Filosofia della Medicina - Lezione #11 (25/11/2024) PDF
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2024
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The document contains lecture notes on an introductory, philosophical discussion on expert and public communication in relation to medical science. There are notes on ethical issues in the dissemination of medical research. The main focus revolves around the role of experts in sharing medical research and the ethical considerations involved.
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Sbobinatrice: Margherita Antolloni Revisionatrice: Fabiana Paulet Filosofia della Medicina – Medicina, Scienza e Società (Elisabetta Lalumera)...
Sbobinatrice: Margherita Antolloni Revisionatrice: Fabiana Paulet Filosofia della Medicina – Medicina, Scienza e Società (Elisabetta Lalumera) Lezione #11 25/11/2024 Argomento: Esperti e pubblico, Etica della disseminazione Informazioni riguardo all’esame L’ultima lezione del corso sarà il 9 dicembre: l’argomento trattato sarà l’esitazione vaccinale, ma non ci sarà una domanda su questo argomento nell’esame del 16 dicembre. ESPERTI E PUBBLICO – ETICA DELLA DISSEMINAZIONE Introduzione Le lezioni di questo ultimo nucleo tematico approfondiscono in maniera esemplificativa gli argomenti più articolati trattati in precedenza: in particolare, l’episodio presentato in seguito permette di riflettere sulla metodologia impiegata negli studi scientifici e su alcune nozioni di etica della comunicazione tra esperti e pubblico. Non si tratta di un argomento marginale, infatti le modalità tramite cui questa relazione viene gestita possono determinare anche il bene o il male per una comunità. Responsabilità etica del ricercatore Tutti possono essere considerati esperti dal momento in cui si detiene un titolo, una laurea, una competenza lavorativa specifica e si inizia a diffondere contenuti in questa veste. Non serve avere autorità nell’ambito del panorama culturale o scientifico per diventare un divulgatore; basti pensare al mondo dei social. Gli esperti in medicina hanno una certa responsabilità, poiché ciò che dicono può essere letto e ascoltato anche al di fuori di un contesto propriamente clinico e può trasformare, se non la vita, almeno la routine delle persone. La comunicazione dei risultati degli studi è quindi una responsabilità propriamente etica di chi produce ricerca, non solo verso i soggetti della sperimentazione (ormai sono decenni che la ricerca su soggetti umani e animali viene regolata) ma anche verso la comunità scientifica (bisogna rispettare un’etica di comportamento per la quale i risultati devono essere messi a disposizione, anche in un’ottica di cooperazione e confronto tra esperti) e verso la società. Il complicato iter del metodo scientifico non termina con l’ottenimento di risultati ma piuttosto con la divulgazione di quest’ultimi. Una volta posto un problema, viene formulata un’ipotesi e vengono poi analizzati dei dati per verificare se questa venga confermata o meno; infine, si traggono delle conclusioni che devono essere divulgate. La pubblicazione dei risultati non sempre avviene nel migliore dei modi a causa di un fenomeno definito “bias di pubblicazione”, per il quale è molto più facile che vengano pubblicati articoli che vanno a confermare un’ipotesi di ricerca piuttosto che quelli che la smentiscono. Per comunicare i risultati bisogna seguire delle procedure standardizzate: essi vanno presentati a conferenze e convegni, poi inviati a riviste scientifiche, le quali valutano se pubblicarli in seguito ad una peer review (revisione tra pari). Si tratta di un contesto non privo di competizione, e questo determina una certa pressione sul ricercatore: in effetti, per ottenere la pubblicazione, egli tende ad inviare solo articoli contenenti esiti positivi. La diffusione dei risultati di uno studio ha valore etico perché il non diffonderli, positivi o negativi che siano, può provocare danno. Inoltre, la ricerca, anche quando non riguarda nel concreto la vita delle persone, è volta al miglioramento dello stato del mondo e all’aumento della conoscenza complessiva della società. In ambito medico il contenuto divulgato può essere sensibile e quindi questa tematica assume ancora più importanza. Uno scienziato dovrebbe pertanto promuovere la diffusione tempestiva e trasparente dei risultati di ricerca, senza nascondere intenzionalmente informazioni per motivi di guadagno personale (ad esempio, se uno scienziato arrivasse alla conclusione che una specifica molecola non è efficace per un determinato scopo, non dovrebbe vendere questa informazione privatamente ad un’azienda che è