Summary

This document provides an overview of microbial metabolism, including the oxidation of substrates to release energy. It details how life, from a biological perspective, involves the oxidation of reduced compounds to obtain energy. The document also discusses the role of carbon and oxygen in biochemical processes, and how organisms use these processes to obtain and utilize energy.

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CAP. 5 – METABOLISMO DEI MICROORGANISMI La vita può essere riassunta nella seguente catena: ossidazione di un substrato che libera energia, che viene conservata per poter essere u3lizzata; è fondamentale che l’ossidazione non produca una quan3tà di energia tale da essere distruXva per l...

CAP. 5 – METABOLISMO DEI MICROORGANISMI La vita può essere riassunta nella seguente catena: ossidazione di un substrato che libera energia, che viene conservata per poter essere u3lizzata; è fondamentale che l’ossidazione non produca una quan3tà di energia tale da essere distruXva per la cellula. Dal punto di vista biologico la definizione di vita prevede l’ossidazione di compos3 ridoX, in maniera tale da ricavare energia (un composto, per poter essere ossidato, si deve trovare in uno stato rido6o). Gli atomi coinvol3 nella biochimica sono essenzialmente 3: idrogeno, carbonio e ossigeno. Il carbonio, con i suoi 4 ele6roni di valenza nella seconda orbita (la più esterna) può interagire con l’idrogeno, formando il metano, formando una stru6ura stabile che soddisfa la regola dell’o6e6o (e avviene anche per via dell’elevata affinità ele6ronica del carbonio). È noto che il metano bruci, dimostrando che questa molecola con3ene energia. Quando avviene la combus3one del metano, questa energia liberata trasforma i compos3 iniziali, formano l’anidride carbonica. Nella CO2, a differenza del metano, è l’ossigeno ad avere una maggiore affinità ele6ronica, mo3vo per cui tende a strappare gli ele6roni carbonio (perché l’ossigeno è più vicino alla stabilità dell’o6e6o). La CO2, rispe6o al metano, non è più una molecola energe3ca, ma è principalmente una molecola di scarto. I compos3 che possiedono energia sono quelli in cui il carbonio è rido6o (si trova cioè in uno stato ossidabile); nelle molecole in grado di rilasciare la propria energia che era stata immagazzinata nei legami covalen3 il carbonio è in uno stato ossidabile. Se la vita trae la propria energia dall’ossidazione, cioè dalla perdita di ele6roni, un carbonio già ossidato, cioè che ha già perso ele6roni, non è più in grado di fornire energia. Il carbonio del metano si trova in uno stato rido6o che, a seguito di una reazione di combus3one, rilascia l’energia che si era accumulata all’interno dei suoi legami covalen3. Viceversa, un composto come l’anidride carbonica, possiede il carbonio in uno stato ossidato. Queste molecole possiede nei loro legami una certa quan3tà di energia, poiché per la loro formazione è stata necessaria una conversione energe3ca, partendo dalla radiazione solare che è stata impiegata nella fotosintesi per produrre zuccheri e sostanza organica (ricordiamo che il metano è un derivato organico fossilizzato formato da carbonio rido6o). Altri compos3, invece, posseggono al loro interno una certa quan3tà di energia, che deriva dalla tendenza di elemen3 combina3 tra loro, a combinarsi con uno o più degli elemen3 coinvol3. La facile reazione con elemen3 molto ele6ronega3vi, aXra molto fortemente elemen3 poco ele6ronega3vi. Nei sistemi biologici, l’energia viene estra6a dalle molecole secondo un procedimento “a tappe”; se l’energia venisse estra6a tramite un’unica reazione, la quan3tà sarebbe tale da non poter essere ges3ta, causando un calore esplosivo. La catena respiratoria corrisponde alla serie di reazioni in cui viene bruciata una molecola di zucchero, in maniera tale da poter estrarre energia in passaggi successivi. Nei primi passaggi della catena sono coinvol3 sia protoni che ele6roni, mentre in quelli intermedi e finali solo ele6roni; questo perché i protoni vengono invia3 al di fuori della membrana, in maniera tale da sfru6are un potenziale ele6rico a6raverso la membrana. Questo ele6rone, viene “spento” tramite acquisizione da parte dell’ossigeno che è capace di ridursi ad acqua, neutralizzando quindi la potenziale distruXvità di una par3cella libera che si sta spostando tra le varie reazioni biochimiche. Questa reazione ha come vantaggi sia il fa6o di creare delle differenze di protoni tra il lato interno ed esterno della membrana, da cui può quindi essere eliminato l’ele6rone, sia il fa6o che questo ele6rone può essere accoppiato a reazioni trasversali. La catena respiratoria produce, al contempo, degli intermedi, cioè delle molecole riducen3, come il NADH2 e il FADH2, che vengono usa3 in qualsiasi altra reazione biochimica che richiede una riduzione. L’aver creato delle molecole riducen3, fa si che queste, nella cellula, non siano solo impegnate nella catena di trasporto degli ele6roni, ma vengono anche impiegate in altri processi dove è necessaria una riduzione. Il fa6o che l’ossigeno si trovi in fondo alla catena respiratoria e che il NAD si trovi all’inizio, in prossimità dello zucchero, è de6ato dal potenziale di ossido – riduzione, cioè dalla “forza” delle coppie redox coinvolte in queste reazioni. CAP 5 - ENERGETICA DEI MICROORGANSMI E CICLI BIOGEOCHIMICI (CARBONIO, AZOTO) Come vivono i microrganismi? Come funziona dal punto di vista energetico la vita? L’immagine qui rappresentata mostra una catena di trasporto degli elettroni. Un modo per sfruttare l’energia è quello di togliere elettroni da un substrato: togliendo elettroni si ha liberazione di energia, che viene poi passata per tappe fino arrivare all’accettore di elettroni, l’ossigeno. L’ossigeno prende due elettroni e da come prodotto l’acqua, la quale, attraverso la sua formazione, dà fine a questo processo di alta energia rischiosa che viene trasferita (alta energia rischiosa perché deve trovare un compimento stabile). Si formano anche altre molecole, che con l’energia liberata catalizzano e accumulano ATP, che si scarica fornendo energia alle reazione. Si formano anche equivalenti riducenti, intermedi che oltre a partecipare al passaggio di elettroni, lavorano ad altre reazioni dove è necessario ridurre qualcosa (riduzione contrario dell’ossidazione, e significa costruire la biomassa vivente). Il processo è quindi a doppio senso: alcuni elettroni si liberano dal substrato per formare energia, alcune molecole donano energia e fanno il cammino opposto, ossia compiono delle riduzioni dove gli elettroni vanno al carbonio, al posto di essere strappati via come nel processo di ossidazione. La facilità di reazione è data dalla facilità di captare elettroni: alcune moleocle sono più forti nel desiderare e reagire con gli elettroni (es. la coppia ½ O2 / H2O ha il massimo potenziale elettropositivo). L’anidride carbonica invece ha il minimo potenziale elettropositivo (non a caso la esaliamo, ossidiamo il carbonio che era ridotto). Tutto ciò che avviene nel mondo prevede fondamentalmente una serie di coppie redox che avranno diversi ordine di capacità di reagire rispetto ad altre. Il fattore redox detta l’ordine e la facilità con cui le reazioni avvengono Cerchiamo di capire come funzionano specie viventi e microrganismi Nell’immagine qui riportata: ⮚ Parte alta → composti più ridotti, quelli in cui il carbonio è nello stato ridotto (zuccheri, ossia sostanza vivente cellulare che contiene alimenti). ⮚ Parte bassa → composti più ossidati (CO2, carbonio molto ossidato rispetto allo stato in cui è negli zuccheri). ⮚ Zona centrale → livello di ossidazione parziale: quando gli organismi viventi traggono energia dagli alimenti, li ossidano fino ad un certo livello; questo è un processo in cui non è producente ossidare completamente il carbonio della sostanza che si sta respirando, perché sono pezzi di molecole che torneranno utili tornando verso l’alto, dove si avrà il processo di sintesi. In questo caso basta quindi arrivare a questo livello degli intermedi metabolici (intermedi metabolici= carbonio più ossidato rispetto a quello di partenza). Dagli intermedi metabolici si può costruire ciò che serve alla cellula: ATP(= donatore di energia, si staccano gruppi fosfato e viene ceduta energia a processi che altrimenti avrebbero difficoltà) e potenziale riducente (bisogna formare qualcosa che ha lo stesso livello di ossidazione: va quindi ridotto il carbonio che si è trasformato per avere stato ossidazione iniziale). ⮚ Reazioni riportate in basso → costituiscono delle eccezioni, valgono per organismi autotrofi e piante → partenza da CO2, le piante sono in grado con l’energia che proviene dalla luce solare di sintetizzare intermedi metabolici e produrre ATP; si ha anche la via chemiosintetica, dove l’energia proviene da reazioni organiche. Il quadro visto non appartiene a singola specie, ma a tutte (insieme di tutte le possibilità di quelle che sono poi le modalità di crescita di singoli gruppi) Si possono utilizzare anche nomi più caratterizzanti: → Catabolismo= significa “far cadere” → Anabolismo= significa “via del ritorno”, in salita, perchè porta alla biosintesi di sostanza organica della materia vivente In qualche modo quindi “torna su” lavorando con i prodotti della degradazione parziale e partire dal proprio pasto Organismi eterotrofi= “nutrirsi con l’altro”, mangiano sostanza organica altrui Organismi autotrofi= “nutrirsi da soli” (piante, alghe, cianobatteri), capaci di fare chemio o fotosintesi. TIPI DI METABOLISMI Esistono 4 domande per classificare i tipi di metabolismi: 3 sono sulla provenienza degli elettroni, 1 sulla destinazione: 1. Da dove viene il Carbonio C? 2. Da dove viene L’ energia? 3. Da dove vengono gli elettroni e- → modo con cui l’energia viene liberata (elettroni che vengono staccati da composto ridotto)? 4. Dove vanno a finire gli elettroni e- → accettore che neutralizza il processo e lo rende accessibile dal punto di vista dell’energia in gioco? 5 metabolismi: 1. Respirazione aerobia Prime 3 domande: l’energia viene dalla stessa fonte, ossia dal carbonio organico. 4° domanda: elettroni vanno all’ossigeno che si riduce ad acqua Questo quadro, e quindi questa respirazione, riguarda molte specie. 2. Respirazione anaerobia Risposte simili per le prime 3 domande: anche qui l’energia viene dalla stessa fonte, ossia il carbonio organico. Ma in questo caso gli elettroni forniti non vanno a finire nell’ossigeno, poiché siamo in un ambiente in cui l’ossigeno è stato consumato: gli organismi che vivono in queste condizoni infatti usano un altro accettore di elettroni di tipo organico (solfato, carbonato e nitrato, accettori terminali di elettroni alternativi). Questi organismi usano quindi un surrogato dell’ossigeno quando questo è finito. Svantaggio= la coppia ½ O2 / H2O ha il massimo potenziale redox elettropositivo e quindi maggior efficacia energetica nella reazione, mentre questi surrogati hanno minor efficacia. Gli organismi anerobi decidono loro stessi di esserlo e di avere questo tipo di organismo. 