L'etica Nicomachea - Libro I - PDF

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Aristotele

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Questo documento esplora il Libro I dell'Etica Nicomachea di Aristotele. L'autore analizza le diverse concezioni del bene e dei fini nell'ambito della filosofia morale. I concetti chiave includono le opere essoteriche, neo-aristotelismo, e la scrittura antica.

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L’etica nicomachea: Aristotele è tornato nel II dopoguerra in quanto le morali deduttivistiche funzionavano male in una società plurale. ↓ Un’etica aristosteluica funziona meglio e infatti è stata riadottata. - In inghilterra e negli USA si sono anche sviluppate delle correnti neo-aristotelic...

L’etica nicomachea: Aristotele è tornato nel II dopoguerra in quanto le morali deduttivistiche funzionavano male in una società plurale. ↓ Un’etica aristosteluica funziona meglio e infatti è stata riadottata. - In inghilterra e negli USA si sono anche sviluppate delle correnti neo-aristoteliche. La scrittura al tempo di Aristotele: Al tempo di Aristotele si scriveva su supporti diversi rispetto a quelli che utilizziamo oggi. ↓ I supporti erano materiali argillosi o papiri che venivano utilizzati e incisi per più scritture. - Solitamente Aristotele non scriveva direttamente ma scrivevano i discepoli del Liceo. Il corso di etica: Aristotele nel Liceo propone quindi il corso di etica per diversi anni. ↓ Succedeva che gli allievi prendevano appunti su papiri o materiali argillosi. - Da questi appunti nasceva una versione comune che poi tornava nelle mani di Aristotele il quale la rivedeva e la modificava. ↓ In un certo numero di anni nasce quindi la versione che noi conosciamo. L’opera esoterica: Questa è un’opera esoterica in quanto circolava all’interno della comunità; l’opera era composta dagli appunti di coloro che assistevano alle lezioni e discutevano con il maestro. ↓ All’interno dell’etica nicomachea sono presenti anche dei riferimenti che noi non capiamo direttamente. - L’etica nicomachea è un testo che è stato rielaborato dagli appunti dei discepoli con l’intervento diretto di Aristotele. ↓ Tuttavia esistono dei passaggi che sembrano non essere scritti da Aristotele = perplessità. Le opere essoteriche: Aristotele scrisse anche delle opere essoteriche (destinate ad un pubblico più ampio). ↓ Tuttavia queste opere non ci sono pervenute (si pensa che Aristotele avesse scritto delle opere nello stile dei dialoghi platonici). La grande etica: Dall’etica eudemia Aristotele è passato all’etica nicomachea per poi arrivare alla grande etica. ↓ Quest’ultima opera viene definita grande in quanto era stata scritta su ampi supporti. Etica eudemia e nicomachea: L'etica eudemia ha in comune con l’etica nicomachea i libri IV, V e VI. ↓ I libri IV, V e VI sono stati presi dall’etica eudemia per poi essere riportati nell’etica nicomachea in quanto ritenuti validi da Aristotele. Differenza tra etica eudemia e nicomachea: Luigi Domini ha identificato la differenza tra etica nicomachea ed eudemia nel diverso ruolo attribuito alla natura nella morale. - Etica eudemia: in quest’opera esistono tre elementi fondamentali: 1) Disposizione al naturale. 2) Educazione 3) Ragione ↓ Questi 3 elementi hanno pari importanza nella formazione di una vita etica (= vita virtuosa) - Etica nicomachea: qui scompare la disposizione naturale e l’unica forma che resta di questa disposizione è quella propensa a ricevere le virtù. ↓ In quest’etica non c’è un innatismo delle virtù ma solo una disposizione= c’è un orientamento. L’esclusione della natura: Aristotele riforma il ruolo della natura perché ha letto le “Leggi di Platone”. ↓ Platone, in questo testo, conferisce all'educazione un ruolo fondamentale in quanto gli esseri umani sono guidati da due opposti principi, piacere e dolore. 