interessata a servirsene). È necessario poi che venga mantenuto l’impegno verso la revisione tra pari e che eventuali sponsorizzazioni e conflitti di interesse vengano resi pubblici. Da queste linee guida risulta chiaro che la comunicazione non è uno step accessorio ma parte integrante e ineludibile della ricerca: non è un caso che gli esiti di tutti i progetti finanziati dal governo e dall’Unione Europea debbano necessariamente essere pubblici. Comunicazione intrascientifica o tra pari Non è corretto ritenere che la scienza sia un ambito completamente oggettivo, privo di influenze, valori o interessi anche solo pratici. La comunità scientifica si autoregola grazie ad un filtro costituito dal giudizio dei pari, da convegni e conferenze, dalle riviste specializzate. Per quanto possa essere difettosa, questa rete fonda la giustificazione dell’oggettività della scienza e dell’etica del ricercatore (permette di mantenere uno standard di qualità, poiché all’interno della comunità prima o poi qualcuno si accorge di errori o interessi prevalenti all’interno degli studi). Questo meccanismo, che caratterizza anche l’ambito medico, non è autosufficiente: in esso subentrano necessariamente enti privati per finanziare i progetti. Comunicazione esperti-pubblico: La controversia sull’idrossiclorochina La ricerca etica è alla base della fiducia nella scienza da parte del pubblico. Il caso dell’idrossiclorochina risulta emblematico per quanto riguarda le problematiche della comunicazione in ambito scientifico. Nel marzo 2020, l’OMS dichiara lo stato di pandemia globale di COVID-19 e, in breve tempo, vengono messi in atto dei primi tentativi di intervento. Il 20 marzo un piccolo studio di un gruppo francese di ricercatori, guidato da Philippe Gautret e dal famoso medico Didier Raoult, viene pubblicato sul Journal of Antimicrobial Agents: “Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID-19: results of an open-label non-randomized clinical trial”. La clorochina e l’idrossiclorochina sono molecole che si usano dagli anni 50 per curare alcune malattie reumatiche ed autoimmuni. Quest’articolo arriva alla conclusione che questi due farmaci sono efficaci per ridurre sensibilmente il carico virale di Covid-19. Lo studio è stato condotto valutando i risultati ottenuti dai referti di 20 soggetti e di un gruppo di controllo di 16 persone. Questo tipo di studio sperimentale viene definito “single arm protocol” in quanto verifica un solo tipo di trattamento, senza confrontarlo con altri. Durante questo studio sono stati somministrati ai pazienti 600 mg di idrossiclorochina al giorno (a seconda della loro scheda clinica è stata aggiunta anche una dose di azitromicina che ne migliorava l’effetto) e poi è stata misurata la loro carica virale attraverso dei tamponi nasofaringei. I 20 soggetti trattati hanno presentato una riduzione significativa della carica virale. Nonostante l’esiguo numero di soggetti trattati, lo studio presenta una significativa associazione tra idrossiclorochina e la diminuzione del carico virale, se non addirittura la sparizione della malattia in alcuni soggetti. Si può osservare dal grafico allegato all’articolo che la totalità dei pazienti trattati si è negativizzato e che l’effetto della medicina è risultato migliore per chi ha sintomi alle vie aeree superiori piuttosto che inferiori; in generale, però, tutti i pazienti trattati sperimentano una diminuzione della carica virale. Considerazioni metodologiche sull’articolo Si tratta di un numero molto esiguo di pazienti ricoverati nello stesso ospedale, per cui potrebbero esserci molti confondimenti. Inoltre, nell’articolo si specifica che, per ragioni etiche, si è deciso di comunicare i risultati poiché fin dall’inizio si sono rilevati molto positivi (i soggetti ne erano quindi a conoscenza). Secondo il protocollo, per verificare l’efficacia di un farmaco è necessario un randomized controlled trial (RCT) multicentrico (ovvero svolto parallelamente in differenti sedi). In questo caso la volontà di trovare al più presto una cura efficace ha fatto sì che il protocollo metodologico passasse in secondo piano. Il sostegno politico e le conseguenze Didier Raoult è un celebre medico e microbiologo francese. La sua notorietà sicuramente ha avuto un’influenza sugli eventi successivi, in quanto il suo articolo ha ottenuto da subito attenzione mediatica: Il giorno dopo la sua pubblicazione, infatti, il 21 marzo, Donald Trump pubblica un post in cui definisce questo studio “una delle più grandi svolte della medicina”. Poco dopo la pubblicazione di questi risultati, l’India (grande produttore di questo farmaco generico) blocca l’esportazione di