3. Fermentazione Risposte simili per le prime 3 domande: anche qui l’energia viene dalla stessa fonte, ossia il carbonio organico. Ma ci sono differenze che riguardano la 4 domanda: gli elettroni vanno a finire agli intermedi metabolici, (prodotti organici di parziale decomposizione dei substrati iniziali) e non ad un accettore terminale di natura organica. Inoltre le molecole sono meno ossidate rispetto a quelle dei metabolismi precedenti: nella fermentazione si può fare a meno di qualsiasi accettore terminale di elettroni (che può essere assente o presente) perché nella cellula o attorno si ha tutto ciò che è necessario per completare quella forma di estrazione e deposito di energia (gli intermedi stessi fungono da accettori). Es. Piruvato, accettore di elettroni, forma etanolo, alcol etilico. La glicolisi è un processo relativo alla fermentazione che, da acido piruvico porta all’acido lattico (sotto sforzo muscolare, si ha formazione di acido lattico perché lo sforzo non è sostentato da ossigeno nel circuito sanguigno); il dolore si forma perché acido lattico. Nei batteri e lieviti la fermentazioni avvengono contando sulle proprie molecole organiche autoprodotte (vivono senza presenza di qualcuno di esterno); nella fermentazione dunque si vive in un microcosmo isolato. lo svantaggio sta nel fatto che gli intermedi sono meno ossidati, per cui il substrato viene ossidato molto meno, motivo per cui l’estrazione di energia è nettamente inferiore: non a caso i distillati, come la birra, lo yogurt contengono molto energia (es. alcol se lo si brucia fa fiammata a causa dell’energia rimasta nei substrati); ciò è dovuto al fatto che non hanno potuto estrarre ulteriore energia, in quanto dovevano compiere altre reazioni che portano alla crescita. È quindi un metabolismo meno efficiente, e lo svantaggio è legato al poter autonomamente sopravvivere in ambienti senza scambi esterni. 4. Chemiolitotrofia Questa parola riassume ed esplica il modo di vivere di questi organismi: l’energia viene da reazioni chimiche (litos= pietra: reazioni di tipo inorganico, a carico di molecole NON organiche). L’ energia quindi in questo caso viene dall’anidride carbonica. Gli elettroni invece vanno a vari composti inorganici, soprattutto S0 (zolfo alimentare). Accettori terminali di elettroni= molecole che hanno, almeno in un atomo, un discreto grado di riducibilità (sono molto ossidanti, es. nitrato si riduce a nitrito, solfato si riduce in solfito e l’ossigeno si riduce ad acqua); sono quindi una serie di molecole organiche molto diverse tra loro che sono soggette ad ossidazione (ovviamente non si hanno tutti questi accettori, ne hanno uno preferenziale). Gli organismi chemiolitotrofici quindi non vivono di niente (es. non hanno bisogno di luce). Es. monossido di carbonio= substrato di ossidazione a CO2, donatore di carbonio necessario per la biosintesi Elevato potenziale riducente necessario equivale ad un’elevata quantità di ATP. 5. Fotosintesi Questo è un tipo di metabolismo particolare, in quanto può essere in compresenza di altri metabolismi (piante = fotosintesi + respirazione). In metabolismi fotosintetici, si ha la luce come fonte di energia: gli elettroni in parte vengono dagli equivalenti riducenti, ma gran parte di quelli che entrano in fotosintesi vengono dall’acqua. L’acqua infatti viene foto - lisa, ossia viene scissa con processo catalizzato da radiazione luminosa; l’energia dunque passa dall’ acqua e si forma anche ossigeno (= prodotto che ha cambiato atmosfera e che diventa accettore di elettroni, costituisce la base di vita). Inizialmente, nelle fotosintesi più antiche di alcuni batteri, il donatore di energia non era l’acqua, bensì acido solfidrico (= libera zolfo, solfato, si generano ossigeno e zolfo senza creare grandi variazioni per l’atmosfera). Necessità di forte riduzione di carbonio: l’elettrone va al carbonio, ma si ha bisogno di fare un grande passa in salita per arrivare al carbonio della sostanza vivente. Collochiamo gli elementi e le reazioni che abbiamo visto hanno nella loro sede. Substrato → zucchero disciolto che abbiamo consumato nei nostri pasti, viene ad essere ossidato all’interno di una cellula. Gli elettroni ottenuti passano dal substrato a altri composti che fanno da trasportatori intermedi: coppia NAD+/NADH trasporta gli elettroni, riducendo la flavoprotoeina che si trova in membrana. Quando si ha passaggio di elettroni si ha anche il passaggio del protone (H+ per neutralizzazione), ma esso viene sputato fuori dalla cellula: questo passaggio è molto importante in quanto rappresenta una modalità di ricarica per la cellula (si ha carica positiva all’esterno rispetto all’interno, dove abbondano cariche negative: si buttano fuori esponenti con carica elettrica positiva e si ottiene pH acido). Gli elettroni, dopo essere stati trasportati da vari tipi di trasportatori (es. coenzima q) si arriva ai citocromi: da qui il passaggi di e vengono pompati fuori. Si arriva poi al passaggio dal citocromo finale prima dell’ accettore (½ O2 prende un H+ formando acqua e formando ila chiusura della catena di trasporto degli e-). Perdendo protoni e coinvolgendoli in acqua associata, si tolgono di mezzo le cariche positive e si lascia un ossidrile come prodotto, in più, scoperto e spaiato, si ha quindi un aumento della carica negativa che si ha all’interno dal punto di vista del potenziale elettrico. Pompa protonica (ultima immagine, dove si forma ATP): sistema che fa rientrare protoni (attraverso una proteina che attraversa la membrana). Dentro si aveva potenziale negativo e quindi fuori, dove si aveva un accumulo di protoni, ci sono molti protoni pronti ad entrare per attrazione. Questo passaggio è dato da una sorta di “finestra aperta con un passaggio molto stretto; il passaggio fa girare come dei tornelli/pale, creando energia”; quindi quando i protoni rientrano nella cellula, l’ADP viene convertito in ATP)( si forma perché protoni entrano grazie a differenza di concentrazione). Quando una cellula riceve quindi nutrienti, è in grado di riservare ATP, scaricandosi. Una cellula meno polarizzata dal punto di vista della membrana necessiterà maggior nutrimento per ricaricarsi. CICLO DEL CARBONIO (di cui non è necessario sapere numeri e quantità) INDICE: a) Rosso → riserve che abbiamo negli ecosistemi, (acqua, oceano, ecc) per l’ elemento carbonio, moltiplicato per la sua unità di misura (10*9 tonnellate). b) Blu → flussi annui, ciò che si sposta nell’arco dell’anno. c) Frecce nere → sottendono numeri, indicano passaggi e i flussi di carbonio. d) Frecce verdi → flussi per assimilazione di carbonio. e) Frecce blu → ritorno in atmosfera, ossia processo di respirazione (ciò che un organismo fa del proprio alimento). f) Frecce blu tratteggiate → decomposizione, forma di respirazione ma di residui e detriti. g) Freccia nera tratteggiata → degradazione e mineralizzazione di composto organico, ossia decomposizione che non porta ad immediata ossidazione del carbonio. h) Fossilizzazione → carbonio che diventa carbone, fossile. 1) Si parte da un punto a scelta: atmosfera L’atmosfera rappresenta una grande riserva del carbonio (ad oggi il numero sarà aumentato: la CO2 in costante aumento): con circa 885 pentagrammi di C, l’atmosfera rappresenta la riserva dalla quale si attinge la maggior parte degli organismi fotosintetici per alimentarsi. 2) Muovendosi verso il comparto terrestre, la quantità di C aumenta regolarmente perché alimentata da attività di nostra competenza perché, oltre alla respirazione, che contribuisce in maniera parziale, noi bruciamo molto carbonio per il funzionamento delle macchine, per scaldarci , per alimentare i motori, per processi industriale, ecc. Aumentiamo il contenuto di C globale di 5.8 pentagrammi: il C, un gas serra, è quindi molto abbondante e in costante crescita anche a causa di nostre attività. Per quanto riguarda il riscaldamento globale quindi, quanto è opera antropica o quanto è dato dalle fluttuazione correnti è difficile da stabilire, ma non si può negare. 3) Questo valore pari a 885 pentagrammi non sempre stato a questo livello: a partire da metà 800, il numero in ppm è cambiato notevolmente (oggi 819 ppm, prima 260 ppm), ed il trend è sempre in aumento. Il valore pari a 260 ppm, ossia prima di rivoluzione industriale, non è il valore che rappresenta la situazione del pianeta prima del nostra comparsa, perché i valori di anidride carbonica aumentano e diminuiscono nel tempo indipendentemente da noi. 4) Tuttavia, anche l’attività di deforestazione aumenta contenuto di anidride carbonica: le foreste vengono bruciate per lasciare il posto all’agricoltura intensiva, che, in tutto questo, non ha neanche molta persistenza (il terreno di foreste è molto sottile, si esaurisce in fretta); deforestare quindi non ha molto senso, anche perché, togliendo ettari di foresta e di alberi, si avrà un minor immagazzinamento di CO2 in alberi e maggiori emissioni. A causa della deforestazione si hanno quindi 2 pentagrammi annui di anidride carbonica che si aggiungono. 5) Da questa situazione però si ha un ritorno di anidride carbonica attraverso l’assimilazione da parte delle piante: se c’erano flussi in uscita che ogni anno ci troviamo a causa della deforestazione, questa è una voce in ingresso positiva (si toglie infatti la CO2 dall’atmosfera). Aumentando le foreste, questo valore, pari a 120, valore può aumentare. 6) Si ha anche il contribuito acquatico di alghe: la CO2 si scioglie prima della fotosintesi in acqua, con formazione di acido carbonico (= substrato da cui i microorganismi prendono il carbonio per fare la fotosintesi; non attingono quindi dall’ atmosfera, ma lavorano su ciò che si scioglie per ripartizione: discioglimento in equilibrio con CO2 in atmosfera). Ciò avviene in acque sia dolci che salate, con un flusso positivo con valore di 40 pentagrammi. Le cellule fitoplanctoniche tuttavia lavorano solo nelle parti superficiale della colonna d’acqua (la radiazione luminose raggiunge solo gli strati meno profondi, il resto dell’oceano non sostenta fotosintesi). Si ha quindi una riserva di 5 pentagrammi, che rappresenta le massa vegetali acquatiche Per le piante arboree terrestri e per piante erbacee (anche piante agrarie= questo valore di riserva è maggiore, pari a 150 (strutturalmente sono più cospicue le piante e le foreste) Questi 2 valori, 5 e 150 pentagrammi, 2 sono riserve di vegetali. 7) Tuttavia, anche questo flusso di ingresso ha una contropartita: le piante fanno il loro lavoro, ma avendo anche la respirazione aerobia, consumano carbonio: sanno infatti fare gli zuccheri da sé ma li consumano tramite respirazione per estrarre energia nelle fasi in cui non si ha fotosintesi. Questa respirazione quindi ci fa perdere un po' del carbonio accumulato, e 60 pentagrammi tornano all’atmosfera. 