1) I fanciulli devono essere educati in quanto non sanno ciò che è veramente piacevole e ciò che è riprovevole. 2) I fanciulli non hanno ancora imparato a subordinare il piacere al bene (ovvero a subordinare la ricerca del bene rispetto a quella del piacere). Aristotele è passato per la centrifuga delle “Leggi di Platone” e si rende conto che è necessario accentuare il ruolo dell'educazione, dando meno spazio alla natura. Libro primo - capitolo primo: Aristotele afferma che ogni arte (techne), ogni indagine (métodos), ogni azione (praxis) e ogni scelta (proairesis) a quanto si crede persegue un bene = finalismo aristotelico, ogni cosa ha un telos. ↓ Successivamente Aristotele afferma che c’è differenza tra i fini e distingue: - Fini che sono attività in sé (enargeia): queste azioni trovano il loro compimento nell’atto stesso (es: contemplazione). - Fini che sono opere al di là delle attività (ergon): queste azioni mirano a produrre un risultato esterno (es: costruzione di una casa). Quindi per Aristotele il bene è attività. La gerarchia dei fini: Per Aristotele ci sono dei fini preferibili ossia i fini delle arti architettoniche (che sovraintendono le altre arti). ↓ Esempio: l’ippica determina come deve essere una sella ma l’ippica è a sua volta sottoposta all’arte militare (arte architettonica in questo caso). - Tuttavia è necessario trovare la technai superiore verso la quale tutte le technai subordinate tendono: la politica = arte architettonica assoluta. Il bene supremo: Aristotele afferma che se esiste un fine ultimo delle nostre azioni, desiderato per se stesso e non in funzione di altro, "quello viene a essere il bene e la cosa migliore". ↓ Aristotele deve introdurre questo fine ultimo che si persegue per sé stesso perché sennò, senza un tale fine ultimo, si andrebbe all’infinito. - Inoltre la conoscenza di questo bene supremo sarà necessaria per orientare le nostre azioni e bisognerà conoscerlo nelle sue linee principali. La politica come scienza architettonica: Aristotele identifica la politica come la scienza più autorevole e architettonica. ↓ La politica determina "di quali scienze c’è bisogno nelle città, e quali deve apprendere ogni classe di cittadini, e fino a che punto". - Il fine della politica, quindi, "comprenderà in sé quello delle altre scienze", configurandosi come il bene umano supremo. Il bene collettivo e il bene individuale: Aristotele afferma che il bene della città contiene anche il bene del singolo, quindi sarà sempre meglio perseguire quello della città. La mutevolezza: Aristotele sottolinea che non si deve ricercare la precisione né nella politica né nell’etica in quanto hanno come oggetto di studio cose mutevoli. ↓ Quindi la verità sarà solo a grandi linee e per lo più. L’atteggiamento della persona colta: Aristotele, in riferimento alla mutevolezza delle scienze, afferma che “è tipico della persona colta ricercare in ciascun genere di cose la precisione solo per quanto lo permette la natura della cosa". ↓ Con questo Aristotele vuole dire che la persona colta deve adattare le proprie aspettativa in base alla disciplina che sta studiando. Il giovane e la politica: Secondo Aristotele il giovane non è adatto ad ascoltare l’insegnamento della politica perché: - È inesperto della vita: al giovane manca esperienza. - È guidato dalle passioni. Questo discorso vale anche per gli immaturi. L’agire secondo ragione: Concludendo, Aristotele afferma che per coloro che vivono dominati dalla passione la conoscenza etica è inutile. ↓ Invece, per chi agisce secondo ragione ed è ben educato, la conoscenza etica sarà utilissima. Capitolo secondo: Aristotele afferma che ciò che è