Riassunto L'insegnante Etico PDF
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Questo documento italiano riassume l'etica dell'insegnamento in un contesto sociale contemporaneo. Analizza le sfide per gli insegnanti nell'attuale società che caratterizza lo sviluppo di bambini/studenti, discusse dal documento in questione. Si considerano fattori di crisi, giustizia educativa e inclusione.
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L’INSEGNANTE ETICO Introduzione Codice deontologico per gli insegnanti → da una parte la deontologia è parte essenziale della professionalità e, attraverso questa, della riforma autonomista delle scuole; dall'altra la regolamentazione per gli insegnanti rappresenta un elemento di novità. Le reazioni...
L’INSEGNANTE ETICO Introduzione Codice deontologico per gli insegnanti → da una parte la deontologia è parte essenziale della professionalità e, attraverso questa, della riforma autonomista delle scuole; dall'altra la regolamentazione per gli insegnanti rappresenta un elemento di novità. Le reazioni di fronte alla possibilità di ottenere una deontologia per gli insegnanti sono svariate: positività, utopia, demagogia… non compare invece alcun tipo di paura di fronte all’idea di “controllo” (valutazione e sanzione) del proprio operato. Gli insegnanti si distinguono da molte altre professioni: mentre altri mestieri tentano di sottrarsi all’amministrazione pubblica, gli insegnanti sembrano essere scarsamente interessati a sottrarsi all’autorità dello Stato e alla sua amministrazione. Una concezione analoga all’orientamento deontologico espresso dagli insegnanti è rintracciabile nel pedagogista Brezinka, uno dei pochi ad occuparsi della questione. A suo giudizio l’insegnante gode di molta libertà di scelta e questo gli pare un rischio per la delicata attività che svolge; ne consegue la necessità di direttive per agire nelle situazioni problematiche, ovvero una dottrina dei doveri professionali. Tuttavia, proprio in virtù della delicatezza, tale mestiere richiede ben altro che una serie di regole. Non bastano le norme, occorre attingere alle ispirazioni: quella che serve non è una deontologia, bensì un’etica! (la quale implica libertà). L’insegnante non è un “funzionario dello Stato” come suggerisce Brezinka, ma un “professionista”, che opera in relazione diretta con l’alunno e la famiglia. Gli studi e le ricerche nell’ambito dell’etica degli insegnanti non solo molti e, un grande limite, è rappresentato dal fatto che quasi sempre gli insegnanti non vengono coinvolti in queste ricerche, risultando essere unicamente i destinatari di tali studi → si parla di etica per gli insegnanti. Capitolo 1 – Insegnare nella società degli individui Il senso comune della crisi Gli insegnanti percepiscono una “crisi” della scuola ed è intorno a quest’idea che si costruisce la socializzazione professionale. Uno dei temi ricorrenti riguarda gli alunni che sono “diversi, non più quelli di una volta” e appaiono scarsamente motivati ad apprendere. Oggi la sfida quotidiana dell’insegnante è la “conquista della classe”. La scuola deve considerare le diversità degli alunni (capacità, condizioni familiari, culture…) che in passato venivano lasciate all’esterno della realtà scolastica. Uno dei problemi odierni corrisponde al fatto che la cultura prodotta dalla scuola ha perso la sua attrattività lasciando spazio ad altri interessi come, ad esempio, il mondo dei social media e delle nuove tecnologie. La scuola deve rispondere a molti principi: l’uguaglianza e il merito, l’identità nazionale dei futuri cittadini, l’iniziazione ad una tradizione culturale, la formazione in materia economica, lo sviluppo personale… → si chiede troppo e di tutto. Per questo il mondo scolastico ha iniziato a collaborare con esperti esterni (psicologi, mediatori culturali, orientatori, animatori…). La crisi della scuola secondo Maccarini ruota attorno a tre fuochi: 1) Il Soggetto dell’Educazione (Il Sé), 2) la Giustizia, 3) il Sapere. Il Soggetto resistente Ogni figlio che nasce viene cresciuto nella consapevolezza di essere unico ed insostituibile. In questa prospettiva, esaudire i desideri dei figli è segno di fedeltà e di desiderio nei suoi confronti. L’unico dovere da trasmettergli è quello di essere se stesso. Yonnet parla di “religione della formazione”, che comporta la negazione dell’infanzia come periodo di prova e di 1 ricerca di individuazione, e l’età evolutiva come ciclo di vita si soggetti già adulti. Questa condizione spiega la costruzione di un “iper-io” sempre teso alla soddisfazione dei suoi bisogni ed interessi, e che non può privarsi della possibilità di affermarsi; per questo è fragile di fronte alle avversità, inquieto ed infelice perché l’esistenza è vissuta come una serie di vincoli e limiti ingiustificati. È l’individuo della specie contemporanea. Ci sono molte verità in questa rappresentazione indicative dei cambiamenti in corso. Intorno al bambino oggi gravitano molte figure, a partire dai genitori che mirano a condizionarlo a proprio vantaggio. Si aggiungono le nuove tecnologie e i soggetti che le manipolano, che promuovono nuove pratiche sensoriali e stili di vita, atteggiamenti e modi di pensare. La realtà presentata dagli schermi è iper-realistica, preferibile alla vita reale perché raddoppia la possibilità di vedere oltre il limite dello sguardo diretto. Questa realtà seconda ha degli effetti sulla realtà prima: può generare altre realtà. La realtà quotidiana non è l’unica e, questo vale anche per la possibilità di socializzazione che per i ragazzi non proviene più solo dal gruppo dei pari, ma anche dalle comunità virtuali di gaming. La società moderna è caratterizzata dall’affermazione del “sentimento dell’infanzia”: il Novecento è il secolo che ha scoperto l’importanza di questa fase di sviluppo, tant’è che si è stipulata la Convenzione ONU sui diritti dei bambini. Tuttavia, si aprono molte questioni → es: Il bambino è soggetto o oggetto di diritti? Le opinioni sono state differenti. Da un lato vi è l’idea di infanzia tutelata da leggi condivise da più Stati, dall’altra permane l’idea di infanzia abbandonata, dimenticata, lasciata alla violenza. Da qui deriva anche la volontà di avere codici deontologici degli insegnanti. La condizione di figlio oggi è complessa: vivono in relazione a dei genitori che organizzano la sua vita, riempiendo tutti gli spazi possibili → il bambino viene pianificato nei suoi tempi familiari e non appagato nel suo bisogno di comunicazione e di libero movimento. Ciò si riflette sulla scuola dove aumentano i casi di “indisciplina”. Rispetto a questa, alcuni studiosi hanno osservato come a scuola vi siano obblighi per i bambini e pochi diritti e, viceversa, per gli insegnanti. Perciò l’idea di scuola come palestra di virtù democratiche appare illusoria. Ad oggi, abbiamo visto come il bambino sia circondato di impegni e di offerte formative differenti che vanno a riempire ogni secondo del suo tempo → ne risulta una drastica riduzione del tempo disponibile per la relazione diretta con il bambino. Il tempo fuori-agenda, cioè spontaneamente agito dai bambini è residuale cronologicamente e culturalmente. Parallelamente nasce il dilemma del tempo scolastico, divaricato tra i bisogni dei bambini e quello richiesto dalle discipline che sono sempre più numerose. Gli studenti, nel corso della storia, hanno protestato per rivendicare il diritto alla propria vita privata, alle proprie passioni nel tempo pomeridiano. Serres ci parla dell’uomo sur-moderno come soggetto futuro dell’educazione: uomo puro, sgombro di dogmi, distante dalla massa, un uomo educato, ma la sua educazione non è l’esito di un insegnamento, bensì l’esito di esperienze di apprendimento coraggioso e continuo. Si inserisce in una relazione educativa di apertura reciproca e, l’insegnamento con lui può avere solo un carattere informativo e procedurale. Un altro autore che ha contribuito a comprendere l’uomo dopo-moderno è Bauman, colui che ha parlato della liquidità. Egli vede la sicurezza e la libertà come due valori della modernità in opposizione. Oggi le istituzioni hanno perso la loro presa sulla società e ne deriva una situazione di incertezza e di rischio con sentimenti di insicurezza. Per Bauman la società degli individui è una società liquida, senza altri riferimenti che non sia la capacità di muoversi in qualsiasi direzione, da parte dei soggetti rimasti orfani delle istituzioni. La libertà al costo della sicurezza → alcuni rapporti vanno in pericolo, come quelli tra adulti e bambini, compresi quelli educativi. Bauman individua 4 ideal-tipi della nuova modernità: 1. Flaneur, il bighellone che va in giro nella folla e che passeggia nei centri commerciali, spazi degli incontri mancati, ovvero episodici 2. Vagabondo, è il soggetto post-moderno che non ha luoghi in cui collocarsi e identificarsi 3. Turista, colui il cui scopo è quello di collezionare luoghi diversi da visitare e che evita relazioni durature 2 4. Giocatore, amante del rischio e della casualità Bauman, al tempo stesso, parla di una crescente “voglia di comunità” → il lavoro educativo appare necessario. Quella che occorre è una pedagogia “compassionevole”, dedicata a contenere le ansie di un mondo liquefatto ed a proteggere il soggetto dalla società dell’incertezza; una pedagogia “autorevole”, tesa a supportare l’edificazione di un sé a prova di assenza di riferimenti esterni; una pedagogia “clinica”, orientata allo sviluppo di ciascuno, al meglio delle sue possibilità e secondo processi di individualizzazione; infine, una pedagogia “inclusiva” che crei un clima disponibile e ricettivo. In sintesi, una pedagogia della cura, capace di ricongiungere le categorie della libertà e della sicurezza. La giustizia multipla Don Milani parlò di uno dei problemi della scuola e, cioè, i ragazzi che questa perde. Il grido d’allarme veniva lanciato negli anni ’80 con degli studi in merito all’uguaglianza e alla mobilità sociale rapportate alla scuola. Tutte le ricerche condividevano il postulato della riproduzione, che consisteva nel guardare alla scuola dal punto di vista della società, e quindi delle proprietà che riflettevano l’influenza dei fattori ad essa esterni. La scuola, in quanto parte della società, riproduce la società stessa e le sue stratificazioni. La scuola in quegli anni praticava la selezione dei ceti popolari mediante i saperi del curricolo e, appariva come una scuola selettiva. Il passo successivo fu quello per cui le scuole si specializzarono a seconda di chi le frequentava: c’erano quelle dedicate all’eccellenza, quelle dedite alla cultura estetica e alle belle arti e, infine, quelle che miravano alla prevenzione dell’abbandono scolastico e all’attuazione di strategie di recupero. Ancora a seguire, vi fu un tentativo di adozione dei valori della giustizia educativa da parte della scuola e degli insegnanti. La questione della giustizia educativa e, cioè della pari opportunità, era entrata in crisi già per altri motivi. In particolare, non poteva non fare i conti con la diversità dei soggetti da scolarizzare. A mano a mano che la società di è fatta anche multiculturale, si è affermato principio di individualizzazione. Non erano più sufficienti interventi a favore dei gruppi più deboli, perché ciascun soggetto ha diritto a traiettorie su misura. A fronte dei fallimenti delle pedagogie compensative si è iniziato a pensare di garantire a tutti un minimo, il necessario per affermarsi come cittadino à principio dell’uguaglianza dei risultati, per cui la scuola garantisce a tutti il raggiungimento di conoscenze e competenze comuni alla conclusione della scuola obbligatoria. Nel corso del tempo si è anche affermata la necessità di definire obiettivi misurabili