Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica PDF
Document Details
Uploaded by SimplestSugilite5145
Università del Salento
Tags
Summary
This document discusses the methodology of intervention in clinical psychology, emphasizing the importance of considering the context and relationships in understanding and treating individuals. It explores the concepts of system theory and relational approaches to psychology. The text examines how various perspectives influence clinical practice.
Full Transcript
20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica METODOLOGIA DELL’INTERVENTO IN PSICOLOGIA CLINICA INTRODUZIONE A proposito di punti di vista In un testo ormai classico lo scienziato viene visto come un visitat...
20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica METODOLOGIA DELL’INTERVENTO IN PSICOLOGIA CLINICA INTRODUZIONE A proposito di punti di vista In un testo ormai classico lo scienziato viene visto come un visitatore di un museo intento ad osservare una statua: girandovi intorno potrà apprezzare aspetti e particolari inizialmente non osservati, ma non riuscirà mai a guardarne contemporaneamente la parte frontale e quella posteriore, a coglierla cioè nel suo insieme. Secondo tale analogia, è chiaro che psicologi con formazioni differenti non potranno che osservare aspetti diversi del medesimo oggetto: le descrizioni e l’oggetto stesso saranno quindi più o meno dissimili. Per quanto riguarda la “prospettiva” clinica, un utile punto di partenza può essere individuato nel “paradigma della complessità”, che propone il superamento dei principi di intelligibilità della scienza classica (in cui la realtà è vista come unitaria, integrata e indipendente dall’osservatore) a favore di una rappresentazione del mondo che privilegi i concetti di mutamento, riorganizzazione, probabilità e perturbazione: la realtà descritta da questo paradigma non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma una sistema complesso in continua evoluzione, fondato su un’articolata rete di interazioni, in cui gli eventi sono profondamente interconnessi secondo processi che non si esplicano, ne tantomeno si esauriscono, nella logica lineare “causa-effetto”. Secondo tale modello, l’osservatore non è mai scindibile dal sistema che osserva: nel momento stesso in cui effettua una scelta rispetto a che cosa, come e quando osservare, egli opera infatti un processo di differenziazione e valutazione che rinvia a categorie cognitive ed emozionali elaborate e condivise dalla cultura a cui appartiene. L’osservazione non è mai un’operazione di tipo individuale, ma costituisce un’attività profondamente radicata nel modo in cui la collettività guarda, interpreta e interviene sulla realtà. Per questo motivo, le teorie scientifiche possono essere considerate come i modelli che la società, in un determinato momento storico, giunge a condividere e a utilizzare per rendere comprensibile il mondo naturale, al fine di giungere ad una conoscenza in grado non solo di spiegare ma anche risolvere i problemi che esso ci pone. Profondamente radicati in tale prospettiva sono il concetto di sistema e la conseguente convinzione che l’intelligibilità di un qualsiasi elemento possa essere rintracciata solo all’interno della griglia di interconnessioni di cui è parte: ne discende che l’Intervento psicologico - clinico deve inquadrare l’oggetto ( alludendo con esso ad un insieme molto ampio ed eterogeneo che include il contesto, l’utenza e i materiali con cui lo psicologo clinico può trovarsi a sviluppare il proprio intervento) all’interno della rete di relazioni in cui è collocato e che concorre esso stesso a qualificare. 1 about:blank 1/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica Per questo è importante che l’Intervento proceda secondo una logica in cui si privilegi l’avvicinamento degli elementi, la loro connessione e l’individuazione dei possibili nessi, piuttosto che la loro separazione, isolamento e semplificazione. Alla base della prospettiva adottata dal testo vi è quindi l’idea che ogni nostra conoscenza del mondo è una conoscenza di relazioni alle quali il mondo si conforma e, dunque, la psicoanalisi viene qui traghettata da una prospettiva individualista ad una relazionale. Tuttavia lo spostamento del focus dall’individuo alla dualità, se da un lato ha comportato un ampliamento del punto di osservazione, dall’altro rischia però di confermare il processo di segmentazione della realtà, estrapolando la relazione psicologo-utente dalla situazione in cui essa si colloca. Riprendendo l’analogia iniziale, la statua e il visitatore non si incontrano nel “vuoto” ma all’interno di un museo: è in questo contesto, intriso di significati culturali e politici oltre che sociali e psicologici, che si colloca la relazione tra quella statua e quel visitatore. Altro elemento fondamentale della prospettiva qui adottata è il contesto, non sinonimo di ambiente, ma fa riferimento all’insieme delle relazioni entro il quale ciascun individuo vive la propria esperienza e che svolge, in quanto tale, una funzione di orientamento per le simbolizzazioni affettive di tutti coloro che vi partecipano. In tale eccezione, il concetto di contesto sottolinea non solo il carattere profondamente circolare e transazionale delle interconnessioni esistenti fra le diverse componenti del sistema, ma anche il fatto che nessi e relazioni sono tali e hanno senso esclusivamente grazie alla collusione, cioè alla condivisione inconsapevole delle simbolizzazioni affettive evocate dal contesto stesso. Ne consegue, che il contesto può essere considerati come risultante dinamica di un insieme di elementi concreti e processi mentali che si qualifica come l’intelaiatura operativa ed emozionale delle relazioni sociali. Un ulteriore riferimento utile per delineare la prospettiva de testo è rappresentato dal lavoro di MATTE BLANCO secondo cui l’aspetto più innovativo del pensiero di Freud non è tanto l’idea di inconscio in sé, quanto la scoperta che la mente umana funziona sempre secondo due diverse modalità (conscia e inconscia) le quali sono alla base di qualsiasi processo mentale e comunicativo. Di conseguenza, tutto ciò che costituisce l’oggetto del lavoro psicologico clinico può essere considerato sia come segno di una categorizzazione operativa sia come simbolo inconscio. Nei confronti di qualsiasi elemento (comportamento, ricordo, opinione, sogno) si può attuare una duplice e contemporanea lettura: da un lato rispetto ai significati riferibili a dati di realtà, dall’altro rispetto a quelli connessi al suo essere elemento di significazione affettiva del contesto relazionale. In sintesi, il punto di vista in cui ci siamo collocati si fonda sul tentativo di connettere all’interno di una rete di relazioni tre diversi fattori: l’oggetto, la relazione psicologo-utente e il contesto in cui essa si sviluppa. CAPITOLO 1 2 about:blank 2/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica L’atteggiamento di Base 1.1 Patty e Marcie PATTY è una ragazzina, con i capelli lisci e il viso lentigginoso. Ha un carattere vivace ed è spesso impegnata a organizzare campeggi estivi e partite di baseball; non ha invece un buon rapporto con la scuola, luogo nel quale mette in atto strategie spesso fallimentari. MARCIE segue Patty e si rivolge a lei chiamandola “capo”. Il suo viso è caratterizzato dai capelli neri e soprattutto dagli occhiali che le conferiscono un atteggiamento posato e giudizioso. Segue Patty perché ne ammira il carattere estroso, ma è sempre impegnata a ricondurre quest’ultima “con i piedi per terra”. Nella striscia affianco, Patty passeggia con Marcie e si confida con lei. Ciò che qui interessa osservare è, da un lato, la proposta di relazione e, dall’altro, l’atteggiamento assunto dall’interlocutrice: Patty si confida, ma trova che le risposte di Marcie siano assolutamente inadeguate alla relazione che ha proposto. Se ci poniamo nella prospettiva di Patty, possiamo osservare come ella qualifichi la sua confidenza iniziale come un “lamento” che non cerca soluzioni: chi si lamenta tende a istituire una relazione che ha come unico obiettivo avvalorare la propria condizione di insoddisfazione. Con il lamento non si chiede all’altro la soluzione di un problema. Quest’ultimo è solo un pretesto per dimostrare l’insolubilità e, conseguentemente, l’opportunità della lamentela. Non a caso, Patty parla di solidarietà: ciò che cerca è una convergenza di idee che confermi il suo stato. In questo senso, il vero motivo del lamentarsi sta nell’istituire una relazione fondata sul lamento. Se consideriamo l’espressione iniziale (Vignetta 1) Patty pone un problema (il suo scarso andamento scolastico), ma non chiarisce perché si rivolga a Marcie. In Patty non rintracciamo nessun’attesa specifica ed esplicita, mentre evidenziamo facilmente un senso di impotenza che sembra privarla di qualunque aspettativa. Marcie quindi può avvalorare l’idea che non ci sia soluzione, oppure può cercare di alleviare la sensazione di impotenza. In questo secondo caso però si trova a dover definire sia le attese dell’interlocutrice sia le soluzioni ad esse corrispondenti. In termini psicologici, indichiamo tale situazione come un processo di delega totale, un meccanismo rintracciabile alla base di ogni richiesta di consulenza: con essa si attribuiscono all’altro capacità onnipotenti, ma nello stesso tempo si mantiene un atteggiamento di forte controllo sull’operato altrui, teso a dimostrare l’impotenza dell’interlocutore. Patty infatti proprio perché non ha espresso nessuna aspettativa può disconfermare qualunque proposta di Marcie, qualificandola come inopportuna: ne segue che chi 3 about:blank 3/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica assume tale delega non può che esitare in un fallimento e confermare così l’insoddisfazione dell’altro. Poniamoci ora nella prospettiva di Marcie. Marcie sembra cogliere il senso di impotenza espresso da Patty nella Vignetta 1, e per alleviarlo si pone alla ricerca delle possibili soluzioni (Vignetta 2), si sente chiamata in causa, entra nella relazione che le viene proposta e tenta di gestire una delega tanto onnipotente quanto impossibile. Proprio la prontezza delle sue risposte suggerisce che sia intervenuta in base all’emozione provata ma, così facendo, diviene anche lei oggetto di lamentela (Vignetta 3). Marcie quindi collude con Patty: i partecipanti alla relazione condividono il gioco relazionale che la situazione propone. In alternativa quale atteggiamento avrebbe potuto assumere? 