stato detto finora deve fungere da proemio riguardo a ciò che verrà trattato. ↓ Da qui in poi l’autore si focalizza sulla domanda fondamentale: qual è il bene supremo che la politica persegue? - Questo verrà ad essere il bene pratico più alto. La felicità: Aristotele conviene che, per quanto riguarda il nome del bene supremo, vi è un consenso quasi unanime: tutti lo chiamano felicità. ↓ Sia la massa sia le persone colte considerano la felicità sinonimo di "vivere bene" e "avere successo". - Ma su che cosa sia la felicità, vi è disaccordo, bisogna quindi fare un’analisi più approfondita. ↓ Aristotele si rende conto che esaminare tutte le opinioni è inutile quindi si limita a delineare gli endoxa (opinioni più diffuse). Riferimento a Platone: Aristotele afferma che Platone ha fatto bene a chiedersi se sia necessario ragionare deduttivamente o induttivamente. ↓ La questione quindi riguarda la direzione della conoscenza: se si debba partire dal noto per noi o dal noto in assoluto. Noto per noi - noto in assoluto: Aristotele distingue tra ciò che è noto per noi e ciò che è noto in assoluto: - Noto per noi: ciò che è immediatamente evidente alla nostra esperienza. - Noto in assoluto: verità universali. Per Aristotele l'indagine etica deve partire da ciò che è noto per noi (fenomenologia) per poi giungere alla comprensione dei princìpi etici. ↓ Le cose che sono note per noi nell’etica sono le azioni buone. L’educazione morale: Secondo Aristotele, per recepire adeguatamente gli insegnamenti etici, bisogna già essere educati ed avere buone abitudini. ↓ L’educazione morale è quindi fondamentale perché fornisce: - Il che (principio): il punto di partenza è la conoscenza di ciò che è (il che) ossia delle azioni buone. - Il perché: una volta compreso il che si può indagare il perché. ↓ Tuttavia, se possiedo il che in modo chiaro, non dovrò chiedermi il perché. Da Esiodo: Aristotele, per rafforzare la tesi che l’educazione morale è indispensabile, cita Esiodo il quale afferma che: - Il migliore è colui che sa tutto da solo: rappresenta l'individuo saggio che comprende autonomamente i princìpi etici. - Buono è anche colui che ascolta chi parla bene: indica chi, pur non avendo una comprensione autonoma, è disposto ad apprendere dai saggi. - Chi nulla conosce, né ascoltando gli altri fa tesoro nel cuore, è uomo da nulla: sottolinea l'inutilità della conoscenza per chi non non si impegna nella formazione morale. Capitolo terzo: I diversi stili di vita dipendono dalle concezioni che gli individui hanno del bene. ↓ Per analizzare gli stili di vita basta che esistano e non è necessario chiedersi il perché. Tis aristos bios: Aristotele adesso distingue diversi stili di vita: 1. La vita di piacere: questa vita è associata alla ricerca di piaceri immediati. ↓ Aristotele critica questo stile di vita e la definisce “animalesca” in quanto è guidata da impulsi istintuali ed è priva di razionalità. - Tuttavia Aristotele trova un argomento in difesa di questa vita citando Sardanapalo, figura leggendaria associata al lusso e alla dissolutezza. 2. La vita politica: questa vita è propria delle persone raffinate che identificano la felicità con l’onore (timè). ↓ L’onore è la ricerca della stima degli altri e quindi, non essendo perseguibile per sé stesso, non è il bene ultimo. - Successivamente, Aristotele prende in considerazione la virtù come fine della vita politica ma la sola presenza della virtù non garantisce la felicità. ↓ Successivamente Aristotele dirà: Per far sì che l’uomo arrivi all’eudaimonia egli dovrà esercitare la virtù (e non solo possederla) in quanto la felicità è un’attività continua. ↓ Quindi la felicità è attività dell’anima secondo virtù. 