per favorire le comparazioni internazionali. Di qui, il ricordo ad un sistema di valutazione condiviso, con l’elaborazione di strumenti docimologici comuni. Si inizia a parlare di competenze. In merito all’uguaglianza, oggi possiamo riferirci al binomio inclusione-esclusione, i quali sono fondamenti della giustizia educativa. L’uguaglianza corrisponde all’inclusione. Si deve parlare di inclusione al plurale perché occorre tener conto della specificità di ciascuna delle differenze. Tuttavia, è importante fare attenzione al fatto che il principio di inclusione non si trasformi nel suo opposto e, quindi, nell’isolamento di percorsi specifici e totalmente diversi. La questione in realtà è più ampia: nella società soggetta a disgregazione e atomizzazione è importante ricostruire il senso dello stare insieme, di “fare società”. Quello che serve è un nuovo ethos. In tal senso la scuola ricopre un ruolo fondamentale ai fini della socializzazione e viene interpretata secondo le seguenti modalità: Concretezza: non deve limitarsi a ideologie e pensieri di inclusione, ma attuare pratiche inclusive Giustificazione multipla: individuare le modalità di inclusione più adatte alle diversità di tutti Sostanzialità: rifiuto di un’inclusione solo di presenza Massimalità: non prevede una giustizia distributiva, che proporziona le attese in base alle possibilità, ma che punta a dare a ciascuno il meglio possibile in relazione ai suoi limiti 3 Implicazione: rinuncia all’idea di expertise, in quanto deve essere riconosciuta la capacità di “farsi aiutare a farsi da sé”; si tratta di pratiche di empowerment Contestualità: ovvero il radicamento territoriale di scuole responsabili delle pratiche di inclusione in riferimento a specifici e individuati ambienti e in alleanza di “rete con le agenzie educative circostanti Per realizzare l’inclusività nelle scuole risulta fondamentale la loro autonomia. Essa però non può consistere semplicemente in un trasferimento delle decisioni presso le singole scuole, senza predisporre criteri di confronto, scambio e comunicazione che valgano per tutti. Per questo sorgono spontanee le domande “Chi saranno gli attori dell’autonomia scolastica?”; “Se l'autonomia è nozione chiave per indicare l’obiettivo dell’innovazione scolastica che tipo di insegnante pensiamo di “mettere al timone”?”. Il sapere relativo Un problema che il sapere incontra oggi è la rarefazione delle conoscenze. La pedagogia compensativa aveva sostenuto un progetto scuolacentrico → tentativo di estensione del tempo-scuola non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi. La strategia attuata si proponeva di scolarizzare tutta la produzione culturale, comprendendo saperi teorici, estetici, corporei, ludici → si richiedeva una didattica attiva, centrata sulla priorità dell’esperienza diretta e sul coinvolgimento emozionale dell’alunno. il “tempo pieno” non ha dato i risultati sperati, anzi è sfociato in un “più scuola meno apprendimento”, che ha portato alla revisione dell’iperscolarizzazione. La questione del sapere scolastico non è riducibile al problema dei “contenuti” perché coinvolge altre dimensioni che toccano le finalità dell’istruzione. Il sapere scolastico non è “neutro” → negli anni si è passati attraverso anche un approccio di relativismo nei confronti dei saperi scolastici à si è giunti alla necessità di un sapere “oggettivo”. Il relativismo a scuola non è arrivato solo attraverso il sapere, ma anche attraverso la multiculturalità che ha iniziato nel tempo ad essere presente anche nell’ambito scolastico, tanto da aver portato alla nascita di una pedagogia interculturale (una morfologia pedagogica capace di rispondere alle sfide dell’immigrazione). Dagli anni ‘70 del secolo scorso si è cominciato a parlare della nostra società come società della conoscenza (Knowledge Society). il sapere è utilizzato come indice di sviluppo di un paese. la Learning Society si presenta come un modello alternativo all’asse spazio-temporale dell’educazione moderna → l’educazione viene a declinarsi non più in base all’offerta, ma sulla domanda dei soggetti interessati → si giunge così all’educazione negoziata. Il tutto si compie nell’orizzonte della globalizzazione e dell’internazionalizzazione → si moltiplicano gli organismi governativi e non governativi che si occupano di educazione. nel tempo è implementata anche la ricerca tanto che si è giunti a parlare di un vero e proprio “mercato mondiale dell’educazione” che mette in luce il ruolo delle scienze dell’educazione, che premono per avere una cultura pedagogica condivisa. Alcuni studiosi hanno parlato anche del mondo come un laboratorio educativo. La funzione educativa assume un rilievo assoluto, in quanto: è attraverso l’educazione che la conoscenza si rigenera in tutti gli ambiti della vita sociale perché la conoscenza travalica i limiti dell’invecchiamento biologico e chiede di essere acquisita anche quando si è finito di crescere Nella società dell’apprendimento l’educazione diventa permanente o ricorrente → la Learning Society è riconosciuta come società educante. Si inizia a parlare di lifelong education e lifelong evaluation. Nell’ambito dell’educazione si aggiungono sempre nuovi saperi, legati alla formazione della propria identità, ad esempio si parla di educazione sessuale, educazione alla pace, educazione all’antirazzismo, ecc. rispetto ai quali la scuola si interroga sulle possibilità in termini di tempi, di spazi, di formazione degli insegnanti… La società della conoscenza presenta un’ulteriore variante, cioè la Società dell’Apprendimento → la conoscenza non si attua più in termini di patrimonio posseduto e trasmesso, bensì come capacità di generare nuove conoscenze. dal punto di 4 vista pedagogico si traduce anche in metacognizione. Ne risulta un nuovo profilo di apprendente: self-directed learner. Insegnare nella Società degli Individui A quali condizioni è possibile insegnare nella società che si viene delineando? L’insegnante innanzitutto deve possedere un certo carisma, inteso come capacità psicologica di attrarre gli allievi. L’insegnante possiede un doppio ruolo, quello di controllo sociale e di diffusione di norme conformi ai progetti della classe dirigente (“educazione”) e quella di erogazione di un servizio culturale (“istruzione”). il lavoro d’aula viene visto come un’esperienza da costruire insieme (insegnante-alunno), su misura dell’occasione e delle opportunità, lasciando sullo sfondo il programma istituzionale che una volta sovrastava e vincolava entrambi. Ad oggi l'insegnante soffre l’inconciliabilità tra l’essere un “funzionario”, tenuto ad assicurare a tutti le stesse opportunità (principio di uguaglianza) e l’essere un “esperto” di saperi disciplinari impegnato a giudicare in base al rendimento (principio meritocratico) e l’essere una “persona” sollecitata a curare lo sviluppo personale dell’alunno (principio del riconoscimento). Al giorno d’oggi è fondamentale che l’insegnante rispetti la natura del bambino, mettendolo al centro della sua azione. Bisogna cambiare la prospettiva, cominciando col rinunciare a descrivere la situazione odierna solamente in termini di crisi di adattamento alle pressioni esterne e parlare, al positivo, di ridefinizione di un nuovo modo di lavorare a scuola. Il “nuovo modo di lavorare” esige molto di più dagli insegnanti perché comporta diversificare le risposte in base alle domande sempre più individualizzate. La relazione con il “nuovo” alunno Quando si parla di un nuovo modo di lavorare, si fa riferimento alla cura della relazione che mette al centro l’alunno. Ciò indica, anche, il privilegio accordato alla soggettività dell’alunno. L’Attivismo è la corrente pedagogica che ha abbracciato questa visione; si è alimentata con la ricerca scientifica, la psicologia, la psicoanalisi e altri movimenti (libertarismo, antiautoritarismo). Nonostante la sua importanza, questo movimento presenta un paradosso: se ciascun soggetto rivendica il diritto a parlare per sé, come può farlo l’infante che per definizione è “colui che non parla”? Per questo motivo, l’Attivismo ha realizzato le città dei ragazzi e i diritti dell’infanzia, per permettere ai bambini di farsi sentire. Il paradosso di base è: - Il bambino è educatore del proprio educatore - Nonostante la centralità del bambino, è comunque l’adulto che parla per lui ❖ Si può ipotizzare che prima o poi parleranno per sé? ❖ Cosa succederebbe in una situazione di auto-rappresentanza? Sorge anche un altro problema: la perdita di legittimità delle istituzioni e la morte del professore di fronte all’alunno come “self-directing-learner”. Viene messa in discussione la funzione docente e l’insegnamento = caduta dell’adulto come mito. Sembra che la norma si disponga all’interno del soggetto stesso. Il contesto ed il limite Non si tollera più che la norma possa essere esterna al soggetto, perciò limitare la sua autonomia (eteronomia). È importante fare di sé un oggetto di cura, nel senso di sviluppare criteri di auto-sorveglianza e di autocostruzione 5 attivando la memoria e le pratiche discorsive fine a che punto si potrà continuare con questo percorso prima di incappare nei limiti esterni dovuti dall’interazione col mondo? Ciò rimanda alla relazione con un soggetto-educatore e al concetto di “apprendere ad apprendere”, ovvero imparare a servirsi di un sapere procedurale in assenza di un sapere dichiarativo. Secondo Seligman, per costruire il sé ha bisogno di un limite esterno solido e dotato di autorità perciò la sua realizzazione avviene solo in un contesto di legami originari. Questo potrebbe non bastare perché i legami sono ritornare primordiali e regressivi alla scommessa dell’educazione: offrire una prospettiva di riferimenti etici a carattere universalistico. Secondo il paradigma moderno, esiste un soggetto a fronte di un oggetto, già costruiti OCCORRE cambiare paradigma perché, all’inizio, non c’è un soggetto definito di fronte ad un oggetto a lui esterno, essi sono il frutto dell’interazione che si attiva nel contatto dei conflitti e delle resistenze = solidarietà, rappresentazione del pluralismo e riconoscimento dell’identità. Per un’educazione “moderno-riflessiva” I tempi correnti sono stati nominati moderno-riflessivi (Beck) e si propone uno sguardo nuovo, non più guidato ma in una condizione di libera messa a fuoco della riflessività. Oggi si può esercitare la libertà assoluta per costruire l’identità con le proprie mani, in termini di flessibilità per imparare a darsi regole, tracciare traiettorie tra le possibilità. È un’operazione di “sense-making”. Attraverso l’uso intensivo dell’astrazione, si è sviluppata la competenza simbolica e si sono identificati valori universali e nazionali. Verso la professionalizzazione Il nuovo modo di operare ponendo al centro l’alunno comporta una novità nella prospettiva dell’insegnante: 1. L’insegnante è esposto in prima persona nella didattica quotidiana, poiché non si basa più sui programmi istituzionali ma risponde di quello che fa direttamente 2. L’insegnamento deve muoversi sul fronte della riflessività perché deve inserire gli alunni in una società senza parametri di riferimento e perché viene richiesta come competenza generale da promuovere lungo tutto l’arco della vita dell’alunno l’insegnante deve prendersi cura e mettere nelle condizioni di diventare soggetto. L’insegnante deve misurarsi con una varietà di alunni-individui e riconoscerli come soggetti singolari entra in tensione con la tendenza alla standardizzazione e alla mercificazione della formazione. I sistemi di valutazione (OCSE-Pisa, TIMSS) sono intrusivi ed esercitano un controllo sociale totale in quanto entrano nelle aule e condizionano le pratiche didattiche influenzano la scelta dei contenuti e delle discipline = riduzione della diversificazione. Tuttavia, l’insegnante non può escludere le proprie classi da questi sistemi ma deve essere consapevole delle conseguenze. Il corrispettivo pedagogico per sviluppare solidarietà verso questi sistemi è l’autonomia scolastica. Gli insegnanti sono coinvolti direttamente ad avere fedeltà verso gli istituti per cui lavorano. Questo sistema impone di avere un’amministrazione centrale che definisca i criteri per i confronti, le comunicazioni e gli scambi tra le diverse esperienze scolastiche locali sono necessari bilanciamenti e condizione di comunicazioni ad ampio respiro. Tutto questo e la revisione della competenza educativa viene racchiuso nel termine PROFESSIONALIZZAZIONE, ovvero l’aggiunta di insegnamenti psicologici, sociologici e pedagogici nei curricola di formazione dei docenti assieme ad un cambiamento di status (istituzione di un albo che definisca e controlli i requisiti per accedere alla professione e i principi per regolamentare l’esercizio) si parla di formare una vera e propria “professione”. Questo è importante poiché vi è stato il passaggio da una condizione di dipendenza esecutiva ad una condizione di autonomia giustificata dalla cura dei compiti di sviluppo del soggetto in formazione. Il successo è garantito solo se vi sono risorse esperte e capaci di agire in tempi reali organizzando strategie. 