idrossiclorochina. Negli Stati Uniti tutti ne fanno scorta e alcune persone arrivano a berne flaconi interi; vengono registrati addirittura due casi di avvelenamento per overdose da questo farmaco. Si verifica un fenomeno di hype nel mondo scientifico: con questo termine si va ad indicare la dinamica per cui un argomento diviene massimante, importante e tutti iniziano a investire per compiere studi al riguardo. Trump era probabilmente a conoscenza dello studio prima che venisse pubblicato. In una situazione critica come quella della pandemia ai leader politici serviva mostrare con sicurezza di avere una soluzione, per di più anche molto economica. I due farmaci analizzati dallo studio si trovano sul mercato da più di 50 anni, di conseguenza la loro copertura brevettuale è scaduta; altre aziende autorizzate possono commercializzare lo stesso prodotto come equivalente generico ad un prezzo più conveniente (basti pensare all’aspirina: oltre al farmaco brevettato e distribuito dalla Bayer, esiste il generico che costa molto meno). Tutto questo rende l’idrossiclorochina un grande affare, perciò sono tutti soddisfatti di presentare al mondo una soluzione a buon mercato. Nel luglio del 2020 l’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro (leader populista), positivo al COVID-19, appare in video: egli sostiene di sentirsi molto bene grazie ad una terza dose di idrossiclorochina. Le dichiarazioni di Trump e Bolsonaro in sostegno dell’idrossiclorochina conferiscono importanza alle ricerche in questo ambito, per cui appare massimamente importante concentrarsi su uno studio di così piccola portata (fenomeno di endorsement politico). Le risposte – Science Integrity Digest Già il 24 marzo qualcuno inizia a notare i difetti dello studio; infatti, esce su un blog (Science Integrity Digest) un articolo della metodologa Elisabeth Bik che ne scredita i risultati attraverso una critica del metodo con cui è stato condotto: vengono segnalati possibilità di confondimenti, problemi etici, bias di loss di follow-up (alcuni soggetti del gruppo avevano lasciato lo studio). Viene inoltre notificata un’anomalia nel processo di revisione: l’articolo è stato ricevuto e accettato molto velocemente, il che è alquanto insolito. Appare chiaro che ci fosse stata la volontà di mostrare un risultato positivo il più velocemente possibile, nonostante l’aspetto metodologico dello studio fosse risultato molto debole. Le dinamiche di pubblicazione di un blog sono molto più rapide di quelle di una rivista; tuttavia, le informazioni pubblicate non vengono filtrate allo stesso modo. Le risposte - JAMA L’11 maggio viene pubblicato su una rivista nota e prestigiosa, il JAMA (Journal of the American Medical Association), uno studio multicentrico di caso-controllo (in cui si analizza come sono stati curati in passato pazienti già ricoverati) svolto a New York. L’analisi viene compiuta su soggetti morti per COVID-19 in ospedale e si va a controllare retrospettivamente se sono stati curati con idrossiclorochina o no. Non si tratta di uno studio di grande portata, ma viene svolto correttamente dal punto di vista metodologico. In confronto ai pazienti privi di trattamento, i 1438 pazienti, anche se ospedalizzati con diagnosi di COVID-19 e con somministrazione di idrossiclorochina e azitromicina, non avevano sperimentato alcun beneficio. Nell’articolo viene specificato che l’interpretazione di questi dati può essere limitata perché il disegno è osservazionale (non si tratta di uno studio sperimentale con soggetti di ricerca e gruppi di controllo); pertanto un’evidenza definitiva non smentisce lo studio sui presunti effetti positivi dell’idrossiclorochina, ma sicuramente lo mette in discussione. Le risposte – The Lancet Un’altra rivista importante, The Lancet, pubblica nell’estate dello stesso anno un’analisi sui registri di ospedalizzazione e mortalità di molti continenti (Africa, Australia…). Questo studio mostra nuovamente che non vi è alcuna associazione tra trattamento con idrossiclorochina e una riduzione della carica virale associata a COVID- 19. Poco dopo, però, The Lancet ritratta l’articolo, ovvero ne smentisce la pubblicazione. Un articolo viene generalmente ritrattato quando non può essere più considerato un’evidenza valida per problemi inerenti ai dati o alla metodologia. I dati presentati nell’articolo in questione risultano essere stati registrati in 671 ospedali di vari continenti; essi sono stati raccolti tra dicembre 2019 e aprile 2020, in seguito all’osservazione di un gruppo di trattamento di 1868 persone, tra pazienti che avevano assunto idrossiclorochina e non. L’articolo conclude che non è stato possibile