1.1 L’atteggiamento dello Psicologo L’atteggiamento può essere il riflesso di un certo stato d’animo o un comportamento deliberatamente assunto. Ora ci stiamo chiedendo quale atteggiamento sia consono al lavoro di uno psicologo clinico: proviamo allora ad ipotizzare che la proposta relazionale di Patty avvenga all’interno di consulenza. Se l’espressione di Patty apre il primo colloquio di una consulenza, appare ovvio che lo psicologo debba esplorare una situazione che non conosce. Tuttavia il senso comune, l’appartenenza alla stessa cultura, ci aiutano a dare per scontato il significato e, se la situazione è chiara, non rimane che definire l’intervento più opportuno. Percorrendo questa strada però, l’atteggiamento dello psicologo non si discosta molto da quello assunto da Marcie. Per individuare un percorso alternativo da quello assunto da Marcie dobbiamo però assumere che il lavoro dello psicologo consista nel restituire al proprio interlocutore la capacità di orientare l’azione verso gli obiettivi scelti da quest’ultimo. Nel nostro caso Patty evidenza lo scarto esistente tra i suoi sforzi e i risultati conseguiti. Ora, non si tratta di trovare una strategia per ridurre tale scarto come proposto da Marcie. L’attenzione dello psicologo non è rivolta a cercare una soluzione ma a comprendere le ragioni che ostacolano l’interlocutore nella ricerca di questa: le ragioni, cioè, che lo portano a delegare. Nasce così l’esigenza di esplorare il punto di vista altrui, di conoscere il contesto in cui l’altro è inserito e il modo in cui questi si pone rispetto ad esso, focalizzando la connessione fra i due elementi. Emerge la necessità di porsi in un atteggiamento che consenta all’altro di narrarsi e, allo psicologo, di formulare ipotesi su quanto ascolta e osserva. Sottolineiamo che lo psicologo, nel confrontarsi con certe tematiche, è interessato non tanto alla raccolta di informazioni quanto al modo in cui gli eventi vengono narrati. La narrazione infatti, al pari dell’azione, è un comportamento sostenuto dalle scelte dell’individuo. Attraverso la narrazione si esplicita il modo in cui chi parla categorizza gli eventi, il modo in cui si confronta con essi: si conferiscono ordine e significato a quanto si racconta, non secondo un criterio oggettivo ma in base alla soggettività di chi si esprime. La narrazione, inoltre, è sempre contestuale: essa è formulata in ragione dell’interlocutore e, in questo senso, lascia trasparire il ruolo che si attribuisce a quest’ultimo. In breve la narrazione è, a pieno titolo, parte dell’azione che l’interlocutore propone nel contesto della consulenza. In questo senso, essa non solo racconta che cosa avviene “là e allora” 4 about:blank 4/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica (per esempio le strategie di Patty nel contesto scuola), ma esprime ciò che avviene “qui e ora” (la strategia di Patty nei confronti del contesto consulenza). In tutto questo, lo psicologo è orientato all’esplorazione e alla ricerca di indizi e connessioni che consentano di attribuire un senso a quanto viene proposto: analizzare le ragioni che hanno portato Patty a richiedere una consulenza psicologica non è una questione tra le altre, ma è La questione. Si comprende allora perché tale atteggiamento sia caratterizzato dal silenzio, dall’ascolto di se stesso e dell’altro, da una attenzione (cosiddetta fluttuante) che si confronta con la processualità e la complessità della narrazione, nel tentativo di avvicinare il punto di vista altrui. In base a quanto sappiamo della situazione, possiamo supporre che lo psicologo arrivi a evidenziare che la richiesta di Patty non sembra essere accompagnata da nessuna aspettativa, o meglio che essa sembra essere accompagnata dalla sfida di chi chiede all’altro una soluzione senza prevedere la propria partecipazione al processo. In realtà, ogni proposta di relazione assegna un ruolo ai diversi interlocutori. Tale proposta può essere accolta o rifiutata; in alternativa può essere sospesa nel tentativo di riconoscerne il senso1. E’ da notare che la sospensione comporterebbe, in questo caso ,una maggiore partecipazione di Patty, in cambio di una chiave di lettura delle difficoltà da lei incontrate. Per fare ciò occorre una specifica metodologia (analisi della domanda) che richiede l’assunzione di un certo atteggiamento, al fine di acquisire consapevolezza di ciò che sta accadendo e, al contempo, di predisporre le condizioni che consentano, al proprio interlocutore, di ripensare quanto ha proposto. Possiamo affermare, dunque, che lo psicologo, deliberatamente, assume un atteggiamento consono alla propria funzione professionale. Ciò significa che non si può parlare di atteggiamento “corretto”, ma di atteggiamento consono a quella che si ritiene essere la propria funzione professionale. 1.2 Il concetto di atteggiamento Con il termine atteggiamento si indica un costrutto proposto in forma ipotetica al fine di coniugare la rappresentazione dell’oggetto con l’azione che ad esso viene rivolta. Possiamo indicare gli elementi che determinano la rappresentazione dell’oggetto e descrivere il comportamento che ne segue. Sappiamo infatti che l’atteggiamento si costituisce a partire dalla doppia categorizzazione (conscia e inconscia) con cui si percepisce ogni evento e che si manifesta attraverso il comportamento. Sappiamo inoltre che la rappresentazione dell’oggetto (dovuta alla categorizzazione di essa) e l’azione che ne consegue trovano la propria ragion d’essere nell’ambito del contesto in cui si manifestano. Rimane comunque una questione: l’atteggiamento può essere solo inferito in base alla considerazione di altri elementi. Quando affermiamo la necessità di partire dalla rappresentazione dell’oggetto ci riferiamo a diversi elementi: consideriamo per esempio la rappresentazione (e quindi anche la valutazione emozionale) 1 A tal proposito Modell sottolinea che: è come se l’inconscio del paziente sia un regista che assegna le parti all’analista mentre tutto il processo rimane al di fuori della sua coscienza. Finché non diventa consapevole di quel che sta accadendo, l’analista può sorprendersi incline ad agire secondo il ruolo che gli è stato assegnato. L’analista è cioè in una posizione relativamente passiva fino a quando non riconosce coscientemente quel che accade. 5 about:blank 5/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica che si ha del proprio ambito professionale e di se stessi in quell’ambito, la rappresentazione della propria funzione professionale, così come la rappresentazione del proprio contesto lavorativo e dei clienti che si incontrano in esso. A tutto questo si aggiunte la rappresentazione della specifica relazione nella quale si è coinvolti. L’atteggiamento è la risultante di tutto questo. Potremmo anche dire che l’atteggiamento esprime la modalità di relazione con cui lo psicologo si propone. Un ruolo importante è rivestito dall’esperienza diretta, poiché essa consente di osservare i propri comportamenti e risalire alla categorizzazione che li fonda. L’atteggiamento, più che un punto di partenza, rappresenta un punto di arrivo, a cui si tende attraverso l’integrazione dell’esperienza, della teoria e della supervisione, acquisendo, nell’ambito della specifica relazione, la capacità di trasformare i propri sentimenti in utili strumenti di lavoro, le proprie intuizioni intellettuali in interpretazione affettivamente rilevanti, le proprie reazioni immediate in strumenti di comprensione, la propria identificazione e partecipazione in comprensione empatica. 1.4 La relazione con la Signora B. La Dinamica Nel Centro di psicologia oncologica di un ospedale si presenta una signora che dichiara di esservi stata indirizzata da un’infermeria, operante presso il reparto di oncologia in cui è ricoverata la madre. Chiede di conoscere i servizi offerti e le modalità di accesso e le viene prospettata la possibilità di effettuare dei colloqui sia presso la sede ospedaliera sia presso il domicilio del paziente. La signora afferma che cercherà di convincere la signora B. a rivolgersi al Centro ed ottiene un appuntamento per la settimana successiva. La SIGNORA B. si presenta puntuale al servizio, senza la figlia. Indossa una tuta e un paio di scarpe da ginnastica, e ha il capo coperto da un fazzoletto che nasconde anche parte del viso. Dichiara di essere venuta per un atto di cortesia (non rientra nei suoi modi lasciare che le persone la attendano inutilmente e non voleva essere sgarbata), anche se non sa a che cosa possa esserle utile. Dietro sollecitazione della psicologa, la signora B. racconta di avere 68 anni e di essere affetta da un tumore alla bocca: in ragione di ciò ha subito due operazioni che le hanno deformato il viso; in seguito le è stato prescritto un ciclo di radioterapia. Poiché non esistono le condizioni necessarie a favorire un suo spostamento quotidiano ha accettato di essere nuovamente ricoverata per il tempo necessario ad effettuare il trattamento. Sono già trascorse due settimane, ma dovrà aspettare la fine della quarta settimana per rientrare a casa. Descrive il tempo del nuovo ricovero come un tempo di attesa: la terapia occupa solo mezz’ora al giorno, e benché nell’ora di visita riceva il sostegno dei parenti, le rimane molto tempo da trascorrere senza alcuna occupazione. A casa sua invece occupa molto tempo a gestire la casa, dipingere, suonare e cucire. Trascorso il tempo del colloquio, la signora B. si congeda rammaricandosi per il proprio abbigliamento: ha cercato per quanto possibile di presentarsi in modo decoroso e con abiti “civili”. La psicologa le propone un nuovo incontro, ma la donna declina l’invito. Dopo un mese dal colloquio, la signora B. telefona al servizio per parlare con la psicologa: le 6 about:blank 6/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica comunica di essere rientrata a casa e la ringrazia per il tempo che le ha dedicato in ospedale; vorrebbe incontrarla di nuovo e per questo la invita a prendere un tè presso la propria abitazione. La psicologa appare disorientata, afferma che lei è una professionista e non usa prendere il tè con i suoi pazienti. Commento La narrazione ci offre la possibilità di considerare l’atteggiamento assunto dalla psicologa in tre diverse occasioni: l’incontro con la figlia, il colloquio con la signora B. e la telefonata finale. 