Riassunto del libro CapoVerdiane d'Italia PDF
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Clara Silva
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This document is a summary of the book "Capoverdiane d'Italia", discussing the history of Cape Verde and the emigration of its people, particularly women, to Italy in the 20th century. It details the colonial past, the social and economic conditions that led to emigration, and the role of immigrants in Italian society.
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Teorie dei processi comunicativi e formativi Riassunto Capoverdiane d’Italia Capo Verde: dieci sassolini in mezzo all’Atlantico L’arcipelago di Capo Verde, situato nell’Oceano Atlantico a circa 500 km dalla costa del Senegal, è composto da dieci isole (nove abitate) e circa venti isolotti disabitat...
Teorie dei processi comunicativi e formativi Riassunto Capoverdiane d’Italia Capo Verde: dieci sassolini in mezzo all’Atlantico L’arcipelago di Capo Verde, situato nell’Oceano Atlantico a circa 500 km dalla costa del Senegal, è composto da dieci isole (nove abitate) e circa venti isolotti disabitati, tutte di origine vulcanica. Le isole si dividono in due gruppi: ➠ il Barlavento (Sopravvento), a nord, con sei isole (Santo Antão, São Vicente, Santa Luzia, São Nicolau, Boa Vista e Sal), ➠ il Sotavento (Sottovento), a sud, con quattro isole (Maio, Santiago, Fogo e Brava). Questa suddivisione è determinata dall’esposizione ai venti alisei, che soffiano da nord-est e influenzano il clima e l’orografia. Le isole orientali, come Sal, Boa Vista e Maio, sono piatte e aride, mentre quelle occidentali, come Santo Antão, São Nicolau, Fogo e Santiago, sono più verdi e montagnose. Il Pico do Fogo, un vulcano attivo che ha eruttato l’ultima volta nel 2015, è il rilievo più alto, con 2.829 metri. Il clima è caratterizzato da due stagioni: una fresca e secca, da dicembre ad aprile, e una più calda e umida, da maggio a novembre, con piogge concentrate tra agosto e ottobre. Tuttavia, l’irregolarità climatica ha storicamente causato siccità devastanti e precipitazioni intense, con gravi conseguenze per le coltivazioni e la popolazione. Capo Verde ha una storia di oltre cinque secoli di colonialismo portoghese, conclusosi nel 1975 con l’indipendenza, ottenuta grazie alla lotta del PAIGC (Partido Africano para a Independência da Guiné e Cabo Verde), guidato da Amílcar Cabral, figura centrale del movimento. Dopo l’indipendenza, il paese è stato governato da un regime a partito unico di ispirazione marxista-leninista fino al 1991, quando si sono tenute le prime elezioni multipartitiche. Questo cambiamento ha segnato una nuova fase, con il paese che ha adottato una bandiera dai colori rosso, bianco e blu, con un cerchio di dieci stelle gialle a rappresentare le isole, ispirata alle bandiere di USA e UE. Da circa 150 anni, Capo Verde è caratterizzato da una massiccia emigrazione, che ha portato la diaspora capoverdiana a superare in numero la popolazione residente, attualmente stimata in circa 560.000 abitanti. Tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60 si è sviluppata una significativa emigrazione femminile verso l’Italia, dando vita a una comunità laboriosa e ben integrata, con matrimoni misti, acquisizioni di cittadinanza e successive generazioni che partecipano attivamente alla società italiana. Parte Prima, Capitolo 1 (Clara Silva) 1.1 Colonizzazione dell’arcipelago e genesi della società capoverdiana. Le isole di Capo Verde, disabitate al momento dell'arrivo degli europei nel Quattrocento, furono oggetto di esplorazioni e rivendicazioni da parte di navigatori italiani e portoghesi. La loro scoperta è attribuita principalmente ad Antonio da Noli, Diogo Gomes e Alvise da Mosto, anche se il dibattito sulla paternità delle scoperte rimane aperto. Antonio da Noli ricevette nel 1462 il capitanato di