3. La vita teoretica: verrà analizzata più avanti. ↓ Tuttavia, anticipando, la vita teoretica è dedicata alla contemplazione, stile di vita più elevato, in quanto coinvolge la parte più nobile dell'anima: l'intelletto (nous). 4. La vita dedita al guadagno: la ricerca della ricchezza non è il bene supremo in quanto essa è un mezzo e non un fine. Quindi, secondo Aristotele, nessuno di questi beni può essere considerato il bene supremo. ↓ Aristotele sta preparando il terreno per introdurre la sua concezione della felicità come attività secondo virtù. Capitolo quarto - difficile e lungo: In questo capitolo tecnico si confutano le tesi platoniche (ossia la tesi del bene in sé). ↓ Aristotele afferma che trattare questo argomento sia disagevole in quanto coinvolge le dottrine sostenute da amici ma la ricerca della verità deve avere precedenza su ogni legame personale. Forma e serie (tesi 1): Aristotele afferma che i platonici non hanno individuato idee nei casi del prima e del poi e dei numeri. ↓ Da qui si genera il problema che le serie (di numeri o temporali) non hanno forma (idea). ↓ Per Platone ogni cosa ha una forma perfetta (ossia ha un modello ideale). - Tuttavia ciò non avviene per le serie perché: ↓ Le serie sono basate su relazioni: una serie di numeri cambia in base a come si dispongono gli elementi. - Quindi è impossibile trovare un’idea universale che rappresenti tutte le serie. Esempio: Pensiamo a una scala: ogni gradino è "prima" o "dopo" un altro, ma non c'è un "gradino universale" che rappresenta tutti i gradini di ogni scala. ↓ Allo stesso modo, non esiste una "Serie in sé" che rappresenti tutte le sequenze possibili. Il bene si dice negli stessi modi dell’essere (tesi 2): Aristotele evidenzia che il bene è polisemico, ovvero si può dire in diversi modi in base al contesto. ↓ Questa polivocità è analoga a quella dell’essere che si può dire in molti modi. - Quindi la polivocità del bene impedisce che esista un'unica idea di Bene. L’impossibilità di una scienza unica del bene (tesi 3): Secondo i platonici delle cose di cui vi è una sola idea vi è una sola scienza. ↓ Tuttavia, nella realtà esistono diverse scienze che si occupano di beni specifici. - Esempio: il momento opportuno è studiato sia dalla strategia militare sia dalla medicina. L’in sé (tesi 4): Secondo Aristotele il bene in sé non differisce dagli altri beni. ↓ Se l'uomo in sé e l'uomo concreto condividono la stessa definizione, allora non vi è differenza tra l'Idea e l'ente particolare. - Inoltre l’eternità non rende il bene in sé superiore ai beni temporanei (così come qualcosa che è bianco per lungo tempo non è più bianco di qualcosa che lo è per un giorno). Riferimento ai Pitagorici: Aristotele che i Pitagorici identificano l'Uno con il Bene, e che Speusippo concorda con questa idea. ↓ Tuttavia, Aristotele decide di non approfondire ulteriormente questo argomento. Forma del Bene e dei beni in sé: Aristotele riconosce che potrebbe essere posta un’obiezione: i platonici potrebbero sostenere che l'Idea del Bene si applica solo ai beni di per sé. ↓ Aristotele quindi esamina i beni di per sé per vedere se si dicono secondo una sola idea ma ciò non accade. ↓ Da qui Aristotele si chiede se la forma del bene e del bene in sé sia: - Distinta: se è distinta la Forma (idea) del Bene dai beni in sé allora è vuota perché non si riesce a spiegare come i beni in sé (particolari) derivino dalla Forma del Bene. - Coincidente: se la Forma del Bene coincide con i beni in sé, allora tutti i beni particolari dovrebbero condividere la stessa definizione ma ciò non accade. Quindi il bene non è qualcosa che si dice secondo una sola idea. Omonimo e sinonimo: Ora Aristotele distingue tra: - Omonimi: termini che condividono lo stesso nome ma non la stessa definizione, sono equivoci. - Sinonimi: termini che condividono