitazioni) attribuibili alla condizione di salute e quelle derivanti da altre circostanze esterne (ad esempio, individui che vivono in campi per rifugiati in contesti di guerra non riescono a perseguire i propri obiettivi vitali; tuttavia, sarebbe inappropriato considerare tale difficoltà come un problema di salute). È possibile interpretare questo concetto di salute come una sovraestensione del dominio medico, poiché un numero elevato di condizioni fisiche e psicologiche può essere considerato rilevante per il conseguimento di determinati obiettivi. Tra queste, si possono considerare per esempio l'altezza, la forma del naso, la timidezza, la presenza di cellulite e varie inclinazioni verso abitudini ritenute improduttive. Se concepiamo la salute come la capacità di perseguire i propri obiettivi vitali, ma definiamo tali obiettivi in modo ambizioso – come l’aspirazione a divenire più intelligenti, veloci, giovani o performanti – allora interventi quali l'uso di integratori o trattamenti estetici rientrerebbero nel campo d'azione della medicina. Questo concetto di salute rischia di condurci verso una medicina orientata alla performance, in cui ogni difficoltà è medicalizzata e ogni percepita imperfezione rispetto all'ideale individuale e sociale richiede una diagnosi che ne attesti la legittimità. La salute come completo benessere Il concetto di salute più ampiamente accettato e completo è quello che la definisce come uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, andando oltre la semplice assenza di malattia. Questa definizione proviene dallo statuto di fondazione della World Health Organization (OMS), enunciata nella sua costituzione del 1948. L'OMS è un'agenzia sovranazionale e non governativa, istituita nel secondo dopoguerra, con l'obiettivo di promuovere la salute e favorire la ricerca scientifica. Fin dalla sua fondazione, l'OMS si è ispirata non solo a una missione di carattere scientifico, ma anche a idea di promozione sociale in senso molto ampio. Il concetto di benessere Questo concetto di salute rappresenta l'approccio più corposo e positivo, in quanto integra una pluralità di dimensioni diverse, evidenziando le varie componenti coinvolte nel concetto della salute. Tuttavia, sorge una questione critica: la salute è definita in termini di benessere, ma come possiamo definire, a sua volta, il benessere? Quest'ultimo è un costrutto complesso, quantificabile e operazionalizzato attraverso differenti metodologie, con scale di classificazione diversificate che ne consentono la valutazione su più livelli. La distinzione fondamentale tra le due principali concezioni di benessere si articola in benessere soggettivo e benessere oggettivo. Il benessere soggettivo si riferisce all’equilibrio tra esperienze emozionali positive e negative percepite da un individuo. Esso è generalmente valutato attraverso strumenti di autovalutazione, nei quali l'individuo assegna un punteggio a diverse emozioni, come rabbia, noia, entusiasmo e felicità. Tale valutazione riflette lo stato emotivo della persona. La misurazione del benessere soggettivo risulta particolarmente utile nel contesto diagnostico dei disturbi mentali, come nel caso dei test per la depressione, che pongono l'accento proprio sul bilanciamento tra emozioni positive e negative. Il benessere soggettivo si inserisce nel concetto psicologico di salute intesa come stato di well-being, ovvero una condizione di benessere caratterizzata da felicità, esperienze emotive positive e soddisfazione personale. Negli ultimi vent'anni, la medicina ha progressivamente ridefinito la propria missione, ampliando il focus oltre gli aspetti quantitativi (come gli anni di sopravvivenza, il numero di recidive, le percentuali di guarigione, ecc...) per includere la qualità dell’impatto di tali miglioramenti sulla vita dell’individuo. La qualità della vita, pertanto, emerge come uno degli end point primari dell’intervento medico in senso lato. Le informazioni riguardanti la percezione soggettiva della salute, raccolte prevalentemente tramite questionari, forniscono al clinico strumenti utili per comprendere meglio il paziente e orientare le scelte assistenziali in modo più mirato. Inoltre, esse arricchiscono le conoscenze riguardanti le implicazioni che la malattia comporta sul vissuto personale dell'individuo. Il benessere soggettivo si rivela complesso da misurare, in quanto rappresenta un costrutto estremamente volatile e influenzato da una molteplicità di fattori. Tuttavia, proprio questa complessità consente di ottenere informazioni dettagliate e contestuali. In passato, la misurazione delle emozioni appariva impensabile; oggi, invece, la psicologia mira a coniugare un approccio scientifico con l’analisi qualitativa. La seconda misura del