6 L’etica come banco di prova La libertà di insegnamento implica lo sviluppo dell’autocontrollo ed esige una morale professionale. La professionalizzazione deve essere considerata come la risposta alla sfida posta dalla società e l’etica dell’insegnamento deve essere sperimentata all’interno di una situazione di incertezza. L’educazione è sempre stata gestita dal potere religioso e politico perché è un bene troppo importante e, per questo, lo statuto degli insegnanti è stato servile. Lo sviluppo di una morale, non riguarda solo gli insegnanti, bensì è anche oggetto di insegnamento sotto forma di educazione civica = l’insegnamento è una professione doppiamente morale perché si esercita in un campo densamente problematico. Capitolo 2 – L’insegnamento azione morale Nell’insegnamento ci sono molti aspetti da considerare: consci, inconsci, relazionali ed istituzionali, spaziali, temporali, materiali e simbolici. Questi aspetti portano diversi punti di vista e mettono in luce su direzioni e angolature peculiari ed esclusive. Le proprietà morali del “sapere scolastico” La costituzione di una società multiculturale ha permesso di interrogarsi sull’accoglienza e sull’educazione interculturale. Oltre a ciò, ci si è posti il problema del relativismo ovvero che la scuola e l’insegnamento dicano il vero ma che siano anche credibili. Gli alunni, oltre ad apprendere le conoscenze, devono essere in grado di argomentarle, ovvero che diventino oggetto di credenze. Perciò, il relativismo aiuta a capire qual è il sapere scolastico. Sapere “scientifico” vs sapere “scolastico” Quando si discute fra verità e credenza si parla della distinzione fra il sapere scientifico e le credenze. Emerge, però, un paradosso perché il sapere scolastico dovrebbe trasmettere il sapere prodotto dalla ricerca scientifica, tuttavia sembra essere una sua riduzione semplificatoria o un’alienazione. Negli anni ’80 è nato un confronto su questi temi e Del Bos e Jorion si sono espressi con una posizione di mediazione: il sapere scolastico si copre del prestigio del sapere scientifico ma gli toglie i caratteri essenziali (dubbio, provvisorietà, ecc.) facendolo divenire un sapere dogmatico. Così facendo, escludono a priori il sapere pratico e fanno divenire quello scolastico il sapere comune. Dalla loro riflessione emerge il carattere normativo del sapere scolastico ovvero il fatto di essere vincolante, giusto e dovuto paradosso: con queste caratteristiche aliena la scienza. Un tentativo di riunione fra teoria e pratica è stato lo sviluppo di esperienze di Ricerca-Azione svolta che divise l’opinione fa chi non riconosceva la scientificità del sapere degli insegnanti e chi, invece, la riteneva una forma di conoscenza affidabile tanto da farne oggetto d’indagine. La “trasposizione didattica” Negli anni ’50 gli scienziati attaccarono Dewey e divennero “disciplinaristi”; entrarono nelle commissioni che creavano i programmi e nelle scuole attraverso i curricoli didattico-disciplinari. Questa nuova visione ha indotto ad una conversione ovvero il riconoscimento della specificità del sapere scolastico in relazione al sapere scientifico, nello specifico le “trasformazioni” che devono essere fatte quando quest’ultimo entra nella scuola (“trasposizione”). Develay propone uno schema in cui si lavora su due assi: la didattizzazione (mediazione didattica) e l’assiologizzazione. Quest’ultima viene definita come “scelta dei contenuti che veicolano certi valori in gioco nel rapporto dell’alunno col sapere, degli alunni fra loro, degli alunni con l’insegnante, dei saperi in ordine al progetto di società”. 7 I programmi d’insegnamento Develay coglie la pluralità dei soggetti che intervengono nella fase d’ideazione dei programmi, ma anche il ruolo strategico degli insegnanti che determinano il sapere insegnato in aula, il tempo da dedicare ai contenuti e le priorità attribuite alla valutazione. Lo studioso considera anche lo studente che è il diretto responsabile del sapere appreso che, con le sue reazioni, condiziona le scelte dell'insegnante nella complessità della costruzione del sapere scolastico. Per Martinand il sapere scolastico non si basa solo su quello scientifico, ma anche sulle pratiche sociali = diversi teorici portano diverse questioni all’interno della redazione dei programmi. Se i programmi venissero visti come progetti e non come testi epistemologici, sarebbero testi molto chiari e distinti. Essi, inoltre esercitano funzioni interne: - Legittimazione dei valori che ispirano i docenti - Formazione per l’adeguamento delle competenze professionali richieste agli operatori - Contratto rispetto ai bisogni e alle domande educative dirette ed indirette provenienti dall’ambiente - Controllo dei risultati attraverso accertamenti e confronti - Scambio tra insegnanti della stessa unità scolastica e a livello di associazioni professionali - Protezione delle aspettative interne ed esterne al sistema - Coordinamento delle risorse interne ed esterne - Innovazione delle strutture e dei metodi di pianificazione dell’attività scolastica - Orientamento e selezione degli alunni - Partecipazione alla definizione del curricolo in base ai diversi gradi di scuola - Integrazione del curricolo con le peculiarità culturali e i problemi di sviluppo delle comunità locali - Pianificazione degli interventi periscolastici e parascolastici, dell’amministrazione del personale e delle risorse I tre studiosi hanno in mente una riforma del sistema scolastico, anche se molte di queste funzioni sono una definizione puntuale dei programmi d’insegnamento. La “premessa” ed il progetto di società I programmi scolastici sono documenti di politica scolastica che si propongono di determinare il rapporto tra conoscenze e valori nell’insegnamento pubblico. I programmi richiamano la responsabilità della scuola nei problemi di sviluppo sociale, in generale nella parte definita “premessa”. Nelle premesse di fine 800 e inizio 900, emerge l’idea che l’educazione possa creare le condizioni per un’umanità comune che aderisce a valori comuni in un progetto di cultura universale. Anche negli anni ’80 la scuola viene vista come luogo in cui avviene la mediazione fra l’alunno scarsamente socializzato e un’idea di cultura in cui il sapere scientifico è il riferimento e l’insegnante il testimone. Ancora oggi le premesse hanno un registro linguistico alto e retorico, forse perché gli insegnanti devono farsi carico della missione della scuola e favorire una convivenza civile ed inclusiva per promuovere la giustizia e assicurare a tutti un’educazione sufficiente. Es.: in America la guerra fredda negli anni ’50-’60 che ha creato i rapporti allarmistici; la nascita della pedagogia compensativa che, con gli investimenti del presidente Johnson, portò all’apertura delle scuole efficaci effetti anche in Gran Bretagna e Francia. In Italia il tempo pieno per integrare i figli degli immigrati del sud, una vera militanza educativa che considerava i saperi scolastici come una risorsa per appianare gli svantaggi della stratificazione sociale. I programmi per la valutazione Nelle Indicazioni Nazionali veniva definito un “profilo educativo e culturale” che univa le dimensioni di una personalità giovanile in divenire con un elenco di obiettivi specifici di apprendimento articolato per discipline. È una proposta rivolta ad insegnanti, alunni e famiglie anche se si trova all’interno di un contesto verso l’autonomia scolastica. Anche se si 8 chiamano Indicazioni, comunicano una certa idea di uomo-persona mettendo l’enfasi di un discorso rivolto alle nazioni. Leggendo le premesse dei programmi, emerge una certa visione dei valori, dei progetti e degli interessi dei gruppi dirigenti e delle alleanze. Inoltre, oltre alla premessa vi erano indicati i contenuti e i metodi. Nelle indicazioni nazionali, invece, i contenuti sono esposti sotto forma di obiettivi disciplinari puntigliosi. I programmi servono affinché la scuola offra il proprio contributo al progetto sociale giustifica il budget investito in questa istituzione. Il “Cànone” Nel nostro paese i programmi non coprono tutta l’area delle decisioni che riguardano l’insegnamento in quanto sono integrati dalle fonti normative che incidono in maniera significativa sulla vita scolastica, nello specifico le condizioni di esercizio dell’insegnamento. Queste fonti normative vengono chiamate “Ordinamenti” e investono sulle regole costitutive del lavoro in aula ed esercitano un’incidenza maggiore e concreta sui programmi. Negli anni ‘70 la ricerca pedagogica sperava che il nostro paese adottasse il curricolo, come in Gran Bretagna; esso è un testo che unisce le regole prescrittive e organizzative dell’attività scolastica, le risorse finanziarie e i materiali. Tuttavia, la complessità della programmazione è aumentata sempre più dimostrando che a scuola non si insegna “tutto” → non dipende dalla fattibilità ma da scelte culturali e dal regime politico. I programmi incidono sui saperi scolastici con un dispositivo combinato: 1. attraverso le materie di insegnamento 2. con la presenza delle educazioni che rappresentano le patologie sociali del tempo e l’impulso ad attivare una resistenza scolastica 3. attraverso gli argomenti introdotti 4. mediante il voto che sottolinea la centralità curricolare 5. con il tempo assegnato che corrisponde ad una gerarchia della rilevanza formativa della disciplina 6. con i titoli richiesti agli insegnanti per accedere agli insegnamenti Così facendo si crea un cànone del sapere scolastico raccomandato per conseguire le finalità illustrate nella premessa e nel profilo dello studente. Perciò la funzione del Programma è identitaria, dedicata a plasmare una certa idea di uomo con virtù che lo rendono in grado di dare popolo e costruire una personalità di base. Coulby ha identificato una cultura civica europea tradizionale nei programmi scolastici europei → background che vale come sapere comune. “Verità” e “credenza” Quando il contesto cambia, un sapere non è più lo stesso → il sapere scientifico può entrare a scuola ma essa è un’istituzione che ha un progetto formativo sui giovani. Il sapere che viene raccomandato non si giustifica in quanto tale, ma in ordine all’istruzione degli scolari, ovvero in base alla trasformazione in apprendimenti. questo sapere deve cambiare i soggetti in modo duraturo e significativo, poiché la