8) I cicli delle stagioni si susseguono, e le foglie vengono trasportate per erosione aerobica. Ma si ha anche deposizione di residui dei vegetali, perenni o biennali, che finiscono nel suolo: creano quindi un tappeto/lattiera, con un valore di flusso di 15 pentagrammi. Le piante erbacee hanno valore maggiore, circa 40 (= sono meno durevoli, hanno turnover più rapido e quindi morte più rapida e maggiore= flusso annuo maggiore). Quindi, la riserva di carbonio della lettiera nello stato superficiale di suoli ambienti terrestri è pari a 60 pentagrammi. Se consideriamo la matematica e facciamo la somma delle riserve delle piante (il C viene immagazzinato in legno e cellulosa di piante ), ossia 450 + 150, otteniamo una riserva pari a 600; la lettiera quindi è un 10% della quantità che sta in piedi nel carbonio delle piante. La lettiera è lì anche come materiale arrivato negli anni precedenti (in proporzioni minore, in quanto il C viene decomposto). Il ciclo avviene quindi molto velocemente. 9) Il carbonio nella lettiera viene stabilizzato e modificato in un carbonio sempre più profondo (perché sempre più strati di materiale decadente si accumulano). Il carbonio è quindi presente a profondità sempre maggiori, ma non è infinito: nel sottosuolo si ha infatti una forte attività decompositiva). Il carbonio nel suolo rappresenta la riserva maggiore, pari a 1300 pentagrammi: è quindi il carbonio organico nel suolo la fonte dal quale gran parte del carbonio viene ad essere esalato per decomposizione; il valore di decomposizione è pari 60. A fronte di un valore d’ingresso pari a 120 pentagrammi, 60 va via per respirazione fisiologica delle piante, ed un altro 60 se ne va per decomposizione da parte di batteri e funghi in momenti successivi. Quindi alla fine, purtroppo, le foreste e praterie la funzione di source-sink (fonte di emissione o imbuto di raccolto, punto di rilascio e destinazione) poiché il valore di raccolta e quello di emissione viene ad essere quasi pari. Le foreste quindi sono da considerare sink o source per il carbonio ( dipende da clima e tipo di vegetazione: il valore pari a 60, se consideriamo anno per anno, può essere maggiore o minore) Tuttavia, non sono solo gli alberi a garantire mitigazione , ma anche come trattiamo e promuoviamo il suolo. 10) Nelle acque anche si ha una situazione di ritorno data da respirazione e decomposizione (fitoplancton vivo e decomposizione di fitoplancton morto) con un valore pari a 35 pentagrammi, che corrisponde ai 5 pentagrammi della riserva. La vita del fitoplancton infatti è breve: ciò che succede in un anno spiega effettivamente quello che si ha, poiché questi organismi non permangono come gli alberi per decenni o addirittura secoli. Il ciclo del carbonio in ambiente acquatico infatti è qualcosa che si risolve in tempi molto brevi: la differenza tra il carbonio fissato e il carbonio perso spiega la consistenza di biomassa presente. 11) Il carbonio nel suolo non è stabile per tempi molto lunghi: ciò che si accumulava entrava nella riserva, con forma più stabili e meno decomponibili, come giacimenti di torba oppure, sempre passando anche attraverso lo stadio di torba, dando luogo al deposito fossilizzato di carbone (che proviene anche da ex carbonio organico nel suolo che diventa più profondo, stabilizzato da questa sua posizione che è fuori dalla decomposizione ad opera di microrganismi). Il carbonio nel suolo quindi ha dato luogo a giacimenti di petrolio terrestre. Le riserve acquatiche di carbonio sono invece date dalla decantazione di sostanza organica morta e dalla sedimentazione, dando origine alle riserve non rinnovabili di combustibili (petrolio, carbonio, gas). Queste riserve rappresentano delle grandi fonti per nostra la vita, che poi andremo ad estrarre e consumare portando ad altri risultati già visti dovuti ad attività antropica. Estraiamo e bruciamo: i valori sono alimentati da asporti di ciò che è sepolto. La consistenza di giacimenti petroliferi non è prevedibile: non si sa quando finiranno le riserve. 12) Ciclo in ambiente acquatico: valore come passaggio da fitoplancton a zooplancton, che lo consuma. I livelli trofici in ambienti acquatici sono molto maggiori rispetto ad ambienti terrestri, e dunque si ha un cospicuo passaggio di carbonio organico che incrementa le riserva di pesci e zooplancton pari a quella delle prede consumate. In questo ambiente il carbonio organico disciolto è una grossa quantità: l’acido carbonico che si scioglie per ripartizione e solubilità di CO2 atmosferica ha un valore pari a 1200 pentagrammi. A questo valore si aggiunge il C organico disciolto, + 200 ( si ha più c inorganico rispetto a organico), nella fascia trofica. Sotto la fascia trofica (confine dato dal termoclino) si ha una zona con chimica diversa e più alcalina: questo avviene perché prevale il bicarbonato, e si ha quindi un accumulo di C inorganico e di C organico maggiori. Le acque rappresentano quindi una fonte (sink) di carbonio. Il pH diventa sempre più basico in acque profonde (scarsi H+, molto carbonato). Nella zona di decomposizione non arriva qualcosa che è stato riciclato: si hanno quindi residui di carbonio e un flusso che porta altro carbonio in profondità. Nel fondale si ha quindi un accumulo di 3000 pentagrammi dati dai residui di c organico, che, con il passare del tempo, possono anche diventare sedimenti (es. montagne nati da mari, rocce alcalogene costituite da residui di organismi). In queste zone il C inorganico e quello organico assumano valori molti alti: in fondo al mare si ha quindi un’alta quantità di carbonio, ma, rapportato alla grossa estensione in volume del mare, è molto scarso. Questo carbonio tuttavia tende a rimanere lì: con ioni e cationi come magnesio e calcio, si formano carbonati e gruppi dolomitici che rimangono emersi (es. nostre montagne). L’ingresso di questo carbonio in ambiente terrestre avviene con la sedimentazione, ma è processo molto lento e che influisce poco; l’erosione invece caratterizza il passaggio di carbonio dal comparto terrestre a quello acquatico. Le acque quindi fungono come tampone e riserva di carbonio (che poi diventerà roccia). CHI DEGRADA COSA ✶ Cellulosa (polimero): decomponibile con enzimi (es. cellulasi): o Degradata da batteri (non solo terrestri) e funghi. o Alcuni batteri che degradano questo polimero sono specie che vivono come simbionti di organismi animali (dentro tratti digerenti di insetti, es. TERMITI). ✶ Lignina (polimero)= degradata da funghi (agenti di marciumi bruni e bianchi) a seconda della capacità di cellulosa e anche di composti fenolici (agenti di marciumi bianchi), e da batteri. ✶ Chitina (polimero), forma esoscheletro di artropodi, ragni e crostacei ed è presente anche nelle parete cellulari di funghi: o Degradata da batteri e anche da protozoi. Nella decomposizione di molecole complesse come polimeri, si arriva a gradi di difficoltà nella mineralizzazione che possono essere molto spinti I composti si formano per reazioni non biologiche (decomposizione), ma anche per reazioni chimiche spontanee che danno origine a composti aromatici, che non si decompongono e che formano composti del carbonio Es. Sostanze marcate con C14, guardano l’evolversi di CO2 che risulta dalla degradazione. In 12 settimane si può volatilizzare CO2, carbonio del carbossile, che ha la sua facilità di decomposizione. Il carbossile sporge in una molecola come acido paraidrobenzoico, diventando quindi molto più facile da consumare. È infatti molto più difficile è rompere un anello: I composti zuccherini semplici, come glucosio e amminoacidi, di cui ci si può nutrire facilmente, hanno rapida mineralizzazione; gli anelli invece, come l’acido caffeico, sono più difficili da rompere e quindi da assimilare. Se le molecole sono riunite e condensate in polimeri, diventa ancora più difficile per gli enzimi prendere il C : infatti, il carbonio dell’anello di acido caffeico in polimero è stabilissimo rispetto alla molecola non polimera. Quindi, la chimica strutturale organica influisce sul destino delle molecole METANO Il processo che porta il metano verso l’atmosfera vede il contributo di diversi attori. In atmosfera si ha infatti una riserva di metano pari a 3 pentagrammi; questo tuttavia rappresenta un gran problema: il metano contribuisce al riscaldamento globale. Fonti biogeniche corrispondo ad attività biologiche. Ruminanti: nel rumine avviene la metanogenesi, il potenziale redox molto elettronegativo genera metano che viene eruttato. Anche le termiti sono in grado di eruttare metano. Luoghi umidi, come campi umidi, paludi, risaie, discariche (seppellimento di rifiuti in condizioni anaerobie), ossia dove si accumula acqua. Laghi e oceani sono caratterizzati da valori bassi, nonostante un’elevata quantità di emissioni; nei mari e negli oceani (cioè in tutte le acque salate) si verifica una certa competizione che non si trova invece nelle acque dolci: i sali disciolti competono per un importante elemento della metanogenesi (attacco di CO2 formando CH4, con 2 molecole di idrogeno) ma se qualche organismo sottrae l’idrogeno per il funzionamento del proprio metabolismo, idrogeno disponibile sarà poco. Chi sottrae l’idrogeno per il proprio metabolismo sono i batteri solfato riduttori, che hanno un enzima più rapido nel sottrarre H2: essi fanno reagire il solfato con l’idrogeno, grazie ai Sali disciolti. Ciò porta alla formazione di acido solfidrico, cioè un acido corrosivo che apre altri scenari, in acque putride e ristagnanti; in ambienti oceanici invece rappresenta un problema minore, e la mitigazione di metano è molto positiva. Nelle acque dolci ciò non avviene per via della bassa quantità di solfato disciolto. Questa reazione avviene ad opera di questi batteri, ed è un esempio di respirazione anaerobia: gli elettroni finiscono come accettori (solfato, nitrato, carbonato), il solfato accetta gli elettroni, li compensa con l’ idrogeno e viene ridotto, arrivando alla produzione di acido solfidrico. Fonti abiogeniche: Vulcani: nitrati di metano che hanno genesi di tipo geologico Gas che si liberano da zone di subsidenza marine Scioglimento di ghiacci polari Nelle fonti abiogeniche, nella maggior parte c’entra l’ uomo, poi la geologia locale. Tuttavia, le fonti biogeniche hanno molto più impatto. E’ importante sottolineare che i nostri allevamenti intensivi incrementano il problema delle emissioni di metano. BATTERI METANOGENICI La mucca rappresenta un esempio di ecologia all’interno di un animale: si ha infatti la realizzazione di una simbiosi che porta ad un risultato estremamente positivo e sorprendente, ossia il convertire un alimento povero di azoto (vegetali), e quindi scarso nella possibilità di fare proteine, in qualcosa che permette di far crescere l’animale mangiando semplicemente erba. Ciò avviene grazie ad un sistema di conversione di materia digerita in qualcosa che contiene più proteine nobili (biomasse di microrganismi). Nel rumine sono presenti SPECIE DIVERSE di batteri che convivono e coesistono: ognuno di essi ha specializzazioni diverse, si nutrono a vicenda e prodotti dell’uno servono da substrato per la fisiologia dell’altro. La cellulosa e i carboidrati iniziali (polimeri complessi) vengono degradati dentro l’intestino da enzimi. Successivamente si ha la formazione di acidi grassi volatili che vengono assorbiti dalle mucose, entrando quindi nel circuito animale (es. carbonio organico di pronto utilizzo) e dentro il rumine per formare cellule. Lo scarto di tale processo tuttavia è il metano, che viene generato e fatto uscire. Ma dov’è più rapido e dov’è più lento il ciclo di carbonio? Guardiamo i tipi di vegetazione, dove si