benessere è quella oggettiva, la quale concerne principalmente la sfera fisica e si fonda su un intervallo temporale più esteso. Esiste uno strumento di valutazione denominato "Satisfaction of Life Scale", il quale interroga l'individuo riguardo al proprio grado di soddisfazione nei confronti della vita. Nell'ambito del benessere soggettivo, le risposte potrebbero variare in funzione dell'umore del soggetto al momento della valutazione. Al contrario, attraverso la prospettiva del benessere oggettivo, è possibile isolare l'influenza dell'umore contingente e rispondere considerando non solo la situazione attuale, ma il contesto complessivo della vita dell'individuo. Il concetto di salute intesa come completo benessere riveste un'importanza significativa, poiché ha consentito alla sanità pubblica e all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di affrontare una vasta gamma di problematiche. Queste includono questioni sociali, l’alfabetizzazione, l'uguaglianza di genere, le difficoltà economiche, la disoccupazione, i problemi economici, nonché la gestione dei disturbi mentali e fisici. Tale definizione di salute, che abbraccia le dimensioni fisica, mentale, psicologica, spirituale e sociale, ha pertanto portato a un notevole ampliamento dell'ambito di intervento della sanità. A seconda dei vari concetti di salute se ne occupano istituzioni o persone diverse: Social well- Personal well- No disease being being Medici Individuo Governi e Istituzioni Sistema sanitario Famiglia e strutture Economia Domanda: Frammentare sociali così tanto le categorie che si occupano della salute poi nell’approccio non risulta Ricerca biomedica Sociologia meno efficace? Ricerca psicologica Epidemiologia Risposta: Sì, secondo me distinguere gli aspetti non vuol dire che nella cura debbano essere divisi. È sbagliato pensare che il medico sia psicologo e lo psicologo sia medico, perché servono elle preparazioni specifiche e differenti. Quindi dobbiamo dare alla sanità gli strumenti specifici per agire sui problemi senza confonderli tutti; infatti, la tendenza è quella di avere presidi di comunità i cui le persone vengono prese in carico da un'equipe multidisciplinare. Il distinguere gli aspetti, quindi, non significa non integrarli. Vantaggi e svantaggi della salute come stato di well-being Quindi la definizione di salute come well-being ha diversi vantaggi: Ci fa capire perché la salute è un obiettivo; Dà un ruolo centrale al cittadino/paziente rispetto al medico/istituzione; La illness e non solo la disease sono rilevanti, prospettiva completa; Permette alle istituzioni sanitarie di intervenire a largo raggio. Quando si considera la salute come uno stato di completo benessere, emergono significative difficoltà legate alla sua misurazione. Gli strumenti di autovalutazione comunemente impiegati sono infatti soggetti a numerose variabili che alterano i risultati, come ad esempio l’assunzione di cibo da parte della persona o l’intensità luminosa dell’ambiente in cui si trova. Inoltre, tale definizione di salute risulta poco operazionalizzabile, poiché abbraccia una gamma di dimensioni troppo ampia, generando sovrapposizioni concettuali con la felicità e il significato esistenziale. Salute come capacità di adattamento e autogestione Un’ulteriore definizione di salute la concepisce come capacità di adattamento e di autogestione: si può considerare una persona in salute quando è in grado di adattarsi efficacemente alle proprie circostanze. Questa concezione, proposta e approfondita dal gruppo olandese guidato da Machteld Huber and colleagues, prende il nome di “salute positiva”. Secondo tale prospettiva, una persona può essere considerata in salute anche in presenza di una patologia, non per via di un benessere completo o di una piena soddisfazione di vita, ma grazie alla sua capacità di adattarsi completamente e di non necessitare di assistenza sanitaria o di supporto esterno per gestire la propria condizione. Un esempio può essere rappresentato da una persona celiaca che vive in un contesto sociale inclusivo o da un individuo con ipertensione che riesce a gestire la propria condizione attraverso una terapia farmacologica. In questo senso, la salute risulta influenzata dalle risorse e dalle opportunità offerte dall'ambiente circostante. I vantaggi di questo concetto di salute sono: Viene eliminata l’idea irraggiungibile di stato completo di benessere; Risulta un concetto applicabile a popolazioni eterogenee; Conferisce un ruolo importante al paziente/cittadino rafforzandone l’autonomia. Questo concetto attribuisce forse un’eccessiva responsabilità all'individuo? La definizione di salute intesa come capacità di adattamento e autogestione incentiva la popolazione verso stili di vita sani, considerati