Santiago, isola maggiore dell’arcipelago, avviando il primo insediamento stabile. Le condizioni climatiche difficili e il lavoro agricolo spingevano i coloni europei a utilizzare la manodopera di schiavi africani, appartenenti a numerosi e diversi gruppi etnici, portati dalla tratta. Il commercio degli schiavi divenne rapidamente l’attività economica principale, grazie al sostegno della Chiesa e dalla Corona portoghese, che nel 1466 concesse il monopolio del traffico agli insediamenti di Capo Verde. Le isole, situate strategicamente nell'Oceano Atlantico, divennero un punto di riferimento per i viaggi transoceanici e il commercio triangolare tra Europa, Africa e Americhe. Qui le navi facevano rifornimenti di acqua, cibo e merci come cotone e pelli, mentre gli schiavi venivano sottoposti a un primo processo di acculturazione prima di essere trasferiti altrove. Con il tempo, il popolamento di Capo Verde si intensificò, portando a un progressivo meticciamento tra coloni europei e schiavi africani, favorito dalla quasi totale assenza di donne europee. Questo fenomeno portò alla nascita di un popolo e una cultura unici, frutto dell’incontro tra etnie e lingue diverse. I meticci, insieme agli schiavi e ai pochi coloni bianchi, formarono una società caratterizzata da nuove dinamiche sociali ed economiche. Il cotone capoverdiano, apprezzato per i motivi decorativi e la qualità, divenne una merce di scambio preziosa per l’acquisto di schiavi, sostituendo in parte l’uso della moneta metallica. Le isole servirono da base per i grandi navigatori, come Vasco da Gama e Cristoforo Colombo, e come luogo di produzione agricola, con coltivazioni di canna da zucchero, mais e cotone, che impiegavano in gran parte manodopera schiavile. Nonostante le difficoltà climatiche, come siccità e invasioni di cavallette, e la scarsità di supporto da parte della corona portoghese, gli insediamenti prosperarono grazie al commercio e al lavoro degli schiavi. Questo sistema, seppur crudele, contribuì a rendere Capo Verde un crocevia di merci, culture e persone. 1.2 Ruolo del meticciato nella formazione della società creola. Capo Verde è stata fortemente influenzata da fattori economici e sociali negativi che hanno condizionato lo sviluppo della sua società. Dopo un iniziale periodo di privilegi fiscali concessi dalla corona portoghese per incentivare la colonizzazione, furono introdotte severe restrizioni sul commercio, specialmente sugli schiavi, costringendo molte attività al contrabbando. A ciò si aggiunsero le difficoltà nello sviluppo agricolo, dovute alla scarsità di piogge e alle invasioni di cavallette, e i frequenti attacchi di pirati europei, come Francis Drake e Jacques Cassard, che devastarono l’arcipelago. Ribeira Grande, grazie alla sua posizione geografica e al monopolio portoghese sul commercio di schiavi, divenne un importante emporio della schiavitù, dove gli schiavi venivano immagazzinati, battezzati e redistribuiti. Questa ricchezza attirò però i pirati, che saccheggiarono ripetutamente la città. Le frequenti fughe e rivolte degli schiavi contribuirono alla nascita di comunità indipendenti sulle montagne, dove venivano costruite abitazioni circolari in pietra, tipiche dell’Africa. Questi eventi, insieme alla progressiva liberazione dei figli meticci da parte dei padroni, modificarono profondamente la struttura sociale, portando a un aumento della popolazione di neri liberi e meticci. Nel XVIII secolo la popolazione era composta per lo 0,8% da bianchi, per il 19,1% da meticci, per il 51,1% da neri liberi e per il 17,2% da schiavi. I meticci, discendenti di coloni bianchi e donne africane, assunsero un ruolo decisivo nella trasformazione sociale, ricoprendo progressivamente posizioni di responsabilità. Tuttavia, la loro crescita fu ostacolata dalle autorità portoghesi, che temevano gli effetti della mescolanza razziale, come dimostrano i