misura il carbonio nel suolo in tonnellate per ettaro (= si guarda quanto a lungo permane l’ atomo di carbonio in un tipo di vegetazione). Il calcolo è dato dal quantitativo di carbonio nel suolo, dalla sua respirazione e dal turnover nei diversi tipi di suolo. Esistono tuttavia dei fattori che possono influenzare la situazione Esiste un fattore di tipo latitudinale, ossia ci possono essere delle variazioni a seconda della latitudine: es. molto carbonio nella tundra (sono foreste fredde) perché viene respirato poco e perché sono luoghi celati, dove si ha scarsa fisiologia di decomposizione. Ci possono anche essere limitazioni da parte della temperatura. Situazioni in cui si ha poco carbonio nel suolo (perchè viene respirato più velocemente) comportano alta produttività, alta fotosintesi, ma si accumula meno carbonio perché si ha valore di respirazione intenso. Zone umide e acquitrini portano ad valori alti di carbonio e tempi lunghi di permanenza: ci sono fattori che limitano il ciclo del carbonio come velocità; Ma ancora più lento è il ciclo nelle paludi: anche se è un luogo in zone caldo umide, non si ha velocità di respirazione e consumo di carbonio perché l’ acqua rende l’ossigeno scarso (deve sciogliersi in acqua per raggiungere la sostanza organica immersa). Essendo l’acqua che rende l’ossigeno meno concentrato, il carbonio permane. Suoli acquitrinosi: tendono ad avere un piano di campagna che, tolta la concentrazione che rendeva la falda alta e sistema paludoso, vedono la sparizione di suoli molto rapido. INTRODUZIONE AL CICLO DELL’AZOTO L’azoto è un elemento importan1ssimo, il cui approvvigionamento è però un grosso problema (è necessaria una reazione che è molto poco favorita). Il maggiore pool di riserva dell’azoto è contenuto all’interno delle rocce, che risulta però quasi del tuAo inaccessibile, poiché si trova all’interno di minerali che si trovano in rocce a profondità non facilmente accessibili; lo stesso discorso vale anche per le riserve di carbone (che vengono maggiormente u1lizzate per la reazione di combus1one). L’altra grande fonte di azoto a cui abbiamo accesso è cos1tuita dall’atmosfera, in cui l’azoto si presenta soAo forma di N2, un gas inerte, perché i due atomi sono molto fortemente lega1 tra di loro; la molecola è molto poco reaFva. La riserva atmosferica può essere intaccata solamente se si è in grado di compiere la reazione di riduzione dell’azoto molecolare, che noi chiamiamo reazione di azotofissazione, che rappresenta la parte iniziale del ciclo che introduce l’azoto a tuF i livelli biologici. Una forma che permeAe l’ingresso nel ciclo di una piccola quota di azoto ridoAo, e che avviene in maniera non biologica, è quella che, causalmente, coinvolge le scariche eleAriche. I fulmini che scaricano in mare, conferiscono l’energia necessaria per la denitrificazione di una piccola quota di azoto, con formazione di ione ammonio, cioè un oFmo ca1one per l’assimilazione dell’azoto ai livelli biologici, in par1colare nel comparto acqua1co. Questo fenomeno del tuAo casuale introduce negli oceani circa 0,008 Pg (peta – 1015). Il processo di azotofissazione avviene anche su scala industriale, nata durante il periodo delle guerre; l’azotofissazione industriale prende il nome di Haber – Bosch, nato in realtà per scopi bellici, conver1to poi nella produzione di azoto in forma u1lizzabile per l’agricoltura. Questo processo è soggeAo a diverse limitazioni, tra cui il costo, diventato sempre più proibi1vo per via dell’eleva1ssima energia richiesta per il riscaldamento dei forni e per il raggiungimento della pressione necessaria al correAo svolgimento della reazione. La maggior parte dell’azoto che viene poi applicato alle colture in realtà va sprecato, poiché, per oAenere gli standard produFvi oFmali richies1 dal mercato, la piante agrarie vengono nutrite con un eccesso di azoto, che va poi a finire nelle falde, dove crea i problemi ambientali (ma anche ecologici) che già conosciamo. Questa scelta di col1vare le piante con eccesso di azoto, è una scelta che, dal punto di vista ecologico, è molto rischiosa e sempre più compressa (in primis dai crescen1 cos1). FISSAZIONE BIOLOGICA DELL’AZOTO Si traAa di processi biologici, che avvengo grazie ad un enzima, il nitrogenasi, che tuF gli organismi baAerici possiedono. Questo enzima è un complesso formato da diverse subunità proteiche e riesce a catalizzare quella che è la reazione che da N2 porta a NH3, con un enorme vantaggio sia verso della reazione che avviene su scala industriale, sia verso quella non – biologica che avviene grazie ai fulmini, dato che lavora a pressione atmosferica e a temperatura ambiente. Questo enzima permeAe ai reagen1 di combinarsi senza dover usare elevate energie. La quan1tà di azoto fissato a livello globale annualmente, tramite via biologica, è maggiore rispeAo alle alterna1ve (0,14 Pg). I baAeri azotofissatori possono avere un vantaggio ulteriore, dato dalla simbiosi con le piante, in par1colare della famiglia delle Leguminose (per quanto riguarda i baAeri Rhizobium). L’azoto fissazione biologica avviene sia in ambiente terrestri che in ambien1 acqua1ci, dove troviamo i CianobaAeri, ovvero baAeri che, oltre a fissare il carbonio, sono anche in grado di fissare l’azoto (sono quindi in grado di effeAuare le autotrofie dei due grandi elemen1 chimici nutri1vi indispensabili alla vita). Le riserve di azoto nelle piante acqua1ce (fitoplancton e poche macrofite acqua1che) corrisponde a circa 0,4 Pg. Gli animali che compongono la fauna aqua1ca, e quindi si nutrono anche di fitoplancton, contengono circa 0.17 Pg di azoto. Nel suolo, la sostanza organica generata dalla produFvità primaria morta ha un valore di 300 Pg; si traAa di un valore importante, che con1ene azoto in forma u1le alla vita, anche se sostanza organica in decomposizione con1ene al suo interno proteine, che serviranno come fonte di azoto già ridoAo dopo essere sta1 mineralizza1 per potere essere u1lizza1 dagli altri organismi viven1. La decomposizione della sostanza organica libera forme di azoto che verranno poi assimilate dalle piante, soAo forma minerale o ammoniacale. L’azoto in forma ammoniacale si oFene grazie alle decomposizione di proteine e acidi nucleici che compongono la sostanza organica. TuAavia, l’azoto in forma ammoniacale tende ad abbandonare il sistema suolo poiché, traAandosi di un gas, vola1lizza. Ciò rappresenta un danno in termini di fer1lità, in quanto si verifica un ritorno di azoto in forma gassosa (pur essendo comunque una forma di azoto differente da quella iniziale presente in atmosfera). Questo accade in relazione ad un pH che non è abbastanza acido; se il pH del terreno è abbastanza acido, allora si può stabilire un equilibrio tra ammoniaca e ione ammonio; non si traAa di una relazione di equilibrio biologica ma è di natura preAamente chimica, legata al faAo che nei suoi sufficientemente acidi ci sono abbastanza ioni idronio (derivan1 dall’autoprotolisi dell’acqua) che permeAono la formazione di NH4, a par1re da NH3. Parlando di ecosistemi, la sostanza organica che si tende a decomporre rilascia, per mineralizzazione, ammoniaca e ammonio. In par1colare, quest’ul1ma forma, essendo un ca1one, rimane nel terreno, in quanto tende a legarsi sulle par1celle colloidali delle argille (che hanno carica nega1va), aAraverso la capacità di scambio ca1onico. Da qui, questo azoto è pronto per essere scambiato con le radici delle piante. Nei sistemi antropizza1, in cui l’impaAo della stessa agricoltura origina delle situazioni di non – equilibrio, fa si che l’ammonio abbia anche altri des1ni. Il passaggio successivo alla mineralizzazione (chiamato ammonificazione, in quanto produce ammoniaca), alterna1vo al recupero di azoto dagli organismi vegetali, è la nitrificazione, in cui ciò che era in forma ammonica ridoAa, viene ossidato in nitrito. Il prodoAo di questa reazione di ossidazione è un composto piuAosto tossico, che interferisce con DNA e proteine causando mutazioni. Il nitrito è poco stabile nel suolo, e tende quindi a reagire facilmente e a formare il nitrato (tramite ulteriore ossidazione). Queste due forme di azoto espongono il sistema ad un potenziale rischio di perdita di fer1lità. Pur essendo queste forme assimilabili dalle piante, esse non sono più ca1oni, bensì anioni, per cui scompare quel faAore di complementarietà eleArica con i colloidi del suolo, che si verificava invece per l’azoto soAo forma di ione ammonio. Il faAo che queste forme vengano respinte dalle par1celle colloidali del suolo, le rende molto mobili, quindi lisciviabili, al punto da raggiungere le falde tramite percolazione, con conseguen1 fenomeni di inquinamento. Il processo della nitrificazione avviene ad opera da microorganismi nitrifican1, che appartengono al gruppo dei chemiolitotrofi, che traggono la propria energia dall’ossidazione di molecole inorganiche, così come avviene per la reazione di nitrificazione. Ques1 baAeri non hanno quindi bisogno di sostanza organica, ma solamente di ammonio (il carbonio lo interceAano dalla CO2). La reazione di nitrificazione produce delle forme solubili di azoto, il che implica la possibilità di riformazione di nitrito a par1re dal nitrato, che è sfruAata da altri baAeri, deF denitrifican/, che riducono il nitrito ad ossido nitrico e, successivamente, ad ossido nitroso; ques1 baAeri sono anche in grado di chiudere il ciclo, formando N che torna in atmosfera. I baAeri denitrifican1 u1lizzano il nitrato, e le forme successive, come acceAori primari di eleAroni. I compos1 che vengono prodoF dal metabolismo di ques1 baAeri sono dei gas (ossido nitrico e ossido nitroso), che abbandonano il sistema suolo; ciò implica che il ciclo non venga necessariamente chiuso da ques1 baAeri, in quanto i due gas prodoF possono abbandonare il terreno prima di essere ridoF ulteriormente ad azoto molecolare. Ques1 due intermedi, ossido nitrico e ossido nitroso, quando raggiungono l’atmosfera, provocano dei danni, essendo coinvol1 nell’allargamento del buco dell’ozono, in quanto possono conver1re l’ozono in ossigeno, riducendo l’importante barriera che scherma la radiazione ultravioleAa. Queste specie chimiche sono coinvolte anche nel processo delle piogge acide, venendo ossida1 fotochimicamente in alta atmosfera ad acido nitrico, che abbassa il pH delle piogge. Il problema principale di ques1 compos1 gassosi è dato dal loro contributo all’effeAo serra, sopraAuAo a causa della formazione di ossido nitroso, un gas serra estremamente efficace. Le vie della denitrificazione sono 1picamente associate ad un ambiente col1vato, in cui i cicli dell’azoto e del carbonio sono sta1 aper1 (non più circolari). TuAe queste forme appena affrontate fanno parte della riserva di azoto non organico dei suoli. Nell’ambiente acqua1co, l’azoto delle riserve biologiche animali viene conver1to in sostanza organica che viene poco decomposta, per via di condizioni sfavorevoli alla respirazione (scarsità di ossigeno in acqua). La riserva di azoto inorganico presente nelle acque oceaniche riceve un apporto terrestre, soAo forma di nitrato e nitrito; queste forme, essendo molto mobili nel suolo (sono anioni non traAenu1 dalle argille), possono