la principale via per il mantenimento autonomo della salute. Questo approccio rappresenta un potenziale punto di forza, poiché si presta a favorire politiche di prevenzione attiva da parte dei cittadini stessi. Tuttavia, l'adozione di comportamenti salutari – che comprendono una corretta alimentazione, attività fisica regolare, astensione dal fumo e consumo moderato di alcol – è strettamente legata alla "health literacy", la quale, a sua volta, risente significativamente dello status socioeconomico (SES). In sintesi, tra coloro che incontrano difficoltà nell’adattarsi e nell’autogestirsi vi sono individui che non dispongono delle conoscenze, della formazione culturale o delle risorse cognitive necessarie, e altri che, pur essendo potenzialmente capaci, mancano dei mezzi e vivono in contesti che non favoriscono opportunità di sviluppo. One Health o salute nell’ambiente L’approccio "One Health" sostiene che la salute umana è strettamente interconnessa con quella animale e con la salute dell’intero ecosistema. La salute non dovrebbe essere concepita come un concetto esclusivamente umano, ma piuttosto come una condizione che riguarda l'intero sistema vivente, includendo tutte le specie e il pianeta stesso. Questa prospettiva ha acquisito rilevanza quando si è scoperto che il COVID-19 era un virus zoonotico; di conseguenza, è fondamentale garantire la salute degli animali e preservare l’equilibrio ambientale, poiché ogni elemento è interdipendente e parte di una rete di vita condivisa. L'approccio One Health, sebbene non quantificabile, rappresenta una concezione integrata della salute, che considera la salute umana interconnessa con altre dimensioni ambientali e animali. Ad esempio, l’analisi delle allergie può essere approfondita esaminando le trasformazioni dell'ecosistema e della flora o studiando le condizioni dell’acqua in rapporto diretto con la salute umana. Si tratta di progetti che si collocano in una dimensione interdisciplinare, al confine tra medicina, veterinaria, geologia e altre scienze, in un dialogo che esplora le interazioni tra i diversi settori per una comprensione complessiva della salute. Questo approccio adotta una prospettiva ampia, analizzando tutti gli aspetti in una visione complessiva e interconnessa. I concetti trattati, estremamente articolati, sono funzionali a stabilire relazioni tra le varie dimensioni: al centro vi è il concetto di salute, collegato all'individuo e alle sue specificità, mentre le altre dimensioni rappresentano determinanti, ovvero fattori che incidono positivamente o negativamente su di essa. CHE COS’È L’EVIDENZA/TIPI DI STUDI Fondamenti della ricerca Che cos’è una prova scientifica in medicina, quindi come funziona la ricerca? Che cosa dà evidenza a una tesi e a un’ipotesi? Il concetto di evidenza è ampio e articolato, trovando applicazione in vari ambiti, tra cui la giurisprudenza, in cui esistono diverse tipologie di prove classificate secondo una gerarchia specifica. In tale contesto, risultano particolarmente probanti elementi quali filmati che ritraggono un imputato nell’atto di compiere il reato, così come le prove indiziarie. Al contrario, prove come le testimonianze fornite da soggetti estranei al caso possono possedere una rilevanza probatoria inferiore. Pertanto, a supporto di un’ipotesi investigativa o giudiziaria, esistono differenti tipi di prove che si distinguono per grado di evidenza e importanza. Che cos’è un'ipotesi? Un’ipotesi è un enunciato che esprime una relazione tra due o più variabili: ad esempio, una relazione tra lo stato di ansia e la fame, oppure tra l’obesità e il rischio di malattia cardiovascolare, oppure tra il consumo di alcol in gravidanza e il parto prematuro. Quindi un’ipotesi è una correlazione tra due entità: la variabile dipendente e quella indipendente. Per condurre uno studio scientifico riguardo un’ipotesi, le variabili non devono essere concetti vaghi, ma qualcosa di precisamente misurabile. Ad esempio, per indagare l’eventuale incremento della fame in relazione a stati d'ansia, è necessario stabilire strumenti di misurazione specifici applicabili su un campione animale, come ad esempio il topo. Tali strumenti potrebbero includere l’analisi della salivazione, la rilevazione della frequenza cardiaca e la valutazione della velocità di masticazione. Una corretta ipotesi di ricerca, dunque, implica la definizione di due variabili debitamente operazionalizzate, ciascuna delle quali associata a metodi di misurazione e verifica appropriati. Ipotesi ed evidenza Alcuni esempi di ipotesi possono essere: L’aspirina riduce il rischio di malattie cardiovascolari? L’idrossiclorochina riduce i sintomi del Covid-19? Il fumo da sigaretta (esposizione) causa tumori al polmone (esito)? Queste sono sia