tentativi di esilio di donne bianche a Capo Verde per ridurre la nascita di mulatti. Capo Verde fu anche una terra di esilio per oppositori politici, ebrei, cristão-novos e criminali dal Portogallo e da Madeira. Questa eterogeneità contribuì alla formazione di una società variegata ma segnata da conflitti. Nonostante l’introduzione di forti influenze cattoliche, che portarono alla progressiva assimilazione dei discendenti dei cristão-novos, la società capoverdiana si distinse per la sua creolizzazione, un processo di mescolanza non solo biologica ma anche culturale, che creò una nuova identità composita. Questo processo fu alimentato dalle migrazioni interne, con neri liberi e meticci che colonizzarono le isole settentrionali, meno popolate, grazie a nuove opportunità commerciali offerte da porti come Mindelo. La società capoverdiana del XVIII e XIX secolo era stratificata in: ➠ una classe dominante, composta dai discendenti dei coloni e dai cosiddetti “brancos da terra”, ➠ una classe intermedia di neri liberi, meticci e piccoli proprietari, ➠ il gruppo degli schiavi, che si ridusse progressivamente fino a scomparire alla fine del XIX secolo. L’arcipelago divenne un crocevia di uomini e culture: schiavi, esiliati, marinai, ufficiali e commercianti che contribuirono alla formazione di una società creola unica nel suo genere, frutto di secoli di scambi culturali e interazioni tra influenze europee e africane. 1.3 L’emigrazione nella storia di Capo Verde. Tra i principali fattori che hanno reso fragile l’economia dell’arcipelago di Capo Verde e segnato drammaticamente il destino del suo popolo, spingendolo verso una diaspora di massa, si trovano l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi coloni bianchi, le condizioni climatiche e geografiche sfavorevoli e il sistema economico basato sulla schiavitù fino al XIX secolo. La produzione economica, dominata dal commercio degli schiavi, si completava con attività agricole come la coltivazione di cotone, canna da zucchero e ortaggi, e con l’allevamento di bestiame. Alcuni prodotti, come l’indaco, l’urzela e l’olio di purgueira, furono temporaneamente significativi per il commercio, ma l’economia locale rimase sempre vulnerabile alla spietata concorrenza delle compagnie straniere che, dal XVII secolo, controllarono il traffico atlantico, aggravata dagli assalti di pirati e corsari, che devastarono le isole e comprometterono il commercio. Con l’abolizione della schiavitù nel 1878, l’economia delle isole subì un tracollo, particolarmente nel mercato del cotone, già minacciato dalla concorrenza internazionale. A questo si aggiunsero siccità ricorrenti, carestie devastanti e diseguaglianze nella distribuzione delle terre, che ridussero alla fame la popolazione e resero insostenibile la permanenza sull’arcipelago. La mancanza di risorse, unita alla mancata modernizzazione da parte del governo coloniale portoghese, spingeva i capoverdiani a emigrare, inaugurando ondate migratorie verso gli Stati Uniti, il Sud America, l’Africa e, più recentemente, l’Europa. L’emigrazione verso São Tomé e Príncipe, regolata da contratti- capestro, rappresentò una nuova forma di schiavitù: i lavoratori, costretti a trasferirsi nelle piantagioni di cacao e caffè, vivevano in condizioni di sfruttamento estremo, spesso senza possibilità di tornare a Capo Verde. Sebbene l’emigrazione verso gli Stati Uniti avesse garantito migliori opportunità, le esperienze di lavoro forzato nelle piantagioni restano una ferita culturale profonda, celebrata nella musica e nei racconti popolari, come la celebre canzone Sodade di Cesária Évora. Le difficoltà strutturali, climatiche e sociali di Capo Verde, aggravate dall’incapacità del governo coloniale di promuovere lo sviluppo, hanno fatto dell’emigrazione l’unica via di salvezza per molti capoverdiani, che cercavano altrove una speranza di vita dignitosa. 