Titanic: Introduzione all'ordine liberale e alla rottura del patto tra democrazia e mercato
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Summary
Il documento analizza il declino dell'ordine internazionale liberale, mettendo in luce la rottura del patto tra democrazia e mercato. Si esaminano le crescenti tensioni geopolitiche, economiche e l'influenza del neopopulismo a livello globale. L'articolo sottolinea come l'ascesa dell'ordine globale neoliberale abbia minato i principi dell'ordine internazionale liberale.
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0. Introduzione - L’ordine liberale e la rottura del patto tra democrazia e mercato 0.1. Un ordine dirottato Dopo decenni di fallimenti strutturali sempre più evidenti, l'ordine internazionale liberale sembra aver perso definitivamente la rotta. Fino ad una trentina di anni fa, la democrazia libera...
0. Introduzione - L’ordine liberale e la rottura del patto tra democrazia e mercato 0.1. Un ordine dirottato Dopo decenni di fallimenti strutturali sempre più evidenti, l'ordine internazionale liberale sembra aver perso definitivamente la rotta. Fino ad una trentina di anni fa, la democrazia liberale era stata dichiarata da Fukuyama la «comune eredità ideologica dell'umanità», l'unico modello politico ed economico percorribile, legittimata da una solida vittoria su ogni sostanziale alternativa ideologica. L'ordine internazionale liberale odierno tuttavia non può essere considerato la configurazione indiscussa del mondo sotto il profilo politico ed economico: il libero scambio incontra resistenze non solo nei dazi e nelle nuove forme di protezionismo e mercantilismo, ma anche nella crisi del multilateralismo nella governance del commercio internazionale. Il big business continua a trarre vantaggio dalla persistente riluttanza dei governi a intaccare le esenzioni e i privilegi accumulati in trent'anni di deregolamentazione, generando così livelli di deregolamentazione senza precedenti all'interno degli stati e tendenze oligopolistiche, specie nei settori più avanzati dell'economia globale. Istituzioni e normative internazionali vengono sabotate e aggirate, non più solo dagli stati paria, ma anche da nazioni tradizionalmente considerate colonne portanti della struttura organizzativa che sorregge l'ordine internazionale. Inoltre, settori sempre più ampi delle popolazioni degli stati occidentali hanno cominciato a manifestare diffidenza rispetto ai principi e alle istituzioni liberali, indebolendo la legittimità, oltre che il funzionamento, del delicato meccanismo che equilibra mercati aperti e democrazia rappresentativa. Questo insieme di problemi che interessa le democrazie contemporanee e l'ordine internazionale che le ha sorrette negli ultimi quarant'anni è dovuto a una duplice crisi. Da un lato, le democrazie liberali stanno assistendo all'ascesa di movimenti neopopulisti. Dall'altro, si stanno dimostrando sempre più incapaci di coordinarsi tra loro a livello internazionale, soprattutto di fronte a sfide che imporrebbero invece un altissimo livello di coordinamento: dal cambiamento climatico alle pandemie, dalle migrazioni all'inquinamento globale, dall'esaurimento delle risorse naturali ai modelli di consumo sostenibile. Si tratta di due facce intimamente connesse. Gli attori neopopulisti, infatti, non sono solo sprezzanti nei confronti dei valori, ma attivamente impegnati a distruggerli in nome della sovranità. Incolpare forze palesemente illiberali costituirebbe però un errore: sarebbe troppo comodo sminuire la crisi. In realtà, il declino dell'ordine internazionale liberale è una vicenda più complessa, intrinsecamente connessa a una peculiare trasformazione degli stati liberaldemocratici. La crisi dell'ordine internazionale liberale risulta dalla rottura dell'equilibrio tra democrazia ed economia di mercato. Questo equilibrio è stato la premessa in base alla quale furono costruiti sia le democrazie liberali sia l'ordine internazionale liberale. Il collasso del «patto sociale» e dell'equilibrio tra capitale e lavoro che il welfare state fu in grado di materializzare è ciò che sta svelando le contraddizioni interne del capitalismo. A partire dagli anni Ottanta l'ordine internazionale liberale è stato progressivamente sostituito dall'ordine globale neoliberale. Il vascello sul quale l'Occidente ha navigato dalla fine della Seconda guerra mondiale è stato dirottato. Su questa nuova rotta, si staglia un iceberg e ciascuna delle sue quattro facce è in grado, da sola, di affondare il Titanic. Queste facce sono: la crisi della leadership americana, in combinazione con l'ascesa delle potenze autoritarie di Russia e Cina; la polverizzazione della minaccia legata al terrorismo jihadista; la deriva revisionista degli Stati Uniti; l'affaticamento della democrazia, schiacciata tra populismo e tecnocrazia, Sullo sfondo, la crisi europea. L'Europa può ancora salvarsi, e dare un contributo decisivo al ristabilimento della rotta originaria. L'ascesa dell'ordine globale neoliberale ha consentito e reso sempre più popolari gli attacchi al primigenio ordine internazionale liberale sia nel mondo accademico sia in quello della politica. Entrambe queste sfere devono essere prese in considerazione, dal momento che l'ordine internazionale liberale ha sempre avuto una duplice natura: da un lato, è stato la particolare configurazione d'ordine internazionale risultata dalle interazioni di una gamma di fattori strutturali e contingenze a livello degli attori in un contesto postbellico caratterizzato dall' egemonia degli Stati Uniti; dall'altro, era e resta un progetto politico pensato per tenere insieme nel modo più armonioso possibile la sovranità statale e l'economia di mercato. Quelle appena menzionate sono specifiche accezioni di tre concetti - ordine internazionale, sovranità ed economia di mercato - che hanno caratterizzato lo zenit della modernità politica. Il liberalismo accettò la sfida di integrare questi tre concetti, cioè di renderli sinergici. Sul lungo periodo, però si accontentarono di armonizzarli in coppie anziché in un'unica triade. Solo successivamente si sarebbe gradualmente manifestata la spinta verso una riforma delle istituzioni politiche ed economiche degli stati volta a raggiungere maggiori livelli di inclusività. Questa ambizione produsse conflitti tra gli stati sovrani che sarebbero poi degenerati nella Prima guerra mondiale, che a sua volta portò alla dissoluzione della società internazionale europea. Sembra probabile che si verifichi un risultato analogo nelle circostanze attuali, dal momento che le pressioni interne che risultano dalle disuguaglianze sempre più gravi generate dall'iperglobalizzazione e l'accelerazione degli avanzamenti tecnologici spingono gli stati a erigere barriere per proteggersi gli uni dagli altri e ad assumere atteggiamenti aggressivi in politica estera - una tendenza osservabile nel comportamento delle maggiori potenze, che sempre di più agiscono come se non appartenessero più a un'unica «società internazionale mondiale». Negli Stati Uniti, Donald Trump ha scatenato un tornado contro l'internazionalismo liberale, trattando alleati partner come rivali e promuovendo l'idea che l'obiettivo di rendere l'America ‘Great Again!’. Paradossalmente, il presidente cinese Xi si ergeva a campione di una globalizzazione limitata alla libertà di scambio e d'impresa, libera dai vincoli del liberalismo politico. In questo senso, le strutture materiali fornite dalla Belt and Road Initiative soppiantano in grande misura l'infrastruttura ideologica dell'ordine internazionale liberale. La Cina ha gettato benzina sul fuoco del nazionalismo con le sue bellicose recriminazioni contro gli stati vicini, stringendo la presa su Hong Kong, mostrando impazienza crescente nei confronti del problema Taiwan e imprigionando circa un milione di cittadini uiguri in campi di rieducazione. Anche la Russia ha giocato la carta del nazionalismo annettendo la Crimea, con una politica estera più aggressiva, soprattutto nel Mediterraneo. La tendenza nazionalista, comunque, non è prerogativa del mondo illiberale: perfino il Regno Unito - il cuore dell'ordine internazionale liberale fin dalla sua nascita - è stato sedotto dalla nostalgia per il proprio «glorioso» passato imperialista. Tale nostalgia ha rafforzato le argomentazioni dei Brexiteers e la candidatura a premier di Boris Johnson. Il timore di tensioni crescenti, in futuro, tra gli stati e all'interno di essi è tutt'altro che irragionevole. Una grande «guerra costituente» che dia vita a una nuova egemonia globale potrà anche essere improbabile, anche perché viviamo ancora in un'era nucleare. Ma non bisogna dimenticare che in passato diverse grandi guerre sono scoppiate a causa di false percezioni, errori di giudizio ed escalation indesiderate. John Ikenberry argomenta che è stato l'internazionalismo liberale a rispondere alla sfida di armonizzare l'ordine internazionale con la realizzazione concreta di sovranità ed economia di mercato. L'internazionalismo liberale era - e secondo Ikenberry è ancora - non solo un approccio analitico, ma un progetto politico in profonda connessione con movimenti politici progressisti. L'indagine di Ikenberry enfatizza due azioni tra gli interessi e i valori che caratterizzano le agende degli attori statali e non statali - relazioni istituite in modo deliberato, ma strutturalmente limitato. La preferenza per un ordine internazionale liberale è fondata sull'ipotesi che il liberalismo fornisca ancora i presupposti analitici più adeguati a spiegare la stabilità e la flessibilità senza precedenti che abbiamo conosciuto a livello nazionale e internazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale. E questa «stabilità liberale» ciò che ha portato all'istituzione di un'autentica leadership internazionale, limitando gli effetti della distribuzione irregolare di potere. Ma quegli stessi presupposti, sostiene Ikenberry, hanno anche aperto la strada - pur se non in modo ineluttabile - a forze che finiranno necessariamente per distruggere lo stesso ordine internazionale liberale. Per cominciare, un ordine globale neoliberale è andato sostituendosi all'ordine internazionale liberale a partire dalla fine della Guerra fredda. Ma il problema e legato anche alle diverse forze che hanno compromesso l'ordine internazionale liberale fin dalle decadi finali della Guerra fredda: le forze tecnocratiche che premono per risposte internazionali omologate alle crisi economico- finanziarie, minando il ruolo sociale dello stato nella politica interna; le forze sovraniste e populiste che impugnano il principio di sovranità come un'arma contro la cooperazione internazionale; le potenze autoritarie, come la Cina, che cercano di creare un nuovo ordine internazionale spogliato dalle norme liberali. Tutte queste forze si curano poco della relazione tra interessi e valori. 