scuola non è un’istituzione di ricerca scientifica, bensì un’istituzione pedagogica che crea valore aggiunto istruendo le persone. Il contenuto delle programmazioni è fortemente morale, il valore di riferimento è la verità consolidata, certificata che gode della sicurezza della credenza. il valore della verità va associato a quello della democrazia e del bene comune → la scuola, infatti, è un’agenzia educativa con rapporti di asimmetria strutturale che aiuta ad edificare l’autonomia dei ragazzi che apprendono. Il sapere scolastico è intrinsecamente morale poiché strumento per fondare costumi in profondità e a lungo termine → serve per creare un’identità nazionale e sovranazionale, interculturale e cosmopolita. Il fallimento della scuola si misura 9 nella perdita di competitività internazionale e nella disgregazione sociale e culturale della popolazione. Il sapere scolastico in aula In aula il sapere si offre agli alunni direttamente e concretamente. Spesso si dà per scontato che quello che si insegna il prodotto della scienza con qualche adeguamento o semplificazione → il responsabile è l’insegnante in quanto decide nel bene e nel male = è un’azione morale poiché si tratta di un intervento su persone secondo una reciprocità asimmetrica (adulto nei confronti di un alunno in età evolutiva o in condizioni di dipendenza). Il progetto di cambiamento del soggetto sta, in primo luogo, nel linguaggio ma anche nelle strategie più o meno flessibili e sofisticate per avere risultati di partecipazione e apprendimento. Gauthier e Alii (1993) affermano l’importanza dei trucchi del mestiere, dell’astuzia, della capacità di arrangiarsi che l’insegnante sviluppa grazie all’esperienza in aula. Perciò, l’insegnamento si iscrive nel rapporto fra i soggetti, secondo cui l’insegnante deve cercare di controllare l’alunno e fare in modo che apprenda il contenuto culturale del mandato sociale della scuola. La posizione insegnante-alunni può reggere solo grazie ad un altro contratto che gestisce la complicità degli aspetti socio-affettivi della dinamica gruppo-classe con insegnante-sapere. Non è solo comunicazione del sapere, bensì regolazione del comportamento ispirata a livello etico Le fonti del sapere di aula Fino agli anni ‘80 la ricerca sulla didattica disciplinare afferma la convinzione che l’insegnamento scolastico riproducesse quello universitario → tale sapere non era discusso per il contenuto o per il formato ma per gli strumenti di comunicazione da applicare = non veniva compreso il passaggio da un contesto all’altro. Queste certezze sono entrate in crisi negli anni ‘80, mettendo in evidenza che gli operatori scolastici dovessero trasformare il contenuto e rielaborarlo. Per questo motivo, gli insegnanti si trovano ad affrontare gli stessi problemi dei ricercati in didattica. È emerso che il sapere scientifico non è l’unica fonte del sapere scolastico e che, quest’ultimo deve essere trasformato in sapere insegnabile e apprendibile (didattizzazione, per Develay) → è un processo delicato e complesso in cui gli insegnanti sono spesso soli. Tuttavia, i docenti non sono delle tabule rase perché hanno avuto modo di raccogliere informazioni e maturato credenze durante la loro esperienza scolastica → questi sono aspetti predittivi di come l’ex-studente insegnerà una determinata materia. Le preconcezioni sull’insegnamento operano come matrice capace di selezionare e assimilare offerte formative predisposte dai curricoli universitari; inoltre, il vissuto scolastico riguarda il lavoro in aula. Spesso si fa riferimento alla figura del mentore che vengono adottati come riferimenti esemplari. All’esordio nella professione, gli insegnanti non hanno comportamenti riconducibili alle metodologie apprese all’università, ma richiamano i modelli interiorizzati durante il proprio vissuto scolastico → significa che la formazione avviene in luoghi informali, in diverse occasioni che hanno lasciato traccia. Questo aspetto pratico ha due caratteristiche: 1. la fonte privilegiata del sapere è l’esperienza professionale 2. l’importanza attribuita ad aspetti non-cognitivi, la portata relazionale e sociale, la risonanza emotiva → permette ai veterani di affrontare le diverse situazioni Dagli studi sulle biografia professionali è emersa l’importanza della descrizione della vita pre-professionale ed extraprofessionale. Da quest’analisi si coglie la continuità tra le acquisizioni professionali e quelle anteriori, l’incidenza della relazione con gli alunni, colleghi. È un sapere esistenziale, sociale e pragmatico → pragmatico perché si esprime in schemi, criteri, regole, strategie; sociale per le persone di riferimento conservate nella vita, le indicazioni prescritte dall’amministrazione e per le relazioni; esistenziale perché l’insegnante in classe agisce con tutto sé stesso, non solo con la testa. 10 Il sapere scolastico in relazione asimmetrica L’alunno costituisce il riferimento essenziale per il self professionale dell’insegnante, è il vero soggetto focale perché su di lui affida il suo investimento che determina il suo apprezzamento pubblico e l’autorealizzazione. Per l’alunno, l’insegnante è una delle prime figure adulte extrafamiliari che segnano la sua vita e biografia → è una relazione up-down in quanto in mezzo vi è il sapere. Diversi orientamenti puntano all’eliminazione dell’asimmetria secondo varie strategie, ma la sostituiscono con un’autorità affettiva. In realtà l'asimmetria si risolve solo attraverso il sapere → le conoscenze disciplinari determinano la spiegazione delle ragioni che creano la coppia insegnante-alunno e la fatica di insegnare. Gli oggetti culturali possono sciogliere i nodi del rapporto e dare un senso al lavoro dell’insegnante = il sapere è il cuore della relazione didattica. Il potere che produce sapere La resistenza degli studenti viene vista come un ostacolo che non facilita la relazione educativa e porta a dei compromessi sul piano cognitivo e delle semplificazioni del sapere da insegnare. La tradizione vede l’opposizione fra autorità e libertà come un punto critico che richiede sforzo per essere risolto. La soggettività iperbolica degli alunni viene vista come motivo di crisi e fenomeno negativo che richiede l’intervento dell’autorità per essere bonificata e trasformarla in servizio per far crescere l’altro. Questa visione della relazione educativa si basa sul presupposto che l’intera responsabilità sia dell’insegnante, ovvero che l’insegnamento sia la causa dell’apprendimento → serve per legittimare la posizione asimmetrica del docente. È una concezione errata perché l’alunno deve crescere da solo, in quanto crescere è un verbo intransitivo → due tradizioni pedagogiche che rivendicano la libertà di apprendimento dell’alunno sono quella socratica e l’attivismo. Con il ritorno alla soggettività su tutti i livelli, il principio di autorità crolla e si pone nuovamente il problema. Inoltre, la soggettività è risorsa fondamentale positiva nella società dopo-moderna. Foucault riflette sulla categoria della resistenza → il potere “moderno” si definisce come un’interazione che mostra all’opera un’azione che ne induce altre: “in sé l'esercizio del potere non è violenza; e neppure un consenso implicitamente rinnovabile. È un insieme strutturato di azioni che verte su azioni possibili; esso incita, induce, seduce, rende più facile o difficile; al limite, costringe o impedisce assolutamente; nondimeno è sempre un modo di agire su un soggetto, o su dei soggetti che agiscono in virtù del proprio agire e del loro essere capaci di azioni. Una serie di azioni su altre azioni.” Inoltre, il potere come interazione implica il riconoscimento di un’altra zione che si manifesta come forza di resistenza; il potere moderno richiede: “che l'«altro» (colui sul quale viene esercitato il potere) sia interamente riconosciuto e conservato fino all'estremo come soggetto che agisce; e che, di fronte ad una relazione di potere, tutto un campo di risposte, di azioni, di reazioni, di effetti e di possibili invenzioni, possa essere aperto.” Le decisioni che compie un insegnante sono manifestazioni di un potere che si esprime nella capacità di ottenere collaborazione e partecipazione degli alunni → il potere si esprime al massimo quando gli alunni lo seguono spontaneamente. Il potere di un insegnante non è garantito per sempre, infatti, la passività è indice di fallimento. Il potere diviene dispositivo mirato a cambiare le persone quando attiva la partecipazione. Secondo Foucault, “in concreto, il potere produce realtà: produce domini di oggetti e rituali di verità”. Il sapere e il corpo dell’insegnante Il sapere investe anche il corpo in classe → il corpo è l’analizzatore della dimensione affettiva nella vita in aula a partire da un problema ben noto. Questa metafora rivela la centralità del sapere nella vita del gruppo-classe. Il sapere di ritrova dove non ci si aspetta di incontrarlo, ovvero attraverso il corpo dell’insegnante = incorporazione del sapere (scoperta di 11 Pujada-Renaud). Sono stati esaminati i modi in cui l’insegnante vive l’esposizione del suo corpo e come gli alunni percepiscono la rappresentazione mediata dal fisico del docente → secondo Pujada-Renaud è qui che si trova il sapere perché l’importante è che passino le conoscenze attraverso gestualità, posture, movimenti = insegnante attore, sceneggiatore e costumista perché mette da parte la timidezza o l’egocentrismo per creare una scena. Il vissuto dell’alunno non è molto diverso poiché potrebbe essere chiamato in qualsiasi momento a prendere il posto dell'insegnante e formulare giudizi sul suo modo di lavorare → in tutte queste situazioni non manca mai il sapere, perché fa da canovaccio alla lezione. La ricerca, invece, individua un rapporto meno incarnato del sapere con l’insegnante, lui invita l’alunno ad andare verso la conoscenza, non la incarna → è un sapere oggettivabile al quale gli alunni e gli insegnanti guardano come compito, i primi come obiettivo da raggiungere, i secondi, invece, l'hanno già vissuto. Negli studi di Pujada-Renaud il sapere non risulta mai distaccato dal professore, anche se l’alunno lo giudica, non riesce ad immaginare la via verso la conoscenza senza di lui → allo studente l’insegnante sembra possedere il sapere sul suo corpo stesso. Il sapere scolastico si costruisce in un campo pedagogico con un problema da risolvere: una relazione asimmetrica che ha come scopo quello di eliminare se stessa o provare a ridursi → asimmetrica per posizione e per processo ma anche complementare perché i due protagonisti non possono fare a meno l’uno dell’altro. L'insegnamento è indottrinamento? Olivier Reboul riflette sull'insegnamento e sull'indottrinamento, ponendo una distinzione sottile ma fondamentale tra i due concetti. Entrambi, infatti, comportano l'esercizio di autorità e la trasmissione di nozioni, ma la differenza principale risiede nella libertà di giudizio degli studenti. Secondo Reboul, l'insegnamento autentico non impone una verità assoluta, ma lascia spazio alla critica e al rifiuto delle dottrine proposte. Al contrario, l'indottrinamento cerca di inculcare una verità senza consentire alcuna possibilità di confronto o di dissenso. Per Reboul, la chiave per distinguere l'insegnamento dall'indottrinamento è rappresentata dal pluralismo e dalla libertà educativa. Egli propone una forma di educazione che non si limita a trasmettere contenuti, ma che stimola il dialogo tra diverse dottrine, permettendo agli studenti di metterle in discussione. La verità, in questo approccio, non è considerata un valore assoluto, ma qualcosa che emerge dal confronto delle idee. Questo è ciò che lui intende per liberalismo educativo: un processo che promuove il pluralismo, dove ogni dottrina