abbandonare l’ambiente terrestre e raggiungere il mare (ma anche le acque dolci), causando il fenomeno dell’eutrofizzazione, con tuAa una serie di conseguenze devastan1 per gli ecosistemi acqua1ci. Un lato posi1vo della nitrificazione è dato dal faAo che ques1 baAeri, essendo eterotrofi, sono in grado di u1lizzare anche compos1 tossici inquinan1 (ex. idrocarburi, PFAs) per il loro metabolismo, contribuendo al biorisanamento dei terreni. La denitrificazione può avvenire anche in ambiente acqua1co, sopraAuAo in circostanze anaerobie. Le perdite globali di azoto per denitrificazione ammontano alla somma annua di 577 Pg. Una piccola quota di sedimentazione contribuisce alla perdita di azoto. REAZIONE DI ANAMMOX Inoltre, in suoli forestali acidi può verificarsi una nitrificazione eterotrofica da parte di alcuni funghi e baAeri. In condizioni di sommersione (poco ossigeno) si sopprime lanitrificazione e si accumula ammonio.Però non sempre l’ammonio è stabile in condizioni anaerobie, perchè esiste la reazione di anammox (cioè ossidazione anaerobia dell’ammonio), in cui l’ammonio reagisce con il nitrato, formando dell’azoto molecolare. Questo è un importante processo che può contribuire al biorisanamento; in par1colare, in molte industrie viene sfruAato questo processo durante il traAamento dei reflui, in par1colare se contenen1 azoto o nitrato, che vengono detossifica1 all’interno di specifici digestori. DIOSSIDO DI AZOTO Il diossido di azoto (noto anche come ipoazo1de, specie se in forma dimera, N2O4) è un gas più denso dell'aria, pertanto i suoi vapori tendono a rimanere a livello del suolo. Il diossido di azoto è un forte irritante delle vie polmonari; già a moderate concentrazioni nell'aria provoca tosse acuta, dolori al torace, convulsioni e insufficienza circolatoria. Può inoltre provocare danni irreversibili ai polmoni che possono manifestarsi anche mol1 mesi dopo l'aAacco. PROCESSO HARBER – BOSCH Come deAo in precedenza, questo processo u1lizzato per formazione di azoto ammoniacale non è sostenibile, neppure economicamente, per via delle al1ssime temperature e pressioni richieste. Esistono comunque delle alterna1ve biologiche, cos1tuite sopraAuAo da baAeri che vivono in simbiosi con le piante. Ques1 baAeri, avendo a disposizione l’enzima nitrogenasi, non necessitano di così tanta energia per formare azoto in forme disponibili alle piante, come prodoAo del loro metabolismo fisiologico per la produzione di energia (ATP). AZOTOFISSATORI Abbiamo visto che nei cicli dell’azoto è cruciale la presenza di enzimi come la nitrogenasi I batteri azotofissatori possono essere principalmente di 2 tipi: 1. AZOTOFISSATORI LIBERI: comprendo specie che vivono libere nell’ambiente (=non in simbiosi con le piante), e sono di natura eterotrofa/organotrofa (necessitano sostanza organica per il proprio metabolismo). La quantità di azoto fissato da questi azotofissatori non è altissima, in quanto hanno delle limitazioni energetiche: devono trovare sostanza organica per alimentarsi e quindi avere energia per la crescita. Molti sono i generi di azotofissatori liberi; non tutti sono presenti in ambienti aerobi: essendo l’azotofissazione una riduzione (reazione che prevede il passaggio dell’azoto ad uno stato meno ossidato), l’ossigeno è quasi una controindicazione, e dunque funziona meglio in ambienti anaerobi o se l’ambiente viene reso non troppo soggetto alla pressione parziale dell’ossigeno (ci sono meccanismi che questi batteri hanno per rendere meno aerobio l’ambiente) oppure abitano direttamente in ambienti anaerobi (es. habitat sommersi, dentro intestini animali, ecc.). Questi altri azotofissatori liberi hanno una differenza: sono autotrofi, ossia sono capaci di fare anche fotosintesi. Vivono quindi in ambienti luminosi e possono sostentarsi autonomamente (non hanno la necessità di trovare ulteriore sostanza organica); per questo motivo, la quantità di azoto fissato è maggiore rispetto agli azotofissatori eterotrofi. Sono quindi batteri tipicamente “pionieri”, ossia che colonizzano habitat inizialmente privi di sostanza organica. Alcuni (primi 3), vivono in ambiente acquatico, mentre altri (ultimi 3) hanno un altro metabolismo: la loro fotosintesi infatti è di tipo non ossigenico (= non si ha produzione di ossigeno perché si prelevano elettroni dall’acido solfidrico anziché dall’acqua). 2. AZOTOFISSATORI SIMBIONTI Sono organismi che sono anche in grado di intraprendere relazioni associative con le piante: le piante forniscono sostanza organica foto-sintetizzata in cambio di azoto fissato, in zone più o meno internalizzate nella pianta. I primi 2, Azotobacter e Azospirillum, fanno simbiosi non tanto strette, nel senso che stanno aderenti all’epidermide della radice in una zona che però non è interna ai tessuti della pianta ospite; ciò quindi limita l’efficienza del processo perché la pianta lascia essudare C organico, i batteri fissano azoto e la pianta deve assorbirlo da un esterno. Invece, le simbiosi più efficaci e più importanti per l’equilibrio ambientale, sono quelle in cui gli azotofissatori sono interni agli organi della pianta, che a volte vengono formati e indotti appositamente per ospitarli; un esempio di simbiosi interna è quella tra i rizobi e le leguminose. (entrano nei noduli radicali). Oltre le leguminose, sono coinvolte anche altre piante: Parasponia, Trema (Ulmaceae) Ma ci sono simbiosi anche con specie di angiosperme arboree, come Alnaceae, Betulaceae, Rosaceae, Coriariaceae, Rhamnaceae, Eleagnaceae, Myricaceae etc. Tutti questi esempi che abbiamo nominati sono esempi di organismi azotofissatori simbiotici eterotrofi. Esistono però, come nel caso degli azotofissatori liberi, anche organismi azotofissatori simbiotici autotrofi. Si vede che in questo caso le piante con cui i microrganismi fanno simbiosi sono molto più antiche (selci, muschi, gimnosperme e licheni sono piante antiche): quindi questa tipo di interazione è molto antica, dall’inizio della colonizzazione delle terre emerse da parte dei vegetali. QUANTITÀ DI AZOTO FISSATO Come abbiamo visto, le quantità di azoto fissato variano molto, e sono massime quando si parla di vere e proprie simbiosi (come quelle dei rizobi). Tutto ciò dà luogo ad una capacità di azotofissazione di ambienti vari che è molto diversa per quanto riguarda l’intensità del processo: l’input totale annuo e i Kg di azoto fissato all’anno per ettaro ci indicano dove avviene maggiormente l’azotofissazione nella biosfera terrestre. Notiamo che le piante leguminose sono quelle in cui l’intensità e l’efficienza del processo è quella massima raggiunta: 80 Kg di azoto fissato/anno/ha (si considera l’intera area ricoperta da leguminose); Le piante non leguminose invece sono più estese delle leguminose ma hanno minor efficacia azotofissatrice. Si nota anche la presenza di aree di elevate estensione ma con bassa efficienza: è infatti il caso dei corpi idrici, come il mare e gli oceani, i quali hanno bassa intensità di azotofissazione (è rappresentata solo da cianobatteri) per l’area che occupano. L’insieme di tutti questi dati da luogo ad una somma biologica che è pari a 122 tonnellate * 106, valore maggiore dei valori della fissazione aleatoria e sporadica di tipo atmosferico e dell’azotofissazione industriale, costosa e insostenibile. Quindi le piante leguminose sono un “hotspot” di azotofissazione specifica: ciò ha un effetto importante sia per la loro crescita, sia per la loro indipendenza dal concime azotato, sia per l’ambiente stesso (= i residui di colture di piante leguminose restano nel suolo, e la radice che si decompone rilascia l’azoto che la pianta ha accumulato nei tessuti). Sia dall’antichità infatti era noto che dopo la coltura di leguminose il terreno fosse molto più fertile, e quindi si cominciò a fare rotazioni tra cereali (=consumano azoto e ne fissano poco) e leguminose. Ma le leguminose da sole non fanno niente: sono i rizobi che entrano in associazione con le piante che fissano l’azoto. La prova si ha anche mettendo a confronto delle leguminose con rizobio e senza rizobio: si hanno differenze nel colore e nello sviluppo della biomassa (è maggiore nelle piante inoculate, hanno crescita vigorosa, colore non limitato da carenze e produttività specifica molto alta). Le differenze tra colture inoculate con rizobi colture non inoculate la si può vedere anche in test di allevamento in vitro: si nota che nelle colture non inoculate la piante cresce giallastra, cresce poco, è carente in azoto e proteine e non mostra nodulazioni. Le leguminose sono anche famose per l’ alto contenuto proteico presente nei semi (semi con riserve proteiche, oltre che carboidrati); i cereali hanno invece semi la cui riserva principale è l’amido: per questo motivo, nutrendoci di carboidrati, non abbiamo un fabbisogno proteico completo. Le leguminose quindi rappresentano un’ottima alternativa per il futuro della nostra alimentazione. Sardegna: terreno molto poco produttivo e tendente all’erosione; però qualcosa sta crescendo: un cespuglio di piante di leguminose. Se ci avviciniamo, vediamo anche un aspetto florido delle piante, nonostante la zona sia arida e nessuna pianta cresce lì attorno. L’importanza della simbiosi e dell’azotofissazione sta nel fatto che le piante di leguminose possono fare a meno di ciò che manca nel terreno, ossia l’azoto. Quindi l’importanza delle leguminose, oltre al prodotto che ci offrono, sta nel fatto che sono in grado di mantenere l’ambiente in luoghi dove essi sono soggetti a degrado e, in questo caso, ad erosione eolica spinta (se nel terreno non sono presenti piante e non è infiltrato da radici che lo vanno a consolidare, esso rischia di estinguersi); quindi le simbiosi azotofissatrici permettono alle piante di attecchire anche ai terreni più inospitali. L’immagine mostra diverse piante di leguminose e la quantità di azoto fissato. La quantità è molto variabile a seconda delle specie coinvolte: per esempio, specie tropicali come Leucaena, hanno potenzialità molto alte di azotofissazione; altre piante invece hanno valori produttivi più bassi. Ovviamente però, l’azotofissazione costa alla pianta: essa deve fornire carbonio organico (C fotosintato) al simbionte, pari al 15-30% per fissazione di N2 e assimilazione di NH4+. Questi scambi tra pianta e batteri si verificano in una sede ipogea, ossia sotto al colletto della pianta, nel suolo: negli apparati radicali troviamo noduli, camere di azotofissazione che le leguminose hanno costruito nella parte della radice principale o in radici laterali. (importante: non tutte le leguminose fanno azotofissazione, ma la maggior parte sì) INTERAZIONE PIANTE-BATTERI L’interazione piante-batteri dà luogo ad un processo che è servito come base di studio di questi modelli di interazione: tale interazione è un dialogo molecolare costituito da varie e molto precise tappe: 1. All’inizio, la pianta inizia l’allungamento dei primi peli radicali al partire dall’epidermide (cellule della corticale); man mano che i peli radicali crescono, essi iniziano a rilasciare essudati, ossia sostanze specifiche che attraggono i rizobi presenti nel terreno e ne inducono l’espressione di alcuni geni. I rizobi riconoscono le molecole segnale e percepiscono la presenza di una pianta leguminosa che può essere specifica per quel batterio. 