0.2. I pilastri dell’ordine internazionale liberale L'ordine internazionale liberale è la particolare forma che l'egemonia statunitense assunse dopo il 1945 nel quadro di un progetto politico che si richiamava ai principi wilsoniani e a tutte le tradizioni di pensiero liberale. Se l'obiettivo immediato era creare un'arena internazionale governata non solo dalla forza ma anche dalla legge, l'obiettivo finale era dare al sistema internazionale la forma quanto più simile a quella di un sistema democratico nazionale. L'ordine internazionale liberale era una struttura semplice e ingegnosa, fondata su cinque pilastri: 1. la costruzione di un mercato libero e aperto per contenere gli eccessi della sovranità e la logica dell'anarchia internazionale; 2. l'impiego della sovranità statale come contrappeso agli eccessi del mercato; 3. l’erezione di una ricca e solida architettura di istituzioni internazionali per rendere possibile la cooperazione tra gli stati, ridurre il dilemma securitario e canalizzare la forza del mercato della sovranità statale, rendendo la cooperazione tra esse possibile e redditizia; 4. l’inclusione politica, economica e culturale delle classi più basse - le masse - per rendere «popolari», e quindi rafforzare, le istituzioni liberali dell'economia di mercato e della democrazia rappresentativa; 5. la creazione di una classe media forte e numerosa, pensata come la spina dorsale del sistema politico ed economico nazionale. Le caratteristiche principali costituivano un compromesso tra il realismo politico e le aspirazioni trasformazionali del liberalismo. Da un lato, quest'ordine era basato sul riconoscimento della necessità della sovranità. Dall'altro, usava la diffusione del libero mercato non solo come mezzo per realizzare benessere e ricchezza in ambito economico, ma anche come barriera per contenere la logica della sovranità e le sue conseguenze rispetto allo sviluppo della cooperazione internazionale. Il mercato era visto come uno strumento efficace per controllare l'anarchia internazionale e il frequente ricorso alla guerra. L'espansione della dimensione internazionale degli scambi e l'interdipendenza economica potevano essere raggiunte solo rendendo la loro interruzione estremamente costosa. Questa logica avrebbe ridotto la tentazione della guerra, aumentando al tempo stesso l'attrattiva della pace come strumento per rafforzare ed espandere il commercio internazionale. La crisi economica del 1929, aveva smascherato l’illusione della ‘mano invisibile’. Aveva mostrato chiaramente che gli sbilanciamenti del mercato possono avere effetti disastrosi che vanno molto al di là della sfera economica, invadendo ogni settore sociale. Nel periodo interbellico era emerso nitidamente un assioma: solo la creazione di una classe media solida - attraverso il miglioramento delle condizioni di vita, del consumo e della ricchezza - poteva costituire quel «popolo» di cui i liberali avevano bisogno per fondare la democrazia. Per questo motivo, l'attrattività della cultura politica liberale divenne l'elemento centrale del sistema democratico stesso. L'incubazione della democrazia liberale era avvenuta prima della fine della Seconda guerra mondiale. Per esempio, l'espansione del suffragio universale maschile. È fuor di dubbio che la Guerra fredda, pur limitando le ambizioni universalistiche del modello liberale fondato sull'alleanza tra democrazia ed economia di mercato, apportava una pressione strutturale su di esso. L'attrattiva concorrenziale di capitalismo e socialismo diede forma all'interpretazione di come le democrazie liberali dovessero funzionare: tra i liberali si affermò il consenso che le forze del mercato dovessero essere riconciliate con il welfare state. In altri termini, la democrazia liberale in Occidente non trionfò solo durante la Guerra Fredda, ma grazie ad essa. Più nello specifico, il socialismo diede un contributo fondamentale alla formazione dell’interpretazione normativa dello stato liberaldemocratico, nonostante questo contributo sia spesso negato. La fine della guerra fredda ha dato luogo a una fenomenale inversione di rotta, favorendo il trionfo di una diversa interpretazione del liberalismo. 0.3. La grande discontinuità: dal ‘triangolo liberale’ al ‘trilemma di Rodrik’ L’inversione iniziò negli anni ‘70, a causa di eventi che crearono il progetto dell’ordine globale neoliberale e gli consentirono di sostituire progressivamente l’originario ordine internazionale liberale. Gli anni cruciali sono identificabili tra il 1968 e il 1973. In quegli anni, le società democratiche occidentali furono soggette a una pressione notevole, tra le altre cose: dal radicalismo studentesco, da un notevole aumento dei salari, dai primi sintomi di un calo generalizzato della produttività, dal consolidamento del mercato degli eurodollari nella City londinese, dall'esplosione del deficit commerciale e del debito federale degli Stati Uniti, dalla sconfitta americana nella Guerra del Vietnam dall'affaticamento delle politiche keynesiane nel fare fronte all'aumento simultaneo, per la prima volta nella storia, dell'inflazione e della disoccupazione In più, ci furono: la fine di Bretton Woods lo shock petrolifero, con il drammatico aumento della quantità di dollari americani detenuti all'estero (i cosiddetti petrodollari), fuori dal controllo della Federal Reserve e delle autorità politiche degli Stati Uniti. Gli anni Settanta videro la nascita di tendenze culturali peculiari (la rivoluzione neoconservatrice), che successivamente resero possibile la contestazione ideologica del welfare state e del liberalismo embedded, e la crisi economica seguita allo shock petrolifero del 1973. L’inizio della globalizzazione è simbolicamente segnato dal crollo dell’URSS e in questo momento storico: ha inizio la cosiddetta ‘grande discontinuità’ il passaggio dall’ordine internazionale liberale all’ordine globale neoliberale acquisisce popolarità la cosiddetta deregulation ha inizio l’inversione rispetto alla logica originaria dell’ordine internazionale liberale, dando adito alla logica opposta che sorregge l’ordine globale neoliberale: non più proteggere le società domestiche dalle minacce provenienti dall’ambiente internazionale, ma piuttosto difendere i mercati globali da qualsiasi intralcio proveniente dalle società domestiche. Per rendere possibile questo cambiamento fu predisposta una trasformazione politica, descrivibile con il termine ‘egemonia gramsciana’, che sottintendeva una domanda politica apparentemente semplice, ovvero capire quali interessi e valori meritano protezione prioritaria da parte dell’azione politica e del governo. Per rispondere, vennero formulate 3 linee ideologiche distinte ma convergenti: neoliberalismo neoconservatorismo ordoliberalismo a. Neoliberalismo Il neoliberalismo accusava il big government di essere responsabile dello spreco di risorse, perché impediva al mercato di produrre ricchezza; gli imputava inoltre di esigere troppo in termini di diritti e salari. b. Neoconservatorismo Il neoconservatorismo introdusse la «rivolta», contro la precedente ‘era progressista’ in nome della restaurazione della legge e dell’ordine, dei diritti della moral majority, del ristabilimento dei valori familiari e tradizionali, dell'elogio della meritocrazia e della stigmatizzazione dell' uguaglianza. c. Ordoliberalismo E’ basato sulla scuola di pensiero austro-tedesca, che era usata principalmente per giustificare nuove politiche statali più dure, che premiavano il capitale a spese del lavoro. Tanto il neoliberalismo quanto l’ordoliberalismo sottovalutano il peso degli incumbents, cioè il fatto che gli attori più forti del mercato possono dirottare decisioni politiche cosiddette «pro mercato» a proprio esclusivo vantaggio. È il problema della cattura del regolatore da parte del più forte, più grande e più ricco. In sintesi, ci si è progressivamente allontanati dal triangolo originario dell'ordine internazionale liberale - costituito da libero mercato, sovranità statale democratica e istituzioni internazionali - verso il trilemma di Rodrik - costituito da libero mercato, sovranità statale e democrazia. Mentre il «triangolo liberale» supponeva però di essere in grado di gestire simultaneamente i tre vertici e di creare - e preservare - pace, ricchezza e democrazia, il «trilemma di Rodrik» presuppone che democrazia, sovranità e libero mercato non possano essere in funzione nello stesso momento. Durante la Guerra fredda, gli stati comunisti erano largamente considerati stati a «sovranità limitata», i liberali, d'altro canto, non possono trascurare il fatto che gli stati liberali hanno visto la propria sovranità economica diminuire come Conseguenza della «confisca della sovranità» non da parte di una potenza straniera - come l'Unione Sovietica, ma ad opera del mercato. La logica del mercato prescrive la protezione della libera concorrenza, ma nella pratica protegge la concentrazione di ricchezza e potere. La logica della sovranità ha ceduto il passo a quella del mercato, e l'imperativo di regolamentare il mercato è stato rimpiazzato da quello dell'«autoregolamentazione», che crea falsi miti e maschera le conseguenze disfunzionali della deregolamentazione. Non sorprende che la «gente comune» abbia reagito defezionando dal sistema. Nei termini dello schema exit / voice / loyalty di Hirschman : le democrazie occidentali e le culture politiche liberali hanno perso in loyalty, conosciuto una radicalizzazione di voice e assistito a una crescita preoccupante di exit, attraverso la diffusione delle culture politiche di destra e di attori che pongono una «minaccia esistenziale» alla democrazia liberale. E’ necessario ricordare che la ‘rule of law’ e la separazione dei poteri rappresentano il punto di equilibrio tra la ricchezza, concentrata nelle mani di pochi, e gli interessi e il benessere dei molti. In più, solo la democrazia liberale può proteggere la proprietà privata dalla politica e dai suoi istinti predatori. Tuttavia, la rule of law e la separazione dei poteri hanno un prezzo, e possono esistere solo se non vengono ridotte a docile strumento per legittimare il privilegio. Nella nostra economia globale attuale, anche gli happy few necessitano di istituzioni politiche democratiche che possono essere sostenute solo attraverso il consenso della maggioranza. Questa perenne coincidenza di interessi è il perno sul quale può fare forza la leva dei valori Liberali e democratici. PARTE PRIMA: FUORI ROTTA 1. Primo Capitolo - Titanic, ovvero l’ordine inaffondabile: le origini, le espansioni e il tradimento dell’ordine internazionale liberale (1945-2000) Alla luce del periodo interbellico era chiaro che gli shock finanziari ed economici possono causare crisi sociale drammatiche e profonde fratture politiche ed istituzionali. Era per questo motivo essenziale impedire che politiche protezionistiche rendessero costosi ed inefficienti i piani nazionali finalizzati alla ripresa, che per loro natura tendono a suscitare ostilità , xenofobia, e nazionalismo sciovinista; generando ulteriore chiusura nel mercato, isolazionismo e unilateralismo. Le tensioni tra la dimensione politica democratica e quella economica liberale rivelarono un problema strutturale nella relazione tra democrazia di massa ed economia di mercato: un mercato mal regolamentato comprometteva le fondamenta stesse della democrazia. L’inclusione politica delle masse richiedeva che si prestasse maggiore attenzione sia alle premesse che alle promesse della democrazia, in modo che le due dimensioni convergessero. La guerra fredda e la minaccia sovietica esercitavano una duplice influenza: da un lato, consentivano al centro del sistema (occidente e Giappone) di rispettare gli impegni nei confronti dell’equilibrio tra democrazia ed economia di mercato. Allo stesso tempo, l’anticomunismo era l’unico requisito per entrare a far parte dell’ordine liberale, insieme all’apertura internazionale dei mercati domestici. La fine della guerra fredda segnò la definitiva transizione da un embedded capitalism ad una embedded democracy, che si piegava ai bisogni di un mercato sempre meno regolamentato. L'attacco all’egemonia culturale del progressismo era già cominciato negli anni ‘70, come risultato di 3 dinamiche combinate: 1. ascesa del monetarismo e neoliberalismo 2. distorsione dell’ordoliberalismo di Hayek, con la sua enfasi sugli elementi autoritari e sul bisogno del contributo dei governi alla protezione del mercato, che avrebbe trainato il credo della deregolamentazione 3. la missione neoconservatrice di sostituire gli interessi di classe con valori ‘non negoziabili’, il cui precursore era stato il movimento cosiddetto della moral majority 1.1 Le origini e i fondamenti dell’ordine internazionale liberale L’ordine internazionale liberale - Liberal World Order , LWO - è l’insieme di principi e istituzioni attraverso i quali il sistema internazionale è stato governato a partire dal secondo dopoguerra. Esso ha garantito lo sviluppo economico e la sicurezza politica di gran parte del mondo durante la guerra fredda. Le preoccupazioni a cui il nuovo progetto del nuovo ordine mondiale voleva rispondere erano sostanzialmente due: 1. si intendeva da un lato ricostruire una struttura istituzionale a vocazione universale e generalista che prendesse il posto della SDN. Pur riconoscendone i limiti infatti, l’ONU nasce sulle stesse premesse. Raccolta intorno al nucleo dei futuri vincitori della guerra, avrebbe dovuto accogliere tutti gli stati che ne avessero condiviso i principi: limitazione dell’uso della forza per esclusive ragioni di autodifesa, obiettivo della sicurezza collettiva, uguaglianza tra tutti gli stati, rispetto della sovranità contemprato dal diritto all’autodeterminazione dei popoli. Allo stesso tempo, le Nazioni Unite avrebbero riconosciuto lo status delle potenze vincitrici, inclusa la Francia (inclusa principalmente in virtù dei suoi estesi possedimenti coloniali), garantendo loro un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza e il diritto di veto. Il tessuto giuridico alla base delle Nazioni Unite era di evidente matrice americana. Va anche osservato che negli anni della competizione bipolare il ruolo delle Nazioni Unite fu cruciale per offrire un luogo e un codice di comunicazione istituzionalizzati e permanenti che facilitarono la convivenza pacifica tra nemici della nuova era nucleare. Fu solo con la fine della guerra fredda che gli scopi statutari dell’Organizzazione delle Nazioni Unite apparvero per la prima volta realizzabili. 