1.4 Un secolo di emigrazione. A partire dai primi anni Venti del Novecento, l’emigrazione capoverdiana verso gli Stati Uniti si sviluppa in modo regolamentato, con un forte sostegno dai discendenti dei primi migranti. Il governo americano, nel 1924, stabilisce quote massime e criteri di priorità basati principalmente sui ricongiungimenti familiari, consentendo l’arrivo di minori, donne sposate e altri parenti stretti. In questo periodo, i capoverdiani trovano impiego sia sulla terraferma sia nel settore marittimo, ma l’emigrazione subisce una flessione verso la fine degli anni Venti a causa dell’inasprimento delle leggi migratorie e delle carestie che decimano la popolazione di Capo Verde. Nonostante ciò, entro la metà del XX secolo, la comunità capoverdiana negli Stati Uniti, concentrata nel New England, supera le 300.000 persone, diventando una delle più numerose al mondo. Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, si assiste a un’importante ondata migratoria, definita il “grande esodo”, che vede molti capoverdiani dirigersi verso il Portogallo e altri paesi europei come Olanda, Francia, Italia e Lussemburgo. In Europa, la migrazione è favorita dalla ricostruzione post-bellica e dalla richiesta di manodopera nei settori marittimo, edile e domestico. In particolare, gli uomini trovano impiego nelle miniere, nell’industria siderurgica e nell’edilizia, mentre molte donne lavorano come domestiche o portiere di condomini. Negli anni Sessanta, il Portogallo e l’Olanda attraggono molti emigranti, mentre in Italia prevale l’emigrazione femminile verso il settore domestico. La diaspora europea si amplia grazie ai ricongiungimenti familiari e al trasferimento di lavoratori verso paesi come la Francia, dove cresce una comunità che oggi conta tra 30.000 e 40.000 persone, principalmente nella regione parigina. Con l’Indipendenza di Capo Verde nel 1975, emergono nuove dinamiche migratorie. Molti capoverdiani scelgono di emigrare in Portogallo, preoccupati dalla perdita della nazionalità portoghese, ma l’afflusso di massa porta il paese all’introduzione di regolamentazioni più rigide, soprattutto dopo l’ingresso nella Comunità Europea. Nel frattempo, l’emigrazione verso altri paesi europei come l’Olanda e la Francia prosegue, ma con maggiore difficoltà di regolarizzazione. Negli anni Novanta, l’inasprimento delle politiche migratorie porta molti capoverdiani senza lavoro a trasferirsi in paesi come il Lussemburgo, la Francia o il Portogallo, dove le opportunità di regolarizzazione sono maggiori. L’Olanda rimane comunque una destinazione di rilievo, con una comunità ben integrata, ma non priva di problematiche legate al fenomeno delle bande giovanili nelle seconde generazioni. In Italia, il flusso migratorio diminuisce dagli anni Ottanta, anche per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di molte donne o il loro trasferimento in Olanda. Oggi, i capoverdiani con sola nazionalità capoverdiana in Italia sono circa 4.000, principalmente donne, ma considerando coloro con doppia nazionalità, la comunità raggiunge le 10.000-12.000 persone. Parte Prima, Capitolo 2 (Clara Silva) 2.1 Le lingue di Capo Verde dentro e fuori il paese. La dimensione linguistica rappresenta un elemento centrale nell’identità culturale di Capo Verde, dove il creolo capoverdiano si è sviluppato come una lingua autonoma, frutto della fusione tra il portoghese e le lingue africane parlate dagli schiavi. Questa lingua nasce dalla necessità di comunicazione in un contesto in cui i coloni portoghesi non riuscirono a imporre pienamente la loro lingua e dove gli schiavi, provenienti da gruppi linguistici differenti, non potevano comprendersi tra loro né con i loro proprietari. È considerato il creolo più antico esistente, originatosi nelle isole di Santiago e Fogo, e successivamente diffuso lungo la costa dell’Africa occidentale. Il creolo capoverdiano ha