1) L’incontro con la figlia: Nella prima situazione una signora chiede e ottiene informazioni sul funzionamento del Centro. La questione appare lineare e la psicologa non propone nessun approfondimento del tema. Eppure, quella signora è stata indirizzata da un’infermiera: si può supporre che tra le due ci sia stato un colloquio oppure che la stessa infermiera abbia consigliato di rivolgersi al Centro. In breve: quali eventi hanno preceduto l’incontro con la psicologa e perché ci si è rivolti a quest’ultima? Sappiamo solo che il problema risiede nella signora B. Per questo la figlia chiede e ottiene un appuntamento, anche se non nasconde che cercherà di convincere la madre a partecipare. Perché cercherà di convincerla? La madre non è d’accordo oppure è all’oscuro di tutto? Le ipotesi possono essere molteplici, ma a noi interessa invece sottolineare la strategia esploratoria che è opportuno assumere. Per strategia esploratoria intendiamo la condotta di colui che, confrontato con una situazione nuova, cerca di conoscerla esplorando le possibili ipotesi. In senso contrario si muove la strategia automatizzata che risulta utile in caso di situazioni ricorrenti. Così la psicologa, non nutrendo alcun dubbio sulla posizione da assumere, segna l’appuntamento richiesto per una terza persona, assumendo per buona la rappresentazione del problema che le viene proposta. Si potrebbe obiettare che la psicologa si trova effettivamente, a causa della sua collocazione in ambito ospedaliero, di fronte a una situazione ricorrente. L’obiezione però non ci conduce a riformulare quanto precedentemente proposto. 2) Il colloquio con la Signora B. : Il colloquio con la signora B. si apre con una dichiarazione: la donna è venuta per non essere scortese nei confronti della figlia e della psicologa che le hanno pre- disposto l’incontro, ma non sa a che cosa possa esserle utile: potremmo dire che ci troviamo di fronte ad assenza di richiesta. A che cosa serve dare l’avvio a un intervento se manca la richiesta relativa a un problema specifico? Di fatto, l’assenza di richiesta non corrisponde a un’assenza di domanda. Con quest’ultima infatti ci riferiamo alla modalità di relazione proposta dall’interlocutore. La signora B. ha scelto di partecipare al colloquio per non essere scortese con la psicologa e la figlia. Che vuole dire “non essere scortese”? Vuol dire non manifestare esplicitamente il proprio disaccordo con quanto predisposto da altri. Si propongono una forte delega e con essa una sfida: “Chiedo a te cosa sono venuto a fare qui”. Dal nostro punto di vista è comunque possibile verificare se esistano le condizioni per procedere all’esplorazione della domanda e l’intervento possa essere condotto secondo questo orientamento. Il colloquio proposto dalla psicologa invece appare di tipo anamnestico. Si dirà che il colloquio è necessario per conoscere la situazione e che, grazie ad esso, emergono almeno due questioni: 7 about:blank 8/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica 1. La signora ha il volto deformato a causa delle operazioni subite e ciò può comportare per lei difficoltà ad accettare il suo nuovo stato (ipotesi avvalorata dal fatto che si è presentata coperta da un fazzoletto); 2. La signora racconta quanto sia difficile trascorrere lunghe giornate in ospedale, senza avere attività da svolgere. Il ricovero è stato definito come un tempo di attesa da trascorrere senza occupazioni da svolgere, inutilmente. L’ultima definizione ha una chiara assonanza con quanto la signora B. ha dichiarato alla psicologa, nel corso delle battute iniziali: è venuta all’incontro perché non rientra nella sua mentalità lasciare che le persone la attendano inutilmente. 3) La telefonata finale : Infine la telefonata. Un nuovo atto di cortesia da parte della signora B.? Possiamo immaginare che la signora B. abbia vissuto l’invito della psicologa come un atto aggressivo a cui si è sottoposta. Si è presentata in abiti “civili”, senza la “divisa” ospedaliera che la porta a essere dipendente da altri. Con ciò affermiamo che la modalità aggressiva con cui si è presentata al colloquio non è un dato acontestuale che appartiene alla signora, ma un elemento che va letto nell’ambito del contesto in cui si manifesta. A casa propria la signora B. veste abiti civili ed è lei l’ospite che prepara per altri. In questo senso si propone un ribaltamento dei ruoli (come nella favola di Esopo con protagonisti la volpe e la cicogna) ma forse anche una condizione in cui è possibile incontrarsi indossando da entrambe le parti abiti “civili”. La psicologa rifiuta l’invito, forse perché la proposta della signora B. è troppo distante dalla sua rappresentazione di visita domiciliare. 1.5 I diversi elementi dell’atteggiamento In letteratura vengono proposti diversi elementi attraverso i quali è possibile caratterizzare l’atteggiamento di uno psicologo. Alcuni di essi sono considerati peculiari di specifici orientamenti teorici, mentre altri trovano un consenso unanime. Vediamo, di seguito l’empatia, l’attenzione fluttuante, l’ascolto e il silenzio. ▪ Empatia In psicologia, l’attenzione per l’empatia è relativamente recente e, oggi, rappresenta un tema controverso: alcuni la considerano un fattore fondamentale per la comprensione e la responsività dello psicologo, altri invece ritengono che sia un elemento poco chiaro passibile di suscitare una comprensione illusoria. Rogers ne propone una definizione: «Il termine empatia è stato creato dalla psicologia cinica per indicare la capacità di immergersi nel mondo soggettivo altrui e di partecipare alla sua esperienza. È la capacità di mettersi al posto di un altro, di vedere il mondo come lo vede costui.» L’empatia rappresenta, dunque, una capacità: essa consente di avvicinare la prospettiva altrui, di cogliere le dimensioni emotiva e cognitiva dell’interlocutore. È da chiedersi, però, quanto sia realmente possibile “immergersi nel mondo soggettivo altrui”, distinguendo chiaramente fra conoscenza e valutazione. Le attuali posizioni epistemologiche indicano come tutto questo sia 8 about:blank 9/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica impraticabile almeno quanto lo è un’osservazione oggettiva, priva delle interferenze dovute alla posizione dell’osservatore. In ambito psicoanalitico, Greenson, scrive che: «Empatia significa condividere, provare gli stessi vissuti di un altro essere umano. Si partecipa alla qualità e non all’intensità dei sentimenti. Il meccanismo fondamentale è un’identificazione parziale e temporanea con il paziente sulla scorta del modello operativo che l’analista se ne è costruito in base alla somma delle sue esperienze con il paziente stesso». Secondo Greenson, l’empatia è una funzione dell’Io sperimentante ed è resa possibile da un’identificazione parziale e momentanea; consente una vicinanza emotiva, favorisce lo sviluppo di idee, ricordi, vissuti compatibili con il modello operativo dell’altro. Kohut definisce l’empatia come introspezione vicariante. Se traduciamo intro-spezione con osservazione del proprio mondo interno e vicariante con sostitutivo, consegue che l’empatia si fonda sull’osservazione del proprio vissuto e che tale processo avviene in sostituzione dell’interlocutore. Siamo così passati da una ipotesi suggestiva “accogliere il vissuto altrui” ad una tesi più idonea: l’empatia si realizza quando è possibile risuonare con l’altro, quando si riconosce nel vissuto altrui qualcosa che appartiene alla nostra esperienza. Ma come essere certi che non si prendano abbagli, attribuendo all’altro ciò che è soltanto mio? Partiamo da una considerazione: diverse condizioni ostacolano il processo empatico: tra queste ricordiamo la differenza di sesso tra consulente e utente, l’appartenenza a culture differenti, il riconoscersi in valori sociali tra loro molto distanti. Peraltro, la capacità empatica non può essere appresa: essa si acquisisce nel corso della prima infanzia, nella relazione con una madre empatica. Non tutti quindi hanno capacità empatiche e non sempre tali capacità consentono di comprendere l’altro. Quando è possibile, comunque, provare un’emozione simile (nella qualità e non nell’intensità) a quella che si attribuisce all’interlocutore rappresenta il primo passo del processo di conoscenza a cui seguono la contestualizzazione di quanto si è colto, l’uso dell’immaginazione, dell’introspezione, della memoria, le complesse operazioni cognitive e affettive che permettono di attribuire significato a quanto percepito. Questo aspetto è da sottolineare, perché se non fosse possibile dar senso all’emozione condivisa l’empatia non rappresenterebbe uno strumento utile alla comprensione. Inoltre, ciò ci consente di distinguere l’empatia dal controtransfert alludendo con quest’ultimo all’assunzione inconsapevole di un ruolo collusivo. Nell’empatia non vi è alcuna imposizione di ruolo. ▪ Attenzione fluttuante Freud scrivendo “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” (1912) suggerì la tecnica dell’attenzione fluttuante per spiegare come sia possibile seguire più clienti senza confondere le loro comunicazioni, ricordando anche i dettagli di quanto da loro espresso nel corso di anni. Il consiglio di Freud consiste semplicemente nel non voler prendere nota di nulla in particolare e nel porgere, a tutto ciò che ci capita di ascoltare, la medesima attenzione fluttuante. Se invece, al contrario, si pone un’attenzione puntuale, necessariamente si realizza una selezione del materiale proposto, guidata dalle proprie aspettative, e si corre il rischio di non trovare niente che non si sappia già. 9 about:blank 10/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica Questa prospettiva, coerente al tempo in cui Freud scriveva, non sembra più possibile. La nostra attenzione è inevitabilmente guidata da ciò che pensiamo, dalle nostre teorie di riferimento, in breve dal contesto in cui siamo inseriti. Per questo è impossibile riservare ad ogni cosa la stessa attenzione. Appare inevitabile allora tentare una riformulazione del suggerimento freudiano. L’espressione “attenzione fluttuante” sembra ancora utile se con essa si indica la capacità di muoversi tra i diversi livelli della comunicazione interna ed esterna, mantenendo una costante attenzione alla relazione istituita come luogo nel quale si sviluppano sia le comunicazioni sia le relative percezioni. In questo senso, essa rimane come caratteristica basilare dell’atteggiamento clinico ed è idonea nel corso dei trattamenti psicoterapeutici considerati brevi. Non a caso, la letteratura relativa ai trattamenti brevi sottolinea l’opportunità, per lo psicologo, di mantenere un’attenzione focale o selettiva. Ciò significa che, data la limitazione temporale, si circoscrive l’ambito di lavoro a un focus e si convoglia l’attenzione alle tematiche ad esso relative. Appare evidente, in questo senso, la contrapposizione con il suggerimento di Freud: nei trattamenti brevi infatti si tende a non seguire tutto il flusso associativo proposto. Se però assumiamo l’attenzione fluttuante nell’accezione precedentemente indicata, allora la limitazione a un focus non comporta modificazioni sostanziali. Nell’ambito del focus infatti l’atteggiamento rimane caratterizzato da un’attenzione fluttuante. La puntualizzazione attinente ai trattamenti brevi peraltro può essere generalizzata e ci consente di comprendere come sia possibile conciliare