2. la seconda preoccupazione di quegli anni era che , finita la guerra, venisse evitato il riproporsi del medesimo schema che negli anni Trenta aveva portato alla formazione di blocchi economici chiusi e al più draconiano protezionismo commerciale. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 per un sistema di cambi fissi tra le principali valute del mondo, ancorato al dollaro come moneta di riserva internazionale e basato sulla parità aurea della moneta americana, l’istituzione del Fondo Monetario Internazionale IMF, e della Banca Mondiale WB, che avrebbero dovuto vigilare sulla stabilità dei cambi, contrastare la speculazione finanziaria e offrire sostegno allo sviluppo economico, e successivamente, la stipulazione degli accordi GATT, furono tutte misure destinate a scongiurare questo pericolo che, a causa della divisione tra est e ovest, vennero però limitate ai paesi del ‘mondo libero’, ovvero tutto il mondo non comunista. Cointeressati all’ordine internazionale liberale finirono con l’essere una serie crescente di regimi politici - come quello di Franco in Spagna, quello di Salazar in Portogallo e le dittature militari in sud america, il Sudafrica dell’Apartheid - che non erano decisamente liberali. Tutti erano però accomunati dal consentire l’accesso internazionale al proprio mercato e alle proprie risorse: erano stati clienti , piuttosto che alleati delle potenze democratiche occidentali. Mentre i principi su cui si fondava erano presentati come perfettamente compatibili tra loro, nella realtà una tensione tra la dimensione politica e quella economica del liberalismo era presente fin dalle premesse, particolarmente evidente proprio nella sua declinazione internazionale, nei rapporti tra centro e periferia, in quest'ambito era risolta decisamente a favore del primo sulla seconda e della dimensione economica su quella politica. Questo implica che l'ideale liberale cosmopolita di rendere sempre meno rilevante la valenza partitoria dei confini statali - l'aspirazione all'omologazione dell'arena internazionale, per sua natura anarchica e dominata dalla forza, all'arena do-mestica, tipicamente gerarchica e governata dalla legge - così riducendo la ricorrenza della guerra attraverso la diffusione delle istituzioni democratiche e del libero commercio, era in realtà fin dall'inizio piegato a un compromesso di natura «realista». All'interno dell'Occidente occorse attendere gli anni Ottanta e la fine della Guerra fredda perché il compromesso tra democrazia e mercato venisse fatto platealmente saltare a vantaggio del secondo e a detrimento della prima. Preso atto dell'impossibilità di una convivenza realmente pacifica con l'Unione Sovietica, gli obiettivi della Carta Atlantica, stilata da Churchill e Roosevelt nell'incontro al largo di Terranova dell'agosto 1941, vennero recepiti nel Trattato dell'Atlantico del Nord, che istituiva l'Alleanza Atlantica (North Atlantic Treaty Organization, NATO), che ha costituito - e tuttora costituisce - la principale garanzia di sicurezza per i paesi europei. Proprio dalla preoccupazione americana che un'Europa economicamente e politicamente frammentata e divisa non avesse alcuna possibilità di resistere alla pressione esterna sovietica, nacque la spinta di Washington a favore di tentativi di unificazione europea (concretizzata nel Piano Marshall), alla quale gli stessi europei seppero dare autonoma e crescente risposta attraverso la CECA, l’EURATOM, il MEC, la CEE , la CE e infine l’UE. L’evidente sinergia tra il progetto di unificazione europea e il complesso delle altre istituzioni dell’ordine internazionale liberale, di cui era garanzia la leadership statunitense, era talmente evidente che i paesi comunisti di tutto il continente lo avversarono a lungo. Finirono con il condividerlo solo quando intravidero l’eventualità che lo sviluppo di un’Europa politicamente più coesa potesse portare ad un allentamento della relazione transatlantica e, ancor più, quando realizzarono lo ‘strappo’ nei confronti della lealtà internazionalista verso l’URSS, del quale l’esperimento dell’eurocomunismo rappresentò un passaggio storico rilevante. Con la fine della guerra fredda, molte delle sfide di carattere geostrategico che l’Europa e i suoi singoli paesi avrebbero dovuto affrontare sono spesso risultate fuori scala rispetto alle capacità e alle volontà europee di giocarvi un ruolo da protagonisti. Gli USA d’altra parte hanno effettivamente neutralizzato il potenziale problema costituito da un’Europa affrancata dalla loro tutela politica, attraverso la sua ‘cattura’ economica. Si tratta di un’operazione di ‘egemonia culturale’ su quale fosse il solo Capitalismo «sano», che portò alla rinuncia da parte europea a proseguire la via di quell'economia sociale di mercato, di quel modello renano di capitalismo, che ancora negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso segnava la strada europea alla declinazione di democrazia e mercato che si contrapponeva al modello anglosassone, quest'ultimo peraltro inteso nella sua versione neoliberale. Tutto ciò conferiva agli USA il potere strutturale, ovvero il potere di dare forma alle strutture dell’economia politica globale , nelle dimensioni del controllo finanziario, della sicurezza, della produzione e della conoscenza. Durante la guerra fredda, l’ordine internazionale liberale è convissuto con il bipolarismo sovietico- americano e ha strutturato il rapporto euro-americano, ma tutta quella parte di mondo che condivideva l’interesse a non vedere prevalere il comunismo e l’organizzazione politica ed economica che esso postulava. E in questo senso era un sistema globale. Nonostante non fosse il paradiso in terra, c’era la condivisa consapevolezza che una nuova crisi generale dell’ordine internazionale, come quella post IWW, avrebbe probabilmente segnato la fine del complesso di valori e di idee che si era gradualmente affermato. Nessuno metteva in dubbio che l’interdipendenza economica e finanziaria globale che si era affacciata prima di quel conflitto avesse mostrato una duplice natura. Da un lato, aveva straordinariamente ampliato le opportunità di crescita del sistema economico internazionale. Dall'altro, aveva evidenziato le crescenti contraddizioni tra la nuova fase che lo sviluppo economico capitalista andava conoscendo e la tenuta dell'assetto sociale che il sistema politico e istituzionale liberale di fine Ottocento non riusciva a governare. Il successo delle ideologie autoritarie inclusive e totalitarie era stato lo scotto che il liberalismo di inizio Novecento aveva dovuto pagare alla sua incapacità di includere politicamente quelle masse peraltro necessarie e insostituibili al funzionamento e allo sviluppo del circuito economico. C'era cioè una chiara consapevolezza, che fosse necessario far sì che il dissesto economico non mettesse nuovamente a repentaglio la libertà degli individui. Occorre segnalare che gli architetti di questo disegno erano gli stessi che avevano tirato fuori gli Stati Uniti dalla Grande Depressione attraverso il New Deal. Erano quindi animati da un'estrema fiducia nelle proprie abilità e nelle più generali capacità della politica di risolvere i problemi. Anche l'America aveva del resto sperimentato una duplice crisi: economica, la Grande Depressione, e da quella politica, che si era prodotta a partire dalla fine dell'Ottocento. A monito della consapevolezza che la relazione tra la democrazia e il mercato dovesse essere continuamente monitorata, per evitare che l'una prevalesse sull'altro nelle forme degenerate della demagogia e dell'oligopolio, risuona il famoso discorso rooseveltiano sulle quattro libertà. Libertà dal bisogno, libertà di parola e di espressione, libertà di culto e libertà dalla paura: sono le quattro libertà del Discorso tenuto da Roosevelt al Congresso nel gennaio del 1941. Roosevelt tornò allo spirito egalitario inscritto nelle origini della repubblica, lo attualizzò rispetto alle nuove sfide, collocando la libertà dal bisogno e quella dalla paura accanto alle altre. Decisamente Roosevelt non ebbe paura, scegliendo di riformare pesantemente il sistema economico degli Stati Uniti per consentirne la spettacolare ripresa. Negli anni del boom del dopoguerra, l’economia ricominciò a crescere esattamente come era avvenuto prima della Grande Depressione. Alla luce di simili esperienze, in termini di concezione del rapporto tra economia e politica, gli artefici dell'ordine internazionale liberale non nutrivano alcuna illusione fideistica nelle (supposte) capacità «autoregolatorie» del mercato, la crisi del 1929 aveva infatti messo in luce tutte le insufficienze del mercato e soprattutto i danni che un mercato finanziario mal regolato poteva causare. Erano quindi ben consci che a un mercato mondiale dovesse corrispondere una struttura di governance internazionale solida e che solo attraverso un accorto sistema di regole sarebbe stato possibile evitare che un mercato globale potesse prendere il sopravvento su democrazie necessariamente locali. Questo è esattamente quello che da alcuni decenni ormai si sta realizzando, con lo smantellamento sistematico delle strutture di welfare pubblico. Questo rappresenta il modo neppure troppo occulto con il quale si sta derubricando una serie di diritti, classificandoli come il mero corrispettivo di prestazioni. Per questa via si segna la primazia della logica del potere economico su quello politico; lo svilimento dello stato, che è il solo possibile implementatore di diritti concepiti come universali, comporta la svalutazione dei diritti stessi e il ribaltamento della logica propria dell'ordine liberale, nonché della sua stessa possibilità. È stato l'ordine internazionale liberale ad aver fornito lo spazio politico ed economico al cui interno l'Occidente ha prosperato, a consentire la protezione sociale che avrebbe garantito una crescita ordinata e lo sviluppo dell'embedded liberalism, che creava delle ‘free market societies, ovvero assetti sociali e istituzionali che perseguivano il welfare state, attraverso politiche del lavoro in grado di valorizzare le persone anche se economicamente non tutte e sempre altamente produttive. A cavallo della IIWW non vi era alcuna pretesa che l’ordine che si stava varando fosse inaffondabile. Al contrario, si era pienamente consci che, come qualunque vascello, esso necessitasse di un’instancabile e continua manutenzione, che la sua rotta venisse costantemente verificata e che il suo carico fosse ben assicurato e disposto in maniera equilibrata, affinché uno sbilanciamento repentino o anche graduale dei pesi non portasse all’impossibilità di governo e persino al naufragio. Tutte dimensioni che sembrano essere andate perdute proprio nel momento del trionfo, quando il 09/11/1989 il Muro di Berlino crollò. 