un lessico prevalentemente portoghese, mentre la sua fonetica, morfologia, sintassi e semantica mostrano profonde influenze africane. Esistono due varianti principali, quella di Sotavento e quella di Barlavento, ulteriormente suddivise in sotto-varianti locali, ognuna corrispondente al creolo di una specifica isola. Il creolo non è solo una lingua, ma anche un simbolo identitario, che accomuna la popolazione capoverdiana sia nelle isole sia nella diaspora, dove viene preservato e tramandato anche dopo generazioni. È la lingua dell’espressione artistica, delle tradizioni orali e della letteratura capoverdiana, e ha contribuito a creare una ricca produzione culturale, tra cui spiccano le poesie accompagnate dalla morna, una forma musicale tradizionale. Nel corso del tempo, il creolo ha visto una progressiva valorizzazione: da dialetto considerato inferiore, ha acquisito dignità linguistica grazie all’impegno di scrittori e linguisti come Eugénio Tavares, Pedro Cardoso e Baltasar Lopes da Silva, che ne hanno studiato la struttura e promosso il suo utilizzo scritto. Nonostante l’importanza del creolo, il portoghese è rimasto storicamente la lingua ufficiale e quella dell’istruzione formale, utilizzata nei documenti, nell’amministrazione e nella comunicazione internazionale. Con l’indipendenza di Capo Verde nel 1975, è iniziato un percorso di riconoscimento del creolo come lingua nazionale, pur mantenendo il portoghese come strumento fondamentale per l’accesso alla scienza e alle relazioni globali. La situazione linguistica del paese è stata a lungo caratterizzata dalla diglossia, con una chiara distinzione funzionale tra le due lingue, ma negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva transizione verso il bilinguismo, con sempre più capoverdiani competenti in entrambe le lingue. Tuttavia, rimangono alcune difficoltà pratiche, tra cui la standardizzazione del creolo e la scelta della variante da adottare come base per la scrittura. Negli anni Settanta, si è cercato di formalizzare il creolo attraverso l’introduzione dell’ALUPEC (Alfabeto Unificato per la Scrittura del Capoverdiano), anche se le discussioni e i contrasti sull’uso scritto del creolo continuano. Di recente, il creolo è stato classificato come “patrimonio immateriale nazionale” dall’Instituto do Património Cultural, un ulteriore passo verso il suo riconoscimento ufficiale accanto al portoghese. Questo processo è stato accolto positivamente anche dalla diaspora capoverdiana, che contribuisce a mantenerne la vitalità e l’uso. 2.2 Musica e danza. Nell’ambito della 1era Exposição Colonial Portuguesa del 1934 a Porto, un gruppo musicale di Capo Verde fu invitato a suonare per la prima volta davanti a un pubblico europeo. Lo scrittore capoverdiano Fausto Duarte celebrò la morna, descrivendola come un’espressione profondamente malinconica legata alla terra e alle difficoltà della vita nell’arcipelago, evocando temi di partenze, amori perduti e nostalgia. La morna ha origini nell’isola di Boa Vista durante l’Ottocento, quando l’isola era un centro commerciale e culturale importante. Inizialmente caratterizzata da uno stile ironico e allegro, si diffuse nelle altre isole trasformandosi in una musica melanconica e intimista, con temi ricorrenti come il mare e la luna. Tra i suoi grandi autori spiccano Eugénio Tavares e Francisco Xavier da Cruz (B. Leza). La morna, rappresentata a livello internazionale da artisti come Cesária Évora, è considerata il simbolo dell’identità culturale capoverdiana, incarnandone lo spirito più di tante altre espressioni culturali. Con testi che riflettono i drammi e le gioie della vita, questa musica ha attraversato ogni ceto sociale, divenendo una forma di espressione accessibile anche alla popolazione analfabeta. Durante il colonialismo e la lotta per l’indipendenza, la musica è stata l’unica fonte di informazione accessibile