2. Quando la pianta e i batteri si incontrano (grazie a segnali di tipo chimico), i batteri producono altri composti solubili che la pianta percepisce e che indurranno modificazioni morfologiche spinte: il pelo radicale infatti, anziché crescere dritto, per cercare acqua e nutrienti, si incurverà ad uncino, intrappolando “nell’ascella” del piegamento i batteri che nel frattempo si erano addensati e moltiplicato. I rizobi riusciranno poi ad indurre nella pianta un processo di introflessione della membrana della punta del pelo radicale che si era precedentemente arricciato; inoltre si ha un assottigliamento della parete di cellulosa. I rizobi creano quindi una sorta di corridoio, detto canale d’infezione, in cui potranno stare, e che è indotto dalla crescita verso l’interno della pianta del filo di infezione; quindi l’introflessione della membrana è la crescita del filo di infezione verso l’interno. Questa situazione è del tipo “lascia passare con codice”: i buttafuori molecolari in questo caso sono le proteine della pianta, che devono ammettere, riconoscendoli, i batteri che stanno entrando e che hanno indotto questa modificazione. È un riconoscimento di superficie: le proteine sono delle lectine, che legano, ossia aderiscono in maniera lassa alle superficie dei batteri, per accertarsi che i rizobi abbiano i determinanti di superficie (ossia polisaccaridi nella capsula) e che siano giusti per essere riconosciuti come i rizobi che possono entrare. Può capitare che si intrufoli qualcun altro, ma fondamentalmente entreranno solo i rizobi corretti. (può esserci anche solo 1 rizobio da far entrare, ma la pianta permette ai batteri di moltiplicarsi, e quindi ci sarà un aumento di numero durante il tragitto fino al raggiungimento della sede che presto diventerà il nodulo radicale.) 3. I segnali molecolari che i batteri rilasciano dopo essere stati indotti dagli essudati della pianta inducono, oltre che all’incurvamento del pelo radicale, anche un altro fenomeno, ossia la moltiplicazione di alcune cellule all’interno della cortex radicale della pianta (= normalmente in questa zona non si ha produzione di altre cellule, ma il segnale batterico ha una sorta di effetto ormonale che fa dividere le cellule in una zona che già si era differenziata). Si formano quindi tante cellule che andranno a creare una sorta di gemma; questa si formerà con il meristema, ossia una zona della pianta in cui aumentano le cellule e quindi la dimensione. Dal meristema spunta quindi un nuovo organo che non è appuntito come una radice radicale, bensì è quasi sferico, e che ha la funzione di “camera” con pareti che andrà ad ospitare i batteri che sono stati ammessi. I batteri azotofissatori quindi portano a processi di neoplasia, ossia alla formazione di nuovi organi (ma non tumori maligni, bensì benigni), ossia organi azotofissatori e tubercoli radicali che ospitano i batteri. Microscopio: cellule nuove e cellule piene di batteri (bluastri) Questa interazione è quindi a tutti gli effetti un’infezione, ma: 1. È un batterio non patogeno 2. È un’infezione controllata: la pianta gestisce queste invasioni confinando i batteri nelle sedi opportuni (non possono uscire dai noduli radicali), con sistemi di membrane (la membrana avvolge anche i batteri stessi che vengono quindi ad essere localizzati). Se vediamo in sezione la radice con un nodulo, vediamo che le zone caratteristiche: meristema apicale del nodulo (zona che fa crescere in un determinato punto il tubercolo), zone di transizione, ossia il tessuto batteroide, dove alloggiano i batteri (batteroide= hanno assunto forme diverse da batteri), zona di senescenza (zona più prossimale alla radice). Ciò che caratterizza i noduli rispetto alle radici laterali è il fatto che non si ha la presenza di un vaso centrale: ci sono infatti dei vasi periferici che conducono i composti organici alla zona in cui i batteri fanno azotofissazione (flusso di carbonio organico) e portano via i composti azotati (li dirigono a tutte le parti della pianta). Quindi si ha una precisa istologia del nodulo e una situazione in cui i batteri vengono ospitate dalle piante; tuttavia, i batteroidi che si sono trasformati, non sono più in grado di riprodursi (paradosso: le simbiosi dovrebbero dare vantaggi ad entrambi le parti); quindi la specie Rhizobium qui non ha vantaggi, i batteroidi fanno il loro dovere e poi moriranno nel terreno dove rilasceranno azoto. Tuttavia, essendo simbiosi, deve per forza esserci almeno un vantaggio per i rizobi: in questo caso, gli ultimi batteri che arrivano (ultimi perché il rizobio ha una propria ciclicità, durata, e infine le proteine non faranno entrare più nessuno) e che si trovano nell’anticamera e si riproducono, (nel filo di infezione) non diventano batteroidi (non entrano nella camera d’infezione, non mangiano gli essudati organici), e quindi possono sopravvivere trovandosi addirittura in numero maggiore rispetto a quando sono entrati. Essi quindi tornano nel terreno aumentati di numero. Quindi il vantaggio per i rizobi sta nel fatto che alla fine del ciclo di nodulo ci sono più rizobi di quanto ce ne erano all’inizio (anche solo 1 rizobio può dare inizio alla simbiosi). Come abbiamo già detto, la simbiosi si basa su un dialogo molto raffinato: le piante e i batteri infatti si parlano utilizzando molecole. La pianta, non ancora colonizzata, secerne composti che spesso fanno parte della categoria dei flavonoidi (composti funzionali importanti anche come antiossidanti e bioprotettori, anche nella nostra dieta): essi, data la caratteristica variazione su tema chimico (hanno 3 anelli e alcuni sostituenti) costituiscono un segnale molto preciso di riconoscimento. I rizobi infatti possiedono recettori specifici per reagire a determinati flavonoidi: con la proteina di membrana attivata (il rizobio è stato riconosciuto) e con il flavonoide attaccato, il rizobio andrà a far esprimere sul DNA dei plasmidi i geni per la nodulazione e successivamente geni per la fissazione (nod fix: geni per la costruzione del nodulo e per l’azotofissazione). Il composto Chitolipooligosaccaride (chitina e lipide: molecola molto particolare) è un esempio di molecola molto specifica fatta dal rizobio per il riconoscimento da parte della pianta (domanda della pianta: flavonoide; risposta del rizobio: chitolipooligosaccaride): infatti la lunghezza della catena e il numero di elementi di chitina del Chitolipooligosaccaride è tipica e specifica, è una specie di chiave. Successivamente si ha la risposta da parte della pianta, duplice: incurvamento del pelo radicale per permettere l’entrata e moltiplicazioni delle cellule corticali che andranno a formare il nodulo che sporge dall’epidermide. LA NITROGENASI Un altro problema per i batteri azotofissatori è che la nitrogenasi è un enzima che deve compiere un reazione di forte riduzione (deve spostare elettroni verso il substrato di partenza, N2, che viene ridotto a NH3) e deve quindi lavorare in ambienti riducenti (non in ambiente ossidante, con ossigeno). La nitrogenasi quindi è sensibile all’ossigeno molecolare, e quindi i batteri azotofissatori sono costretti a trovare delle soluzione: L’Azotobacter è un batterio azotofissatore libero (non è all’interno della pianta) risolve il problema respirando in “maniera affannosa”, ossia in modo veloce, dando luogo ad un’attività respiratoria molto alta che va a consumare molto ossigeno. Quindi l’ossigeno viene ridotto ad H2O (se ci sono zuccheri a disposizione l’ossigeno viene usato come accettore di elettroni, togliendolo dall’ambiente) e la nitrogenasi è più facilitata nel fare processi di riduzione. Clostridium e Desulfovibrio sono batteri azotofissatori che vivono in anaerobiosi, risolvendo alla fonte il problema dell’ossigeno (in ambiente anaerobio non si ha ossigeno. Quindi il loro tipo di metabolismo esclude l’ossigeno dai siti di fissazione. Nei Cianobatteri, azotofissatori sintetici, il problema diventa un conflitto fisiologico: la fotosintesi nei cianobatteri è di tipo ossigenico, con produzione di ossigeno. In alcuni cianobatteri ciò viene risolto facendo di giorno fotosintesi e di notte azotofissazione, mentre in altri si ha la creazione di cellule all’interno di catene che non fanno fotosintesi (eterocisti= il fotosistema 2 è inattivo, non si ha fotosintesi: si ha la mancata produzione di ossigeno); quindi negli eterocisti, che hanno inoltre parete ingrossata, può avvenire indisturbata l’azotofissazione. Essendo un organismo catenato, le cellule si cedono reciprocamente i prodotti del metabolismo (negli eterocisti viene fatto entrare carbonio organico, mentre loro rilasciano azoto fissato). Rizobi, non sono azotofissatori liberi e quindi il problema viene affrontato con altre modalità: quando si osservano i noduli di leguminose, per capire se sono attivi e funzionali, bisogna vedere se il loro colore è rosso-rosato, (è presente un pigmento della Leg-emoglobina, proteina). Questa proteina, la Leg-emoglobina, possiede eme e ferro con funzione di legare ossigeno, in analogia con emoglobine e mioglobine animali (le emoglobine e le mioglobine possono rilasciare ossigeno nelle situazioni di carenza; qui viene semplicemente legato). Il sistema è quindi protetto dall’ossigeno perché viene legato da questa proteina. I RIZOBI NELLE GRAMINACEE Uno dei sogni biotecnologico è quello di avere anche i cereali capaci di fare azotofissazione, cercando di ingegnerizzare le piante di cereali mettendo dentro geni per fare l’azotofissazione. È stato provato a lungo ma non con successo per vari motivi: Le leguminose, avendo apparati radicali fittonanti, riescono a fare noduli in zone in cui i flussi sono regimati dalla portata; i cereali invece hanno apparati fascicolari, quindi i noduli potrebbero squilibrare il circolo di nutrienti. Le leguminose dal punto di vista ecologico sono vincenti (non necessitano ulteriori apporti di azoto), e quindi come mai la natura non ha esteso a tante altre piante la stessa abilità? In un ambiente in cui si ha qualcuno che è in grado di fare qualcosa di particolare, non è necessario che tutti siano in grado di fare la stessa cosa (tutti possono sfruttare ciò che altri fanno meglio): le piante graminacee sono opportunisticamente molto capaci di andare a competere in terreni in cui erano presenti le leguminose; quindi, non è necessario che anche loro siano in grado di fare azotofissazione. In Egitto si aveva probabilità maggiore di trovare piante che avessero appreso qualcosa dalle leguminose: in Egitto infatti, nella valle del Nilo, da molti secoli è stata coltivata in alternanza, con rotazione, piante come il trifoglio alessandrino (Trifolium alexandrinum) e il riso (Oryza sativa). Queste due, la leguminosa con il rizobio e la graminacea, convivendo insieme ed alternandosi, mostravano esempi in cui era più facile cercare tracce di passaggi dal punto di vista co-evolutivo di adattamento di batteri che vivono con una all’altra che trovavano l’anno dopo. (? Non so cosa significhi questa frase). I rizobi del trifoglio sono quindi sono stati cercati all’interno della