una percezione necessariamente selettiva con un atteggiamento volto all’attenzione fluttuante. In sintesi, riconoscere che lo psicologo non può essere un osservatore oggettivo, neutrale, estraneo al processo cui partecipa, privo di aspettative e precognizioni, capace di un’attenzione a 360°, ci sembra che avvalori l’importanza dell’attenzione fluttuante. Se il suo processo esplorativo è necessariamente guidato da ipotesi, il rischio di non trovare niente che non si sappia già appare più che tangibile. Proprio per questo, pur se in ambito focale, il mantenere un’attenzione capace di cogliere, soprattutto, le dissonanze e l’accettare che parte del materiale raccolto resti disposto in una caotica confusione rimangono, ancora oggi, condizioni necessarie. ▪ Silenzio e ascolto Nel testo viene proposta una pagina bianca per dare al lettore la possibilità di confrontarsi con il silenzio; Il silenzio come assenza, come assenza di ciò che ci si aspetta. Ciò può essere vero anche per lo psicologo quando il proprio silenzio è vissuto come assenza di un’azione volta all’intervento. Eppure il silenzio è parte dell’azione, se consideriamo come oggetto di essa non l’altro ma la relazione che si instaura e il significato ad essa attribuibile. Il silenzio è il necessario complemento dell’ascolto, l’elemento che lo consente. In ambito clinico infatti, porsi in ascolto significa predisporre un ambiente “silenzioso”, interno ed esterno, creare uno spazio di accoglienza, lasciando che sia l’altro a esprimersi. In questa accezione l’opportunità di tacere è solo la manifestazione esterna di uno spazio silenzioso concesso internamente. Il silenzio 10 about:blank 11/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica assoluto caratterizza solo la morte, quella condizione di assenza che rende inutile la comunicazione. Quindi ciò che comunemente intendiamo come silenzio è solo una condizione “poco rumorosa”, una condizione in cui il rumore di fondo non ci impedisce di porre attenzione a ciò che ci interessa. Il silenzio viene inteso come far posto all’altro. Assumere un atteggiamento silenzioso, volto all’ascolto, significa allora accogliere l’altro, rimanendo consapevoli del proprio “rumore di fondo” ineliminabile, anche perché esso è lo strumento di conoscenza di cui disponiamo, ed è grazie ad esso che possiamo ascoltare. Si può ascoltare l’altro nella misura in cui ci si pone in un atteggiamento critico nei confronti della propria con-prensione ( se con essa intendiamo la tendenza a far coinciedere la comunicazione altrui con ciò che di essa ci appare intelligibile, attraverso un processo di assimilazione) , favorendo il di- spiegamento dell’altro e con esso il nostro cammino di accomodamento. Proprio la consapevolezza della nostra soggettività può consentirci l’esplorazione di quanto percepito nel tentativo di avvicinarsi al significato della comunicazione altrui. Ne segue che si può accogliere l’altro se si è disposti ad accogliere se stessi. Ciò peraltro non si riduce a quanto ci caratterizza; ascoltarsi significa soprattutto riconoscere e dar senso al vissuto che la specifica situazione comporta. Nella stessa direzione si pone il costrutto di estraneità proposto da CARLI e PANICCIA: «Cosa intendiamo con relazione con l’estraneo? Che si istituisca una relazione tale da consentire, a chi ne partecipa, di poter accettare il rischio di simbolizzare come amico ciò che non si conosce […] Nella relazione con l’estraneo, l’altro è simbolizzato come amico: amico da conoscere però, non colui che si conosce da sempre […] Se l’estraneo è l’amico sconosciuto, la relazione con l’estraneo comporta, quale dimensione centrale, la conoscenza dell’estraneo stesso, vale a dire l’organizzazione, precedente alla relazione di conoscenza e ad essa contemporanea, di un costrutto simbolico sull’estraneo.» Il concetto di estraneità ci sembra che esprima molto chiaramente la necessità di ascolto teso al riconoscimento dell’altro, come altro da sé, attraverso un lavoro che permette – anche all’interlocutore – di rintracciare i propri confini e quelli altrui. E ciò, in ultima analisi, definisce l’ascolto come capacità di pensare le proprie e le altrui rappresentazioni emozionali. 1.6 Una maestra La Dinamica Una maestra di una scuola elementare si rivolge allo psicologo che opera presso la sua scuola. Vuole sapere come comportarsi nei confronti di una situazione specifica. Nella sua classe (una terza elementare) è presente un bambino che nel corso dell’anno scolastico è rimasto orfano. Il padre è morto a causa di un incidente stradale, durante un viaggio di lavoro. Benché lei conoscesse il padre e abbia sofferto per la sua scomparsa, ha sempre evitato di manifestare i propri sentimenti in classe e ha cercato, per quanto possibile, di sostenere il bambino. Racconta, per esempio, con quanta cura scelga i brani da leggere in classe, evitando quelli in cui ricorra la parola “padre”, ed è giunta alla decisione di non far scrivere ai bambini della sua classe la consueta letterina per la ricorrenza del 19 marzo: si comporta in questo modo per evitare che il bambino pensi alla sua triste situazione e 11 about:blank 12/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica venga ostacolato nell’apprendimento. Un giorno, durante la ricreazione, un compagno ha deriso il bambino proprio in ragione del suo essere orfano: quest’ultimo si è rivolto alla maestra dell’ora successiva che ha minimizzato la situazione. La derisione è proseguita e quando lei è giunta in classe il bambino orfano le ha raccontato tutto e lei ha messo una nota al compagno. Quanto accaduto la preoccupa, non capisce il comportamento delle colleghe, e dallo psicologo vorrebbe avere indicazioni precise su come affrontare la situazione, sia in aula che con le colleghe. Commento Si evidenzia con facilità come le scelte operate dalla maestra nei confronti delle diverse situazioni nascano dal tentativo di tenere “fuori dall’aula” le proprie e le altrui emozioni, in funzione dell’apprendimento. Il problema sorge nel momento in cui l’alleanza – sul comportamento da tenere – che ritiene di aver instaurato con i bambini e le colleghe viene a mancare (fallimento della collusione). In quest’ottica si può leggere la domanda della maestra allo psicologo come il tentativo di essere appoggiata da quest’ultimo e dalle sue competenze specifiche al fine di avvalorare la propria tesi (ripristino della collusione precedente). Quale atteggiamento può assumere lo psicologo? Può minimizzare la situazione (come l’altra collega), può allearsi con la maestra, agendo quel mutamento preordinato che gli è stato richiesto (analogamente a quanto realizzato dalla maestra nei confronti del bambino), oppure può porre l’attenzione sulla rappresentazione della situazione e sulla conseguente domanda che gli è stata proposta. Magari a partire dalle proprie emozioni. La condizione di orfano è una condizione irreparabile, che non viene modificata dall’individuazione del “colpevole” ed è forse proprio questo che la rende un elemento di difficile gestione, di disturbo, da evitare accuratamente. Così la condizione di orfano e l’emozione di impotenza ad essa connessa assumono la funzione di “nemico” da non evocare. L’impotenza caratterizza anche la domanda della maestra allo psicologo (è preoccupata), è ciò che la porta a cercare una nuova alleanza, ripercorrendo la strada fallimentare dell’individuazione di un “colpevole”, in luogo della ricerca di una nuova strategia consona alla mutata condizione. 1.7 Il “Papalaghi” La Dinamica Nei primi anni del Novecento il capo delle isole Samoa ebbe l’occasione di visitare l’Europa e scrisse le proprie impressioni a proposito dell’uomo bianco (chiamato “Papalghi”). « La vita del Papalaghi assomiglia molto spesso a quella di un uomo che deve andare con la barca a Savaii e che, non appena lasciata la riva, pensa : “Quanto tempo potrò impiegare per arrivare a Savaii?”. Pensa, e intanto non vede il bel paesaggio che attraversa nel corso del suo viaggio. Ora, gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna. Non appena il suo occhio l’ha afferrata, non può più lasciarla: “Che cosa ci può essere dietro quella montagna? Ci sarà una baia profonda oppure piccola?” e, per il molto pensare, dimentica di cantare le belle canzoni dei giovani navigatori e neppure ode le parole scherzose delle fanciulle. Appena la baia e la montagna sono alle sue spalle, subito lo tormenta un nuovo pensiero: se prima di sera non verrà una tempesta. Sicuro: se verrà la tempesta. E cerca nel cielo limpido le nuvole nere. Continua a pensare alla tempesta che potrebbe 12 about:blank 13/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica venire. La tempesta non viene e lui giunge a Savaii la sera stessa senza danno. Ma per lui è come se non avesse neppure fatto il viaggio, perché i suoi pensieri per tutto il tempo sono stati lontani dal corpo e fuori dall’imbarcazione. Allo stesso modo avrebbe potuto benissimo anche restare nella sua capanna a Upolu.» Commento Il brano scelto descrive con molta semplicità la necessità di vivere il “qui e ora”, assumendo l’atteggiamento di colui che partecipa alle situazioni che incontra. Sono queste le condizioni che rendono possibile il “viaggio”, inteso non solo come spostamento in altro luogo ma come esperienza relazionale significativa. Chi si preoccupa di qualcosa o di qualcuno, al contrario, sposta l’attenzione verso un tempo futuro e si pone in un atteggiamento difensivo. Se i propri pensieri rimangono per tutto il tempo lontani dal corpo (lontani dalla relazione che si sta vivendo) e fuori dall’imbarcazione (fuori dal setting interno ed esterno) è come se non si fosse fatto il viaggio. Si giungerà senza danno, ma senza l’esperienza necessaria al cambiamento proprio e altrui. CAPITOLO 2 Il Setting 2.1 Introduzione Spesso, quando si dà per scontato un elemento, si tende a collocarlo ai margini dell’attenzione facendogli quindi perdere lo status di oggetto percettivo per attribuirgli quello di semplice sfondo. Capita tuttavia che ciò che si era collocato ai bordi del proprio interesse riemerga, costringendo a un singolare cambiamento prospettico: lo sfondo torni ad assumere le caratteristiche di un oggetto da osservare, rivelandosi un elemento tutt’altro che irrilevante nel qualificare ciò su cui ci si era inizialmente concentrati. Spesso le caratteristiche della situazione in cui si attua un intervento clinico subiscono la medesima sorte delle cose che si danno per scontate: vengono collocate sullo sfondo e non ci si interroga sul ruolo che esse svolgono nel qualificare ciò che sta avvenendo. L’equilibrio tra la figura (il processo di intervento) e lo sfondo (la situazione) può tuttavia capovolgersi, evidenziando l’importanza di ciò che inizialmente sembrava talmente ovvio da non essere degno di nota: gli elementi materiali, anche i più banali, si rivelano improvvisamente importanti e intrisi di significati ed emozioni che non possono essere scissi dal processo. Riportiamo un aneddoto: due amici Ebrei si incontrano : “che cosa ti è successo, Elia, ti vedo stravolto”. “Mi è capitata un’esperienza terribile!”