alla maggioranza della popolazione analfabeta, capace di dare ai capoverdiani la forza di rivoltarsi e che ha fatto scoprire loro di essere africani, e anche di esserne orgogliosi. Con il sostegno di figure come Amílcar Cabral, ha anche rappresentato uno strumento di unità e resistenza. Accanto alla morna, si svilupparono altri generi musicali come la coladeira, derivata dalla morna negli anni ’30, che introdusse un ritmo più vivace e temi di satira sociale. Altri generi tradizionali includono il batuque, una danza ritmata tipica di Santiago, e il funanà, nato sempre a Santiago, con forti influenze africane. Entrambi furono repressi durante il periodo coloniale per il loro significato culturale e politico, ma sono stati recuperati e valorizzati dopo l’indipendenza. Nel panorama musicale contemporaneo, Capo Verde continua a innovare, combinando tradizione e modernità. La sperimentazione ha portato alla nascita di stili come il nuovo funanà e alla contaminazione con generi globali come lo zouk, il kuduro e l’hip hop. Artisti come Mayra Andrade, Lura e Tcheka rappresentano oggi una forma di cantautorato cosmopolita che dialoga con le radici musicali locali. Nonostante l’apertura a nuove influenze, la musica capoverdiana mantiene il suo legame profondo con la storia e l’anima dell’arcipelago, raccontando la vita dei suoi abitanti e unendo le isole al resto del mondo. 2.3 I cibi del meticciato. Le isole di Capo Verde, trovate disabitate dai primi coloni portoghesi, non avevano né agricoltura né animali domestici. Il regime alimentare iniziale rifletteva quello portoghese: ➠ per i ricchi, pane bianco, carne, pesce, legumi e frutta; ➠ per i contadini, pane nero, vino e frutta. La dieta locale si modificò con l’introduzione di coltivazioni e animali importati dai coloni e con il contatto con la costa africana, le Indie e le Americhe. Qui i portoghesi scoprirono alimenti come miglio, sorgo, igname, olio di palma, e vari legumi e frutta. Le isole offrivano inizialmente solo tartarughe, pesci e uccelli, mentre mammiferi come capre, buoi, e cavalli furono importati successivamente. Tra i nuovi prodotti importati, il mais (midj) si adattò meglio al clima e divenne l’ingrediente principale della dieta, sostituendo quasi del tutto il miglio africano entro il XVI secolo. Proveniente dal Sud America, il mais si diffuse per il suo breve ciclo vegetativo e la versatilità in cucina, rendendolo un pilastro dell’alimentazione. Contribuì alla nascita della katchupa, piatto tradizionale capoverdiano. Esistono varianti di questo piatto: la katchupa povera, preparata solo con midj, acqua e sale, e la katchupa ricca, che include ingredienti come fagioli, manioca, igname, patate e carne conservata sotto sale. La katchupa guisada, una versione stufata della ricetta, è tipica delle colazioni energiche. L’introduzione di nuovi alimenti influenzò la dieta e la cultura locale: dalla patata andina, alla manioca sudamericana, alle banane indiane, fino alla canna da zucchero, introdotta prima a Capo Verde e poi in Brasile. La dieta si diversificò ulteriormente grazie alla conoscenza e alle influenze culinarie delle varie etnie presenti. Il pesce, abbondante nelle acque locali, rimase una risorsa fondamentale, con varietà come tonno e aragoste, che sono oggi anche prodotti d’esportazione. La tradizione della matanza d’porc (macellazione del maiale) rappresenta un momento centrale nella cultura capoverdiana, legato a cohesione sociale, solidarietà e celebrazione. La carne di maiale, spesso conservata sotto sale o trasformata in salsicce come la botchada, contribuisce al sapore della katchupa ricca. La matanza coinvolge tutta la comunità, con ruoli ben definiti tra uomini e donne, e culmina in un grande pranzo festivo, in cui si beve grogue e ponchee si raccontano storie. Questo momento rappresenta non solo un’occasione di abbondanza temporanea, ma anche un’occasione di redistribuzione delle risorse tra vicini e parenti, mantenendo vive le tradizioni. Ancora oggi, l’agricoltura capoverdiana si basa principalmente sul midj, ingrediente fondamentale per piatti come xerem, rolon, papa e dolci tradizionali come il cuscus doce. Tuttavia, l’evoluzione della società e l’emigrazione hanno reso possibile una maggiore diffusione e accessibilità dei piatti più ricchi, permettendo alla cucina capoverdiana di preservare la propria identità e al tempo stesso di adattarsi ai cambiamenti sociali ed economici. 