ipotesi scientifiche, che possono essere affrontate in sede di ricerca, oppure possono essere domande cliniche che il medico si pone durante la pratica. In entrambi i casi, come si procede? Quali prove a sostegno occorre cercare? La medicina contemporanea ha una risposta che comprende una gerarchia delle evidenze: alcune ragioni a sostegno di queste ipotesi sono migliori di altre. L’Evidence Based Medicine (EBM) La gerarchia delle evidenze o l’evidence based medicine (EBM) è una riforma metodologica introdotta negli anni ’90. Stabilisce che quando un medico si pone una domanda clinica è necessario cercare l’evidenza migliore che è data da studi condotti secondo specifiche metodologie e classificati in base alla loro validità scientifica. Quindi il medico non deve fare affidamento sulla propria intuizione o sul proprio giudizio clinico, che invece deve essere utilizzato solo per adattare l’evidenza al caso specifico. Esiste quindi una gerarchia di evidenze che il clinico deve considerare per rispondere a un quesito di diagnosi o a un quesito di cura. La gerarchia delle evidenze applicabile alle domande cliniche è estendibile anche alle ipotesi di ricerca; pertanto, specifiche tipologie di studi sono considerate più appropriate per rispondere sia a quesiti clinici sia a domande di ricerca. L’immagine rappresenta la piramide delle evidenze che illustra come le metanalisi rappresentino il livello più alto di evidenza. Le metanalisi sono ricerche che rispondono a una domanda clinica sintetizzando gli studi preesistenti, elaborandoli statisticamente per fornire un risultato riassuntivo. In fondo alla piramide invece si trovano la ricerca di laboratorio e l’opinione degli esperti. Quindi nemmeno l’opinione di un professionista è considerata affidabile, ma è necessario basarsi sulle linee guida formulate secondo la migliore evidenza possibile. Allora non è più la scienza di una volta? William Harvey, scienziato inglese noto per aver scoperto il funzionamento della circolazione sanguigna, sosteneva che fosse ignobile farsi guidare dall’opinione altrui quando si dispone della possibilità di sperimentare in autonomia. Ogni medico dovrebbe quindi sperimentare da solo e fare una ricerca personale di base. L’EBM, tuttavia, sostiene proprio il contrario: il singolo clinico non è in grado di fornire la migliore evidenza. Non si deve più cercare da soli la risposta alle domande scientifiche o cliniche, a scienza contemporanea si configura come un’impresa altamente collaborativa, caratterizzata da una metodologia rigorosamente canonizzata, che la distingue nettamente dalla pseudoscienza e dalla pseudomedicina. Pertanto, la medicina moderna non può essere praticata in isolamento. Confondimento e bias I tipi di evidenze sono gerarchizzai in base alla loro capacità di evitare confondimenti e bias. Ad esempio, si consideri l'ipotesi secondo la quale il consumo di gelato sia correlato all'incidenza delle scottature cutanee. Tale associazione potrebbe effettivamente risultare veritiera, non per una relazione causale diretta tra le due variabili, bensì per la presenza di una terza variabile che introduce un effetto di confondimento. In questo caso, la variabile di confondimento è rappresentata dall'esposizione alla luce solare: i soggetti che consumano gelato tendono a esporsi maggiormente al sole, aumentando così il rischio di scottature. Il confondimento, dunque, è una variabile esterna che influisce sia sull’esposizione sia sull'esito, generando un'apparente associazione tra le variabili primarie. Analogamente, se si vuole dimostrare che il consumo di alcol aumenta la mortalità precoce, si devono tenere in considerazione come possibili fattori di confondimento l’età e il fumo. Questi due elementi, infatti, sono correlati sia al consumo di alcol sia alla mortalità. Non esiste un modo algoritmico per calcolare tutti i possibili confondimenti in uno studio. Un’altra questione è invece il BIAS, che rappresenta un errore sistematico nello studio (concetto molto più semplice e meno metodologico del confondimento). Un esempio utile per ricordarlo è quello di una bilancia che pesa un kilo in più; se conduco uno studio sull’associazione tra obesità e mortalità precoce utilizzando una bilancia imprecisa il risultato sarà affetto da bias. Un esempio comune di bias è il bias di selezione, che si verifica quando la popolazione esaminata non rappresenta in modo veritiero quella generale a causa di una selezione inadeguata di individui. Ad esempio, se intendo studiare la correlazione tra una colazione ad alto contenuto proteico e l’altezza dei bambini, molto probabilmente si faranno esaminare solo i bambini alti rendendo lo studio non affidabile. Quando si utilizzano volontari è molto facile incorrere in bias di