. “Dimmela, sono il tuo amico più fidato”. “Pensa che ieri sono arrivato a casa in anticipo e ho visto mia moglie con Samuele sul divano. E’ stato orribile. Cosa mi consigli di fare?”. “Non lo so Elia, ma gli Ebrei decidono sempre da soli”. Due giorni dopo, i due amici si incontrano nuovamente e il primo chiede al secondo: “ che cosa hai fatto Elia?”. “Ho venduto il divano!”. 13 about:blank 14/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica E’ ovvio che il problema è stato affrontato con una soluzione tecnica, intervenendo sulle condizioni materiali della situazione senza preoccuparsi di indagare le connessioni tra ciò che era accaduto e la sua relazione con la moglie e Samuele. D’altronde, il divano aveva acquisito una valenza simbolica tale da suscitare emozioni così intense da non poter essere gestite da Elia, se non attraverso un agito: la vendita tentava quindi di annullare sia l’evento che la relazione della moglie, quasi come se esistesse un nesso immediato tra l’elemento materiale e la dimensione emotiva e relazionale. Anche nei confronti del setting, il rischio è tuttavia quello di fare come Elia, di operare un’eccessiva semplificazione del concetto, esaurendolo nelle sole condizioni organizzative (orari, luogo, numero dei soggetti coinvolti dall’intervento, costi e modalità di pagamento ecc.) che lo caratterizzano. A differenza dell’aneddoto citato, però, lo psicologo non rischierebbe solo il ridicolo, ma rischierebbe il fallimento. 2.2 Dal termine alla definizione Il sostantivo inglese “setting” può essere tradotto in italiano sia con cornice, ambiente, scenario, termini che rimandano in qualche modo agli aspetti statici di situazioni ed eventi, sia con incastonatura, montatura, rinviando così agli elementi di una struttura posta a sostegno di qualcosa. Il termine acquista una diversa connotazione se si prende in considerazione il verbo to set, il cui significato è sia disporre, collocare, sia stabilire, mettere a punto qualcosa. In questo caso la parola “setting” indica una serie di azioni descritte nel loro svolgersi. Questo preambolo sulla semantica del termine ci consente di intuire la complessità del concetto, ma ci indirizza anche nell’esplorazione di alcuni dei suoi aspetti più interessanti. 2.2.1 Il setting come confine Da quanto detto ci sembra evidente che il setting (inteso come confine o cornice) tende innanzitutto a circoscrivere una precisa porzione dello spazio-tempo al fine di configurarla quale ambiente o scenario in cui collocare l’azione. La funzione delimitante del setting si concretizza in una serie di elementi discreti (l’indirizzo dello studio dello psicologo, il giorno, l’orario e la durata dell’appuntamento): è infatti ovvio che in assenza di una sia pur minima definizione di alcune condizioni organizzative non si potrebbe attuare alcunché. In sostanza, il setting (cornice) opera una marcatura spazio-temporale e istituisce un processo di differenziazione tra il dentro e il fuori: il setting rappresenta un confine con cui lo psicologo delimita il territorio dell’Intervento distinguendolo da altri possibili territori. Detto questo, è però inequivocabile che in questa sua funzione il setting non si limita a circoscrivere una particolare porzione spazio-temporale, ma concorre nel qualificarla. Il confine infatti non è solo la sommatoria degli elementi organizzativi ( ad esempio, il dove e quando) necessari all’individuazione del territorio in cui inscrivere l’azione clinica, ma è anche uno strumento con cui si attribuiscono significati cognitivi ed emozionali allo scenario in cui si opera. Le caratteristiche di un confine concorrono inevitabilmente a sviluppare aspettative, emozioni e fantasie rispetto al 14 about:blank 15/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica territorio che delimita. Se dunque da un lato il setting è volto a definire, innanzitutto in termini di spazio e di tempo, le coordinate organizzative dell’Intervento, dall’altro fornisce però anche una qualificazione – sia pure in via preliminare – allo scenario e all’Intervento stesso. Esempio 1: l’intervistato incontinente Il Setting L’esempio fa riferimento a un’intervista effettuata nell’ambito di una ricerca di mercato commissionata da un’azienda produttrice di assorbenti per l’incontinenza senile. Le interviste avvenivano in una stanza piccola dotata di un tavolo rettangolare e tre sedie; in un angolo era stata collocata una telecamera. Una giovane psicologa aveva il compito di prendere appunti nel corso dell’interazione La Dinamica Giovanni è un uomo di 62 anni, di bella presenza e dell’abbigliamento curato, la cui incontinenza è indotta da un intervento chirurgico. All’arrivo dello psicologo sorride all’assistente e commenta favorevolmente la cortesia della signorina che lo ha accolto. Entrando nella stanza delle interviste si siede subito, occupando però una delle sedie destinate ai ricercatori: lo psicologo lo invita quindi a spostarsi. Dopo la fase iniziale, in cui Giovanni descrive le sue molteplici attività lavorative, l’intervista si focalizza sul tema dell’incontinenza e sulle difficoltà relazionali che il disturbo comporta anche nell’ambito della vita di coppia (Giovanni ha una moglie più giovane di lui di dieci anni). Giovanni abbassa gradualmente il tono della voce e inizia a guardare con insistenza la videocamera. Racconta poi che da ragazzo era solito andare in bicicletta al lago con gli amici e che un’estate, dopo un pranzo abbondante, decise di fare una nuotata. All’inizio percepì con piacere la frescura dell’acqua, ma ben presto ebbe una strana sensazione: era come se non riuscisse più a muoversi, a tenersi a galla. Sulla battigia un uomo intuì le sue difficoltà e corse a prendere una barca: Giovanni ricorda ancora il volto e gli occhi di quell’uomo che lo guardava dall’alto della barca mentre lui era ancora immerso nell’acqua. Commento La reminiscenza di Giovanni sembra emergere come un elemento incongruo rispetto al tema e all’andamento dell’intervista. Soffermiamoci però su un’interessante analogia relativa al contenuto della reminiscenza: da questo punto di vista, si può notare che tanto il ricordo quanto l’intervista fanno riferimento a un liquido di cui si può perdere il controllo e che può trasformarsi in una minaccia per la propria identità fisica e/o psicologica. Al di là tuttavia della forte consonanza emotiva fra il ricordo e il tema dell’intervista, è possibile rintracciare delle connessioni fra le condizioni fattuali del setting e il ricordo comunicato da Giovanni? Come si diceva, il tema su cui Giovanni inizia a essere in difficoltà è quello degli effetti dell’incontinenza sulla vita di relazione. Ma il setting non richiedeva forse a Giovanni di affrontare questo argomento proprio davanti a una coppia (psicologo e assistente) più giovane di lui e quindi presumibilmente immune dal problema dell’incontinenza? Questo elemento della cornice non poteva cioè amplificare il carattere ansiogeno dell’argomento, influenzando le modalità espressive dell’intervistato? 15 about:blank 16/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica E ancora: Giovanni non sta forse descrivendo al ricercatore una situazione in cui qualcuno (il suo salvatore) lo guarda da una posizione di sicurezza mentre lui sta annaspando in acque pericolose? E questo contenuto non emerge forse in una situazione in cui il ricercatore lo sta guardando mentre annaspa nel tentativo di gestire un argomento particolarmente ansiogeno? Il setting presenta anche un altro elemento di rilievo: la telecamera a circuito chiuso. In quali situazioni si tende a utilizzare strumenti di vigilanza? Non potrebbe quindi concorrere a qualificare quel territorio come uno spazio potenzialmente pericoloso? Se si amplia l’orizzonte osservativo alle caratteristiche del setting, non si può certamente escludere l’ipotesi che quel ricordo sia anche una comunicazione indiretta in risposta al setting e sul setting. Giovanni parla infatti di una situazione in cui inizialmente si trova a proprio agio (la frescura dell’acqua – la cortesia della signorina) e in cui riesce a muoversi agevolmente (la prima parte della nuotata – la prima parte dell’intervista), per trovarsi poi in gravi e angoscianti difficoltà (il non riuscire a rimanere a galla – il non essere capace di parlare delle proprie difficoltà relazionali conseguenti all’incontinenza). In questa prospettiva la presenza di una coppia e di una telecamera non solo rinforzavano nell’intervistato la sensazione di essere giudicato dall’alto in un momento difficile, ma concorrevano ad attribuire al territorio una connotazione ansiogena. È quindi possibile analizzare l’episodio da tre prospettive: ▪ Quella intrapsichica, in cui si osservano i contenuti considerandoli essenzialmente aspetti della realtà interna di Giovanni; ▪ Quella relazionale, in cui si riconducono tali contenuti alla situazione interattiva (il dover parlare delle proprie difficoltà di coppia a una coppia); ▪ Quella attinente allo scenario/contesto dell’Intervento, in cui si analizza quanto accade anche in riferimento alle caratteristiche fattuali e procedurali del setting. 2.2.2 Il Setting come proposta relazionale Il secondo aspetto che la semantica ci aiuta a individuare è la connotazione relazionale del setting. In ambito psicologico la messa a punto delle condizioni organizzative funzionali all’Intervento non può svolgersi senza il coinvolgimento dell’utente: dalla semplice definizione dell’appuntamento fino alla scelta dei contenuti e delle metodologie da utilizzare, lo psicologo deve infatti sempre tener conto e coinvolgere l’altro, pena l’impossibilità di avviare l’Intervento stesso. D’altro canto l’inevitabilità del coinvolgimento e della partecipazione dell’utente emerge con particolare chiarezza se si riflette sul fatto che lo psicologo offre alla propria “clientela” un servizio e non un prodotto. L’Intervento è infatti: ▪ Immateriale, non ha cioè forme visibili o tangibili né può essere “riparato”; ▪ Simultaneo: la produzione e la fruizione del servizio avvengono nello stesso momento, cosa che rende impossibile per esempio la restituzione o la sostituzione di un servizio “difettoso”; ▪ Dipendente dalle persone: lo specialista eroga il servizio sulla base delle proprie caratteristiche personali e professionali. 