sia il nome sia la definizione. Modalità dell’omonimia: Per Aristotele l’omonimia si dà: 1. Per caso: Orsa può riferirsi sia all'animale sia alla costellazione dell'Orsa. ↓ Quindi se i "beni" e la "forma dei beni" sono omonimi per caso, potremmo chiamare beni cose che in realtà non lo sono. 2. Per dipendenza dal significato: qui si tratta di cose differenti che sono accomunate da un nome. ↓ Un esempio è l’amicizia, termine che può riferirsi a vari tipi di relazioni diverse tra loro. 3. Per analogia: l’analogia implica una somiglianza ma non un’identità. ↓ Quindi se i beni sono analoghi al bene, allora non sono il bene assoluto. Aristotele afferma che è meglio lasciare da parte tali problemi in quanto essi sono esaminati dalla metafisica. ↓ Anche se esistesse un Bene unico, esso non sarebbe un bene pratico che l'uomo può realizzare nella vita quotidiana. L’irrilevanza pratica dell’idea del Bene: Aristotele riconosce che un platonico potrebbe sostenere che la conoscenza del Bene universale potrebbe aiutare nella comprensione dei beni particolari. ↓ Tuttavia, egli osserva che le scienze pratiche e le arti non sembrano avvalersi di tale conoscenza. - Gli esperti in vari campi perseguono i loro fini specifici senza fare riferimento a un Bene universale. Esempio del medico: Secondo Aristotele un medico si occupa della salute del paziente specifico, non della salute in assoluto. Capitolo quinto: Aristotele prosegue l’indagine sul bene supremo. ↓ Aristotele inizia osservando che il bene è diverso in ogni azione e arte: in medicina è la salute, nell'arte militare la vittoria, in edilizia la casa. - Questo mette in evidenza che ogni disciplina ha un telos specifico. Il bene pratico: Ora Aristotele si interroga se esista un fine ultimo di tutte le azioni. ↓ Se questo fine dovesse esistere esso sarebbe il bene pratico per eccellenza (perché le azioni sono pratiche). Distinzione tra i fini: Aristotele sa che i fini sono tanti e quindi distingue tra: - Fini scelti per altro. - Fini in quanto tali. Aristotele afferma che il bene più perfetto è quello scelto per sé. ↓ Questo porta alla conclusione che la felicità è un fine scelto in quanto tale. Felicità come bene supremo: La felicità viene identificata come bene supremo in quanto è: - Scelta per sé stessa ↓ - Autosufficiente: la felicità, anche presa da sola, rende la vita completa. ↓ Se la felicità è autosufficiente e perfetta allora questa non sarà nel novero dei beni ed essa non può tollerare l'aggiunta di altri beni perché è massimamente perfetta. Capitolo sesto: Si è arrivati a dire che il sommo bene è la felicità (e tutti i greci erano d’accordo su questa cosa, era una banalità) ma non è ancora chiaro in cosa consista questa felicità. ↓ Ora Aristotele si pone la domanda sull’ergon: esiste un ergon (opera) tipicamente umano? L’ergon: Per Aristotele l’uomo deve avere per natura un ergon perché sennò sarebbe inattivo. ↓ Ora Aristotele ricerca l’ergon: 1. Vita vegetativa: tutti gli uomini hanno in comune la vita (però la vita l'hanno anche le piante e gli animali) = questo ergon non può essere dell’uomo. 2. Vita sensitiva: anche gli animali hanno questo ergon quindi non può essere proprio dell’uomo. 3. Vita razionale: questo è l’ergon umano poiché pensare è l’attività umana per eccellenza. ↓ Di questa una parte è razionale perché obbedisce alla ragione, l’altra, invece, perché la possiede. La distinzione della ragione: Aristotele pone una distinzione in quanto nell’anima razionale esiste: - Una parte che possiede il logos. - Una parte che partecipa al logos. Questa distinzione è la base per la suddivisione tra virtù etiche (parte che partecipa al logos) e dianoetiche (parte che ha il logos). Virtù come eccellenza nell’azione: Aristotele introduce una distinzione: - L'operare di una cosa - L'operare eccellente di quella stessa cosa Usando l'esempio del citarista, egli afferma che è proprio del citarista suonare la cetra, ma è proprio del citarista virtuoso suonarla eccellentemente. ↓ La virtù (areté) è dunque intesa come l'eccellenza nell'adempimento della propria funzione. - Pertanto, il bene umano risulta essere l'attività dell'anima secondo virtù. La completezza della vita: Aristotele sottolinea che questa attività dell’anima secondo virtù deve essere esercitata in una vita completa. Capitolo settimo: Aristotele dice che è chiaro che Platone e Socrate direbbero che c’è altro da dire riguardo il sommo bene ma Aristotele, per gli scopi che si propone, questa definizione basta. Adattare la precisione all’oggetto di studio: Aristotele ripete che non bisogna cercare la stessa precisione in tutte le indagini ma solo in quelle in cui la natura dell’oggetto lo consente. ↓ Qui Aristotele propone un esempio: - Il costruttore: egli studia l’angolo retto nella misura in cui gli è utile per la costruzione della casa. - Il matematico: egli studia l’angolo retto in sé e quali siano le sue proprietà. per lo studio dell’etica bisognerà agire con lo stesso metodo del costruttore: conoscere i principi a grandi linee. I principi: Aristotele afferma che si possono conoscere i principi in tre modi: 1. Induzione: dal particolare all’universale. 2. Sensazione: esperienza sensoriale diretta. 3. Un certo processo di abitudine: con la ripetizione si arrivano a conoscere certi principi. Qui Aristotele sta dicendo che la virtù si impara come si impara a scrivere e non si dimentica mai. ↓ Il problema sorge quando non si ha imparato la virtù e questo libro sull’etica, per chi non è già virtuoso, sarà inutile. Capitolo ottavo: Qui Aristotele tratta della ripartizione dei beni. ↓ Aristotele afferma inoltre che è necessario verificare le conclusioni a cui siamo arrivati sottoponendole agli endoxa e non solo al ragionamento. La suddivisione dei beni: Aristotele introduce qui una classificazione dei beni in tre categorie: - Beni esterni: sono necessari ma non troppo importanti perché non influiscono sulla moralità dell’individuo. - Beni del corpo: importanti ma subordinati ai beni dell’anima. - Beni dell'anima: questi sono i beni che rendono la vita veramente felice. Questa tripartizione è sostenuta da tanti e chi la sostiene crede che i beni dell’anima siano i migliori quindi, visto che abbiamo definito la felicità come attività dell’anima, la teoria aristotelica è confermata. Capitolo nono: Aristotele inizia il nono capitolo dicendo che la sua indagine riguardo la felicità soddisfa tutte le caratteristiche desiderabili di una teoria della felicità. ↓ Aristotele, basandosi sugli endoxa, riconosce che esistono diverse prospettive sulla natura della felicità. - Aristotele afferma che la sua concezione è coerente con l'idea che la felicità sia virtù, saggezza e vita teoretica, tutte accompagnate dal piacere. ↓ Tuttavia, precisa che la felicità non consiste semplicemente nel possesso della virtù come stato abituale (hexis), ma nell'attività secondo virtù. Stato abituale e l’esercizio della virtù: Aristotele afferma che chi dorme possiede una capacità ma non la esercita quindi anche se possiede la virtù egli non sarà virtuoso in quel momento perché non sta esercitando la virtù. ↓ Se invece esercita tale virtù egli sarà virtuoso. - Con la metafora dei giochi olimpici, Aristotele spiega che non basta possedere delle qualità ma è necessario impiegarle attivamente per il successo. ↓ Allo stesso modo, nella vita etica, coloro che esercitano la virtù possono considerarsi pienamente morali. Virtù e piacere: Aristotele afferma che la virtù è intrinsecamente piacevole in quanto quest’ultimo non è