viene messa alla prova da altre, creando un ambiente in cui le verità sono relative e sempre aperte alla revisione. Tuttavia, Reboul critica anche la neutralità pedagogica, che considera pericolosa perché in una scuola che si astiene da qualsiasi posizione dottrinale, finisce per lasciare spazio a influenze esterne e potenzialmente oppressive. La vera educazione, secondo lui, non può essere neutrale: ogni insegnamento comporta una scelta di valori, e rifiutare di esprimere una posizione equivale a non adempiere al compito educativo fondamentale, che è quello di aiutare gli studenti a trovare un significato nella vita. Un altro tema centrale nel pensiero di Reboul è il sapere scientifico, che considera un modello educativo ideale. Esso è associato a valori come il pluralismo, la tolleranza, la relatività e la laicità, che sono necessari per creare una società giusta e aperta al dialogo. Tuttavia, questi valori sono considerati "procedurali", ossia valori che non indicano direttamente una verità etica o morale, ma piuttosto permettono di evitare che una dottrina o un'ideologia diventi tirannica. Sebbene questi valori siano deboli rispetto a quelli più "forti" (come giustizia o libertà), sono essenziali per garantire che il confronto tra le idee avvenga in modo rispettoso e non dogmatico. Infine, Reboul si interroga sulla possibilità di un'educazione che non imponga una verità, ma che si limiti a favorire un dialogo continuo. In altre parole, è possibile immaginare un'educazione che non si pronunci sui contenuti, ma che si 12 concentri solo sul metodo, sul processo di costruzione della conoscenza? Questa riflessione porta alla conclusione che, pur con tutte le sue difficoltà, l'educazione deve essere procedurale, orientata al dialogo e alla negoziazione delle verità, ma non può essere completamente priva di valori e contenuti. In relazione con l’alunno Hillman scrive una lettera agli insegnanti intitolata “Và dove ti porta l’eros” il cui messaggio è quello di restaurare il rapporto tra insegnare e imparare a mantenerlo vivo nelle anime dei soggetti che vivono → lo psicanalista è convinto che si possa ricostruire l’autenticità della relazione umana tra insegnante e alunno, nonostante l’istituzione. Per lui, c’è un solo modo per salvare “il cuore dell’educazione”: risvegliare l’eros nel rapporto insegnante-alunno (mantenendo distinte le varie tipologie di eros). Il legame che si crea fra docente e bambino/ragazzo è l’amore che nasce da una visione comune che legittima l’intimità della relazione → l’obiezione è che l’insegnante non può avere preferenze e deve neutralizzare i sentimenti provati verso gli studenti. Così facendo, secondo Hillman, il vero imparare viene soffocato. Inoltre, afferma che non vi devono essere correnti pedagogiche superiori ad altre, ma sono sotto accusa tutte le "dottrine" educative che pretendono di fornire modelli e programmi di carattere universale per le azioni educative → bisogna considerare la coppia insegnante-alunno come “archetipica” e lasciare che essa governi l’immaginazione e il pensiero → messaggio provocatorio e semplicistico per diversi motivi: - ignora le condizioni storiche che hanno portato la scuola a diventare moderna e “burocratica” → è un grande progetti di disciplinazione sociale dettato dalla necessità di provvedere ad una socializzazione che non poteva più essere svolta attraverso l’apprendimento spontaneo = educazione necessaria per la costruzione dell’identità. - semplicismo rispetto alla fenomenologie delle scuole e delle classi: non è vero che l’eros è stato cancellato dalle classi, bensì è stato ordinato, finalizzato ed istituzionalizzato - semplicismo anche a livello della rilevazione empirica che non considerano l’importanza del corpo (ricerche di Pujade-Rénaud) e sul contratto educativo (ricerche Filloux) → gli scambi in classe non sono solo verbali, comprendono la dimensione emotiva, affettiva, la spontaneità e la consapevolezza, vi possono essere anche tattiche impulsive ed inconsce. Perciò, l’eros è parte normale delle relazioni scolastiche e può essere considerata anche una strategia di recupero. Il potere in classe La classe scolastica è uno spazio sociale complesso e critico, che può essere visto come un microcosmo con regole proprie, formali ed informali, e processi peculiari. È un luogo in cui i ragazzi vivono esperienze formative rilevanti per lunghi periodi, e si caratterizza per la formazione di un gruppo di studenti con caratteristiche simili (età, provenienza geografica, ceto sociale, ecc.) →è anche un luogo di costruzione sociale che comporta conseguenze significative sulla vita dei ragazzi = influenza la posizione sociale e le opportunità future (es.: mondo del lavoro). La classe è un gruppo “a termine” che ha una durata prestabilita, ed è consapevole che esiste una scadenza. Inoltre, l’ambiente scolastico è caratterizzato da una pluralità di insegnanti che possono contribuire alle dinamiche del gruppo-classe, anche se collaborano. L’interazione fra queste due figure è una caratteristica fondamentale, ed è influenzata da diversi fattori: numero di docenti, discipline e modalità di organizzazione didattica. In passato, la sociologia considerava la classe come un microcosmo che rifletteva in modo diretto la società esterna, tuttavia, con il tempo è emerso che la classe è un'entità più dinamica e meno omogenea (al contrario delle considerazioni di Parsons) → si è sottolineato che la presenza dell’insegnante non è un’aggiunta al gruppo, bensì una struttura fondamentale che definisce il gruppo come “gruppo con insegnante”, non “gruppo più insegnante”. Le interazioni all’interno del gruppo classe sono state studiate, ad esempio B.F. Skinner si è concentrato sul linguaggio 13 come strumento centrale nelle dinamiche educative. Il linguaggio in classe non è solo una forma di comunicazione, ma è anche un oggetto di insegnamento che trasmette norme, valori e aspettative → in classe si sviluppano forme di comunicazione "governata" dove l'insegnante controlla i turni di parola, i contenuti delle risposte e l'accettabilità dei comportamenti degli studenti, all'interno di un sistema strutturato che non corrisponde ad una conversazione libera. Altro aspetto rilevante è l’importanza della competenza linguistica degli studenti (variabile a seconda dell’origine socio-culturale) → per alcuni studenti con provenienza da ambienti svantaggiati, può diventare barriera poiché non padroneggiano il linguaggio elaborato richiesto a scuola = possibilità di insuccesso accademico e sociale → fenomeno è stato studiato Bernstein, che ha introdotto concetti come il "linguaggio ristretto" e il "linguaggio elaborato", evidenziando come la scuola privilegi le competenze linguistiche più raffinate, escludendo chi non è in grado di adattarsi. Queste dinamiche sono influenzate anche dai modelli di regolamentazione della vita scolastica → Bernstein ha diviso in: - "codice cumulativo" (caratterizzato da un'organizzazione rigida e separata delle materie) - "codice integrativo" (che favorisce una maggiore flessibilità, interdisciplinarità e interazione tra le classi) → sembra emergere sempre di più, in risposta ai cambiamenti sociali ed educativi. Infine, la classe è un luogo in cui si esercita un potere educativo. L'insegnante non è solo un trasmettitore di conoscenze, ma è anche un costruttore di "verità" scolastiche, che legittima la propria autorità nel processo di costruzione del sapere. Questo potere non è solo cognitivo, ma anche relazionale e gerarchico, definendo gli studenti come "competenti" o "incompetenti" in base alla loro capacità di rispondere alle aspettative dell'insegnante →il lavoro d'aula, quindi, è sempre intrinsecamente connesso a questioni morali e di giustizia Il doppio contratto L’affettività, sia espressa che bloccata, è una componente fondamentale per il rapporto educativo dal pdv razionale, cognitivo, emotivo e psicologico. L’istituzione scolastica, attraverso le regole, neutralizza e rende invisibile il potere che esercita sugli alunni, facendolo apparire come un dato di fatto → tuttavia, gli studenti denunciano di frequente disuguaglianze e trattamenti preferenziali, ai quali l’insegnante risponde affermando che gli alunni sono tutti uguali, pur sapendo che ognuno è diverso è va trattato differentemente → aspetto che rivela la complessità della relazione alunno-insegnante (soddisfazioni, frustrazioni, disimpegno affettivo per evitare le difficoltà emotive). L’affettività, espressa o repressa, si collega alle dinamiche psicologiche inconsce che si creano nell’ambiente educativo poiché la classe suscita in alunni e insegnanti il riemergere delle esperienze infantili e le le figure di cura. Filloux ha cercato di indagare il concetto di inconscio nel contesto educativo e ha individuato due tipi di contratti che regolano la relazione alunno-insegnante: 1. Contratto di posizione →visibile e formale, che regola il rapporto di scambio reciproco e asimmetrico: l’insegnante offre conoscenza e opportunità per il futuro, mentre l’alunno è tenuto a impegnarsi, a rispettare le regole e a cedere parte della propria libertà (tempo e impegno) → contratto rigidamente imposto che non lascia molta flessibilità. Tuttavia, non è sufficiente per un’efficace relazione educativa, poiché richiede un livello di vicinanza affettiva che non può essere raggiunto solo con la distanza formale e impersonale. 2. Contratto di combustione → correttivo del primo, è basato sulla necessità di creare una connessione affettiva e umana, capace di abbattere le barriere tra insegnante e alunno. Creando un clima di empatia e reciprocità, gli attori possono sentirsi sicuri e motivati a impegnarsi → ha dei limiti: non è possibile tralasciare completamente l'aspetto rigoroso dell’insegnamento e il bisogno di misurare i risultati. Alla fine, la relazione educativa non può prescindere dalla necessità di apprendere, e il primo contratto, quello formale, diventa inevitabile. Perciò, la dinamica affettiva non è separata dal contenuto culturale → l’insegnante deve essere in grado di ottenere che l’alunno investa emotivamente su di lui come figura autorevole e competente, per indirizzarlo verso gli oggetti culturali e 14 conoscitivi (vero obiettivo dell'educazione). Questo processo richiede equilibrio tra vicinanza e distanza. Infine, il transfert pedagogico è un processo di trasferimento emotivo che è necessario nel contesto educativo → l’insegnante deve favorirlo dagli alunni verso di sé, sempre con l’obiettivo di indirizzare l’energia verso l’apprendimento. È un processo delicato e complesso, in quanto richiede la gestione delle emozioni, dei sentimenti e delle dinamiche morale da parte di entrambi i soggetti coinvolti. La seduzione nel rapporto educativo Il tema della seduzione nell'insegnamento è stato finora trascurato dalla ricerca pedagogica, trattato solo indirettamente nel contesto della relazione educativa. Tuttavia, dal 1999, grazie al programma di ricerca avviato all'Università di Laval (Canada), si è iniziato a esplorare questo argomento, coinvolgendo studiosi che hanno utilizzato diverse fonti, tra cui romanzi, favole, film, e teorie filosofiche e psicoanalitiche. La ricerca ha incluso anche interviste a insegnanti, i cui giudizi sulla seduzione nel contesto scolastico sono stati contrastanti: alcuni la considerano utile e necessaria, altri la rifiutano, mentre molti si trovano in una posizione intermedia. La seduzione nell'insegnamento è vista come una strategia didattica che, se ben gestita, può favorire l'apprendimento, stimolando l'interesse degli alunni → è importante che non sia basata su un fascino personale dell'insegnante, ma sulla capacità di rendere la conoscenza attraente e stimolante, trasmettendo