16 about:blank 17/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica A differenza del prodotto che può essere realizzato, immagazzinato, distribuito e venduto indipendentemente dalla presenza del cliente, dei suoi bisogni e richieste, il servizio necessita della sua presenza e partecipazione: senza il cliente, il servizio non può sussistere. In questo senso il servizio non può che essere pensato come una relazione bidirezionale, basata su uno scambio non solo economico ma anche informativo, emotivo, operativo ed affettivo. Nel momento in cui lo psicologo esplicita dunque all’utente le condizioni materiali (orari, luoghi, costi) e procedurali (ruoli reciproci, regole comportamentali) necessarie al proprio lavoro, non si limita a informarlo su una serie di elementi organizzativi, ma gli rivolge una specifica proposta relazionale che attiva inevitabilmente una serie di risposte cognitive ed emozionali, consce e inconsce. Soffermiamoci meglio su questo punto. Abbiamo detto che la strutturazione del setting avviene sulla base di un insieme di coordinate organizzative che fanno sostanzialmente capo alle unità spaziali e temporali ( dove e quando) con cui si delimita un territorio che viene sottoposto a un complesso di norme generali e specifiche2. Esplicitando le caratteristiche del setting lo psicologo descrive pertanto all’utente quale struttura organizzativa ritenga necessaria e funzionale all’Intervento, ma esplicita anche i vincoli che egli pone alla propria partecipazione al processo. Con la cornice, lo psicologo definisce cioè le modalità, sia comportamentali che emozionali, con cui intende avviare e mantenere la propria relazione con l’altro. Al contempo, in questa proposta organizzativa e relazionale il setting sollecita anche l’utente a effettuare una serie di valutazioni su pertinenza e ammissibilità tanto delle condizioni materiali e procedurali del setting, quanto del tipo di relazione veicolata da tali condizioni: la situazione corrisponde ad attese e bisogni? Il luogo è raggiungibile? Il costo è congruo? Esempio 2: lo studente escluso Il Setting Roberto è uno studente liceale che lamenta un andamento scolastico piuttosto altalenante e forti difficoltà di relazione con i compagni di classica. Dati l’esiguità degli spazi disponibili e il loro conseguente “affollamento”, la DOTTORESSA R. aveva fissato un appuntamento nel tardo pomeriggio della settimana successiva, dopo aver verificato la disponibilità della stanza. La Dinamica Il giorno dell’appuntamento Roberto e la dottoressa R. giungono contemporaneamente al Dipartimento di Salute Mentale. Giunta davanti alla porta la dottoressa si rende però conto che la stanza è occupata da uno psichiatra del DMS che le chiede di aspettare alcuni minuti. La psicologa decide di sedersi su una panchina in corridoio con Roberto, attendendo che lo psichiatra lasci libera la stanza. Nonostante gli sforzi della dottoressa, il colloquio si struttura come una sorta di 2 Si fa riferimento al fatto che l’interazione tra psicologo e utente è, come qualsiasi altra relazione, inevitabilmente regolamentata da una serie di norme generali ( la buona educazione) a cui si aggiungono però delle norme specifiche elaborate sulla base dell’esperienza e della teoria di riferimento dello psicologo. 17 about:blank 18/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica soliloquio di Roberto che torna sistematica a parlare del suo non riuscire a farsi ben volere dai compagni, percepiti come un gruppo molto compatto e intenzionato ad escluderlo sempre. Commento La centralità del colloquio sulle difficoltà relazionali di Roberto, pur congruente sul piano del contenuto alla problematica proposta, risulta però paradossale sul piano della relazione. Roberto trasforma il colloquio con la psicologa in un monologo in cui l’altro non ha spazio: ciò che Roberto subisce dagli altri viene quindi da lui agito nei confronti della psicologa quando esprime la sua richiesta di aiuto. Ci si potrebbe chiedere se questo tipo di comportamento possa essere in qualche modo connesso alle caratteristiche del setting? In questo senso si può constatare che il DSM ha attuato nei confronti di Roberto un evidente processo di esclusione: l’impossibilità di fruire della stanza nei tempi previsti suggerisce infatti l’idea di una struttura non disponibile ad accogliere la sua richiesta. In questa prospettiva l’incapacità del setting di accogliere la richiesta del “paziente” orienta la relazione in una sorta di reciproca esclusione in cui l’unico spazio praticabile sembra essere quello di una panchina silenziosa posta in corridoio distante dal campo di gioco (la scuola – la stanza del colloquio) in cui altri (i compagni – lo psichiatra e il suo paziente) entrano invece in relazione. Da questo esempio è evidente che: la competenza professionale non è declinabile solo nella capacità di condurre il processo, ma anche in quella di strutturarne e amministrarne le condizioni organizzative. La questione può essere discussa notando innanzitutto l’eterogeneità dei contesti lavorativi in cui lo psicologo può trovarsi a operare (scuola, servizi di assistenza domiciliare, cooperative sociali, studi privati ecc.). A tale eterogeneità corrisponde naturalmente una notevole diversità di situazioni operative e di richieste. Nonostante il carattere articolato e composito di questo scenario lavorativo, ci sembra però che le opzioni offerte allo psicologo in tema di setting siano sostanzialmente tre: 1. Replicare e riproporre sempre il medesimo setting a prescindere dalle caratteristiche del contesto in cui si opera: In questa opzione, la cosa che forse traspare in modo più evidente è la disattenzione nei confronti del contesto. mantenere fisso l’assetto organizzativo, reiterandolo a prescindere dal fatto che si stia lavorando in un reparto ospedaliero piuttosto che in una casa famiglia o presso l’abitazione di un anziano, se da un lato significa considerare il setting impermeabile all’ambiente, dall’altro, tende ad attribuire una scarsa rilevanza alle caratteristiche del contesto in cui si opera. In questo caso, l’avvio e la strutturazione del setting non sono visti come espressione della prassi, ma semplicemente come condizioni preliminari che, proprio in quanto tali, possono essere decise una volta per tutte. L’automatica reiterazione del setting attiva una scissione tra la dimensione organizzativa dell’Intervento e l’Intervento stesso, oscurando le connessioni esistenti fra “ciò che si fa” e il “dove e quando lo si fa”. Esempio 3: l’anziana assistita e il “suo” dottore 18 about:blank 19/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica Il Setting La cooperativa XY aveva una convenzione con il Comune di Roma per il servizio di assistenza domiciliare agli anziani che prevedeva anche interventi di sostegno psicologico da svolgersi presso il domicilio degli utenti. La dinamica Elena viveva da 10 anni insieme al fratello in un piccolo appartamento delle case popolari. Da alcuni anni era assistita dalla cooperativa e da 7 mesi aveva subito la perdita del fratello: le assistenti domiciliari avevano segnalato allo psicologo della cooperativa una serie di comportamenti di tipo depressivo, e lo psicologo aveva deciso di avviare una serie di visite domiciliari. Dalla prima, in cui Elena si fece trovare in vestaglia e ancora a letto, si giunse a incontri in cui la signora lo accoglieva con un abbigliamento curato e dopo aver rassettato il salotto in cui offriva il caffè al “suo” ospite. Dopo alcuni colloqui iniziò a raccontare quanto la sua vita fosse stata intrecciata con quella del fratello e del dolore provato per la sua perdita. A seguito di una serie di “chiacchierate” lo psicologo propose a Elena di partecipare a un programma di incontri: a turno gli anziani sarebbero andati a casa di altri assistiti per prendere un tè e chiacchierare. Elena accettò l’invito e si organizzò per partecipare agli eventi e per offrire la sua casa a uno di essi. Commento È evidente che lo psicologo si è trovato a lavorare in uno scenario “predefinito” sia dalla convenzione sia dall’assenza di una specifica richiesta da parte di Elena. A questo c’è da aggiungere il carattere paradossale dell’assistenza domiciliare che se da un lato mira a evitare l’istituzionalizzazione dell’utente, dall’altro rischia di rinforzarne la dipendenza dall’operatore e dalla cooperativa: nel caso di Elena, la possibilità di fruire di un’assistente domiciliare che la accudiva e la sosteneva in molti aspetti della sua vita quotidiana agevolava la sua chiusura e le sue resistenze a elaborare la perdita di un fratello che per anni aveva svolto per lei il ruolo di interfaccia nei confronti della realtà esterna. Lo psicologo ha quindi strutturato un setting a partire da tali condizioni, tenendo conto del fatto che Elena avrebbe probabilmente istituito con lui una relazione fondata sulle categorie di dottore e ospite. Se, per un verso, l’Intervento doveva quindi attuarsi in una cornice compatibile con queste categorie (si pensi all’iniziale accoglienza in vestaglia e a letto), doveva però contemporaneamente delimitare le visite domiciliari come uno spazio e un tempo specifici in cui era possibile narrare e dare senso alle proprie emozioni. La regolarità e la continuità delle unità temporali e spaziali furono quindi inscritte all’interno di una situazione domestica e di una modalità relazionale in cui caffè e pasticcini si proponevano come elementi fondamentali del setting. Detto questo: in quanto territorio dell’Intervento, il setting rappresenta anche il contesto immediato in cui l’utente agisce la sua richiesta e lo psicologo offre la sua risposta tecnica. Chi interpreta il setting come mera sommatoria di prescrizioni da reiterare automaticamente e senza considerare le caratteristiche della richiesta e del contesto, disattende quindi un’esigenza fondamentale e cioè la necessità di relazionarsi in modo appropriato e pertinente alla domanda di Intervento, esplorando e analizzando i nessi che legano tutti gli elementi in gioco, non ultima la struttura organizzativa che ospita e sostiene la prassi clinica. 19 about:blank 20/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica 2. Assumere come “date” le condizioni organizzative proposte dall’ambiente lavorativo: Anche questa opzione esprime forte disattenzione e disinteresse nei confronti del contesto. 