selezione, perché i volontari spesso sono accomunati da caratteristiche simili, come la predisposizione a farsi misurare. In sintesi, la differenza tra il confondimento e i bias risiede nel fatto che il confondimento è un problema strutturale dello studio dovuto a variabili non considerate, mentre il bias è un errore che può derivare da misurazioni imprecise, selezioni distorte, influenze psicologiche o da campioni di popolazione troppo ridotti. Sbobinatore: Chris/an Ghe1 Revisionatrice: Ele7ra Tartarini Filosofia della Medicina (Elisabe7a Lalumera) Lezione #4 24/10/24 Argomento: valutazione del corso, Evidence Based Medicine L’EVIDENCE BASED MEDICINE La principale idea dell’Evidence Based Medicine (EBM o Medicina Basata sull’Evidenza) è che nella decisione clinica di un professionista sanitario e nell’ambito della ricerca dobbiamo basarci non sull’esperienza, ma sulla migliore evidenza, ed esiste una gerarchia di /pi di studio basata sull’evidenza. La gerarchia è basata sulla “validità interna” di uno studio, ossia sulla capacità che ha di minimizzare i confondimen/. Confondimen) e causalità Un confondimento è una o più variabili che influiscono sia sull’esposizione sia sull’esito disturbando la ricerca di una correlazione significa/va. Come nell’esempio della foto di un ga7o steso su un te7o parzialmente crollato, in cui la presenza del ga7o è correlata con il danno del te7o, ma non ne è la causa, così un aumento di consumo di gela/ è correlato, ma non è la causa, di un aumento di sco7ature sulla pelle. La parola “causalità” è poco usata in medicina e nella scienza perché è molto ambigua. Una correlazione non basta mai a verificare un’ipotesi. Nell’esempio del ga7o, il confondimento è l’incidente che ha spezzato il pilastro del te7o. Il senso di fare ricerca è cercare di capire se davvero c’è l’associazione tra le variabili che ci interessano, ma in modo da escludere le cause sbagliate. Uno studio del 2010 fa7o in Danimarca, ad esempio, me7e in correlazione la differenza di età tra uomo e donna in una coppia e la longevità dell’uomo: più la moglie è giovane, più l’uomo vive a lungo. I da/ vengono dall’anagrafe in Danimarca. Il commento ironico può essere quello di consigliare come intervento salvavita per le persone in Danimarca quello di trovarsi un partner giovane. I confondimen/ che creano questa correlazione possono essere, ad esempio, il fa7o che se hai una partner più giovane, forse frequen/ persone più giovani e quindi hai un grado di fitness maggiore della media per la tua età, sei fisicamente più performante, hai cara7eris/che di un’età biologica inferiore, sei più spor/vo, o più ricco. Non è avere il partner giovane a far/ vivere più a lungo: c’è un altro fa7ore che / fa sia avere il partner più giovane, sia vivere più a lungo. Un altro ipote/co esempio è la correlazione tra avere partner giovani ed essere rockstar famose: avere un partner più giovane non / fa diventare una rockstar famosa. Ma i confondimen/ non sono sempre così chiari. I bias, invece, sono errori sistema/ci. Ipotesi di ricerca e )pi di studi Un’ipotesi di ricerca è un’associazione tra due variabili, una variabile indipendente (E, l’esposizione) ed una variabile dipendente (H, l’esito). Nello studio sperimentale, il ricercatore modifica l’esposizione, ossia agisce su una delle due variabili. Ad esempio, se vuole studiare l’effe7o della vitamina D sulla protezione dall’osteoporosi, somministra vitamina D a un gruppo di persone. Se si deve fare un trial di un farmaco oncologico, si somministra ad una parte dei pazien/ il farmaco standard, ad un’altra parte quello nuovo, e si osserva se c’è una differenza. Nello studio osservazionale, invece, il ricercatore non modifica l’esposizione ma si limita ad osservare, nel tempo o indietro nel tempo, la relazione tra l’esposizione e l’esito. Ad esempio, se si vuole fare uno studio per capire se l’etnia della madre influenza la mortalità infan/le (l’esposizione è l’etnia della madre, l’esito è la mortalità infan/le), non si può cambiare l’etnia della madre, ma si può osservare madri di diverse etnie, compararle e vedere se e come varia la mortalità nei figli. Uno studio si dice anali1co se ha un gruppo di controllo, che è ciò che perme7e di misurare l’associazione tra variabile ed esito in due gruppi differen/, in cui cambia (idealmente) soltanto la variabile indipendente E. Ad esempio, se si volesse scoprire se l’etnia nigeriana fosse correlata a una mortalità infan/le più alta rispe7o alla media europea, si prenderebbe un gruppo di persone di origine nigeriana e un gruppo di origine europea come gruppo di controllo. Il gruppo di controllo dev’essere diverso dal gruppo d’osservazione solo per la variabile che si sta osservando, cosa potenzialmente difficile. Se