passione e gioia per il sapere. La ricerca evidenzia anche che la seduzione educativa non si riduce a tecniche immediate, ma richiede una sensibilità particolare e una preparazione profonda, che deve iniziare già durante la formazione degli insegnanti. In effetti, l'esperienza di "piacere" dell'insegnante verso i propri alunni sembra essere una motivazione fondamentale per coloro che scelgono questa professione. Inoltre, la seduzione appare sempre più necessaria nel contesto sociale attuale, dove le figure autoritarie tradizionali, come quella dell'insegnante, sono messe in discussione → diventa un modo per mantenere l'ordine, catturare l'attenzione e promuovere l'interesse per l'apprendimento. Tuttavia, l'approccio deve essere sempre equilibrato, rispettando le regole e la dignità di tutti, senza mai eccedere nei comportamenti. L'insegnante deve cercare di affascinare gli studenti, ma senza mai perdere di vista l'obiettivo educativo: stimolare il loro desiderio di apprendere, con passione e dedizione → "Insegnare è sedurre, ma sedurre è molto di più che insegnare". La seduzione come competenza professionale La seduzione viene interpretata come una strategia che emerge nella relazione tra insegnante e alunno, come un gioco di mosse e contromosse che implica reciprocità e interazione attiva da parte dell'alunno, mantenendo un equilibrio di potere. Sebbene il gioco educativo possa apparire fragile, la seduzione diventa uno strumento per costruire gli apprendimenti e mantenere l’attenzione dell'alunno. Questo gioco comporta dei rischi, tra cui il pericolo di manipolazione o abuso, e deve seguire regole precise, come il rispetto della "distanza" tra i soggetti, affinché non degeneri in una relazione di sopraffazione. La seduzione non è una semplice tecnica, ma una competenza affettiva (sensibilità diffusa, capace di stimolare i sentimenti e le emozioni dell’alunno) → si basa su abilità intellettuali ed emotive, che stimolano l'interesse dell’alunno e creano un ambiente di apprendimento attraente e stimolante. In questo contesto, l'insegnante deve possedere una serie di competenze pratiche (l'intuizione, sagacia = astuzia), che gli permettono di adattare il suo approccio educativo alle varie situazioni. La seduzione educativa è una strategia basata sulla resistenza, non sul consenso passivo, in cui l’alunno si forma attraverso il rapporto con l’insegnante, che a sua volta deve conquistare la fiducia dell’alunno per poter scomparire come figura autoritaria. Insegnare e punire 15 La punizione non viene più considerata nella ricerca pedagogica, ad oggi si ritrova la “gestione della classe”, tuttavia esse sono ancora diffuse nel quotidiano scolastico → gli insegnanti voglio nascondere la loro incapacità di “tenere la classe”, perciò non ne parlano. Tuttavia, i segnali di malessere vi sono, anche dalla parte degli alunni e dei loro genitori nei confronti dei docenti. Vengono messi in discussione due aspetti critici: 1. gli alunni sono soli nel problema dello sviluppo della loro autonomia 2. gli insegnanti vedono la loro autorità destabilizzata Fountain afferma che, con l’avvento delle nuove pedagogie che vedono al centro il bambino, gli insegnanti possono avere difficoltà nella regolazione dell’attività e della loro identità professionale → sensazione di perdita di controllo sull’azione educativa e sviluppo di un senso di malinconia (quando certi tipi di perdita riescono impossibili da vivere perchè sono proibite da divieti autorevoli. La malinconia non è ribellione scoperta e vistosa ma è una presa di distanza rispetto al ruolo imposto dall’autorità che risulta troppo invasiva e radicale. Vi è una questione di metodo e di legittimazione che non va riconosciuta nell’autorità fondativa ma nemmeno nella libertà originaria del bambino → la soluzione sarebbe un’autorità funzionale che dà il ruolo a entrambi i soggetti → la disciplina serve per assicurare l’apprendimento = educazione come disciplinazione non come punizione. La disciplina può anche non comprendere la punizione, di fatto, non la esclude in linea di principio. Se educare corrisponde a disciplinare, è, per estensione, l’equivalente di punire. Punire per insegnare Tradizionalmente, le società occidentali (egiziana, ebraica, greca e romana) concepivano l’educazione come un atto di correzione, che spesso implicava punizioni fisiche. La punizione, quindi, non era solo un mezzo di disciplina, ma una pratica culturale più ampia con un forte legame con la religione e l’economia. Questo approccio violento era giustificato come un processo di espiazione e redenzione. Con l’emergere del sentimento dell'infanzia nel XVII secolo, si è cominciato a distinguere i bambini dagli adulti, vedendo l’infanzia come una fase da proteggere dalle brutalità della punizione fisica (brutalità dei riti di passaggio non era molto diversa dalle molteplici forme di ‘patronato’ che caratterizzavano gli ambienti di lavoro). La pedagogia moderna, influenzata da pensatori come Rousseau, ha ribaltato l'idea del bambino come “essere segnato originariamente dal peccato”, suggerendo che il bambino è “buono” per natura e non ha bisogno di essere plasmato dalla punizione. Nel Novecento, nonostante l’avanzare della pedagogia progressista e della “pedagogia nuova”, che ha influenzato i programmi educativi, le pratiche disciplinari nella scuola non sono cambiate del tutto. Sebbene ci si sia focalizzati sulla protezione dell'infanzia e sull'eliminazione delle punizioni fisiche, le punizioni psicologiche e le pratiche di umiliazione sono ancora comuni nelle scuole. Viene sottolineata una pratica scolastica utilizzata dagli insegnanti più sensibili a questa problematica: il "contratto educativo", che simula una negoziazione tra insegnante e alunni, ma che in realtà non rispetta una parità tra le parti → simulazione a fini di apprendimento della produzione delle norme in una società democratica. Tuttavia, è un esempio della difficoltà di applicare veri principi democratici nella scuola, dove l'insegnante mantiene una posizione di autorità. Negli USA esistono divisioni nette tra stati che supportano le punizioni corporali e quelli che le aboliscono, usando argomentazioni religiose, mediche e psicologiche contro l'uso della violenza nelle scuole. L’intera società conta sul controllo del sistema giudiziario che utilizza la punizione come leva fondamentale, assegnandole una funzione canonica di espiazione della colpa imputata, ma anche una funzione pedagogica di riscatto attraverso la modulazione e l’esercizio stesso della pena e l’attivazione di risorse mirate come gli educatori carcerari. La punizione in crisi d’autorità La punizione è direttamente connessa con il potere e presuppone un’autorità si mette in luce la disuguaglianza di potere tra chi punisce (l'insegnante) e chi subisce la punizione (lo studente). La punizione, infatti, è legata all'autorità e alla 16 legittimità del punitore: se l'autorità si indebolisce, la punizione perde di significato. Il concetto di crisi d'autorità è centrale, in quanto la modernità e il post-moderno hanno visto un declino di questa autorità ed è un fenomeno che riguarda anche la scuola e la sua capacità di legittimare la punizione come strumento educativo. Vi sono due visioni pedagogiche contrastanti: - autonomista, che vede l'educazione come un ambiente di libertà, in cui lo studente è invitato a scegliere liberamente i propri interessi e valori, - eteronomista, che considera l'educazione come un processo in cui il bambino è inserito in un contesto sociale e culturale che gli impone limiti e regole la punizione e la disciplina hanno un ruolo chiaro nel rinforzare i confini e i valori sociali. La disciplina, quindi, è sempre presente, ma le modalità con cui viene applicata dipendono dalla visione pedagogica dell'insegnante. Gli autonomisti evitano la punizione vera e propria, preferendo parlare di conseguenze e riflessioni, mentre gli eteronomisti prevedono un sistema di regole che includa punizioni proporzionate con l’obiettivo di insegnare l'importanza del rispetto delle norme in entrambi i casi, la disciplina è vista come necessaria per mantenere l'ordine e promuovere l'apprendimento (con modalità diverse). Il ruolo dell’insegnante è più o meno esplicito o ‘coperto’, ma sempre con funzione sovraordinata rispetto al gruppo classe. Da queste visioni emerge una contraddizione tra la teoria e le pratiche effettive degli insegnanti. Nonostante la pedagogia moderna sembri respingere la punizione, nella realtà le "conseguenze" e altre forme di "attività sgradite" continuano a essere utilizzate come strumenti per la disciplina. Il problema non è se applicare la disciplina, ma come e quando farlo, considerando che, in contesti di crisi d'autorità, le regole rimangono una parte inevitabile e cruciale dell'esperienza scolastica. Infine, le regole possono essere presentate come naturali conseguenze o esplicitate apertamente attraverso un contratto, ma in ogni caso la disciplina è un aspetto fondamentale dell'insegnamento. La punizione nella morale dell’insegnamento La punizione deve essere riconosciuta come parte fondamentale del processo educativo → non va rifiutata a priori, ma deve essere analizzata con rigore per verificarne la validità educativa, etica e antropologica. In altre parole, proprio quando l'autorità sembra meno evidente, si ha l'opportunità di mettere in discussione il suo valore e la sua applicazione in un contesto scolastico. Jeffrey (2000) fornisce una riflessione interessante sulle "paure della punizione", individuando tre motivi per cui è temuta: 1. l’erotismo sadico, ovvero l'abuso del potere da parte dell'insegnante, che può tradursi in punizioni umilianti, fisiche o psicologiche, che sfruttano il legame affettivo con l'alunno. La punizione scolastica, tuttavia, non deve mai essere influenzata da dinamiche sadiche o da un desiderio di sopraffazione. 2. subordinazione che la violenza può creare. Se la punizione diventa uno strumento per dominare e ridurre gli alunni a una condizione di sottomissione, questo è segno di un fallimento educativo → la punizione deve essere finalizzata a promuovere la comprensione e la partecipazione alle regole, non a intimidire. 3. può generare sensi di colpa e frustrazione negli alunni. Secondo Jeffrey, un certo grado di frustrazione e di auto-riflessione è essenziale per lo sviluppo di un soggetto morale autonomo. In questo contesto, la punizione non deve essere vista come una punizione fine a sé stessa, ma come uno strumento per "educare" l'alunno a diventare moralmente responsabile. La punizione, dunque, ha anche una funzione morale e civica, perché insegna il rispetto delle regole e consente all'alunno di prendere coscienza della sua libertà. L'infrazione della regola è, infatti, il momento in cui l'alunno diventa consapevole delle proprie scelte e della libertà di rispettare o meno le regole stesse = la punizione non è solo un atto disciplinare, ma anche un'opportunità per rafforzare il senso civico e l'appartenenza alla comunità della classe. L'insegnante, quindi, deve 17 essere consapevole che la sua autorità non solo regola la classe, ma contribuisce anche alla costruzione di un ordine sociale più ampio. Gordon (1994) identifica quattro tipi di autorità che l'insegnante può esercitare: 1. Competenza (C), che deriva dalla preparazione professionale e dall’esperienza. 2. Intesa (I), che nasce dalla relazione quotidiana con gli alunni e dal rispetto reciproco che si costruisce nel tempo. 3. Potere (P), legato alla capacità di influenzare il comportamento attraverso strategie disciplinari. 