3. Individuare il significato relazionale veicolato dalla richiesta di Intervento e il senso dei suoi nessi con il contesto operativo, utilizzando l’assetto organizzativo come parte costitutiva della propria risposta tecnica: In questa opzione invece lo psicologo è impegnato a ricercare il senso della domanda di Intervento inscrivendola all’interno del contesto (culturale, sociale, economico) in cui essa si esprime e considerando il setting stesso come una struttura organizzativa riconducibile a quel contesto e portatrice pertanto di significati cognitivi ed emozionali (consci ed inconsci). In questa opzione il setting viene inteso come componente significativa della risposta tecnica dello psicologo. La competenza dello psicologo si esplica pertanto anche nella capacità di definire, qualificare e gestire in modo adeguato le caratteristiche del territorio. Un esempio particolarmente chiaro di questo ci giunge dalle psicoterapie con pazienti borderline. In queste situazioni, si può constatare che le azioni preliminari tese a strutturare il setting hanno un carattere tutt’altro che propedeutico all’Intervento. Nei casi di diffusione di identità, di incoerenza nel senso di sé e nella percezione degli altri, con conseguente instabilità nelle relazioni interpersonali, si evidenzia infatti la grande difficoltà di questi pazienti ad adeguarsi alle condizioni organizzative dell’Intervento: la proposta di una relazione fondata su una struttura costante e regolare qual è quella del setting terapeutico, si scontra con le modalità, spesso manipolatorie, con cui essi sono soliti entrare in rapporto con gli altri e con il contesto in cui vivono. Tali difficoltà si possono facilmente spiegare con il fatto che il setting è una relazione oggettuale che confronta il paziente borderline con una modalità diversa di rappresentare e vivere se stessi e l’altro. L’istituzione del setting si rivela pertanto una tappa fondamentale della psicoterapia, non solo perché costituisce un test rispetto alle capacità del paziente di affrontare il percorso terapeutico, ma anche perché attiva un processo di pensiero su quanto sta accadendo all’interno e grazie alla relazione terapeutica. Se si considerano quindi le tre opzioni dal punto di vista della competenza di uno psicologo clinico, ci si rende conto che duplicare e riproporre sempre il medesimo setting a prescindere dalle caratteristiche della situazione in cui si opera è sintomatico di un professionista che si ritiene “troppo forte per cambiare” ma che, proprio per questo, è incapace di accogliere, analizzare e interpretare la domanda dell’utenza in funzione del contesto in cui è espressa. D’altra parte, accettare supinamente un setting dato una volta per tutte dall’organizzazione in cui si lavora è espressione di un professionista “troppo debole per non essere cambiato” e quindi, incompetente a proporre un proprio modello organizzativo dell’Intervento in grado di coniugare richiesta e contesto. Se dunque da un lato si ha uno psicologo che impone, dall’altro, si ha uno che subisce, accomunati da un unico problema di fondo: l’illusione che possa esistere un unico setting e non una molteplicità di setting in funzione dei contesti e delle domande di Intervento. L’unico approccio realmente competente per uno psicologo clinico è quello di individuare il senso della forma organizzativa veicolata dalla richiesta dell’utente, nonché quello espresso dalla propria risposta tecnica, 20 about:blank 21/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica esplorando i nessi esistenti tra queste e il contesto in cui esse si collocano. Il fatto che ci si trovi spesso a lavorare in condizioni ambientali inadatte a soddisfare i requisiti minimi per una valida relazione con l’utente, non significa che si debbano assumere modalità operative proprie di altre professioni, ma, anzi, sottoporre le svantaggiose condizioni ambientali in cui si lavora a un processo di riflessione teso a chiarirne il senso e le implicazioni sulla relazione che si ha con l’utente costituisce spesso il primo passo verso ciò che è il fine del lavoro psicologico-clinico: promuovere un nuovo processo di significazione dell’esperienza. Esempio 4: la paziente e la tirocinante Il Setting L’esempio si riferisce a un colloquio di consulenza effettuato presso un ambulatorio ospedaliero. La stanza, dalla forte connotazione medica, aveva una scrivania, alcune sedie e un lettino. La psicologa, iscritta al quarto anno di una scuola privata di specializzazione in psicoterapia, stava effettuando il proprio tirocinio obbligatorio da cui avrebbe tratto il caso per la sua tesi. La Dinamica Giusy è una ragazza di 22 anni (ne dimostra però meno): insegnante precaria, soffre di una forte e persistente cefalea. Al momento del primo colloquio, Giusy è ricoverata da 3 giorni ed è in procinto di essere dimessa. Due medici che hanno appena concluso la loro visita accompagnano Giusy dalla psicologa. Aprendo la porta, le dicono semplicemente che “deve parlare con lei”; Giusy si siede e tace. La psicologa le si rivolge utilizzando il “tu” e avvia il colloquio chiedendole di parlare un po’ di se stessa. Dopo aver detto di vivere con particolare ansia la sua attuale situazione di insegnante precaria, Giusy si descrive come una persona incline a “somatizzare”, ad “assorbire tutto”, ma non riesce a spiegarsi le cefalee che appaiono all’improvviso e senza motivi apparenti. Racconta anche di avere poca fiducia negli altri. In ogni caso non conosce il motivo di quel colloquio: il primario le ha infatti detto solo che doveva farlo. Giusy si sofferma sui rapporti conflittuali con il fidanzato, caratterizzati da una situazione di incertezza. Al termine dell’incontro la psicologa informa la paziente della possibilità di fare altri colloqui, Giusy sembra però poco interessata e tesa solo a uscire il prima possibile dall’ospedale. Commento Le condizioni organizzative del colloquio appaiono abbastanza svantaggiose: la committenza (il primario) e l’invio hanno infatti una connotazione talmente prescrittiva da incistare l’intervento psicologico in una modellistica tipicamente medica. Non a caso la psicologa utilizza un “tu” che espropria Giusy del suo status di adulto per affidarlo a quello più subalterno di paziente. L’interazione si focalizza e si esaurisce dunque nell’anamnesi, allo scopo di raccogliere tutti gli elementi necessari per inquadrare la sintomatologia e ricondurla alla storia di vita del soggetto. Le informazioni appaiono però insufficienti, inadeguate e comunque tali da non spiegare il perché di quella cefalea. Sono, quindi, necessari altri incontri che Giusy rifiuta. Giusy ha reagito al colloquio in modo sostanzialmente analogo a quello in cui risponde al sintomo cefalalgico e agli accertamenti medici: Giusy “assorbe” tutto, accetta tutto, anche quando non ne capisce il senso. Altro dato degno di nota è che la psicologa sta svolgendo il tirocinio necessario alla sua formazione clinica: solo 21 about:blank 22/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica effettuandolo e traendone materiale utile alla tesi potrà essere diplomata. Ecco quindi emergere un link tra la necessità di Giusy di sottoporsi agli esami clinici e la necessità della psicologa di sottoporsi all’esame conclusivo del suo iter formativo: entrambe quindi devono sottostare e accettare il colloquio, l’una per uscire dall’ospedale, l’altra per uscire dalla scuola di specializzazione. Probabilmente una riflessione sulle condizioni svantaggiose in cui si stava operando avrebbe consentito alla psicologa non solo un intervento più efficace e competente, ma anche un incremento della propria personale consapevolezza. 2.2.3 Il setting come Istituzione Fin’ora abbiamo detto che il setting può essere inteso come la cornice e il contenitore dell’Intervento clinico, ma anche come l’insieme delle azioni indispensabili ad attivare quei dispositivi relazionali che lo psicologo ritiene necessari allo svolgimento della propria attività. Si è altresì detto che il setting è un territorio regolamentato da una serie più o meno estesa di norme il cui fine è definire il modo in cui si deve entrare in relazione e si devono fare le cose: proprio questo aspetto ci consente di considerare il setting anche una istituzione. In sociologia il concetto di istituzione è strettamente connesso a quello di organizzazione sociale. Mentre con il primo ci si riferisce a quelle forme e condizioni dell’agire che caratterizzano stabilmente le attività di un gruppo e si fondano su un insieme di valori, ruoli, norme e consuetudini, il concetto di organizzazione rinvia a una gamma molto ampia di “associazioni” che si propongono il raggiungimento di determinati scopi. Il setting definisce le condizioni materiali e procedurali necessarie alla “coppia” psicologo-utente per avviare e stabilizzare nel tempo la relazione con cui e su cui si svilupperà l’Intervento clinico e il cui fine è il raggiungimento di una serie di scopi (recupero della propria capacità decisionale, riduzione della sofferenza psicologica ). L’aspetto più interessante risiede nel fatto che tutti gli individui tendono a interiorizzare le norme, le credenze e i comportamenti che l’istituzione ritiene socialmente accettabili :aspetto questo che costituisce una caratteristica dell’istituzione stessa che, dunque è parte della personalità dell’individuo. Esempio 5 : La paziente e la Lampada Il Setting La situazione descritta si riferisce a una consulenza psicologico-clinica effettuata in ambito privato e con un assetto vis-à-vis. La Dinamica Stefania è una ragazza trentenne dalla corporatura minuta e dai tratti del viso delicati. Lavora come dietista ed ha chiesto una consulenza psicologica dopo aver interrotto un lungo legame di convivenza con Davide: pur essendo consapevole della profonda insoddisfazione degli ultimi mesi, tutto sembrava “filare liscio” tra loro. Di recente Davide era anche riuscito a farsi assumere da una grande azienda, cosa che l’aveva sgravata dalla responsabilità di essere l’unica a sostenere la coppia dal punto di vista economico. Stefania è sempre puntuale agli appuntamenti. Il suo comportamento durante le narrazioni esprime una forte ambivalenza: da un lato si rende conto che ha bisogno di 22 about:blank 23/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica aiuto, dall’altro vive come un vero e proprio fallimento la propria richiesta di aiuto. In casa è sempre stata vista come una ragazza decisa e sicura di sé, il vero punto di riferimento della famiglia. Il terzo colloquio della consulenza avviene nel tardo pomeriggio. Lo psicologo si alza per andare ad accendere la lampada, ma non appena Stefania lo vede dirigersi verso di lei gli intimata alterata: “Non lo faccia! Accendo io la lampada!”