rizosfera e sono stati trovati nel riso: i rizobi del trifoglio sono quindi stati trovati nel riso, vivendo come neofiti (dentro la pianta), ed erano in grado di promuovere la crescita di anche altre varietà non locali di riso. La cosa interessante è che questi rizobi entrano nel riso e lo fanno crescere meglio, ma non attraverso l’azotofissazione: essi semplicemente promuovono la crescita producendo ormoni vegetali e altri biostimolanti (non producono noduli). Per quanto riguarda lo studio dei batteri azotofissatori, molto è stato fatto anche da punto di vista della genetica (esistono ceppi in cui vengono prodotti plasmidi utili per studiare gli effetti prodotti dalla simbiosi): si guarda se si formano noduli e se si può indurre la formazione di più noduli utilizzando geni a dosaggio maggiore. C’è stato quindi molto sviluppo sul miglioramento delle proprietà di questi batteri, anche senza ricorrere a ceppi geneticamente modificati, bensì con semplice selezione o introduzione di plasmidi da un rizobio all’altro (è un’operazione fattibile tramite coniugazione tra batteri della stessa specie ma che hanno geni più efficaci di un ceppo rispetto all’altro). Il fatto che i plasmidi portano i geni per la simbiosi la dice lunga sul fatto che i batteri abbiano fatto molto prima ad adattarsi a piante leguminose utilizzando qualcosa di mobile, ossia batteri che potevano modificare gli uni e gli altri molto facilmente e rapidamente; inoltre le mutazioni spontanee hanno permesso ai batteri di trovare specificità con leguminose particolari. Quindi ogni batterio si è voluto e potuto fare una sorta di propria nicchia trofica (batteri con specificità). Altri batteri invece hanno preferito mantenere una promiscuità di ospiti: certi ceppi di batteri sono in grado di modulare diversi tipi di leguminose. Il tutto ha portato alla formazione di business ed industrie che si occupano della produzione di nodulanti di leguminose, con produzione di formulati e ceppi che possono essere somministrati al seme al momento della semina, possono essere immessi nel terreno oppure si ha la produzione di semi già integrati con il batterio. Per altre piante di origine diversa, di altri continenti, come la soia (origine asiatica) l’utilizzo di questi rizobi era necessario per la crescita in aree diverse da quelle di origine; ad oggi, che ormai è diventata cosmopolita, non c’è più bisogno. Tuttavia, questi formulati sono ancora molto venduti ed utilizzati, ma non per forza di tratta di batteri azotofissatori simbiotici (ci sono batteri azotofissatori che rimangono nel terreno, liberi, oppure si può avere azotofissazione accanto alla radice, come per le graminacee). CAP. 6 - IL CICLO DEL FOSFORO Quello del fosforo in realtà non è un vero e proprio ciclo: non c’è una fase aerea di grande importanza; il fosforo infatti, pur esistendo in forme che volatilizzano (es. fosfina, PH3, forma i cosiddetti “fuochi fatui”), non si ha una grande importanza per quanto riguarda la fase gassosa. Quindi qui non si ha il passaggio atmosfera → terreno → acqua → atmosfera, bensì si parla di un moto unidirezionale tra terra e mare; quindi non si ha un ritorno, si ha una perdita che prima o poi porterà via il fosforo dall’ambiente terrestre per farlo finire in mare (tuttavia si parla di flussi annui moderati, 0,00192, quindi il processo di estinzione di questo fosforo è un processo estremamente lento). Anche in questa unidirezionalità non si ha ciclicità, perché le forme di ritorno del fosforo dal mare alla terra sono piuttosto episodiche (uccelli marini che colonizzano le coste: il guano infatti, la cacca dei gabbiani, è un depositi di materiali di origine organica, e contiene fosforo; tuttavia le quantità riportate dal mare alla terra in questa maniera sono minime); ma il grosso del fosforo disciolto inorganico che costituisce questa grande riserva poco ritorna alla terra. Essendo un elemento che serve in maniera limitata, si hanno riserve altrettanto limitate: Viventi terrestri (piante e animali): 2.6 Di fosforo ne serve meno rispetto al carbonio e all’azoto, ma è essenziale: è presente nei fosfolipidi, ossia nelle membrane delle cellule, e nei nucleotidi; Viventi acquatici: 0,1; La morte e la decomposizione di viventi acquatici forma un deposito di fosforo organico particellare pari a 0.65; Tale riserva non è tanto facilmente utilizzabile (è molto profonda) e da luogo ad una sedimentazione, andando ad aumentare la consistenza di sedimenti contenenti fosforo (altrettanto complicati da utilizzare); Anche le acque dolci hanno una piccola riserva di fosforo, pari a 0.09; Quando parliamo di fosforo nelle rocce, nei sedimenti e nei depositi di guano, abbiamo a che fare con qualcosa che è soggetto alla limitazione legata alla necessità estrattiva: l’intervento umano è quindi necessario per ricavare i concimi (fosforo necessario per la crescita delle piante). Ciò quindi rappresenta una riserva che possiamo continuare a cerca di sgretolare, ma non illimitatamente. Il suolo contiene una certa quantità di fosforo: quando parliamo di piante e di equilibri ambientali, nel caso del non ciclo del fosforo è più facile ragionare considerando il suolo come campo, e non come intero pianeta. È quindi più semplice spostarci a osservare ciò che avviene per quanto riguarda le trasformazioni del fosforo a livello di un ettaro di terreno (in un campo infatti, ci sono riserve e trasformazioni di fosforo). I valori sono espressi in kg/ha, e la profondità e quella che di solito viene maggiormente sfruttata dalle radici delle piante (0-10 cm). Si parte da piante presenti, che colonizzano il suolo: si ha riserva di 10 kg/ha. Le vere grosse riserve nel suolo sono date da ciò che è sotto la superficie: si ha fosforo organico, 100-400 kg/ha (alta quantità), ma è difficilmente utilizzabile, in quanto sostanza organica ancora polimera e non mineralizzata/decomposta (non è solubile). Nella maggior parte dei suoli, soprattutto in quelli agrari coltivati, si ha fosforo inorganico, altrettanto presente in elevate quantità (50-200 kg/ha, un po’ meno rispetto a quello organico); questo fosforo è inaccessibile per piante e microrganismi, perché come tale è un qualcosa di solido, precipitato (grosso, insolubile).Quindi la maggior parte delle riserve di fosforo presenti nel sottosuolo sono non utilizzabili in maniera diretta dalle piante. Nel suolo sono presenti grosse quantità di fosforo organico e minerale perché il fosforo ha un difetto dal punto di vista della vita: è facilmente precipitabile in pH sia alcalini che acidi (ci sono grandi possibilità di formare fosfati, che si tolgono dalla soluzione precipitando). La biomassa microbica presente contiene fosforo, e ha la propria riserva vivente dentro le cellule; queste cellule hanno una certa capacità: batteri e funghi sono in grado di solubilizzare il fosforo inorganico minerale che era precipitato essendo in grado di modificare il pH (acidificando il pH sono in grado di assimilare ciò che possono trattare con i propri enzimi, con le secrezioni di acidi organici, ecc.). Quindi una parte del fosforo precipitato può essere trattato da funghi e batteri. Inoltre, batteri e funghi possono attaccare il fosfato organico facendo una mineralizzazione, ossia andando a decomporre la sostanza organica; in questo caso vengono utilizzati enzimi, come la fosfatasi, che vanno a decomporre sostanza organica che era legata al fosforo, andando quindi a liberare anche questo elemento (e anche altri componenti). Quindi quando i batteri vanno a degradare la sostanza organica morta vanno ad avanzare una piccola quantità di fosfati, che, se non sono usati da loro per l’assimilazione, rappresentano una forma solubile; dunque, la disponibilità di forme solubili di fosforo è legata a ciò che fanno i microrganismi; ovviamente, l’azione di solubilizzazione dei microrganismi deriva dal fatto che anche loro necessitano fosforo. Quindi questo flusso di ritorno tra biomassa microbica e fosforo organico sta a significare che, essendo anche i batteri biomassa organica, e quindi contenenti fosforo, fanno parte anche loro di questo fosforo organico: quando trasformano sostanza organica in biomassa microbica viva alimentano il fosforo organico nel suolo. Per cui alla fine, in termini di solubilizzazione, al netto di queste attività di solubilizzazione, di prelievo e di rimobilizzazione che fanno i microrganismi, rimane nella soluzione circolante, nel suolo, una piccola quantità, che darà luogo alla concentrazione di fosfato solubile. Tale quantità potrà essere assorbita dalle piante, ma è molto piccola: 0,001-0,01; quindi in un ettaro di suolo la quantità di fosforo solubile disponibile per le piante è una quantità irrisoria. I microrganismi sono quindi responsabili della disponibilità della quantità di fosforo solubile di fosforo. Quando le piante muoiono, liberano una certa quantità di fosforo organico, pari a 5 kg/ha (che dovrà essere mineralizzato da microrganismi). I residui vengono quindi decomposti dai microrganismi ed entrano a far parte della grande riserva di fosforo organico. L’agricoltore, supponendo di dare alle piante una certa quantità di azoto necessaria, fertilizza le piante contenenti azoto, fosforo e potassio. Il problema è che quando si scioglie in acqua il fertilizzante contenete fosforo, si va teoricamente ad aggiungere fosforo alla soluzione circolante, ma in pratica gran parte precipita come fosfato inorganico del suolo. Quindi le piante faranno in tempo appena prendere una minuscola quantità di fosforo aggiunto tramite fertilizzante (rimane solubile per pochissimo tempo, poi precipita e rimane nel terreno in forma insolubile). Due enunciati: 1. Il fosforo nella sostanza vivente è presente come fosfato, ovvero la stessa forma in cui è prevalentemente reperibile in natura (ione fosfato inorganico). A differenza di carbonio e azoto non richiede quindi particolari riduzioni. 