2.4 Letteratura della caboverdianidade. La letteratura capoverdiana nasce all’interno di un graduale processo di coscientizzazione culturale, che si consolida con il movimento dei Claridosos nel 1936. Questo gruppo di intellettuali, riunitosi attorno alla rivista «Claridade», si propone di rompere con i cliché della letteratura coloniale e di dare spazio alla rappresentazione autentica della realtà capoverdiana, rendendo nitidi i contorni della società delle isole. Temi come la siccità, l’emigrazione e la vita delle classi sociali locali, sia borghesi che popolari, diventano centrali. Questo movimento segna la nascita della caboverdianidade, ossia una poetica che celebra l’identità capoverdiana. Nonostante le poche opere antecedenti, come quelle di Antónia Gertrudes Pusich e José Evaristo d'Almeida, i Claridosos rappresentano la prima vera espressione indipendente della cultura letteraria delle isole. La produzione dei Claridosos si distingue per l’apertura a influenze culturali esterne (in particolare quella brasiliana per le condizioni di vita similari o quella italiana con il futurismo e la sua idea di qualcosa travolgente e nuovo), e per la volontà di riflettere sulle contraddizioni della società capoverdiana, denunciando l’estrema povertà, le crisi di fame cicliche e le migrazioni forzate verso altri territori coloniali. Tuttavia, un aspetto centrale della letteratura capoverdiana è la questione dell’originalità culturale. Autori come Pedro Cardoso sottolineano l’importanza di considerare la cultura di Capo Verde come il risultato dell’incontro tra tradizioni africane e portoghesi, evidenziando la specificità della sua identità creola. Affrontano anche temi di natura politica oltre che culturale, reclamando l’autonomia amministrativa delle isole dal Portogallo, e promuovendo il “nativismo”, cioè “il riconoscimento della dignità culturale per la propria gente”. Tuttavia, con la nascita della dittatura salazarista, la censura impediva alle voci più critiche e innovative di emergere, soffocando ogni tentativo di esplorare liberamente la realtà sociale ed economica delle isole. Termini come “popolo” o “fame” erano considerati tabù e censurati, rendendo difficoltoso per gli scrittori esprimere la sofferenza e la resilienza del popolo capoverdiano. Tuttavia, negli anni successivi, il movimento dei Claridosos viene criticato per il suo presunto evasionismo, ossia una letteratura soggiogata dalla psicologia dell’isolano che aspira a orizzonti più ampi, quindi in qualche modo dipendente politicamente dal colonialismo (in realtà la letteratura dei Claridosos non prescinde affatto dal radicamento nella propria terra e dal riconoscimento di un’appartenenza forte al mondo creolo, sono tuttavia il fatalismo e l’interiorizzazione del motivo del viaggio, che si trasforma in ansia esistenziale e si sublima nel sogno, a causare le critiche di evasionismo). Viene quindi contrapposta l’opzione a favore di un “regionalismo africano”, nel segno di una caboverdianidade che si declina anche come africanidade. Questa critica porta all’affermarsi di una nuova generazione di scrittori, tra cui Onésimo Silveira e Ovídio Martins, che abbracciano una letteratura più impegnata politicamente e influenzata dalla corrente della negritude, sottolineando l’importanza della componente culturale africana nell’identità