un'aggiunta esterna, ma è proprio dell'azione virtuosa. ↓ Per Aristotele l’uomo che agisce secondo virtù prova piacere perché sennò non agirebbe secondo virtù. La massa: Per la massa le cose piacevoli sono in conflitto (a qualcuno piace la pesca, ad altri no) ma queste cose non sono piacevoli in sé. Gli attributi delle azioni virtuose: Le azioni virtuose sono quindi: - Piacevoli in sé (accompagnate dal piacere). - Buone - Belle Aristotele conclude che la felicità unisce in sé il bene, il bello e il piacevole in modo indissolubile. L’iscrizione di Delo: Aristotele non è d’accordo con quanto dice l’iscrizione di Delo perché c’è una scissione della felicità. I beni esterni: Per Aristotele, la felicità ha bisogno dei beni esterni in quanto è impossibile compiere azioni belle se siamo privi di beni esterni. ↓ Lo Stagirita afferma che i beni esterni sono condizioni necessarie (ma non sufficienti) per la felicità: bisogna averli (necessari) ma essi soli non sono sufficienti per essere felici. Capitolo decimo: Dopo aver definito la felicità come un'attività dell'anima secondo virtù, Aristotele si occupa dell’acquisibilità della felicità. ↓ A questo punto Aristotele si chiede se la felicità si può acquisire: - O per insegnamento - O per abitudine - O per esercizio - O per dono divino - O per caso Per dono divino: Aristotele inizia con la possibilità che la felicità possa essere un dono divino. ↓ Tuttavia, Aristotele sembra preferire l'idea che la felicità sia raggiungibile attraverso le virtù umane e l'attività pratica. - Rimane però il fatto che per Aristotele la felicità è ciò che più si avvicina al divino. Per insegnamento o per esercizio: Se la felicità può essere raggiunta attraverso l'insegnamento o l'esercizio, essa diventa accessibile a molti. Per caso: Dire che la felicità si acquisisce per caso è oltraggioso. Animali e bambini: Aristotele afferma che non possiamo attribuire la felicità a un animale, poiché non sono in grado di agire secondo virtù. ↓ Allo stesso modo, un bambino non può essere considerato veramente felice, poiché, a causa della sua giovane età, non è ancora capace di compiere azioni morali in senso pieno. L’importanza di una vita completa e dei beni esterni: Potrebbe accadere che, nel corso di una vita, una persona, pur essendo virtuosa, possa subire grandi sventure (Priamo). ↓ Nessuno considererebbe felice una persona del genere. - Questo porta Aristotele a concludere che la felicità richiede non solo un’attività secondo virtù ma anche una vita completa e i beni esterni. Capitolo undicesimo: Aristotele inizia il capitolo con un riferimento a Solone, legislatore che avrebbe detto che nessuno può essere considerato felice fino alla fine della sua vita. ↓ Solone sta dicendo che quando qualcuno è morto non gli possono capitare sventure e quindi è possibile valutare la sua vita e, se lecito, definirlo felice. Critica a Solone: Aristotele controbatte dicendo che se la felicità è un’attività allora è impossibile che un morto sia felice. ↓ Aristotele afferma che la tesi di Solone (ovvero che i morti sono esenti dalle sventure) è sbagliata in quanto i morti vengono colpiti dalle vicende dei discendenti. Il problema delle sventure postume: Se i morti possono essere influenzati dai successi o fallimenti dei loro discendenti allora abbiamo un problema perché la felicità di una persona potrebbe variare anche dopo la morte, il che sembra paradossale. ↓ Aristotele riconosce questa credenza e sa che le vicende dei discendenti possono avere un influsso sui defunti, ma non al punto da alterare la loro felicità. La stabilità della virtù: Aristotele sta dicendo che le attività secondo virtù sono più stabili della scienza. ↓ Probabilmente Aristotele sta dicendo che l'habitus è più saldo della