1.2 Il crollo del muro di Berlino: l’espansione e il tradimento dell’ordine internazionale liberale La vera posta in gioco è il mantenimento in equilibrio di democrazia e mercato, di due forze poderose ma non necessariamente in armonia, anzi, che tendevano a divaricare il tipo di risposte circa i benefici da massimizzare nelle strategie con le quali l’Occidente reagiva alle sfide che continuamente gli venivano portate. L’idea cioè della natura strumentale dell’economia e del mercato. Il rafforzamento del mercato e il suo ampliamento sono fatti positivi se e in quanto consentono il maggior benessere del maggior numero di persone. La tutela del mercato non costituisce un bene finale perché, diversamente dalla democrazia, la procedura con cui si organizza la produzione e la distribuzione di merci e servizi non rappresenta un valore in sé. La democrazia invece non si giudica dagli esiti perché incarna un valore, quello dell’uguaglianza intrinseca degli individui. Dopo il crollo del muro di Berlino, la possibilità di realizzare un mercato davvero globale si fece realtà. I fautori del mercato globale erano quelli che nel decennio precedente avevano spinto a favore della deregulation e della ritirata dello stato dal sistema economico: le politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Paradossalmente, proprio mentre un poderoso mercato globale veniva a esistere, le strutture, la ratio , gli obiettivi di controllo del sistema economico venivano ridotti. Si trattò di un vero e proprio tradimento rispetto a quanto era stato disegnato originariamente nel concepire un mercato globale. E il mercato cominciò a essere interpretato non come una raffinata istituzione artificiale, ma come una pretesa istituzione naturale. Fu esito delle esperienze diverse che avevano plasmato le concezioni e le strategie dei fautori del New Deal e quelle dei sostenitori della nuova global economy. Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano entrambi gelosi custodi della sovranità nazionale dei propri stati. La dimensione del nazionalismo era anzi parte integrante della ‘rivoluzione conservatrice’ che avrebbe successivamente portato alla fusione del neoliberalismo economico con il neoconservatorismo politico e culturale, ovvero quel patto che sarebbe stato cruciale per ottenere il consenso dei ceti medi e medio-bassi a politiche economiche che avrebbero oggettivamente favorito le classi superiori e danneggiato tutte le altre, ridefinendo i rapporti di potere tra le classi in senso sfavorevole alla lunga ‘rivoluzione liberale’ che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. L'esito finale è stato quello, paradossale solo in parte, di impossessarsi dello stato, ovvero di trasformarlo in un agente dell'affermazione dell'egemonia culturale neoliberale, oltre che nell'autore di leggi che consolidavano ulteriormente i nuovi rapporti di potere. La presenza dello stato nell'economia negli ultimi decenni non si è nei fatti ridotta, «ma ha spostato l'asse del proprio intervento a favore delle imprese e del capitale». Margaret Thatcher non esitò a muovere guerra all'Argentina del generale Leopoldo Galtieri pur di riaffermare la sovranità della Corona sulle sperdute isole Falkland/ Malvinas. Ronald Reagan rimise in carreggiata il patriottismo e l'orgoglio americani dopo il disastroso epilogo della Guerra del Vietnam e arruolò il consenso della middle class conservatrice progressivamente catturata dalla moral majority. Le politiche di Thatcher e Reagan segnarono in parte l'inizio dell'uscita dalla stagnazione economica dei loro paesi, ma già alla fine del millennio, e in misura ancora maggiore oggi, la conseguenza è stata una concentrazione della ricchezza, dei redditi e dei diritti (in forma di privilegi) come non si vedeva più dagli anni Trenta negli Stati Uniti e dagli anni Quaranta in Gran Bretagna. La sostanziale differenza tra i fautori del mercato degli anni Quaranta e quelli degli anni Ottanta è che i primi erano innanzitutto dei progressisti e vedevano la diffusione del mercato e della libera concorrenza come uno strumento per consentire che anche «coloro che avevano sempre avuto troppo poco potessero finalmente avere abbastanza», mentre i secondi erano dei conservatori interessati innanzitutto a ripristinare le «condizioni favorevoli all'accumulazione del capitale». Tutto ciò implicava, oggettivamente, due progetti politici opposti: il primo di ampliamento sostanziale e sistematico della democrazia liberale; il secondo, di una sua altrettanto sostanziale e sistematica chiusura oligarchica. La ricetta della deregulation applicata alla sfera domestica di Gran Bretagna e Stati Uniti era apparsa essere un successo e aveva forgiato la convinzione che la formula «meno stato!» fosse la via giusta per il rilancio di economie mai del tutto ripresesi dalle conseguenze della crisi iniziata negli anni Settanta. La sutura tra la dimensione nazionale e quella internazionale di queste politiche avvenne sotto la pressione degli eventi, dei fatti, per quella «congiunzione astrale» che portò l'impero sovietico a implodere mentre l'Occidente era alle prese con una propria crisi interna che lo stava spingendo all'abbandono di quel sentiero socialdemocratico, in cui il liberalismo economico si autolimitava nel suo stesso proprio interesse. Con gli anni Novanta, mentre in ambito domestico il neoliberalismo decideva di dover rompere questa lunga tradizione dell' embedded capitalism, gli USA iniziavano a smarrire la consapevolezza della necessità di autolimitare la propria ambizione, investendo i ‘dividendi’ della vittoria in un’egemonia che fosse anche ‘condivisa’ da parte dei propri partner e alleati. Con la fine della guerra fredda, le istituzioni economiche, le regole e i principi dell’ordine liberale occidentale vennero di fatto estesi all'intero sistema internazionale, con un effetto di rafforzamento legato alla loro pretesa inevitabilità e razionalità assoluta: si pensi alla sostituzione del GATT con la World Trade Organization (WTO), costituendo quel mercato globale che va sotto il nome di globalizzazione. Sul versante politico e strategico, nel frattempo, la NATO e l'UE contribuivano a mettere in sicurezza dal punto di vista istituzionale, militare ed economico l'enorme estensione territoriale dell'ex impero esterno sovietico, accompagnandolo nella transizione verso forme di democrazia politica e di economia di mercato. E’ proprio l'insieme di queste istituzioni e prassi che ha garantito la leadership americana sul sistema internazionale in questi decenni. Ciò che accadde fu che la possibilità di dar vita compiutamente a un sistema economico aperto, di dimensione globale, venne realizzata mentre l'orientamento politico ed economico era condizionato dalla polemica contro il big government, espressa nello slogan «lo stato è il problema, non la soluzione!», così che la costruzione di un mercato globale avvenne mentre si procedeva al progressivo smantellamento del sistema di regole che avrebbe potuto efficacemente organizzarlo. Questa sostituzione fece sì che proprio negli anni del trionfo del modello socio-economico occidentale si accelerasse quella trasformazione che avrebbe reso le nostre società sempre più ineguali. Come già era evidente nel 1998, «il rischio è che dalla "società dei due terzi’’ - cioè da quella società nel cui ambito l'economia di mercato integrata dal sistema di sicurezza sociale sembrava funzionare abbastanza bene per i due terzi della società - si passi alla società dell'un terzo, o anche meno». La promessa di una società più ricca di opportunità per tutti sarebbe stata tradita a vantaggio dei pochi, che avrebbero rapidamente tradotto il loro surplus di ricchezza in egemonia culturale e politica. 2. Secondo Capitolo - Le promesse mancate che hanno dirottato l’Ordine Internazionale Liberale: ‘un mondo più sicuro, più giusto e più ricco’ Alla fine della guerra fredda, i ‘dividendi della pace’ non furono distribuiti. Alla radice di questa cruciale disfunzione sta la rottura di tre grandi promesse: l'impegno dell'ordine internazionale liberale a garantire un mondo più sicuro, più giusto e più ricco per tutti: Dal 1990 in poi, le democrazie occidentali si sono impegnate in un numero crescente di operazioni militari, con risultati generalmente scarsi. Soprattutto dopo l'11 settembre 2001 con la guerra in Afghanistan ( 2001-2021): i negoziati di pace con i talebani non hanno portato ad alcuna soluzione di compromesso. Nell'insieme, la risposta prevalentemente «cinetica» del mondo occidentale alle minacce poste dal terrorismo islamico si è dimostrata incapace di accrescere la sua sicurezza. Le Primavere arabe del 2011 hanno ulteriormente esposto la mancanza di comprensione - e di empatia - da parte dell'Occidente, nei confronti delle radici profonde dell'insoddisfazione diffusa che aveva nutrito l’islamismo radicale in Medio Oriente. Il Medio Oriente è il luogo in cui si è manifestato il più grande divario tra la promessa di un sistema internazionale orientato al multilateralismo, governato da regole e istituzioni, e la realia della dominazione (peraltro sempre più incerta) degli Stati Uniti e dei loro, a volte riluttanti, alleati occidentali, D'altro canto, il conflitto israelo-palestinese è stato in larga parte tenuto ai margini dell'agenda occidentale dopo la fine della Guerra fredda. L'invasione dell'Iraq nel 2003 ha ulteriormente rafforzato questa impressione, compromettendo la speranza di un mondo più giusto. Quanto alla promessa di prosperità, ciò che è realmente avvenuto è stata una transizione dalla libertà del mercato alla dittatura del mercato in cui la competizione lealmente meritocratica viene sostituita da privilegi di nascita e di censo. L'alleanza tra democrazia ed economia di mercato è di fatto saltato con la crisi del 2007-2008, dalla quale in particolare l’Europa ha stentato a riprendersi. Oltre ad aver consolidato un aumento della disuguaglianza su scala domestica e globale, ha messo in evidenza le non equità del processo di globalizzazione. 2.1 ‘un mondo più sicuro’: né invincibili né invulnerabili. L’11 settembre, la guerra afgana e l’insufficienza dello strumento militare Nell’agosto 1990, Saddam Hussein invadeva l’emirato del Kuwait. Per riuscire a scacciarlo di lì e per gettare le fondamenta di un nuovo ordine mondiale, gli USA di Bush , con l’assenso dell’URSS e Cina, creavano la più grande coalizione militare che la storia avesse mai visto, che restaurò la sovranità kuwaitiana nel marzo dell’anno successivo. Il successo straordinario di quel conflitto e l’universale consenso che lo sostenne segnarono probabilmente il momento più alto dell’egemonia politica e militare degli USA. In termini ideologici, con il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991 e con una Cina apparentemente orientata a cercare il proprio cammino, l’America e l’Occidente si credettero davvero invincibili e invulnerabili. La differenza tra il credersi invincibili e il sentirsi invulnerabili è sottile ma importante. Se il primo sentimento, al suo venir meno, avrebbe tutto sommato provocato un maggior ritegno; il secondo, l'illusione di essere invulnerabili, una volta tragicamente sfidato con gli attentati dell'11 settembre 2001, avrebbe prodotto l'altrettanto fallace e grave percezione di essere inermi, impotenti e totalmente indifesi, alimentando quell'ossessione per la sicurezza assoluta di cui stiamo ancora pagando lo scotto. Dall'invasione del Kuwait nell'agosto del 1990 il coinvolgimento dei paesi occidentali in qualche guerra, operazione di peacekeeping o peace enforcing, rappresenta la regola e non l’eccezione. La percezione di essere usciti da una sia pur fugace stagione di invincibilità e invulnerabilità, ha fatto della paura il sentimento dominante di inizio millennio per l'Occidente. La guerra era tornata nelle prospettive ordinarie della vita dei cittadini occidentali. L'odio mobilitato e indirizzato contro l'Occidente aveva e ha ragioni politiche. Ovvero nutre i propri pregiudizi sanguinari di quegli altri pregiudizi che l'Occidente stesso ha verso il mondo arabo e islamico. Le religioni hanno alimentato odio, fanatismo e violenza per secoli, per millenni. E il fatto che oggi i loro leader siano, nella maggior parte, consapevoli di una tale inoppugnabile realtà e che siano orientati a un irenismo complessivo è sicuramente un fattore positivo da salutare con sollievo. Ma a poco serve per disarmare le menti di chi, sentendosi legittimamente il nuovo profeta o il nuovo califfo, armi mani omicide. Alcune religioni sono oggi più problematiche di altre e il dilagare di organizzazioni o singoli terroristi che si richiamano esplicitamente all'islam costituisce un problema oggettivo, legato anche al minor grado di sviluppo sociale e politico di molti dei paesi in cui l'islam è la religione dominante. Per provare ad agire su quei fattori di sottosviluppo politico, innanzitutto, che alimentano l'islamismo radicale, l’occidente non ha fatto niente e ne sono esempio le Primavere arabe partite dalla Tunisia alla fine del 2010. Il sostegno prestato ai dittatori delle monarchie petrolifere del Golfo ha ingrossato le fila di chi oltre al «nemico vicino» (i suoi tiranni) vuole colpire il chimico lontano» che lo puntella (noi). Quelle rivoluzioni sono state dirottate, come in Egitto e in Siria, da movimenti islamisti che al loro esordio non erano assolutamente i migliori interpreti del moto spontaneo di libertà che i giovani e le giovani delle piazze esprimevano. Quello stesso Occidente, così timido e avaro di sostegno nei confronti di quei nuclei di società civile che stavano con fatica, si è dimostrato invece immediatamente pronto a correre in aiuto dei «normalizzatori». Si pensi al viaggio di Matteo Renzi in Egitto (2014) per manifestare il pieno e incondizionato appoggio del governo italiano ad al-Sisi, ribadito l'anno successivo, perché «la tua guerra è la nostra guerra». Una posizione che, nella sostanza, non è cambiata neppure in conseguenza del rapimento e del supplizio di Giulio Regeni. L’intervento in Afghanistan, in sé pienamente legittimo e legale, proprio per la sua inconcludenza nonostante gli enormi sforzi profusi in termini di mezzi, tempo, denaro e vite sacrificate attestò poi un fatto nuovo: oltre a non essere invulnerabile, l’occidente non è neppure invincibile. 