. Nella parte conclusiva del colloquio, Stefania cerca di spiegare l’intensità della propria reazione emotiva, che appare anche a lei eccessiva e inappropriata: riferisce di aver vissuto lo spostamento dello psicologo come una minaccia da cui difendersi. Sebbene si rendesse conto che quello era il suo studio e che aveva quindi il diritto di muoversi in esso, lei sentiva che lui avrebbe dovuto rimanere immobile. Commento L’adesione di Stefania al setting sembra perfetta fin dalle prime battute. Nel corso dei primi due colloqui tutto sembra “filare liscio” ed emerge l’immagine di una persona da sempre abituata ad affrontare qualsiasi cosa e a pensare di dover essere lei a sostenere la famiglia in caso di difficoltà. Il movimento dello psicologo, la sua autonomia nel gestire il proprio “territorio”, sembra mettere in discussione il ruolo con cui Stefania interpreta le regole ed il suo ruolo istituzionale. L’altro (lo psicologo – Davide) si dimostra infatti autonomo e indipendente da lei (nell’accendere la lampada – nel farsi assumere), cosa che ai suoi occhi si configura come una grave minaccia per quella funzione di guida, sostegno e controllo su cui ha strutturato la propria identità. La forte rete di aspettative, norme, ruoli sociali e processi individuali di identificazione e interiorizzazione ci consente di descrivere il setting (istituzione) come una sorta di crocevia in cui confluiscono, da un lato, una serie di processi di carattere culturale e sociale, dall’altro di dinamiche intrapsichiche e interpersonali. In questa prospettiva si riconoscono due dimensioni della relazione sociale: 1. La prima, costituita da ruoli, regole e funzioni individuabili e definibili in modo consapevole e razionale, rinvia alla modalità conscia della mente ed è definita come la dimensione organizzativa della relazionalità sociale; 2. La seconda ospita invece le rappresentazioni emozionali espresse nei confronti di oggetti, situazioni ed eventi e costituisce l’espressione della modalità inconscia della mente; questa dimensione viene definita dimensione istituzionale e si propone quale scenario delle interazioni affettive che si sviluppano tra le persone. Quando le rappresentazioni emozionali (simbolizzazioni affettive) espresse dai singoli individui nei confronti di un determinato evento convergono, si innesca un processo collusivo che consente a tutti coloro che partecipano a quella specifica aggregazione ( famiglia, azienda, gruppo sociale) di operare consensualmente proprio perché d’accordo nel considerare in quel modo quella porzione della realtà. Sulla base di questi processi collusivi si sviluppa e si consolida pertanto una istituzione. Il fatto che le persone si attendano dallo psicologo quelle particolari condizioni organizzative segnala dunque la presenza, all’interno della cultura, di un accordo inconscio sul modo in cui deve essere rappresentata questa professione. Tale accordo consente allo psicologo e all’utente di avviare la relazione sulla base di comuni aspettative e indicazioni sul modo in cui “si devono fare le cose”. 23 about:blank 24/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica In questo senso, il setting psicologico – clinico può essere considerato l’istituzione che condensa ed esprime in termini organizzativi i processi collusivi sviluppatisi a livello culturale e sociale nei confronti della professione psicologica. Il setting è, però, anche la condizione minima di stabilità e di coerenza organizzativa necessaria allo psicologo per esplorare e analizzare il processo collusivo e le fantasie che hanno dato l’avvio non tanto all’istituzione setting, quanto piuttosto a quel particolare setting in cui si trova a interagire con l’utente. Lo psicologo accetta di aderire al ruolo che gli si attribuisce nell’ambito socioculturale in cui lavora ma utilizza però l’intero impianto organizzativo per analizzare le discrepanze esistenti tra le collusioni che rinviano alla cultura e al gruppo di appartenenza del soggetto e quelle che afferiscono invece alle caratteristiche personali dell’utente. Nel setting, dunque, la dimensione culturale, sociale e relazionale si coniuga inevitabilmente con quella individuale e intrapsichica. Esempio 6: vicini e distanti Il setting L’esemplificazione fa riferimento a una consulenza psicologico-clinica condotta in ambiente privato. I colloqui erano svolti in una stanza arredata con cura, dotata di libreria, scrivania, poltrona e due poltroncine posizionate ad angolo retto (cosa che consente al paziente sia di guardare lo psicologo, sia di indirizzare lo sguardo sull’ambiente). La Dinamica Clara è una donna di 45 anni, titolare di una piccola impresa. Dopo un lungo periodo di vita da single ha conosciuto Elio, con cui ha avviato un’intensa corrispondenza via e mail: dagli iniziali messaggi di carattere lavorativo si passa gradatamente a comunicazioni più personali e intime. La situazione suscita fantasie e desideri in Clara, che vive tuttavia con ansia il fatto di non riuscire a definire il rapporto: Elio continua infatti a qualificare il rapporto come una semplice amicizia, pur assumendo atteggiamenti in contrasto con questa qualificazione. La sensazione di essere in qualche modo tenuta a distanza evoca problematiche antiche di Clara che rinviano a una famiglia che, non volendola, ha sempre agito nei suoi confronti con una sorta di “amorevole distacco”. All’avvio del secondo colloquio di consulenza, Clara si avvicina alla sua poltroncina e chiede con un sorriso se può spostarla. Senza attendere la risposta, ne afferra i braccioli e la colloca quasi di fronte a quella dello psicologo. Dopo essersi seduta, spiega il suo comportamento dicendo che desiderava guardarlo in modo diretto, senza essere costretta a voltare la testa. Commento Il tema che aveva spinto Clara a richiedere la consulenza era infatti strettamente correlato alla gestione della vicinanza-distanza dagli altri e alla sua convinzione emotiva che questi ultimi non fossero disposti ad accettare la sua presenza. Le caratteristiche materiali del setting sembrava quindi attribuire al territorio una connotazione ambivalente in cui all’accoglienza si associava il distacco. 2.2.4 Una possibile definizione di setting 24 about:blank 25/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica Prima di proporre una definizione, esplicitiamo le prospettive con cui è possibile inquadrare il concetto di setting. 1. Nella prima (prospettiva minimalista) si tende a contrapporre assetto organizzativo e processo di Intervento, considerando il primo un insieme di elementi inerti e statici, il secondo una realtà mutevole e dinamica. Si satura quindi l’accezione di solidità, stabilità, immobilità presente nel termine “setting”. In questa prospettiva si riconosce al setting una funzione meramente strumentale all’avvio e allo sviluppo della prassi e si immagina un intervento improntato a criteri di asetticità e neutralità: l’interesse dello psicologo si concentra pertanto sulla capacità del frame di instaurare le opportune condizioni di isolamento della relazione dalla realtà esterna, promuovendo, contemporaneamente, la sospensione di qualsiasi elemento incongruo con il processo. Tale concettualizzazione rinvia a una prospettiva di tipo individualista in cui si tende a privilegiare l’intervento tecnico sull’utente a scapito di quello sulle dimensioni relazionali e contestuali. 2. Se la prima impostazione si fonda sul tentativo di minimizzare e semplificare la realtà, la seconda (prospettiva complessa) si basa invece sull’assunto della complessità. Il fatto di aver riconosciuto nel setting non solo il confine e il territorio dell’intervento, ma anche e specialmente il contesto di quest’ultimo, gli attribuisce infatti una tale ricchezza di significati che rende difficile qualsiasi impresa finalizzata a ricondurlo a semplice unità. In tale prospettiva il setting si configura come una realtà composita che, se da un lato costituisce il precipitato organizzativo di una serie di collusioni di tipo culturale e sociale, dall’altro concretizza un territorio in cui è possibile esprimere, esplorare e analizzare le fantasie e i processi di pensiero del singolo individuo. Tale concettualizzazione è sostanziata da un modello di conoscenza in cui è stata abbandonata l’idea positivistica di poter afferrare e comprendere l’oggetto in termini obiettivi attraverso un opera di isolamento del contesto e di segmentazione in sottofenomeni, acquisendo la consapevolezza che la realtà è sempre inevitabilmente fusa e confusa con l’interpretazione che ne danno le teorie elaborate dall’uomo per comprenderla. In questo modello di conoscenza, fondato sul concetto di complessità, l’oggetto di studio è individuato nella totalità degli elementi e nelle interazioni che questi intrattengono con l’ambiente in cui sono situati. Se la concezione minimalista del setting rinvia quindi a un’ottica individualista in cui si tende più facilmente a segmentare i fenomeni, quella complessa evoca invece un approccio in cui si sottolinea e si privilegia un Intervento sulle dinamiche relazionali e contestuali. Esempio 7 : Il candidato e le sedie vuote Il Setting L’esempio è tratto da una serie di colloqui riservati a ragazzi diplomati, presso un CFP, condotto al fine di selezionare quelli più adatti. La stanza del colloquio con lo psicologo, oltre a una scrivania e 25 about:blank 26/83 20/09/23, 01:15 Metodologia dell'Intervento in psicologia clinica due poltroncine, aveva anche una decina di sedie poggiate sulla parete alle spalle del candidato. I ragazzi furono convocati presso il CFP e lasciati in attesa in una sala attigua a quella del colloquio. La Dinamica Giancarlo, dopo un difficoltoso iter scolastico, aveva fatto domanda a quel Centro di Formazione Professionale (CFP) con l’intenzione di qualificarsi professionalmente per essere assunto presso il laboratorio in cui lavorava suo cugino. All’invito dello psicologo Giancarlo si accomoda e chiede subito la durata del colloquio. Giancarlo informa lo psicologo che ha preso un appuntamento con degli amici e che teme di non fare in tempo a raggiungerli data la lunghezza dell’incontro: ha quindi necessità di avvisarli. Senza attendere la risposta dello psicologo, prende il cellulare e chiama uno degli amici: mentre parla con l’amico, Giancarlo dapprima si alza dalla sedia per camminare nella stanza, successivamente si siede comodamente sulle sedie poggiate sulla parete. Commento La telefonata di Giancarlo, il suo camminare per la stanza, il suo accomodarsi sulle sedie, rappresentano una sorta di manipolazione del setting, coerente con i suoi bisogni: il comportamento agito da Giancarlo gli ha consentito di trasformare il territorio del colloquio da spazio in cui era oggetto passivo di valutazione (il cui esito poteva essere l’esclusione del corso) a spazio conoscibile e gestibile. D’altra parte, il comportamento di Giancarlo può essere anche letto come un tentativo per ribaltare i ruoli reciproci configurati dal setting: la telefonata gli consente infatti di assumere quello della persona che fa aspettare l’altro (lo psicologo che rimane in attesa) perdendo quello di persona che fatta attendere. La dinamica sembra quindi avere una connotaz