scienza. - Se si è una persona che sempre agisce secondo virtù, nel tempo questo habitus si rinforzerà e non si potrà dimenticare. ↓ Questo discorso non vale per le scienze in quanto è possibile che si dimentichino dei teoremi di matematica. Quindi la felicità non è possibile da perdere perché una volta che si è acquisito l’habitus della felicità ci si comporterà in maniera diversa davanti alle sventure della vita. L’uomo felice non diventerà mai misero: L’uomo felice non può mai diventare misero, al massimo può diventare triste e perdere la beatitudine. ↓ Anche se colpito da sventure, egli continuerà a compiere azioni belle, adattandosi alle circostanze. Conclusione: Quindi per Aristotele, per valutare se una persona ha avuto una vita felice, bisogna analizzare la sua vita completa, contando sia azioni virtuose sia circostanze esterne. ↓ Tuttavia si può anche essere felici in vita (non bisogna aspettare la morte). Capitolo dodicesimo: Aristotele vuole capire se se la felicità debba essere considerata una cosa degna di lode o di onore. ↓ Aristotele si fa questa domanda perché si vuole escludere che la felicità sia un bene potenziale (in quanto la felicità è un bene in atto). Lodare e onorare: Qui Aristotele pone la distinzione tra lodare e onorare: - L’atto di lodare: esso è in relazione alla virtù perché viene lodata l’eccellenza (lodo qualcuno perchè sa fare bene una cosa). - L’atto di onorare: esso non è legato alla virtù (non è relazionale) ma corrisponde alla felicità (motivo per cui gli dei vengono onorarti in quanto considerati beati). Aristotele vuole che si escluda la possibilità che si lodi la felicità perché sennò essa necessiterebbe di qualcosa (la lode) ma ciò non è possibile in quanto la felicità è un bene supremo che non necessita di lode perché è un fine a sé stesso. Capitolo tredicesimo: Secondo Aristotele dobbiamo solo interrogarci sulla felicità umana che è la virtù (umana) dell’anima. ↓ Quindi l’anima va conosciuta ma nei limiti degli interessi del politico (e non secondo l’interesse del filosofo) = l’anima dovrà essere conosciuta per lo più. - Aristotele ribadisce che una volta che il politico sa che l’anima è sia razionale sia irrazionale, egli non ha più bisogno di altre conoscenze riguardo l’anima. La divisione dell’anima: Aristotele divide l’anima in: - Parte irrazionale: composta da: 1. Parte vegetativa: responsabile della nutrizione e della crescita (questa è totalmente irrazionale). ↓ Durante il sonno questa parte dell’anima è attiva ma non esercita vizi o virtù, quindi non si può distinguere il giusto dall’ingiusto. 2. Parte desiderante: passioni e desideri che possono opporsi alla ragione. ↓ Questa parte può partecipare alla ragione in quanto può obbedire a quest’ultima. - Parte razionale: sede della ragione. L’akrasia: Dalla parte desiderante Aristotele insiste sul concetto di akrasia (incapacità di contenersi). ↓ Noi notiamo il comportamento akratico perché una parte di noi non vorrebbe comportarsi in quel modo. C’è quindi una parte irrazionale che a volte partecipa alla ragiona ma altre volte no. - Questo si dà dal fatto che l’uomo sa la scelta giusta ma ne decide un’altra. Es: so che mangiare i dolci fa male ma il desiderio me li fa mangiare lo stesso. Virtù etiche e dianoetiche: A partire dalla distinzione delle parti dell'anima, Aristotele distingue anche le virtù: - Virtù intellettuali (dianoetiche): legate alla parte razionale dell'anima. ↓ Si sviluppano attraverso l'insegnamento e lo studio. - Virtù morali (etiche): legate alla parte desiderante dell'anima che partecipa alla ragione. ↓ Si acquisiscono tramite abitudine e pratica, la parte desiderante può quindi essere educata alla moralità grazie alla ragione.

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