così non fosse, si rischia di incorrere in confondimen/. Solo gli studi più semplici, in basso nella gerarchia, sono privi di gruppi di controllo. Studio di coorte e +pi di bias Lo studio di coorte prospe1co o di follow-up è il /pico studio osservazionale, ha dato il via alla epidemiologia e alla ricerca clinica contemporanea. In esso si vuole capire se la variabile E sia associata all’esito, e per farlo si prende un gruppo esposto al fa7ore E, un gruppo non esposto (il gruppo di controllo, che differisce dall’altro solo per quel fa7ore) e li si “sorveglia” nel tempo per vedere com’è la loro relazione con l’esito H. Ad esempio, se si vuole vedere se le persone obese e non obese hanno una differenza nel rischio di mala1e cardiovascolari (esito), si osservano le persone obese e quelle non obese nel tempo e l’ipotesi viene corroborata se l’incidenza del rischio della mala1a cardiovascolare è maggiore negli obesi e minore nei non obesi. Si tra7a di uno studio osservazionale, in quanto non si interviene sulla condizione di partenza delle persone, e di follow-up, o prospe1co, perché si va in avan/ nel tempo durante l’osservazione. Potrei fare uno studio osservazionale, ad esempio, per vedere se gli studen/ residen/ a Forlì sono quelli con la votazione migliore alla laurea, seguendoli nel tempo. Il classico esempio di studio di questo /po è uno studio pubblicato nel 2004, durato dal 1951 al 2001, iniziato da Richard Doll, uno dei padri dell’epidemiologia contemporanea, in Gran Bretagna. Si tra7a di uno studio durato 50 anni, durante i quali sono sta/ segui/ mol/ medici per cercare di capire se ci sono associazioni tra il fumo di sigare7a e una serie di mala1e: tumori, mala1e respiratorie e mala1e cardiovascolari. In quegli anni questa associazione non era affa7o ovvia, e alcuni sostenevano che il fumo di sigare7a avesse un effe7o prote1vo rispe7o ai tumori. Questo studio è noto come il Bri/sh Doctor Study. Sono sta/ osserva/ 34.439 uomini medici britannici, registrando le loro abitudini riguardo il fumo a par/re dal 1951 e somministrando ques/onari periodicamente. In questo studio i do7ori sono sta/ presi uomini perché a quei tempi i medici erano quasi tu1 uomini e non c’era una coorte abbastanza numerosa di donne per lo studio. Dai risulta/ si vede la correlazione con tu1 i rischi e la rilevanza dell’età a cui si sme7e di fumare: prima si sme7e di fumare meglio è. In questa situazione è possibile che ci siano dei confondimen/, delle altre variabili che influenzano l’esito. Per esempio, alcuni fa7ori portano sia a soffrire di queste mala1e, sia all’abitudine al fumo: fare consumo di alcol, avere una vita sedentaria, essere sovrappeso, l’età … (per questo le coor/ devono essere omogenee). Uno studio che dura molto a lungo è anche sogge7o ad alcuni bias: ad esempio il fa7o che alcuni sogge1 possano abbandonare lo studio, il che può ridurre le dimensioni di uno dei due gruppi (fumatori o gruppo di controllo) o di entrambi. Inoltre, un problema di questo studio è che richiede mol/ sogge1 e mol/ anni di tempo. All’epoca era l’unico modo: in quel momento, da studi di fisiologia e di patologia, sembrava che non ci fosse correlazione tra la sigare7a e i processi neoplas/ci. Questo è uno studio anali1co, perché ha un gruppo di controllo; osservazionale, in quanto non devo chiedere ai medici di fumare per lo studio; quan1ta1vo, perché seguito dall’analisi sta/s/ca; ha lo svantaggio di richiedere molte risorse e di essere lungo nel tempo, ma studi di questo /po sono molto frequen/. Un altro studio è stato un passo importante per l’epidemiologia clinica: si tra7a di uno studio sulle infermiere e in par/colare su quelle in post-menopausa, per scoprire se la terapia sos/tu/va aumentava o meno il rischio di diverse mala1e, ad esempio l’asma. Anche qui l’idea è stata di prendere un gruppo di persone in post-menopausa, di cui alcune in tra7amento con la pillola sos/tuiva e altre no e di osservare se il gruppo che non la assume si trova in una situazione migliore, per quanto riguarda l’asma, rispe7o all’altro gruppo. L’abstract dello studio afferma che lo studio dovrebbe dare un contributo per le linee guida del tra7amento dell’asma. Un altro studio è la ricerca di correlazioni tra pre-ipertensione/ipertensione e periodon/te. Sono state seguite 2.588 persone nel tempo e hanno trovato che il rischio di pre-ipertensione non è associato alla presenza di periodon/te. Un altro studio cerca invece i fa7ori di rischio indipenden/ della fibrillazione atriale. È stata trovata un’associazione significa/va tra diabete e fibrillazione atriale. Questo studio è stato fa7o con 2.090 uomini e 2.641 donne, in Svezia, ed è durato 38 anni. Il rischio di bias in questo /po di studi è medio e come tale li troviamo in