2.2 ‘un mondo più giusto’: l’invasione dell’Iraq e le conseguenze della menzogna impunita di G. Bush e Tony Blair Tra gli effetti più devastanti sulla credibilità dell’ordine internazionale generale c’è senza ombra di dubbio l’impunità di cui hanno goduto due dei suoi principali artefici: il presidente Bush e il premier britannico Blair. L'amministrazione Bush diede il via alla guerra definitiva contro il regime di Saddam Hussein con le prove del coinvolgimento dell'Iraq nella offensiva terroristica contro l’Occidente, le accuse dello sviluppo, possesso e occultamento di un devastante arsenale di non meglio precisate «armi di distruzione di massa» e la possibile cessione ad al-Qaeda di materiale utile alla fabbricazione di ordigni nucleari. L'ossessione di George W. Bush nei confronti di Saddam Hussein era il frutto di un mix di fattori politici, ideologici, economici e personali. E’ necessario sottolineare il progetto di trasformare il Medio Oriente e in particolare il Levante in un’area sotto il saldo controllo americano. L’unico vero e proprio alleato degli USA nella regione era Israele, il cui rapporto con gli Stati Uniti nel corso dei decenni si è approfondito. Dalla guerra del 1990-1991 per la liberazione del Kuwait le cose però erano cambiate. Forze militari americane erano presenti in Bahrein, in Qatar e, soprattutto, in Arabia Saudita. Gli Stati Uniti erano cioè passati a un coinvolgimento diretto con l'invasione dell'Afghanistan del 2001 e quella dell'Iraq del 2003. Effetti ancora peggiori sulla percezione della politica americana nell'opinione pubblica araba e musulmana si verificano ogni volta che gli Stati Uniti minacciano di porre il veto a qualunque risoluzione delle Nazioni Unite che condanni l'ennesimo insediamento delle illegittime e illegali «colonie» ebraiche nella Palestina occupata o a Gerusalemme Est. E singolare che l'unico presidente che abbia tentato di porre rimedio a una simile situazione sia stato Barack Obama, ovvero il presidente che per primo aveva lavorato per ridurre la presenza militare americana nella regione dopo l'11 settembre. Nella pianificazione strategica del Pentagono sotto l'amministrazione Bush, la nascita del «nuovo Iraq» doveva costituire la piattaforma per il consolidamento dell' egemonia americana in Medio Oriente. Questa lettura del quadro strategico era fortemente influenzata da considerazioni di carattere ideologico, di cui la principale era la convinzione che la democrazia potesse essere esportata militarmente e a un costo oltretutto contenuto. L'intera operazione fu condotta al risparmio: all'insegna dello slogan il minimo delle truppe, per il minor tempo possibile, al minimo del costo, sperando di coprirne la spesa con i proventi delle estrazioni petrolifere del paese occupato. Tutto ciò era evidentemente incongruente con l'ambizione degli obiettivi che ci si proponeva - disegnare il nuovo Medio Oriente democratico - ma perfettamente coerente con tutta la retorica dello «stato minimo» e della privatizzazione delle sue funzioni. Il risultato è che il nuovo Iraq non solo ha rischiato fino al 2017 , ma oggi è parzialmente entrato nell’orbita iraniana e il suo esercito, in gran parte equipaggiato dagli americani (ma dal 2017 anche dai russi). Al punto che nel luglio 2017, Iran e Iraq hanno firmato un accordo di cooperazione militare allo scopo di promuovere lo scambio di esperienze nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo. L’idea che la democrazia possa attecchire in un paese dopo che questo sia stato debellato militarmente non è di per sé irragionevole o irrazionale. Huntington colloca proprio la sconfitta militare come una delle possibili cause di innesco della transizione alla democrazia di regimi autoritari o totalitari. Accadde così per l'Italia, la Germania e il Giappone dopo la Seconda guerra mondiale. Bisogna comunque sottolineare come in questi tre casi il successo poggiò innanzitutto su una condizione: la capitolazione totale a livello spirituale oltre che fisico delle popolazioni. Tale condizione era evidentemente del tutto assente in Iraq, dove la propaganda islamista attecchì tanto più facilmente quanto più il paese divenne il campo di battaglia scelto dalle formazioni islamiste di mezzo mondo per combattere gli ame-ricani. Questi ultimi, dal canto loro, facilitarono il compito di fomentare l'opposizione armata alla loro presenza e l'alleanza innaturale tra ex baathisti e islamisti, attraverso lo scioglimento delle forze armate e di sicurezza irachene nel nome di un processo di «debaathificazione». Oltretutto, sempre dal punto di vista ideologico, si credeva di poter fare dell'Iraq la seconda democrazia della regione, dopo Israele, considerata «la sola democrazia del Medio Oriente». Riguardo ai moventi economici della guerra - l'idea di ripianare con i proventi dell'esportazione di petrolio le spese della guerra e dell'occupazione nel 2011, i primi grandi contratti per le concessioni dei nuovi vasti giacimenti scoperti nel paese andarono in realtà a diversi stati (Malesia, Angola, Cina, Russia, Italia, UK…), mentre gli americani si dovettero accontentare di solo due contratti, di cui uno solo di un certo rilievo. Sul ruolo dei motivi personali che influenzarono la volontà di George W. Bush di farla finita con Saddam Hussein, va ricordato infine quanto ammesso esplicitamente dallo stesso ex presidente: la volontà di punire il rais per il tentativo di eliminazione del padre, il presidente George H. Bush, organizzato da parte del regime di Saddam per vendicare la rovinosa sconfitta subita nel 1991. L'America ebbe poca fortuna nel convincere gli altri grandi detentori del diritto di veto della fondatezza delle sue ragioni. Russia e Cina avrebbero votato contro la risoluzione ONU che consentiva l’impiego della forza. Altrettanto avrebbero fatto Francia e Germania. Il Regno Unito al contrario, a favore della guerra, contribuì a spingere altri paesi - come l’Italia, la Spagna e la Polonia - ad assumere un atteggiamento più favorevole a riguardo. L’Unione Europea fu quindi spaccata in due al suo interno e non riuscì quindi ad arrivare ad una posizione comune. Oggi si sa che il sostegno di Tony Blair alla guerra si compì nella consapevolezza della menzogna. Il premier britannico era infatti in possesso di informazioni riservate dell’intelligence inglese che escludevano la possibilità che Saddam Hussein occultasse un arsenale chimico-batteriologico e tantomeno uno nucleare. In altre parole, mentì deliberatamente ai suoi cittadini e al mondo. Blair , a differenza di Bush Jr, non era l’esponente di una ‘dinastia del potere’, finito quasi per caso alla presidenza. Era l’esponente di maggior rilievo della nuova sinistra riformista che nel corso degli anni ‘90 era riuscita a scalzare i conservatori dalle posizioni di potere in numerose democrazie e che a livello britannico aveva fatto del New Labour il partito predominante del sistema bipartitico britannico. Blair era il principale mentore ed interprete della cosiddetta ‘terza via’ prospettata da Anthony Giddens come superamento dell’opposizione tra neoliberalismo e socialdemocrazia. Proprio per ciò che aveva rappresentato, Blair costituì un vero e proprio tradimento dei principi e delle promesse dell’ordine internazionale liberale. Il fatto che nessuna sanzione, neanche politica, abbia colpito i protagonisti della guerra che ha consentito alle spore del terrorismo di diffondersi in tutto il Medio Oriente ha finito con il completare l’opera di disvelamento dell’ipocrisia di questa fase dell’ordine internazioanle liberale agli occhi della popolazione mondiale. 2.3 ‘un mondo più ricco per tutti’ : la crisi finanziaria e la sostituzione della libertà e dell’uguaglianza con l’arroganza e il privilegio Con la fine della Guerra fredda la promessa dei dividendi della pace si è infatti trasformata in un'autentica beffa. Una volta sconfitto il nemico e integrata nuova forza lavoro e nuovi capitali nel sistema, abbiamo assistito alla consapevole riduzione progressiva di quella vera e propria tassa per la coesione sociale rappresentata dai meccanismi di welfare nelle sue diverse forme e declinazioni. La libertà del mercato è diventata presto la dittatura del mercato, dove gli unici che sperimentano una crescente libertà sono i grandi operatori: quelli finanziari ancor più di quelli economici. La conseguenza è stata una lenta e inesorabile polarizzazione della ricchezza, a partire dagli Stati Uniti. Negli anni che hanno preceduto l'esplosione della famosa «bolla immobiliare», per reagire alla contrazione dei redditi, gli americani avevano aumentato le persone che lavorano all'interno di un nucleo familiare (più donne nel mercato del lavoro), aumentato le ore lavorative, aumentato il livello di indebitamento. Nel frattempo, la paga oraria si era progressivamente contratta, come il livello dei risparmi detenuti e i cattivi posti di lavoro avevano scacciato quelli buoni. In termini semplici, gli aumenti di produttività favoriti dall'impiego delle nuove tecnologie erano (e sono) andati a remunerare esclusivamente il capitale, mentre l'incremento salariale non teneva il passo degli incrementi nella produttività. Come è anche attestato dal Global Wage Report dell'Organizzazione internazionale del lavoro, «la dinamica della produttività negli ultimi decenni è di gran lunga superiore a quella dei salari reali» ovvero, seppur ogni lavoratore sia mediamente più produttivo, «non si avvantaggia di questa sua maggiore produzione in termini di salario». Di fronte alla percezione diffusa tra la classe media di una busta paga stagnante e di una crescente insicurezza rispetto al posto di lavoro, i politici hanno iniziato a cercare di capire come poter correre rapidamente ai ripari, possibilmente senza che questo implicasse un aumento degli oneri per lo stato. II punto di partenza del ragionamento si è basato su un assunto molto pericoloso, ma efficace: non è il reddito che conta, ma i consumi. Il ragionamento è che se in qualche modo i consumi della classe media reggono, forse questa presterà meno attenzione alla crescente disuguaglianza. Il credito facile è stata la risposta americana alla crescita della disuguaglianza. In realtà, le radici della crisi esplosa nel 2007-2008 si trovavano anche nelle risposte fornite alla precedente bolla speculativa, quella legata alla new economy, che all'inizio del millennio aveva rivelato il carattere ampiamente speculativo, fragile e iniquo della crescita economica durante le due presidenze di Bill Clinton, che nel corso degli anni Novanta aveva portato all'aumento della quota degli indigenti all'11,3% sul totale della popolazione americana. Fu proprio in quel decennio che il livello di indebitamento della classe media si impennò sensibilmente, rivelandosi decisivo sia nella crisi del 2001 sia in quella del 2007-2008. In