confermare il beneficio dell’idrossiclorochina o della clorochina per i sintomi misurabili di covid in ospedale; inoltre, questo trattamento è stato associato ad una maggiore frequenza di aritmia cardiaca. Si tratta di uno studio osservazionale di grandissimo calibro (con molti soggetti e molti centri di raccolta dati), ricevuto nel 2022 ma pubblicato nel 2029: anche questo lasso di tempo fa riflettere e, in effetti, si parla di tempi di attesa lunghi rispetto al solito. Quando The Lancet riceve una simile mole di dati decide di pubblicarli; questo avviene poiché si sente in generale il bisogno di intervenire sulla situazione dell’idrossiclorochina, che sta sfuggendo di mano (interventi di personaggi pubblici, casi di overdose, blocco dell’esportazione e conseguente assenza del farmaco sul mercato per chi ne aveva bisogno per altri tipi di patologie…). Questi dati sono forniti ai ricercatori dalla società Surgisphere, però essi, in seguito ad un’attenta analisi, sono risultati falsi ed inverosimili (il numero di pazienti ospedalizzati attestato dallo studio è risultato molto maggiore di quello presente nei registri ufficiali). Da protocollo, chi scrive un articolo basato su registri di dati ha il dovere di controllarne l’attendibilità. Le risposte – NEJM Nel dicembre del 2020 viene pubblicato sul NEJM (New England Journal of Medicine) un RCT (randomized controlled trial), in cui si conclude nuovamente e definitivamente che l’idrossiclorochina non è efficace per il trattamento del COVID-19. Nei mesi precedenti a questa pubblicazione, una grande parte del panorama scientifico si è occupato esclusivamente di testare questa medicina per diversi motivi già citati in precedenza: per i politici vale la pena di investire molto su quella che può essere politicamente una grande fortuna (sicurezza garantita ai cittadini, disponibilità del farmaco generico senza il bisogno di affidarsi alle grande aziende farmaceutiche); tuttavia, la comunità scientifica deve aver intuito fin dall’inizio i limiti del piccolo studio di Gautret e Raoult: in condizioni normali sarebbe stato considerato limitato e metodologicamente scorretto. Attualmente, tra le raccomandazioni contenute nelle linee guida che riguardano il COVID-19, la somministrazione di idrossiclorochina non viene neppure citata. Fino all’ultimo, Trump ha sostenuto che la smentita dei risultati ottenuti con idrossiclorochina fosse un inganno perpetrato delle grandi industrie farmaceutiche per costringere i cittadini a comprare nuovi farmaci. Il suo obiettivo politico era quello di trovare velocemente una soluzione ad una situazione di emergenza e lo stesso vale per Bolsonaro. Anche i membri della redazione di The Lancet (il capo redattore della rivista è Richard Horton, dichiaratamente ostile alla politica di Trump) cadono vittima della stessa ideologizzazione: credono subito allo studio del maggio 2020 che smentisce l’ipotesi di Gautret e Raoult, colti dal bisogno di mettere un freno alla degenerazione della situazione dell’idrossiclorochina; lo studio pubblicato da The Lancet, tuttavia, non risulta meno limitato. Si ha quello che si definisce “white hat bias”, ovvero un errore che scaturisce dalla volontà di fare del bene. Conclusioni Questo caso tocca diversi temi: il rischio induttivo (quanto si può essere sicuri di avere accumulato abbastanza evidenze per dire di avere un risultato concreto? In questo caso una minima evidenza è associata ad un enorme rischio), il rischio della politicizzazione di alcune scelte portate avanti dalla scienza, soprattutto in una situazione di emergenza, ed infine quello della comunicazione. L’articolo di Gautret e Raoult poteva di per sé essere pubblicato su una rivista di microbiologia e rimanere a disposizione di pubblico di esperti, ma Raoult ha scelto appositamente di diffonderlo ovunque, anche su Twitter: egli ha mandato l’articolo a Trump prima della pubblicazione ufficiale, invitando anche il presidente Macron a vedere i propri laboratori a Marsiglia. Alle accuse Raoult risponde che i metodi matematici dei metodologi sono soltanto formalità, un rivestimento, e che sono le idee a contare; quando una di esse è importante, si può non essere troppo rigidi con i protocolli. Ancora oggi egli difende la propria scelta: era suo dovere mostrare un risultato positivo, anche per dare speranza. Come medico Raoult credeva di avere il dovere di trovare una cura e di dare speranza, ma ha di fatto trascurato l’obbligo di non maleficenza; esso viene meno quando si agisce senza sufficiente evidenza. La non maleficenza non consiste soltanto nell’evitare gli errori volontari, ma anche nel non rischiare di farne per ignoranza o