4. Funzione (F), che si basa sul ruolo istituzionale dell'insegnante, con responsabilità specifiche nei confronti degli alunni. Le varie forme di autorità non si escludono a vicenda, ma si combinano a seconda delle circostanze → l'insegnante può trovarsi più o meno a suo agio nell’esercitare uno o l’altro tipo di autorità. Dalla ricerca scientifica sulla punizione, si evidenzia che, nonostante i tentativi di definire la punizione in termini educativi, le ricerche hanno mostrato risultati contrastanti. Le punizioni fisiche, in particolare, sembrano avere effetti negativi a lungo termine, mentre le punizioni in generale tendono a essere più efficaci nel breve periodo. Inoltre, suggerisce che gli insegnanti devono essere formati e sensibilizzati non solo sulle tecniche disciplinari, ma anche sulla loro applicazione nel contesto della gestione della classe → le punizioni vanno dunque utilizzate con discernimento, come parte di un progetto educativo complessivo. Desbiens (2000) cita come modello il metodo preventivo di Don Bosco → approccio educativo, che mira a prevenire i problemi disciplinari piuttosto che a punirli, ha molte consonanze con le pratiche educative moderne, ma ha matrice religiosa. È un metodo che si concentra sull'amore e sulla comprensione reciproca, cercando di prevenire la necessità di punizioni. Infine, la punizione scolastica si collega al problema della legittimazione dell'autorità nella società. Gli insegnanti devono esercitare un’autorità che sia accolta e rispettata in un contesto molto diversificato → la punizione, quindi, coinvolge le dinamiche morali e sociali della scuola, e diventa un riflesso delle problematiche più ampie che riguardano il funzionamento della società. Il “buon insegnante” L’insegnante come agente morale Il contributo di Fenstermacher nel Handbook (1986), ha sottolineato l'importanza di esaminare i valori morali espressi dalle azioni degli insegnanti e dai contenuti insegnati a scuola → tipo di ricerca didattica che combina la riflessione teorica sull'attività educativa con l'indagine empirica nelle classi, focalizzandosi sulle teorie etiche implicite nelle pratiche scolastiche. In una prima fase, il dibattito aveva come sfondo le riforme scolastiche degli anni '80 negli Stati Uniti, dove si discuteva della necessità di "risvegliare" la scuola, rispondendo alla competizione delle "tigri asiatiche" e alla crisi della leadership mondiale focus sulla professionalizzazione degli insegnanti, ma si allontanò presto dal modello tradizionale, in cui si paragonava l'insegnamento ad altre professioni “maggiori” (es.: medicina). La crisi delle professioni e le critiche di Ivan Illich avevano messo in discussione l’efficacia delle professioni tradizionali, rendendo necessaria una riflessione sulle specificità etiche dell'insegnamento. Autori come Tom (1980, 1984) e Strom (1989) sostennero che la caratteristica distintiva dell'insegnamento è la sua dimensione morale → l'insegnante non è solo un tecnico, ma un “artigiano morale” impegnato in un'impresa che implica scelte morali quotidiane, dato che l'insegnamento comporta un esercizio di potere e un’iniziazione culturale. La "coscienza morale" diventa dunque un passaggio cruciale verso la professionalizzazione, necessaria per conferire all'educazione il suo valore e significato intrinseco. Anche Pratte e Rury (1991) contribuirono a questo dibattito, parlando della "coscienza del mestiere", che nasce dalla diretta esperienza pratica e dalla consapevolezza di appartenere a una comunità professionale che condivide un sapere 18 collettivo e una cultura specifica. La loro ricerca sottolinea la necessità di un apprendimento che non sia mediato da teorie tecniche, ma che nasca sul campo, nell'esperienza concreta del docente. L'insegnamento si distingue da altre professioni proprio per il suo carattere etico: la moralità è essenziale per comprendere il senso stesso dell'educazione, che riguarda l'autonomizzazione del soggetto in formazione. Questa visione ha portato a una ridefinizione del concetto di "professione", in cui l'etica e la tecnica sono intrecciate, soprattutto nella relazione tra insegnante e allievo, che è asimmetrica ma orientata al bene del giovane (prospettiva dell’empowerment). Il volume The moral dimensions of teaching (1990), curato da Goodlad, Soder e Sirotnik, esplora a fondo il profilo morale dell'insegnante ed affronta globalmente la questione. Fenstermacher, nel suo contributo al volume, distingue l'insegnante da altre professioni, evidenziando tre aspetti principali: 1. l'insegnante deve ridurre la distanza di conoscenza con gli studenti, 2. l'asimmetria del rapporto educativo è legata all'esercizio del potere per guidare l'apprendimento, 3. l'insegnante non può fare il suo lavoro senza il coinvolgimento attivo degli alunni, poiché l'apprendimento è un processo reciproco. Il concetto di "insegnante etico" emerge così come un tema centrale nella ricerca didattica, rappresentando l'idea che l'insegnamento non sia solo una trasmissione di conoscenze, ma un'attività morale, in cui i comportamenti e le disposizioni etiche sono intrinseche all'atto educativo → un rinnovamento nella comprensione della professionalità docente, considerando l'insegnante come un destinatario di teorie pedagogiche, ma anche come una "fonte" di riflessione, soprattutto in merito alla dimensione morale incorporata nel lavoro quotidiano in classe. L’ethos dell’insegnante Le ricerche sulla dimensione etica dell'insegnamento, hanno seguito metodologie innovative, come quelle adottate da Fenstermacher, che ha utilizzato un approccio empirico e pratico per esplorare il comportamento degli insegnanti → ha deciso di osservare direttamente le pratiche in aula. Azioni compiute: - con una telecamera, ha registrato le interazioni in classe - ha selezionato i momenti più significativi, senza montaggio - li ha riproposti agli insegnanti per un'intervista per stimolare la riflessione sul loro operato. Questo approccio si è evoluto grazie al consiglio della moglie, anch'essa ricercatrice, per esplorare le "belle idee" sulla pratica educativa direttamente sul campo. Nel Mannerin Teaching Project (2001), Fenstermacher ha esplorato lo stile degli insegnanti, combinando la riflessione sulle virtù aristoteliche (come lealtà, coraggio, giustizia, moderazione) con l'osservazione delle manifestazioni nella pratica educativa → ha notato che la condotta dell'insegnante è spesso una strategia indiretta attraverso cui vengono trasmesse credenze morali, anche quando queste non sono esplicitamente enunciate. Altri ricercatori, come Hansen (2001), hanno indagato il rapporto tra l'etica delle azioni degli insegnanti e le aspettative morali che essi impongono agli studenti → gli insegnanti non sono consapevoli della portata morale delle loro azioni, che influenzano gli alunni più di quanto si rendano conto → la morale non è "insegnata" ma "afferrata" dagli studenti attraverso l'osservazione delle azioni quotidiane dell'insegnante. Perciò, queste dinamiche inconsapevoli hanno un grande impatto sulla formazione morale degli studenti. Elizabeth Campbell (2003, 2004) (libro The Ethical Teacher (2003)), una ricercatrice canadese, ha portato avanti una ricerca più sistematica e ampia, estendendo l'indagine dalla scuola dell'infanzia alla scuola secondaria. Adottando un approccio metodologico che combina riflessioni filosofiche con ricerche empiriche sul campo. Ha utilizzato la Grounded Theory per analizzare le pratiche etiche degli insegnanti → sebbene gli insegnanti non siano sempre consapevoli dell'impatto morale delle loro azioni, sono in grado di giustificare le loro scelte morali quando interpellati = “agenti morali” per necessità e 19 come una parte intrinseca del loro ruolo educativo. Per migliorare la loro professionalizzazione, è importante che diventino consapevoli della portata morale delle azioni, perché una maggiore consapevolezza può aiutarli a gestire i dilemmi morali nelle diverse relazioni e a definire la competenza etica come un elemento centrale nella loro formazione professionale. Inoltre, ha scoperto che le qualità morali degli insegnanti (cortesia, responsabilità, lealtà e coraggio), sono spesso visibili, anche nel clima che cercano di instaurare in classe e nelle interazioni informali con gli studenti → sono fondamentali per il successo dell'insegnamento e la formazione morale degli studenti. Inoltre, la ricerca ha rivelato che, in molti casi, gli insegnanti agiscono moralmente perché sono “brave persone”, e mostrando una connessione tra il loro essere come individui e il loro ruolo professionale. La “tirannia collegiale” Alcune turbolenze etiche sono rappresentate dai rapporti con i colleghi. Campbell parla di: ○ “moralità sospesa” = certi principi individuali sembrano non valere più quando è in gioco la reputazione o il giudizio verso un collega ○ “Tirannia collegiale” Dalle ricerche di Colnerud emergono alcuni fatti etici: ○ Tra i casi più frequenti vi è quello del collega che tratta offensivamente gli alunni con gli altri insegnanti, i quali non intervengono e si sentono codardi. ○ non è consentito mettere in discussione il collega che si comporta male con gli studenti, al contrario di chi invece si dà da fare per coinvolgere gli studenti in attività loro gradite ○ si verifica il paradosso collegiale, che può essere per invidia o competizione, ma anche perché un collega simpatico agli alunni è più “pericoloso” di uno che non lo è: si mette prima il proprio tornaconto del benessere degli alunni… sembra che sia molto difficile riuscire ad essere un “buon insegnante” in termini etici. ○ non bisogna cadere nell’intellettualismo etico: non basta conoscere l’etica e disporre del Know-how per comprendere i conflitti che si pongono a scuola. È una questione sempre più urgente perché gli insegnanti devono non solo essere leali rispetto al mandato dell’istituzione, ma devono risponderne direttamente ai soggetti in formazione. Un negoziato etico e latente Ricoeur: la questione etica si pone tutte le volte che un essere umano si confronta con altri umani, dunque a scuola è fondamentale, poiché la questione dei valori è ineludibile. Da una ricerca di Jutras e Boudreau emerge come il tema etico si richiami immediatamente, da un lato, a principi e regole codificate, dall’altro a situazioni estreme, come conflitti con colleghi, incontri extrascolastici, relazioni sessuali con gli allievi, valutazione, ricatti... mano a mano che l’analisi procede, emerge una vicenda più quotidiana e più sofferta: l’insegnante prende progressivamente coscienza che le sue convinzioni etiche sono tenute a confrontarsi con quelle di altri soggetti che fanno parte integrante del campo pedagogico in cui opera, articolato in tre zone: 1. relazione educativa con gli alunni desiderio dell’insegnante di influenzare i suoi alunni per la sua proprietà di rapporto asimmetrico, contrattazione continua, influenza reciproca e adattamento complementare: non si tratta di decisioni dell’insegnante alle quali l’alunno è tenuto a piegarsi, ma di un ‘contratto’ in cui ciascuna delle parti ha i suoi obblighi e i suoi doveri da compiere. Aspetti affettivi del lavoro educativo: sforzo costante tra il bisogno di instaurare una relazione profonda ed 20 autentica e quello di evitare una relazione amicale. Presi insieme, gli elementi che qualificano il rapporto educativo— l'influenza reciproca, il potere partecipato, la distanza affettiva — vengono a configurare una dinamica di adattamento costante e di ricerca di equilibrio tra le convinzioni dell’insegnante e le possibilità effettivamente consentite dalla vita di classe. Spesso gli insegnanti soffrono questa condizione in sentimenti di impotenza→l'insegnante cerca di trovare un accordo, una conciliazione tra i suoi valori, le sue rappresentazioni originarie del ruolo d’insegnante e quelle dei suoi diversi interlocutori: necessità di impegnarsi in un negoziato! 