2. I composti con fosforo non fungono da fonti energetiche da ossidare (in chemiolitotrofia), né da accettori di elettroni nei metabolismi (= probabilmente a causa della loro limitata disponibilità in forme solubili, è molto prezioso per peptidi e nucleotidi e non va sprecato). Quindi, per le piante si ha pochissimo fosforo nella soluzione circolante, ed è dunque necessario per loro non perderne neanche una goccia; per questo motivo, esse devono imparare a vivere in questo ambiente, e sviluppare accortezze per vivere al meglio. La risposta a tale necessità sta nei funghi del terreno, in particolare nei funghi micorrizici: la maggior parte delle piante infatti intraprendono simbiosi con questi funghi, che esplorano il terreno andando ad accumulare ogni tipo di nutrimento necessario. Immagine: Giallo fosforescente: radice della pianta. Giallo/bianco: ife di funghi micorrizici che interagiscono con la pianta creando un network esplorativo che permette di estrarre dal terreno acqua e ciò che è disciolto in essa, come il fosforo. Quindi una pianta non riuscirebbe a ricavare tutto il fosforo di cui necessita per crescere senza le micorrize. La micorriza non è un'eccezione, ma la regola: su 260 000 specie di piante terrestri, circa 240 000 sono micorrizate. Tale collaborazione con le micorrize è antica quanto le piante terrestri: le Rhynie fossili di 370 milioni di anni fa la presentano (la colonizzazione delle terre emerse è stata possibile grazie a questa simbiosi). Famiglie con specie che NON hanno micorrize includono: Cruciferae, Caryophyllaceae, Chenopodiaceae , Urticaceae, Juncaceae, Cyperaceae; sono piante con modo di vivere rapido e opportunistico, e riescono ad affermarsi. Piante per cui è cruciale: quelle senza peli radicali (agrumi), con radici fittonanti, con radici grossolane. L’efficacia di questa simbiosi è molto evidente (foto). La pianta quindi si fa portare ciò che necessita (fosforo, azoto, zinco, molibdeno, ferro, ecc.) direttamente all’interno della radice, grazie a cordoni citoplasmatici. Nel servire una giovane pianta, le micorrize fanno una sorta di investimento nel futuro: sanno che se la pianta cresce, diventa qualcosa di molto forte che darà loro moltissimo carbonio organico. Parlando di micorrize, ne esistono di diversi esempi dal punto di vista della biologia dei funghi e delle piante coinvolte: Ectomicorrize: stanno leggermente fuori dalla radice: si mantengono come una sorta di mantello che protegge e avvolge la radice delle piante e non penetrano più di tanto (sono ovviamente a contatto biologico-citoplasmatico); ○ Piante: riguardano soprattutto piante arboree, specialmente gimnosperme; ○ Funghi: 25 famiglie di basidiomiceti (= corpi fruttiferi ad ombrella), 7 di ascomiceti (=tartufi), alcuni zigomiceti; Endomicorrize: gruppo più diffuso, riguarda la maggioranza di piante: ○ Piante: quasi tutte le altre, ossia Briofite, pterido-fite, gimnosperme, angiosperme; ○ Funghi: Glomales (Glomus, Gigaspora); sono stati capaci di servire quasi tutte le piante, grazie alla formazione dell’arbuscolo: è una sorta di alberello dato dall’introflessione di ife dentro alle cellule della radice della pianta (viene contattata con un sistema simile a quello della patogenesi, ma in questo caso non si parla di patogeni). La ramificazione e la creazione di arbuscoli serve per aumentare la superficie di scambio (= massimizzazione del passaggio di sostanza organica e della soluzione contenente elementi che la pianta necessita). Dentro alla pianta possono essere presenti anche delle vescicole, sempre create da questi funghi (si chiamavano infatti Micorrize Vescicolari-Arbuscolari, VAM). Micorrize ericoidi: modello intermedio di penetrazione della pianta: ○ Piante: nell’ordine Ericales e con radici fini; ○ Funghi: pochi ascomiceti; Micorrize arbutoidi: presentano caratteristiche estroflessioni dell’apparato radicale della pianta e un tipico manicotto avvolgente da parte del fungo ○ Piante: Ericales ma solo i generi Arbutus, Arctostaphylos ○ Funghi: basidiomiceti, ascomiceti Micorrize monotropoidi ○ Piante: Ericales senza clorofilla (sono bianche, non fanno fotosintesi); abitano ambienti di sottobosco ricchi di sostanza organica e vivono in maniera saprofitica. Qui la mediazione dei funghi funge sia come degradatori di sostanza organica, sia come fornitori di composti solubili. In questo caso i funghi ricevono da queste piante composti di altro tipo (es. vitaminici), mentre il carbonio organico viene ricevuto da altre piante che stanno nell’ambiente circostante ○ Funghi: basidiomiceti, simili a quelli delle Ecto- Micorrize delle orchidee ○ Piante: Orchidaceae ○ Funghi: Basidiomiceti (gruppo Rhizoctonia) o ascomiceti; L’interazione con i funghi in questo caso è essenziale all'inizio dello stadio vitale dell’orchidea: i frutti dell’orchidea hanno semi piccoli e quindi scarse di riserve nutrizionali; quando germinano, essi danno luogo ad una plantula di orchidea che ha radici molto rudimentali e con scarsa possibilità di sopravvivere se non con l’aiuto di simbiosi micorriziche. Qui i funghi forniscono assistenza come se fossero delle “ostetriche”, perché altrimenti la pianta non sarebbe in grado di sopravvivere: essa viene quindi invasa da cordoni ifali per portare i nutrienti dal suolo; una volta matura, la pianta potrà ritornare il favore ai funghi. Inoltre qui i funghi micorrizici, come Rhizoctonia, verso altre piante sono cattivi patogeni. Questo tipo di interazione ha molteplici benefici, ma non solo per la pianta e per il fungo, ma anche per l’ambiente circostante: quando le ife esplorano il terreno alla ricerca di nutrienti, stabilizzano il materiale inorganico che forma quello stesso terreno, formando aggregati molto stabili. Grafico: se le ife sono corte, qualcosa le ha rotte, e molto spesso i responsabili sono gli interventi meccanici I suoli in cui si ha maggior lunghezza delle ife sono suoli vergini, non lavorati. Il fosfato, che ha tripla carica negativa, ha diffusività nel suolo pari a 10-8 cm2/sec: questo è tuttavia molto strano, perché un anione come il nitrato dovrebbe essere respinto dalle cariche negative e quindi piuttosto mobile. Tale anomalia si spiega con il fatto che il fosfato risulta bloccato per il comportamento delle reazioni con i cationi, che rendono il fosfato un sale facendolo dunque precipitare. Quindi il fosforo è tanto ma è bloccato: ecco perché le micorrize e le associazioni simbiotiche sono così importanti. Le micorrize hanno anche altri ruoli molto importanti: Rifornimento idrico; Protezione da patogeni: le micorrize offrono un maggiore isolamento; Mantenimento della struttura del suolo: le micorrize hanno un’azione di aggregazione degli strati del terreno, portando alla sua stabilizzazione e quindi bloccando l’erosione; le micorrize dunque rappresentano un investimento anche nella stabilità; Rapporti con i batteri: esistono infatti delle interazioni tra le micorrize e le piante che coinvolgono anche un terzo attore, ossia i batteri; per esempio il fungo Laccaria bicolor fornisce al batterio Pseudomonas fluorescens uno zucchero utile per la crescita, il trealosio; il batterio a sua volta rilascia l’ acido citrico, necessario per il mantenimento in vita delle ife. Questo può diventare molto utile perché spesso il fungo non incontra sempre subito la radice della pianta ospite, e dunque in attesa che il seme cresca e che trovi il fungo compatibile, il fungo può sopravvivere con il batterio che gli fornisce l’acido citrico. Quando le piante arrivano al fungo e innescano la simbiosi, si può innescare questa simbiosi tripartita (=insieme di organismi sinergici che rendono più stabili le condizioni vitali). Le foreste hanno segreti sotterranei, che hanno fatto prospettare l’esistenza di una rete estesa sotto tutta la foresta (= wood wide web). CICLO DELLO ZOLFO Abbiamo studiato i cicli di vari elementi ponendoli in ordine di abbondanza nella sostanza vivente. Lo zolfo non è molto presente ma serve in maniera essenziale: è necessario negli amminoacidi solforati (= hanno il gruppo zolfo, molto importante per i legami che fanno da ponte tra due zone della proteina) ed è presenti in diverse altre molecole del metabolismo, come punti di aggancio di qualcosa. Nel caso dello zolfo, data la sua poca abbondanza, i flussi sono indicati in tetragrammi (= mille volte di meno dei pentagrammi, è infatti un elemento meno rappresentato nella vita rispetto a C e P). Scegliamo un punto di partenza: 1. Nel nostro caso, con il ciclo dello zolfo, partiamo dalle emissioni di tipo geologico (vulcanismo e, conseguentemente, eruzione di acido solfidrico), con un flusso pari a 3 tetragrammi; 2. Abbiamo poi emissioni di tipo industriale, con un forte deflusso di anidride solforosa: l’anidride solforosa rappresenta un problema di tipo ambientale, in quanto si ossida in maniera fotochimica in atmosfera passando a ione solfato, ione che contribuisce notevolmente alle piogge acide. I terreni acidi sono limitanti anche per la vita batterica, quindi le emissioni a livello industriale possono rappresentare un problema anche per la crescita delle piante. 3. A causa delle piogge acide, si ha anche un flusso di zolfo dall’atmosfera alla terra tramite le precipitazioni; 4. Quando la sostanza organica si decompone, da organismi o da lettiera forestale, lo zolfo è presente in forma ridotta (solfuro, -SH): - Se le condizioni sono aerobie, ossia ci si trova in una zona del terreno in cui si ha drenaggio e presenza di ossigeno, lo zolfo viene ossidato a ione solfato (= forma circolante nel suolo); - Se la mineralizzazione avviene invece in condizioni anaerobie (a causa di forti piogge), si avrà un rilascio di acido solfidrico. L’acido solfidrico elevata volatilità (e un tipico odore di uova marce) ed è anche acido, (corrosivo, può corrodere i condotti che si trovano nel sottosuolo). L’acido solfidrico lo troviamo in condizioni acide, ossia protonato: è dunque anche il pH che determina in che forma troveremo lo zolfo. - pH neutro: HS- (ci sono meno H+); - pH acido: H2S, basico (meno protoni, si forma solfuro basico, ossia senza forme protoniche); La loro concentrazione relativa determina quindi la pericolosità. La putrefazione quindi non è mai un vantaggio poiché porta alla formazione di queste forme, che sono anche reattive e tossiche (mutageni); tuttavia, si ha una possibilità di contrasto grazie all’azione microbica: il batterio Beggiatoa ossida lo zolfo a zolfo elementare, S0 (batterio beggiatoa), tramite una reazione di tipo chemiolitotrofico (= metabolismo che prende energia da specie inorganiche, come S2 ossidato a S0). Ci sono inoltre anche altri batteri, come il Chlorobium, che, pur essendo fotosintetico, fa la stessa cosa: l’H2S rappresenta la fonte di elettroni per il processo di fotosintesi. La differenza tra i due sta nel fatto che Chlorobium agisce alla luce, mentre Beggiatoa agisce al buio; si ha quindi una versatilità nella soluzione dei problemi. Ci sono poi altri batteri che completano il ciclo ossidativo: il Thiobacillus ossida lo zolfo elementare a solfato; tale reazione porta ad una forma ossidata utile e non tossica che è inoltre oggetto dell’assimilazione di piante. 5. Gli animali non assimilano lo zolfo dal solfato: bisogna quindi avere dei microrganismi che permettano l’assunzione come amminoacidi che contengono zolfo (= il bovino ha la microflora che assorbe solfati e li converte in amminoacidi). Alcuni microrganismi compiono la riduzione dissimilativa (= ad opera di tutti i batteri che iniziano il nome con -desulfo): avviene ad opera di batteri che fanno respirazione anaerobia formando la forma ridotta dello zolfo, H2S (=Riduzione dissimilativa: organismi usano zolfo come accettore di elettroni, non lo assorbono). Tuttavia, spesso possiamo avere dei problemi con l’accumulo di forme ridotte (l’H2S rappresenta un problema nel suolo), al tal punto che la riduzione dissimilativa può essere contrastata dagli agricoltori aggiungendo dei nitrati come accettori di elettroni alternativi, lasciando quindi da parte il solfato che non verrà ridotto ad acido solfidrico. 6. Nel suolo sono presenti dei processi di precipitazione che rendono il solfato stabile, con formazione di minerali di ferro (pitrite, FeS2) e gesso (solfato di calcio, CaSO4); è possibile anche una solubilizzazione del solfato, con dei passaggi che portano alla formazione di minerali solidi (es. solfuro di ferro). 7. Nell?

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