entrambi i casi, le conseguenze dell'esplosione delle bolle speculative sarebbero state inferiori se in precedenza non fossero stati adottati provvedimenti legislativi volti a facilitare la speculazione. Fu Bill Clinton, nel 1999, ad accettare l'abrogazione del Glass-Steagall Act e a promulgare Il Gramm- Leach-Byte Act, che pose fine all'obbligo di separazione tra le banche dI deposito e quelle di investimento con l'effetto che la deregulation bancaria si spinse ben oltre i limiti raggiunti negli anni di Reagan. Un nuovo elemento di criticità venne aggiunto al sistema finanziario. Nel 2000, a completamento delle politiche neoliberali di Clinton, fu approvato il Commodity Futures Modernization Act, che regolamentava i derivati, esponendo ulteriormente il mercato finanziario ai rischi della speculazione. Si è trattato del tradimento della good society, che aveva garantito crescita economica e pace sociale a partire dal secondo dopoguerra e per tutta la guerra fredda, seppur conoscendo fasi di frenata e recessione. La ‘società dell’uguaglianza’ costruita in quegli anni negli USA non prospettava certo un egalitarismo senza freni, ma si basava sulla condivisione diffusa circa quali livelli di disuguaglianza dovessero essere considerati indecenti. Il Basic Bargain, cioè un «patto sociale di fondo» in base al quale la gran parte di quello che l'economia produceva, veniva consumato dal ceto medio, dai lavoratori, i quali ricevevano un reddito che cresceva come la produttività, sufficiente a sostenere un elevato livello di consumi e ad alimentare un flusso di risparmi capace di finanziare gli investimenti. Si è così alterato quel patto tra economia capitalista e democrazia politica che nel corso della seconda parte del Novecento aveva consentito all'una e all'altra di rafforzarsi attraverso il reciproco bilanciamento e, soprattutto, di rendere popolare, nella duplice accezione del termine, l'economia di mercato. Occorre ricordare che democrazia e mercato non sono fondati sullo stesso principio: il mercato produce disuguaglianza perché premia la più efficiente organizzazione dei fattori produttivi, la migliore dotazione originaria, il merito e le capacità individuali. La democrazia si fonda sulla premessa dell'uguaglianza, nonostante le ovvie, irriducibili differenze che fanno di ogni individuo un esperimento non replicabile. Democrazia e mercato si sono storicamente sostenuti e rafforzati a vicenda in Occidente non perché postulino lo stesso principio, ma perché il mercato allevia e corregge i difetti e gli eccessi della democrazia esattamente come la democrazia allevia e corregge i difetti e gli eccessi del mercato. L'alleanza tra queste due istituzioni si stabilì proprio all'epoca delle Grandi rivoluzioni, quella americana e quella francese, quando la forza del mercato venne impiegata per svellere i privilegi delle società di antico regime. Ma ciò non trasformava l'idea di mercato in un fattore di uguaglianza, e neppure rendeva democrazia e mercato naturali compagni di strada: semmai lasciava aperto il campo alla creazione di nuove e diverse forme di disuguaglianza prodotte, proprio all'interno del mercato dall' agire economico. L'uguaglianza che in premessa la democrazia postulava non era più sufficiente. Proprio perché associata al mercato, la democrazia doveva porsi anche il problema del preservare condizioni capaci di rendere l'uguaglianza qualcosa di diverso da un lontano e perduto momento originario. La premessa dell'uguaglianza doveva cioè essere completata dalla promessa dell'uguaglianza: ovvero impedire che i vecchi privilegi venissero sostituiti da nuovi privilegi questa volta costruiti proprio dall'azione economica mercatistica, se si voleva che la società dell' uguaglianza non cedesse mai più il passo al ritorno della società dei privilegi. E questo è invece esattamente quello che è successo, soprattutto a partire dal 1989, quando si è voluto ignorare che la democrazia e il mercato possono essere travolti dai loro stessi difetti, non più alleviati dalla reciproca interazione. La questione non è se la disuguaglianza economica debba essere eliminata affinché l'uguaglianza politica possa funzionare, ma che essa non sia troppo grande. L'importante è vigilare affinché i cittadini sappiano e credano che le disuguaglianze di potere economico non sono un buon motivo per rinunciare a far sentire la propria voce. Senza ceto medio, infatti, la possibile middle class democracy, la società degli uguali, è destinata a lasciare il posto a una nuova società dei privilegi. Come ha osservato Colin Crouch, «il problema del liberalismo contemporaneo in quanto movimento politico, anziché filosofia, è che dipende dall'esistenza di un certo equilibrio tra le forze presenti nella società per riuscire ad assicurare la varietà di cui quest'ultima ha bisogno». Un altro autore che ha molto riflettuto sull'impatto della disuguaglianza sulla tenuta dei sistemi sociali più evoluti, sulle sorti del ceto medio e sul futuro della democrazia è Branko Milanovic, il quale osserva che «il declino della classe media e il suo diminuito potere economico innescano una serie di effetti politici e sociali, tra i quali il calo del sostegno per l'offerta pubblica di servizi sociali, principalmente l'istruzione e la sanità», considerando che i ricchi possono tranquillamente rinunciarvi, spostando le proprie preferenze «verso finanziamenti e consumo di servizi privati che garantiscono loro una qualità più elevata». Quello della privatizzazione del rischio sociale, ovvero del trasferimento del rischio da una situazione nella quale Lo stato riconosce il proprio ruolo e fornisce un contributo contro il quale assicurare gli individui, a una in cui lo stato si disinteressa della questione e lascia che siano gli individui a provvedere personalmente, è uno dei tratti distintivi del passaggio dal liberalismo al neoliberalismo, sottolineato da una moltitudine di autori, tra cui Giuseppe Di Palma. L'idea secondo cui decidere che cosa comporti un rischio e se e a quali condizioni (e costi) assicurarlo spetti esclusivamente a ogni singolo individuo è a dir poco naif. Le asimmetrie informative, culturali e di reddito disponibile rispetto al soddisfacimento dei bisogni essenziali giocano infatti un ruolo determinante nella decisione. A chi sostiene che la privatizzazione delle assicurazioni rispetto al rischio è più efficiente perche costa meno, occorre obiettare che il separatismo sociale prodotto dalla differenza tra chi può permettersi migliori e più costosi servizi e chi non può farlo è un prezzo che dovrebbe essere considerato inaccettabile da un punto di vista squisitamente liberale, perché altera le probabilità di successo degli individui e mercatizza valori che col mercato non hanno nulla a che fare. PARTE SECONDA - LE QUATTRO FACCE DELL’ICEBERG 3. terzo capitolo - il declino della leadership americana e l’emergere delle potenze autoritarie russa e cinese Sulla nuova rotta dell’ordine internazionale liberale, come su quella del Titanic, si scaglia inquietante un iceberg che presenta quattro facce: a. la prima è rappresentata da un fenomeno consueto, ovvero una nuova distribuzione della potenza nel sistema, associata alla divergenza delle rispettive politiche, che hanno modificato le relazioni tra USA, Russia e Cina, mentre sullo sfondo si stagliano la debolezza e la fragilità dell’Europa b. la seconda è invece un fenomeno di natura nuova, ma con cui si stanno facendo i conti da più di 20 anni, ovvero la polverizzazione e privatizzazione della minaccia che ha permesso ai gruppi terroristici di mettere in campo capacità distruttive considerevoli c. la terza è la contestazione dello stesso ordine internazionale liberale, nei suoi principi e nelle sue istituzioni d. la quarta è la deriva delle democrazie occidentali, che sembrano incapaci di mantenere la propria rotta Nell'ultimo decennio, la Cina e la Russia sono cresciute in potere e influenza. Differentemente da quanto avveniva durante il lungo momento unipolare post guerra fredda, queste due potenze autoritarie sono oggi in grado di sfruttare strategicamente gli errori degli USA. La Russia di Putin ha considerevolmente riorganizzato e modernizzato le sue capacità militari e ha saputo capitalizzare sull’indecisione e divisione dell’occidente in occasione della crisi in Siria nel 2013 e in Crimea nel 2014. In Medio Oriente, la Russia ha astutamente tratto il massimo vantaggio dall’accordo sul programma nucleare iraniano e avviato la propria triangolazione con l’Iran e la Turchia, in risposta a quella tra USA, Israele e Arabia Saudita. La Cina ha aumentato le dimensioni e la qualità delle sue forze armate, specialmente con un intenso programma di riarmo navale finalizzato alla creazione di una flotta d’alto mare. Ha dato inizio ad una grand strategy caratterizzata da un forte nazionalismo e ha anche accresciuto il suo soft power attraverso la belt and road initiative. A livello securitario, la questione nucleare nord-coreana è ancora aperta, mentre si accresce la repressione nei confronti di Hong Kong e permane il rischio di una escalation nelle relazioni tra la Cina continentale e Taiwan. Dal punto di vista economico, l’interrelazione tra due diversi tipi di capitalismo - il capitalismo di concessione cinese e il capitalismo di mercato degli USA - rischia di far degenerare la rivalità tra la vecchia superpotenza e quella in ascesa in un conflitto globale. 3.1 ‘levate le ancore!’ : il ritorno della Russia e l’ascesa della Cina A partire dal progressivo disimpegno americano in Medio Oriente, si è assistito ad una ridistribuzione della potenza tra i principali attori del sistema internazionale. In termini di budget militare, Mosca e Pechino hanno incrementato le proprie spese rispetto agli anni precedenti. -> La Russia si è imbarcata senza indugio in un massiccio programma di modernizzazione, raddoppiando la spesa militare tra il 2007 e il 2016. I russi hanno soprattutto colmato gran parte del gap verso gli USA nel settore del comando e controllo delle proprie forze armate e sono riusciti a riorganizzarle a un livello di efficienza persino superiore a quello dei tempi dell'Unione Sovietica. Nel Caucaso, in Ucraina e in Siria, le forze dell'Armata Rossa (si chiama ancora così) hanno progressivamente e deliberatamente mostrato un incremento delle proprie capacità di svolgere azioni complesse e joint (terra, mare, cielo), con l'impiego di missili tattici imbarcati, forze aeree e artiglieria campale. Particolarmente significativa è stata la dimostrazione di potenza e di coordinamento con la quale la Russia ha dato il via all’incremento massiccio del suo intervento in Siria, attraverso un’azione di bombardamento delle posizioni dei ribelli. Alle salve di artiglieria e di missili a corto raggio delle batterie schierate nel teatro operativo siriano si aggiunsero le bombe e i missili scagliati dai bombardieri strategici provenienti dalle basi del Baltico e del Mar Bianco. Con le medesime finalità sono state svolte le grandi manovre denominate ‘occidente’ nel 2017, a ridosso del confine ucraino e delle repubbliche Baltiche. Altro aspetto è il rinnovato attivismo russo nell’Artico, strategico anche grazie al riscaldamento climatico planetario. Nel 2017 è stata riattivata una base al confine con la Finlandia e complessivamente già dal 2015 la Russia ha proceduto al suo rafforzamento in tutta la zona dell’Artico, chiedendo anche alle Nazioni Unite il riconoscimento della sovranità marittima in un’area di oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati, un’area ricca di petrolio e gas naturale. Questo attivismo russo ha spinto il Canada ad ammodernare la propria flotta con unità rompighiaccio armate e a riportare alla luce il progetto di un sottomarino nucleare di attacco con funzione anti- access e area denial. -> I Cinesi dal canto loro stanno creando una blue water fleet, una flotta d'alto mare, raddoppiando il numero delle portaerei, introducendo nuovi incrociatori lanciamissili, moltiplicando il numero di sottomarini, fregate e cacciatorpediniere e aumentando la componente expeditionary anfibia. Esiste una correlazione tra lo sviluppo della marina cinese, l’apertura ai mari della Cina stessa e la sua dipendenza dal commercio internazionale, in particolare