fretta. La maleficenza può originarsi anche dalla volontà di aiutare, se l’aiuto viene portato avanti con un altissimo rischio (ad esempio, l’idrossiclorochina è un farmaco che non può essere assunto da chi presenta problematiche cardiache; la sua pubblicizzazione sregolata ha portato problemi gravi anche da questo punto di vista). Quest’esperienza dimostra che la scienza è caratterizzata da scelte anche molto difficili; il bisogno di trovare una soluzione può diventare molto forte e il rischio induttivo può collocarsi proprio nella volontà di risolvere un problema che affligge la comunità. Il dovere di non maleficenza deve imporre cautela: un trattamento farmacologico, quando non viene testato sufficientemente, può risultare non solo non efficace ma nocivo, sia direttamente che indirettamente. Questo si verifica perché, per un anno, si sono impiegate moltissime risorse per confermare ipotesi: visto che esse non godevano di molta attendibilità, sarebbe stato meglio investire su altro. Questa descrizione è quella dell’effetto dell’hype scientifico. È eticamente giusto non comunicare risultati poco solidi. Anche la politica e la comunicazione giornalistica hanno contribuito a peggiorare la situazione, ma la responsabilità diretta dell’accaduto è da attribuire ad uno scienziato: egli ha agito affinché risultati poco sicuri venissero condivisi con un pubblico molto ampio. Si tratta di una brutta pagina per la scienza medica: anche se la situazione era molto complessa e delicata, sin dall’inizio lo studio non appariva affidabile, per cui era rischioso dare certezze in quello stadio. Ciò dimostra che il rigore metodologico non è secondario alla volontà di fare del bene, in quanto permette di proteggere l’incolumità delle persone. Anticipazioni delle possibili conseguenze psicologiche che la comunicazione può determinare nel pubblico Nell’agosto del 2023, è stata pubblicata una revisione (umbrella review) in cui si sostiene di non aver trovato alterazione dei livelli di serotonina in tutte le persone che soffrono di depressione. Questo dato è stato interpretato dai quotidiani (soprattutto in Gran Bretagna, dove si registra malcontento nei confronti dei trattamenti farmacologi in psichiatrica) come un invito all’interruzione delle terapie con farmaci antidepressivi. Si tratta di una dinamica pericolosa perché i pazienti a cui vengono somministrati questi farmaci devono essere attentamente seguiti; l’interruzione della terapia deve essere graduale e monitorata. Questo studio, che non è privo di valore scientifico, dimostra che non tutte le persone affette da depressione presentano l’alterazione dei medesimi meccanismi. Anche in questo caso, è evidente che la comunicazione non regolamentata può avere effetti negativi sulla popolazione. Non si può attribuire tutta la colpa alla comunicazione di massa e ai social, ma è dovere dell’esperto comunicare con prudenza, soprattutto in contesti non filtrati. Se Gautret e Raoult avessero presentato lo studio in un ambiente chiuso e protetto, popolato da esperti, se ne sarebbero potuti valutare in modo più sicuro i rischi, i limiti o l’eventuale importanza. Si tratta di un errore di contesto comunicativo importante: il medesimo messaggio, infatti, può essere recepito in maniera diversa in base al pubblico che raggiunge. Nonostante la questione dell’idrossiclorochina non sia stata gestita in maniera esemplare, è stato dimostrato che il meccanismo della comunità scientifica può difendersi da queste dinamiche: sono stati messi in luce subito i limiti metodologici dell’articolo di Raoult; anche l’articolo su The Lancet è stato ritrattato in poco tempo. Un’altra cosa da sottolineare è la lentezza che una ricerca metodologicamente ben fatta sottintende: non è un caso che l’analisi che conferisce l’evidenza migliore riguardo all’idrossiclorochina sia arrivata più di un anno dopo rispetto alla prima pubblicazione. Può risultare complicato trovare un equilibrio tra l’esigenza di una ricerca robusta e la rapidità richiesta nelle situazioni di emergenza. Il caso speculare che ha senso mettere a confronto con questo è quello delle mascherine (dispositivi personali di protezione): allo stesso modo, non si poteva parlare di un’evidenza sicura, perché le mascherine erano state testate in contesti diversi da quelli della pandemia; i loro effetti collaterali, tuttavia, sono chiaramente minori di quelli di un farmaco. Metodologicamente si sta sullo stesso piano, ma il criterio di non maleficenza nel secondo caso non viene messo a rischio e quindi vale la pena tentare; non si sa, tuttavia, con certezza se il provvedimento preso possa determinare un miglioramento effettivo.