un punto intermedio nella gerarchia. Un esempio di bias che può verificarsi è il bias dovuto al fa7o che per effe7uare ques/ studi servono volontari (in quanto spesso gli studi non si svolgono in ospedale). Se il reclutamento è volontario spesso le persone hanno una determinata predisposizione o cara7eris/ca: chi intende partecipare spesso ha cara7eris/che diverse dalla popolazione di riferimento. Per esempio, se devo misurare la correlazione tra colazione proteica e altezza dei ragazzi, saranno probabilmente i ragazzi più al/ a farsi misurare (bias di autoselezione), oppure, più in generale, i ricercatori rischiano di selezionare inconsciamente sogge1 con una data cara7eris/ca (bias di selezione). Per esempio, nello studio dei Bri/sh Male Doctors i sogge1, essendo medici, probabilmente hanno uno s/le di vita leggermente più salutare della popolazione media. Il selec/on bias può avvenire anche in laboratorio, ad esempio quando vengono scel/ i campioni che sembrano venu/ meglio. Per questo la randomizzazione è importante, ossia scegliere i sogge1 in modo casuale (evitando la selezione volontaria o la selezione a priori). Il bias di performance, invece, consiste nel fa7o che i sogge1 si comportano in modo diverso quando osserva/. Ad esempio, se sappiamo di essere osserva/ per valutare l’efficacia di una dieta, siamo porta/ a seguire la dieta più a7entamente. Anche i ricercatori possono provocare il bias di performance in quanto sanno se i sogge1 sono espos/ o meno e questo può portarli a raccogliere da/ in maniera diversa, involontariamente o meno. Per questo gli studi ai livelli più al/ della gerarchia sono “ciechi”, cioè né il ricercatore né il sogge7o sanno se sono espos/ o meno. Tu7avia non è sempre possibile fare studi ciechi: non è possibile che un sogge7o non sappia di essere un fumatore o di stare seguendo una dieta. Perciò questo è anche un bias di non-blinding. C’è poi il bias di loss to follow-up, che si verifica quando i sogge1 abbandonano lo studio, il che può portare a far perdere l’equilibrio tra il gruppo degli espos/ e il gruppo di controllo, impa7ando sulla validità sta/s/ca dello studio. Con la durata del follow-up, aumenta la possibilità di perdere sogge1 durante lo studio. Un altro bias è il bias di classificazione: si tra7a di un errore nel classificare le persone come esposte o non esposte, ad esempio a causa di un test non appropriato che porta a classificare persone non esposte come esposte o viceversa. Un esempio di studio: volendo vedere se gli operai espos/ al nichel mostrano una maggiore incidenza di un certo tumore al polmone c’è il rischio di considerare espos/ al nichel solo gli operai della catena di montaggio o dell’officina, e non quelli del trasporto (errore nell’includere persone nel gruppo di osservazione). Questo può accadere quando il test per verificare l’esposizione non è un test di laboratorio; ad esempio, nello studio sulla correlazione tra ipertensione e periodon/te, è sufficiente fare un test, mentre non esiste un test per verificare l’esposizione professionale al nichel, ma bisogna farsi raccontare dai lavoratori le abitudini di lavoro. C’è poi il bias di informazione, che si verifica quando la raccolta dei da/ non è completa o è errata. I sogge1, nel tempo, potrebbero dover so7oporsi a ques/onari o a misurazioni. Ad esempio, se vogliamo fare uno studio sulla dieta dell’ananas, dobbiamo valutare la perdita di peso e l’aumento di massa muscolare nel corso del tempo e per farlo è necessario pesare i sogge1 e lo si può fare in due modi: si possono pesare i sogge1 in ambulatorio oppure si può chiedere ai sogge1 di pesarsi da soli a casa (self-report). Il problema della misurazione da casa è che il sogge7o potrebbe dire il peso sbagliato, o perché mente, o perché la bilancia è tarata diversamente (bias di informazione), mentre il problema di misurare il peso in ambulatorio è che mol/ sogge1 potrebbero abbandonare lo studio per l’impegno che richiede recarsi periodicamente in un determinato luogo (bias di loss to follow-up). Quindi non solo quan/ da/ raccolgo, quante persone partecipano, ma anche come misuro i da/ può causare bias. Effe7uando gli studi in laboratorio, si riducono i bias di informazione. Tornando allo studio sui Male Bri/sh Doctors, nell’abstract si scopre che lo scopo dello studio era me7ere a confronto il rischio derivato dall’abitudine al fumo in uomini che hanno iniziato a diverse età e quanto il rischio si riduce sme7endo di fumare a diverse età, quindi se sme7endo di fumare prima il rischio diminuisce. Quindi, questa parte dello studio voleva scoprire se effe1vamente sme7endo prima i danni si riducessero: si possono fare più studi con la stessa coorte e gli stessi da/. Il “Main outcome measures” si riferisce all’esito