2. Contesto professionale, in riferimento ai colleghi ed all’amministrazione gli insegnanti riscontrano contraddizioni sempre più marcate tra le indicazioni del ministero e quello che vivono quotidianamente nella pratica: ciò porta alla percezione di un debole ed incerto controllo sul proprio lavoro. 3. Ruolo sociale, con le famiglie ed il pubblico scolastico in generale Il prestigio degli insegnanti scende sempre più, ma salgono le attese circa i loro compiti, che fanno pensare ad una sorta di istituzione di assistenza e salvaguardia dell’infanzia. L’insegnante vive in un clima di sfiducia perché non può realisticamente rispondere a tutti i bisogni emergenti. Insegnanti sull’argine →Inchiesta di Lagarrigue nelle scuole francesi per cogliere le rappresentazioni di maestri in quanto responsabili dell’insegnamento dell’educazione morale e civica nella scuola: si ritrova il paradosso precedente, in cui la figura è svalutata. Il valore guida è il rispetto per la persona umana, seguito da quelli dell'autonomia e dell’integrazione sociale. Per quanto riguarda la disciplina in classe ci sono tensioni contraddittorie: ci si rifà all’attivismo che mette al centro l’alunno, ma anche a pratiche che lo sottomettono. L’insegnamento azione morale Sapere scolastico (diverso da sapere accademico) = non è semplice comunicazione di un sapere disponibile, ma la sua rielaborazione di molti soggetti e nella loro relazione. Il principale responsabile è l’insegnante, ma non è l’unico attore. Insegnamento è impresa a carattere morale, anche se “latente” in cui le virtù che pur vengono promosse dagli insegnanti — il rispetto, la gentilezza, la lealtà, la sincerità, il coraggio... — si presentano come “ethos”, frutto prevalente di spontanee scelte personali, piuttosto che di consapevoli orientamenti professionali. Capitolo 3 – Una professione etica È impossibile guardare all’alunno solo come ‘scolaro’, gli insegnanti stanno prendendo coscienza della propria ‘soggettività’ e del diritto a realizzare un’esperienza di lavoro più integrale, per giocarsi un’opportunità di realizzazione personale. La professionalizzazione degli insegnanti può contare su una ricomprensione dell’insegnamento come azione morale. Spesso però l’ethos scolastico si attua nella relativa inconsapevolezza degli insegnanti→si necessita un’esplicitazione dei caratteri intrinseci ed originari di un’attività atipica, sollecitata dalla crisi attuale e dalla presa di coscienza della necessità di reintegrare la soggettività dell’insegnante. L’etica dell’insegnamento Ci sono tracce dell’insorgenza della questione morale lungo tutto il corso del Novecento. ‘Morale’ ed ‘etica’ possono essere considerati sinonimi, ma solo se accettiamo che di ‘morale’ (e di ‘etica’) si possa parlare in termini relativisti: ogni epoca ed ogni cultura hanno una loro irriducibile ‘etica’ o ‘morale’. Ma se si pensa che si possa 21 trovare un’intesa universalista diventa opportuno distinguerle: - etica: valenza teorica con la funzione di chiarire e di fondare il ragionamento ed il giudizio morale - morale: compito di prescrivere le norme e di regolamentare i diversi ambiti della vita umana, compresa quella professionale è con «etica» indicheremo la teoria che si occupa della «morale» riferita invece a regole, principi e valori che si traducono in pratiche di vita. Proprietà di un’etica dell’insegnamento Etiche che l’insegnamento deve assicurare: Insegnamento come azione: per integrare gli elementi costitutivi (studente, insegnante, sapere), per rendere conto della simultaneità complessa e dinamica del lavoro d’aula. Insegnamento come mediazione: quando si tratta di insegnamento, non è possibile giustificare una plausibile ‘teoria degli effetti’, ovvero di stabilire una concatenazione di interventi capaci di valere come determinazioni efficaci del passaggio da una situazione di partenza ad una di arrivo, né una conseguente “teoria delle cause”à a parità di strategie didattiche gli esiti si presentano significativamente diversi o viceversa a fronte di approcci didattici differenti, gli apprendimenti degli alunni non sono particolarmente difformi fra loro. La ‘mediazione’ consiste in quel processo di solidale interazione fra le tre componenti del ‘campo pedagogico’. Insegnamento come negoziato continuo e latente: alunno come co-protagonista Insegnamento come azione di scuola: insegnante non opera mai singolarmente. Etiche di insegnamento Quale può essere un’etica dell’insegnamento? non basta l'insegnamento perché si ottenga l'apprendimento! (Fenstermacher)à differenze evidenti fra i due processi: l’apprendere implica acquisire qualcosa, l’insegnare offrire. →adozione di due tipi di etiche tradizionali, ma che hanno dei limiti: 1. etica conseguenzialista: si è affermata in riferimento a modelli naturalistici o della causazione (corrispondenti in didattica alla «Pedagogia per Obiettivi») e consiste nel valutare ‘buon insegnante’ colui che ottiene risultati migliori in termini di profitto degli alunni. →critica di questo approccio: derive indotte dagli effetti perversi della valutazione, quali la riduzione dell’insegnamento agli aspetti ‘valutabili’ e visibili dell’apprendimento e quindi più superficiali, ma anche la selezione e la competizione. 2. Etica normativa: concentrata sulla figura dell’insegnante idealizzandola, facendo esplicito riferimento alle ‘finalità’, alle ‘intenzioni’ ed al ‘senso’ che dovrebbero orientare i comportamenti dell’insegnante. Di qui l’insegnante-impiegato o semiprofessionista di cui oggi si auspica un po’ da parte di tutti la emancipazione. Etica della “responsabilità” È quella che risponde al caso dell’insegnamento→responsabilità” intesa come principio morale del filosofo tedesco Hans Jonas (anche se già elaborata da Weber e Hegel). Secondo l’approccio tradizionale, l’etica educativa era stata pensata come un'etica dell’esemplarità, in cui l’insegnante è modello sia nella vita professionale che privata. Il termine «responsabilità» ha fin dall’inizio una connotazione di tipo giuridico, ha natura sia contrattuale che delittuale. La responsabilità non è mai entrata nell’indagine filosofica, ma quando compare nella riflessione etica, l’altro si configura in termini di fragilità (vs campo giuridico dove ci sono due parti uguali). 22 L’idea di Jonas consiste nel fare della responsabilità non una virtù come le altre, ma il fondamento stesso di una nuova concezione dell’etica. L’uomo è un essere morale non solo per il fatto di essere dotato di ragione, ma perché possiede la capacità di provare motivi profondi che lo spingono ad agire. responsabilità che specifica l’etica dell’educatore: il soggetto cui si rivolge nella relazione educativa è relativamente incompiuto; la sua condizione di indigenza, insieme alla sua possibilità di realizzarsi, sono per l'insegnante il motivo che giustifica la cura che egli deve all’alunno→gli adulti sono obbligati da questo ‘divenire’ ad offrire un sostegno morale, sotto forma di ascolto, conforto, consiglio, aiuto, solidarietà e presenza. Un’altra implicazione del principio di responsabilità nella prospettiva dell’insegnante è l’autorevolezza di Derbolav (1988) → un’autorità determinata oggettivamente. L’educatore, infatti, nell’esercizio del suo ufficio, non rappresenta se stesso, ma qualcosa di oggettivo, e cioè l’esigenza e il compito propri del mondo educativo e formativo. Obbligo morale dell’insegnante: essere ‘mediatore’ tra una posizione che è destinata a stemperarsi attraverso il processo educativo fino a concludersi nell’autonomizzazione del soggetto in apprendimento. Etica e diritto Prairat (2005) fa notare che la morale di Jonas prescinde dalla proclamazione dei diritti dell'infanzia, l’euristica della paura di Jonas (1993): paura non è debolezza, ma è il sentimento che induce attenzione e vigilanza, la volontà di non acquietarsi e di esprimere un impegno. Per l’insegnante ha doppia valenza: da un lato rifiuta le utopie del migliorismo e dall’altra assegna la priorità a chi è più debole. L’etica della responsabilità è etica della prudenza: trascende i limiti del conseguenzialismo perché fa proprio dell’ignoranza degli effetti ultimi la ragione stessa della scelta di sentirsi responsabili. Un atto è moralmente buono anche se si va contro la norma per salvare un bambino! Etica e libertà L’insegnamento non può essere riportato ad un processo di tipo causale (NO etica conseguenzialista) né ad un processo governato da regole a priori (NO etica deontologica). Sì all’etica della responsabilità: la sollecitudine per il soggetto vulnerabile è la morale che fonda l’azione di insegnare. Parlare di etica richiama inevitabilmente alla libertà e assicura che il soggetto sia “morale”, cioè libero. L’etica per la professionalizzazione Il “triangolo” della professione Ecco come funziona ‘logicamente’ il processo di professionalizzazione di un ‘mestiere’: una corporazione riesce ad emergere in quanto depositaria di un sapere. L'autonomia non è solo l’apprezzamento pubblico per il servizio reso alla comunità, ma anche una conseguenza implicita della competenza acclarata: chi altri, se non l’esperto, può eseguire correttamente l’intervento mirato al problema da affrontare? L'autonomia, d’altra parte, è anche il modo migliore per assicurarsi il controllo del fondamento sul quale si regge la sopravvivenza della professione. Il cliente, in condizioni di debolezza, è costretto a mettersi nelle mani del professionista. Quest’ultimo giura una dichiarazione di correttezza fondata su principi assoluti→l’asse tra sapere e autonomia genera il terzo polo dell’etica professionale. è l’etica rende il professionista responsabile verso il gruppo di appartenenza e impegna il professionista ad aggiornare e perfezionare il suo sapere, lo sviluppa e lo comunica. 23 Etica e professionalizzazione degli insegnanti per quanto concerne gli insegnanti, la professionalizzazione richiede sicuramente l’autonomia e l’acquisire direttamente la fiducia sociale per il proprio lavoro→È fondamentale riuscire a stringere un legame diretto e trovare modalità effettive per attivare e sviluppare un rapporto fiduciario che assicuri una base sociale al lavoro degli insegnanti. È necessaria una definizione di ‘chi-è’ l'insegnante costruita attraverso la produzione dei cosiddetti ‘standard professionali”. L’attesa di un codice deontologico La competenza professionale non può essere intesa solo in termini tecnico-funzionali. Per avere un insegnante di fiducia è necessario che sia visto come un agente morale, con obblighi morali derivanti da imperativi morali. →si sta affermando una diffusa domanda di un «codice deontologico» degli insegnanti, che avrebbe dei vantaggi: o anomia agli insegnanti si rivolgono attese fra le più disparate e contraddittorie e si trovano in una situazione di indeterminatezza. Un codice deontologico darebbe una certa unità professionale con principi e regole comuni per assicurare un ordine alle pratiche professionali e alimentare un sentimento di appartenenza ad un corpo sociale meno vagamente identificato o esplosione delle funzioni assegnate agli insegnanti identificare una pratica professionale comune, cioè cosa è lecito aspettarsi da un professionista, un controllo di pertinenza. La definizione di regole, ambiti e limiti della professione-insegnante la rende più leggibile dall'esterno e può evitare malintesi e subordinazioni e favorire intese, aggiustamenti e complementarità. Inoltre, la regolamentazione dello specifico ambito di competenza rende visibile in cosa consista un’attività e quali siano le proprietà che la rendono significativa e socialmente rilevante. o Conflittualità permanente si chiede di portare in tribunale l'accertamento del