via mare. Come aveva già teorizzato Mahan, mari e oceani sono fondamentali per la comunicazione e i trasporti e di conseguenza il loro controllo è lo scopo decisivo della competizione tra le potenze che aspirano all’egemonia. La Cina sta in particolare attuando la strategia del filo di perle, che consiste nello stringere rapporti diplomatici, commerciali e militari privilegiati con i paesi costieri che si affacciano sull’Oceano Indiano, al fine di acquisire postazioni utili al controllo delle linee di comunicazione strategiche per l'approvvigionamento petrolifero, materia energetica di cui oggi la Cina è primo consumatore e importatore mondiale. La grande crescita di scambi commerciali tra la Cina e l’estero inizia negli anni’80. Le acque dell'Asia orientale si mostravano infatti appetibili anche agli occhi degli altri stati dell'area, con la conseguenza di far avvertire a Pechino una sfida montante all'autorità cinese sui mari asiatici, in un contesto di competizione regionale intorno alle risorse. Alla Marina dell'Esercito popolare di liberazione (EPL.) venne quindi chiesto di proteggere i «diritti e gli interessi marittimi» della Cina, ovvero di garantire l'accesso e lo sfruttamento delle risorse contenute nelle acque su cui si affaccia, contribuendo così allo sviluppo economico del paese. In quest'ottica, il perimetro d'azione della Marina è stato allargato gradualmente sino a inglobare l'intera sfera marittima dell'Asia orientale. I casi più noti sono la controversia per l'arcipelago delle Senkaku, conteso con il Giappone, e le rivendicazioni di due arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale: le Paracelso, rivendicate anche dal Vietnam, e le Spratly, sulle quali hanno mire il Vietnam, le Filippine e la Malesia. Nella battaglia navale delle Spratly, combattuta il 14 marzo 1988, Cina e Vietnam arrivarono allo scontro militare aperto, vinto dalla prima. La sequenza degli eventi testimonia la determinazione con cui la Cina è disposta a far valere le proprie ambizioni. Nella prima metà degli anni Ottanta Vietnam, Filippine, Malesia e Taiwan occupavano buona parte dell'arcipelago rivendicato da Pechino che, nel 1988, aveva deciso d'istituire una presenza stabile nell'isola di Fiery Cross Reef. Hanoi reagiva impossessandosi di cinque isole vicino a Fiery Cross con l'intento di creare intorno a quest'ultima un cordone in funzione anticinese. Le tensioni esplosero in un conflitto a fuoco, e in meno di un'ora le navi cinesi, superiori per equipaggiamento e caratteristiche tecniche, affondarono due delle navi vietnamite e ne danneggiarono una terza. La battaglia navale del 14 marzo 1988 dimostrò concretamente che l'obiettivo della dottrina navale di Pechino di proteggere l'autorità cinese sugli spazi marittimi contesi era da prendere estremamente sul serio. Le motivazioni dietro queste controversie sono relative alla rivendicazione e alla difesa della sovranità e dei diritti cinesi inerenti allo sfruttamento delle risorse nelle acque contigue, anche quando ciò viola il diritto internazionale, come è accaduto nel caso della sentenza relativa alla costruzione delle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale del 12 luglio 2016, con la quale la Corte permanente di arbitrato dell'Aja ha respinto come inconsistenti le pretese cinesi. Dalla metà degli anni Duemila la dottrina navale cinese ha sostenuto con sempre maggior consapevolezza il peso strategico delle vie di comunicazione marittime. Pechino sta pensando sia di migliorare la approvvigionamento via terra sia di dare effettivo svolgimento al progetto del «taglio dell'istmo di Kra, il punto più stretto della penisola malese in territorio thailandese, che ridurrebbe di 1.500 miglia nautiche la rotta marittima tra il Mare delle Andamane e il Golfo di Thailandia verso i porti della Cina». Alla fine degli anni Duemila questo interesse alla sicurezza marittima è stato ancora rielaborato in un nuovo slogan - ovvero costruire «oceani armoniosi». Alla Marina dell'EPL sono stati affidati nuovi compiti, riconducibili al novero delle «operazioni militari diverse dalla guerra», cioè tutte quelle operazioni che comportano un eventuale uso della forza armata con gradi d'intensità inferiore alle operazioni belliche vere e proprie. Un' enfasi particolare è stata posta sulla partecipazione della Marina cinese a forme di collaborazione con altre Marine, individuando proprio nello strumento cooperativo il mezzo principale per la costruzione di «oceani armoniosi». A tale scopo, la Cina ha proceduto a un graduale ma rapido sviluppo del sistema di supporto logistico sul quale la Marina può contare per operazioni navali al di fuori dell'Asia Orientale. Il fulcro del sistema è rappresentato dai rifornimenti in porti amici in Birmania , Sri Lanka , Maldive , Pakistan, Yemen … Sono, quindi, le buone relazioni che la Cina intrattiene con alcuni stati dell'Oceano Indiano a garantire alla Marina dell'EPL il necessario supporto logistico nella regione. Si tratta di quelli che nella dottrina militare statunitense sono definiti military places in opposizione a military bases: non strutture permanenti direttamente gestite, ma punti d'appoggio utilizzati per elementari esigenze di rifornimento. Pechino può così restare fedele al proprio principio di non stabilire basi all'estero, senza con ciò rinunciare al supporto logistico in loco necessario per operare continuativamente lontano dal territorio nazionale. La crescente presenza militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e i numerosi contenziosi relativi ai limiti della Zona economica esclusiva hanno inasprito nuovamente i rapporti con Hanoi. Nel Libro bianco della Difesa, elaborato nel 2015, la Cina ha infatti optato per una svolta importante, ribadendo il concetto della protezione delle acque in mare aperto. In tal senso , Pechino ritiene prioritario il rafforzamento delle capacità di anti-access e area denial nel Mar Cinese Meridionale. La dirigenza guidata da Xi Jinping ha dato nuova linfa alle mai sopite rivendicazioni territoriali sul Mar Cinese Meridionale, definito area di interesse primario per la sicurezza nazionale allo stesso livello di Taiwan e del Tibet. Il rovescio della medaglia di questa assertività è stato quello di spingere il Vietnam a stringere relazioni anche militari con Washington e a rafforzare la propria Marina, analogamente a quanto messo in atto da Giappone e Corea del Sud, in procinto quest'ultima di dotarsi di una portaerei leggera anche per rispondere alla crescente aggressività della Corea del Nord. Di per sé la rielaborazione della strategia navale e della dottrina di impiego della Marina cinese non prefigura un atteggiamento necessariamente ostile agli Stati Uniti, anche perché la Cina non è una grande potenza navale. La Marina dell’EPL non dispone di capacità navali paragonabili a quelle statunitensi, che nei prossimi anni gli USA vogliono peraltro incrementare. Si comprende quindi che la disparità della forza sui mari è destinata a persistere. Dal punto di vista regionale, invece, i due stati si muovono più su una logica, se non ancora su un piano, di parità e gli USA percepiscono le minacce cinesi alla propria libertà di accesso agli spazi regionali dell'Asia orientale come già concrete e imminenti. L'obiettivo perseguito da Pechino, ovvero di imitare la libertà d'accesso altrui all'area in questione, passa attraverso lo sviluppo di anti-access area denial capacities, nella cui realizzazione un ruolo chiave è giocato dalla componente Sottomarina. Se in futuro la RPC. Fosse effettivamente in grado di 'impedire l'accesso delle forze statunitensi alla zona contesa - o di renderne molto rischiose le operazioni - potrebbe porsi per Washington un problema di credibilità nei confronti dei propri alleati asiatici. Anche prima del cospicuo aumento del budget del Pentagono deciso dal presidente Trump nella primavera del 2017 (54 miliardi di dollari), l'America restava il paese il cui bilancio militare equivaleva a quello della successiva dozzina di heavy spenders messi insieme. Dopo la crisi iniziata nel 2008, le posizioni economiche relative di USA e Cina si sono avvicinate e, anche se ridimensionato, il trend di crescita cinese si conferma imponente. Eppure, non sono tanto le considerazioni sullo stock delle capacità a farci parlare di un nuovo assetto del mondo. Molto di più hanno influito infatti le politiche adottate dai governi delle tre grandi potenze. È qui che si è prodotto un cambiamento assai più significativo - e, per più di un aspetto, irreversibile e pericoloso - per la tenuta dell'ordine internazionale liberale, dove, a fronte di un progressivo ripiegamento della volontà di proiezione di potenza americana, fa da contrasto un ampliamento delle ambizioni e dell'azione strategica di Russia e Cina: con modalità diverse, ma con finalità coincidenti, ovvero il contrasto all'incondizionata libertà d'azione americana e la crescente contestazione dell'ordine internazionale liberale. 3.2 Il disimpegno nel Mediterraneo del periodo di Obama e la triangolazione Mosca-Teheran-Ankara USA: Per quando riguarda gli USA, il ripiegamento strategico dall’ordine internazionale liberale è avvenuto ben prima che Trump diventasse presidente. L’America di Obama aveva già optato per una simile politica: concetti come selective engagement, retranchement, balancing by overseas, leaning form behind sono ricorrenti nei documenti degli otto anni dell’amministrazione Obama, prima ancora di essere applicati in Afghanistan, Iraq ed Europa. Si tratta di locuzioni che esprimono tutte la medesima indicazione politica: ripiegamento degli USA, della ridefinizione della loro postura strategica globale, dopo la fase di iperestensione e sovra estensione che aveva caratterizzato la presidenza di G. W. Bush. Obama aveva deciso di tornare a concentrarsi sull’altro oceano e di ridurre progressivamente la presenza e l’impegno militare in Europa e in Medio Oriente, riservando a quest’ultimo più che altro un’attenzione più politica che militare. In linea di principio, la minor assertività americana non avrebbe dovuto necessariamente pregiudicare la tenuta e la stabilità dell’ordine internazionale liberale. Anzi, avrebbe potuto aprire nuovi spazi al multilateralismo; ma per poter funzionare, cioè per essere considerato idoneo alla salvaguardia dell’ordine internazionale liberale, il multilateralismo deve poter contare sulla sintonia tra le politiche di Cina, Russia e USA: nessun multilateralismo è possibile laddove gli attori abbiano in mente soluzioni diverse e rivali rispetto ai principali problemi da affrontare, oltre che i principi organizzativi dell’ordine internazionale alternativi. È importante sottolineare però la differenza tra la situazione dell’America “superpotenza solitaria” e la realtà contemporanea, caratterizzata da un’esitazione nella proiezione di potenza americana e da un ripiegamento nella postura degli USA. Allora l’America poteva agire anche da sola, il suo principale problema consisteva nel non eccedere nelle proprie ambizioni e nel riuscire a presentare le proprie azioni sempre (o il più possibile) come orientate al sostegno e al mantenimento dell’ordine liberale, e non esclusivamente al soddisfacimento dei propri meri interessi nazionali. Oggi le cose sono molto diverse, l’America necessita non solo del sostegno dei suoi alleati, come abbiamo visto in Afghanistan, ma ha anche bisogno che le altre grandi potenze si considerino suoi partner, e non sue rivali, nel disegno e nel sostegno dell’ordine internazionale. Ed è proprio questo che è cambiato negli ultimi anni a mano a mano che Russia e Cina hanno chiarito di non condividere sempre e comunque i medesimi interessi degli USA e dell’Occidente più in generale. Lo schema cui sembra assomigliare il sistema politico internazionale odierno è “1+2” (superpotenza globale affiancata da due grandi potenze regionali o multiregionali, cioè USA + Russia e Cina). In una situazione simile è cruciale che gli interessi degli attori convergano, perché se le due potenze minori non sono ancora in grado di imporre il proprio, possono però impedire che l’ordine dell’egemone sia mantenuto e ostacolare i suoi obiettivi o farne salire il prezzo (quello avvenuto in Medio Oriente), possono anche trarre vantaggio