a7eso, ciò che si monitora, in questo caso la mortalità. I risulta/ sono che esiste un’associazione tra abitudine al fumo e mortalità più elevata e riguarda mala1e vascolari, neoplas/che e respiratorie. Inoltre, sme7endo di fumare a 60, 50, 40 o 30 anni, si guadagnano rispe1vamente 3, 6, 9 o 10 anni di aspe7a/va di vita. Tra gli uomini che sono na/ a7orno al 1920, l’abitudine al fumo prolungata dall’età di giovane adulto ha triplicato il rischio di morte, ma sme7ere a 50 anni ha rido7o questo rischio. I bias di loss to follow-up sono minimizza/ dal fa7o che i medici tenevano allo studio: erano una coorte molto mo/vata. Inoltre, i medici, come gli studen/, sono buoni sogge1 perché di solito sanno riempire bene i ques/onari, per questo, molto spesso, le popolazioni degli studi sono medici, studen/, infermieri, professionis/ sanitari. Un’altra nota a favore dello studio è che la morte è un esito facile da calcolare: o si è vivi, o si è mor/. Associazione, causalità, i criteri di A.B. Hill Uno studio osservazionale perme7e di confermare un’ipotesi di associazione tra E ed H, tu7avia, quando si ha un’associazione, non si ha necessariamente anche una causa. La filosofia ha dato molte interpretazioni al conce7o di causa. In epidemiologia o in medicina, quando si dice che un’esposizione causa un esito si intende dire che fa una differenza sistema/ca, ma questa non è l’unica definizione. L’epidemiologo Aus/n Bradford Hill (1965), uno degli ideatori dello studio dei Bri/sh Male Doctors, ha suggerito che, mentre una correlazione non è causa, esistono correlazioni migliori di altre e che con alcuni criteri si possono approssimare all’idea di causa. Ques/ criteri sono u/lizza/ ancora oggi, ma sono controversi. Forza dell’associazione (effect size (grandezza sta/s/ca)): se l’associazione è molto forte allora è più probabile che ci sia un rapporto di causa-effe7o Riproducibilità: oltre ad essere un tema molto importante per l’ogge1vità della scienza, la riproducibilità di un’associazione e scoperte analoghe in contes/ differen/ aumenta la forza dell’associazione Specificità: più è specifica l’associazione tra un fa7ore e un effe7o, più questa associazione è forte. Ad esempio, se degli operai che lavorano il nichel avessero un par/colare /po di tumore raro. Temporalità: l’effe7o deve avvenire dopo la causa, ad esempio non è molto rilevante l’associazione tra tumore al polmone ed abitudine al fumo, se le persone avevano già il tumore. Inoltre, se è previsto un ritardo tra l’esposizione e l’effe7o previsto, l’effe7o deve arrivare dopo questo intervallo di tempo. Biological gradient: un’esposizione maggiore dovrebbe in genere portare a una maggiore incidenza dell’effe7o, ma in cer/ casi la semplice presenza di un fa7ore provoca l’effe7o, in altri un’esposizione maggiore porta ad una minore incidenza. Plausibilità: se ho un modello biomedico o preclinico del perché si verifica l’associazione, questa può essere rinforzata, ma questo criterio non è molto u/lizzato oggi, ed è limitato dalla conoscenza a7uale. Molte volte degli studi sono sta/ u/li pur senza capire il meccanismo dietro ad un’associazione, ad esempio uno studio sull’aspirina che ha mostrato che questa aveva proprietà an/coagulan/ oltre che an/dolorifiche. Coerenza: la coerenza tra scoperte laboratoriali ed epidemiologiche, e con altri studi, rafforza l’associazione. Esperimento: a volte è possibile trovare evidenze sperimentali che favoriscano l’associazione. Analogie: l’effe7o di fa7ori simili può aiutare a rafforzare l’associazione. Non esistono criteri precisi per capire se un’associazione è una causa. Sono necessari mol/ studi metodologicamente corre1 per poter dire, ad esempio, che il fumo causa tumori. A volte la parola “causa” è usata per ragioni precauzionali, che riguardano la comunicazione e la salute pubblica. Sir Aus/n Bradford Hill ri/ene che se, per esempio, parlo di protezione della salute dei lavoratori del nichel e vedo che gli operai espos/ al nichel hanno mol/ più tumori di quelli non espos/, anche se associazione non è causalità, essendo una ques/one di salute pubblica è lecito dire che il nichel causa tumori perché così proteggiamo la salute dei lavoratori e possiamo impedire che si con/nui a usare il nichel in questo modo. Se prima di dire che l’aspirina ha effe1 an/coagulan/ è necessario fare mol/ trial, quando c’è un rischio per la salute possiamo abbassare i requisi/ per affermare che un’associazione è una prova (ques/one del rischio indu1vo). Le prove di tossicità hanno dei requisi/ meno stringen/ delle prove di efficacia. Ad esempio, dimostrare che l’amianto è pericoloso richiede un po’ meno evidenze rispe7o a dimostrare che la vitamina D fa bene alle ossa. La ques/one di quan/ esperimen/ servono per dire