dagli errori e dai fallimenti della superpotenza globale. Si può dire che fino al ritorno della Russia in Medio Oriente e allo sviluppo di una politica più confrontational da parte della Cina, Washinton poteva commettere errori anche vistosi ( come l’invasione dell’Iraq nel 2003), senza che nessun rivale strategico potesse approfittarne, perché nessun’altra potenza si metteva in una simile situazione. Ora tutto questo non è più vero: cinesi e russi in scala più ampia, o iraniani in termini regionali, possono trarre vantaggi dagli errori di Washinton. RUSSIA: Se si prende in analisi il comportamento della Russia di Putin nell’ultimo decennio, il paese si è mosso in maniera spregiudicata per ampliare la propria sfera di influenza: ad esempio nel Caucaso meridionale (2008). La Russia si è imbarcata in una sistematica sfida all’occidente il cui obiettivo è indebolire i legami tra USA ed Europa e minare la solidarietà della NATO, per rafforzare anche la posizione strategica della Russia nel suo vicinato immediato e oltre. Nel corso del lungo dopoguerra non si era mai visto uno stato tanto determinato a ridefinire i propri confini con l’uso della forza militare. Lo avevano tentato la Serbia di Milosevic e l’Iraq di Saddam Hussein e vennero sanzionati pesantemente dalla comunità internazionale. Quello che hanno fatto i russi in Crimea è inaccettabile e mina oggettivamente uno dei principi principali cardine dell’ordine liberale. In Medio Oriente, l’altro teatro nel quale la Russia si è mostrata molto attiva, il primo segnale del grande ritorno della Russia è avvenuto in concomitanza delle accuse mosse con particolare enfasi al presidente Bashar al-Asad. Obama lo accusava di aver fatto ricorso ad agenti chimici durante un bombardamento dell’area di Ghouta, e sottolineò come avesse oltrepassato la “linea rossa”, da lui stesso tracciata, e che avrebbe comportato la dolorosa punizione inferta dagli USA a nome della comunità internazionale. Fu sufficiente che Putin ricordasse a tutti come la Siria fosse un alleato della Russia per convincere Obama a far rientrare in porto la flotta che stava apprestando a bombardare le basi da cui si supponeva fosse partita l’azione incriminata. Giusta o sbagliata che sia stata la posizione di Obama, resta di fatto che da quel momento in poi la Russia è intervenuta sempre più pesantemente nella guerra civile siriana, portandola fuori dallo stallo in cui si trovava: ha stretto un’intesa di fatto con l’Iran e ne ha poi esteso il significato politico coinvolgendo la Turchia di Erdogan. Il significato di questo accordo triangolare è di enorme portata politica e strategica: ha fatto della Russia il possibile pacificatore del Levante, e comunque la potenza senza la quale nessun accordo sarà praticabile; ha legittimato le aspirazioni regionali dell’Iran e ha spostato di fatto la Turchia (paese formalmente membro della Nato) nella sfera di influenza russa, investendola del ruolo di protettrice dei sunniti nel Levante al posto della monarchia sunnita. È paradossale che sia stata proprio Mosca a trarre i maggiori e più immediati benefici dalla fine del lungo ostracismo iraniano dalla comunità internazionale, quando gli USA di Obama sono stati gli artefici decisivi dell’accordo che vi ha posto, almeno formalmente. Sicuramente gli americani sono stati “bruciati” dalla tempestività russa, e d’altra parte i russi erano nella posizione migliore per poter approfittare della situazione: condividevano con l’Iran l’avversione totale verso il radicalismo sunnita e l’alleanza con il regime di Ashar al-Asad in Siria, e potevano anche offrire all’Iran quella legittimazione delle proprie preoccupazioni e ambizioni strategiche che la repubblica islamica avanza dal 1979. Inoltre, Obama, con le pressioni da Israele e dall’Arabia Saudita, aveva bisogno di tempo, tempo che Putin gli ha negato. Nonostante tutto, quell’accordo rappresenta un enorme successo per la comunità internazionale nel suo complesso. IRAN: È indubitabile che in questi anni l’Iran abbia acquisito maggior potere nella regione: tutto questo è dipeso innanzitutto dalle guerre che i suoi avversari (USA, Israele, Arabia Saudita) hanno condotto in Afghanistan, Iraq, Libano e Yemen, e dagli errori nella non gestione della crisi siriana e non certamente dal raggiungimento dell’accordo sul nucleare. Se gli USA dovessero adottare sanzioni unilaterali contro l’Iran, spingerebbero quest’ultimo a riconsiderare l’utilità dell’accordo e a rendere reale la proliferazione nucleare nella regione. Per completare la riflessione su questo snodo della politica mediorientale, proprio il successo dell’azione di politica estera e militare conseguito dall’Iran in Siria, Iraq e Libano, rischia di avere conseguenze tutt’altro che stabilizzatrici sulla dinamica internazionale del paese sciita. Questi successi contribuiscono infatti a rafforzare quell’ala più conservatrice del regime, espressione della guida suprema di Ali Khamenei, contrapponendosi non solo all’ala moderata, ma anche e più pericolosamente ancora alla tendenza di una parte consistente della società civile iraniana che mostra un’insofferenza crescente verso il regime ierocratico, illiberale, sessuofobico e corrotto degli ayayolah e dei loro “sacrestani”. Al di là delle problematiche ricadute sugli equilibri politici interni, è ovvio ed evidente che l’Iran abbia un interesse oggettivo alla stabilizzazione della regione, considerando come la situazione stia evolvendo nella direzione dei suoi interessi strategici; contrariamente ciò che accada per Arabia Saudita, che, non a caso, svolge un’azione altrettanto oggettivamente destabilizzatrice. TURCHIA: La Turchia è il terzo polo di quell’allineamento tattico organizzato da Mosca per il consolidamento di una tregua generale in Siria, che passa per la sopravvivenza del regime di Asad e la tutela dei propri interessi strategici. In Turchia le cose sono però molto diverse: il regime di Erdogan conosce da tempo un’involuzione autoritaria e confessionale che genera preoccupazione nei suoi alleati Nato e nei suoi partner interlocutori dell’UE. Inoltre, il regime ha un’influenza destabilizzante sul regime stesso, concorrendo a polarizzare la separazione, l’incomunicabilità e l’astio tra le due Turchie: quella pia e conservatrice dell’Anatolia profonda, e quella laica e occidentalizzata delle grandi metropoli. Dopo tre lustri ininterrotti di associazione al potere, la politica estera di Erdogan si è rivelata un fallimento complessivo, “salvata” dall’offerta di Putin, sia pure in posizione inferiore all’Iran. Dopo anni in cui le relazioni tra la Turchia e Russia, Israele, Siria, Iran, Egitto, Tunisia e Arabia Saudita sono peggiorate, la Turchia ha nuovamente cambiato rotta, riavvicinandosi a Mosca e Teheran e mettendo invece nel mirino USA e Europa (in particolare i paesi europei che, a causa delle critiche verso il regime, hanno impedito che lui o i suoi ministri usassero le piazze europee per svolgere propaganda a favore del plebiscito costituzionale). Il conflitto tra l’appartenenza a due distinte comunità nazionali era evidentemente molto più sfumato e riassorbibile quando in Turchia prevaleva una cultura politica occidentalizzante e laica, ovvero quando il regime stesso era impegnato a colmare il gap verso l’Europa in termini di diritti civili e politici. Esattamente il contrario di quanto ormai da molti anni sta avvenendo. Il fenomeno di Erdogan è semplicemente una versione edulcorata dell’islamismo politico radicale, e pone gli stessi problemi alle nostre società. Allontanando la Turchia dall’Europa e dalla sua cultura politica, esso non fa che creare i presupposti per una divaricazione sui principi e limiti cui una democrazia deve ispirarsi a sottostare, che renderanno più complicata e difficile la convivenza ordinata dei cittadini europei di origine turca con i loro concittadini autoctoni. Sul versante della sicurezza, la sempre più brutale repressione nei confronti dei curdi ha portato al ritorno del terrorismo riconducibile a Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan), mentre l’esercito di Ankara ha accentuato le sue azioni contro i peshmerga curdi in Siria, impiegati sul duplice fronte della lotta contro Asad e contro l’Isis. Sotto pressione internazionale, Erdogan ha dovuto anche rinunciare a quel comportamento ambiguo nei confronti dell’ISIS, che aveva trasformato la Turchia nel principale paese di transito dei foreign fighters di mezzo mondo diretti verso Raqqa e Mosul. L’interesse di Erdogan per l’accordo con la Russia, che lo costringe ad accettare e consolidare il fatto compiuto della permanenza al potere di Assad almeno su una parte della Siria, si spiega con la sua duplice valenza interna e internazionale. Sul fronte esterno il sultano può sperare di recuperare almeno il risultato minimo di poter esercitare la propria azione contro i curdi, verso i quali tanto i russi quanto gli iraniani non nutrono alcuna simpatia, considerandoli troppo vicini agli americani e il cui rafforzamento potrebbe costruire un problema per la tenuta dell’Iraq. Sul fronte interno, attraverso l’accordo con la Russia, Erdogan ha potuto: rivendere alla propria opinione pubblica domestica un successo in politica estera, presentarsi come il protettore dei sunniti in Siria e tenere in qualche modo sotto controllo le mosse dei curdi di Turchia. Dal punto di vista occidentale però, l’accordo di Ankara con Mosca e Teheran ha significato il transito di un paese membro NATO nella sfera di influenza russa. Inoltre, la Turchia decise di procedere all’acquisto di alcune batterie di missili antiaerei S-400 proprio da Mosca: un fatto senza precedenti e inconcepibile per la stessa sicurezza dell’organizzazione di difesa occidentale. I rapporti tra la NATO e Ankara sono progressivamente peggiorati, a partire dall’incidente Mavi Marmara: la nave turca nolleggiata da una serie di ONG raccolte sotto la sigla Freedom Flotilla, che, nel maggio 2010, stava cercando di forzare il blocco, illegale e unilaterale, delle acque di Gaza attuato dalle autorità israeliane. In quell’occasione, un assalto tanto brutale quanto rafforzato delle forze israeliane portò all’assassinio di nove occupanti della nave e alla sostanziale rottura delle relazioni diplomatiche tra Ankara e Tel Aviv. In quell’occasione Erdogan chiese la convocazione d’urgenza dell’organismo di consultazione previsto dal Trattato Atlantico del Nord, con lo scopo di ottenere solidarietà e di mettere in difficoltà gli USA e altri paesi filoisraeliani. Il risultato però fu all’opposto, l’invito rivolto al governo turco di non proseguire con attività in grado di alimentare una tensione già alle stelle. A causa dell’opacità del comportamento turco nella lotta contro l’ISIS (il figlio di Erdogan è ancora indagato per traffico illegale del petrolio iracheno e siriano esportato dall’Isis per autofinanziarsi), da anni ormai la NATO e molti altri paesi membri non condividono una serie di informazioni sensibili in materia di terrorismo con i turchi, anche se, ovviamente, gli interessati smentiscono. 3.3 La sfida cinese e il pasticcio nucleare nordcoreano CINA: La Cina si sta già candidando a sostituire gli USA come leader dell’economia globalizzata, ma non è per nulla detto che ci riesca né quando ci riesca. Questo anche perché la delicata transizione in corso in Cina da un’economia fondata sulle esportazioni a una basata sul consumo interno è complicata da un eccesso di capacità produttiva e da una grossa esposizione debitoria delle sue principali compagnie nei confronti del sistema finanziario interno. Nel momento in cui l’America dovesse ritirarsi dalla sua posizione di leader dell’economia internazionale, la Cina dovrebbe consentire un accesso molto più grande e profondo al suo mercato interno da parte degli altri attori economici, e rendere il suo mercato finanziario molto più trasparente e internazionalizzato: esattamente il tipo di misure opposte a quelle recentemente adottate dalle autorità cinesi, che hanno viceversa innalzato i controlli sui movimenti di capitale. Tutto questo, affiancato anche al lungo periodo del secolo dell’umiliazione cinese, non impediscono che Pechino possa sperare di coltivare con successo il proprio disegno di un capitalismo para- statale, operato cioe