capoverdiana. Nel contesto della lotta per l’indipendenza, guidata da figure come Amílcar Cabral e culminata con la proclamazione dell’indipendenza di Capo Verde nel 1975, gli intellettuali capoverdiani giocano un ruolo cruciale. Durante questo periodo, la letteratura diventa uno strumento di denuncia del colonialismo portoghese e di propaganda politica. La diaspora capoverdiana, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, contribuisce significativamente alla diffusione di idee indipendentiste e alla costruzione di una nuova coscienza nazionale. Uno dei temi centrali della letteratura capoverdiana è l’emigrazione, vista sia come necessità economica sia come esperienza di perdita e trasformazione. Nelle opere di autori come Jorge Barbosa e Sérgio Frusoni, l’emigrazione viene rappresentata attraverso immagini di separazione, nostalgia e speranza. Questo tema è esplorato anche da scrittori della diaspora, che riflettono sulle complesse dinamiche di integrazione e sulla preservazione dell’identità culturale. La letteratura capoverdiana si distingue quindi per essere una letteratura dell’emigrazione, che affronta temi di identità, memoria e integrazione. L’esperienza migratoria viene narrata sia da chi scrive guardando a Capo Verde da lontano sia da chi racconta la condizione di chi parte e ritorna. Con l’indipendenza, la letteratura capoverdiana entra in una nuova fase, definita universalismo, caratterizzata dall’apertura a temi e stili globali. Autori come João Vário e Germano Almeida esplorano nuovi territori narrativi, mantenendo però un forte legame con le radici culturali delle isole. Questo periodo è segnato anche dalla valorizzazione del ruolo delle donne, considerate pilastri della società capoverdiana. Figure come Maria de Lourdes Jesus, Orlanda Amarilis e Jorge Canifa Alves mettono in luce la resilienza femminile e la centralità delle donne nella costruzione dell’identità nazionale. Questa produzione letteraria, che unisce radici locali e influenze globali, continua a essere un elemento fondamentale per la comprensione della storia e dell’identità di Capo Verde. Parte Seconda, Capitolo 3 (Maria de Lourdes Jesus) 3.1 Motivazioni della partenza. L’emigrazione delle donne capoverdiane verso l’Italia è strettamente legata alle difficili condizioni socioeconomiche dell'arcipelago. Negli anni Sessanta, Capo Verde era segnato dalla povertà diffusa, causata da siccità ricorrenti che rendevano la maggior parte dei terreni incolti, determinando una carenza di alimenti e la mancanza di servizi essenziali come acqua potabile, igiene, elettricità e medicine. Questa situazione portava a mortalità infantile elevata, numerosi decessi legati al parto e malattie dovute alla denutrizione. Inoltre, la mancanza di investimenti nell’istruzione da parte delle autorità coloniali portoghesi, unita a metodi educativi autoritari, contribuiva a un alto tasso di analfabetismo (oltre il 60% al momento dell’indipendenza). La classe dominante coloniale si mostrava indifferente alle sofferenze della popolazione, mantenuta nell’ignoranza e nella sottomissione. Durante il ventennio precedente l’indipendenza, sebbene ci fosse stata una ripresa delle precipitazioni, la situazione rimaneva critica, aggravata dalla siccità degli anni Quaranta che aveva causato migliaia di morti e una carenza di forza lavoro in agricoltura. Questo portò a migrazioni interne verso le isole di São Vicente, grazie al suo porto internazionale strategico, e Sal, per le attività legate all’estrazione del sale e alla costruzione dell’aeroporto. Tuttavia, con il declino del carbone come combustibile e la fine della Seconda Guerra Mondiale, queste isole persero parte della loro attrattiva, spingendo molte persone a cercare fortuna altrove. Le testimonianze delle donne capoverdiane descrivono un vissuto di estrema povertà e di duro lavoro. Le condizioni di vita erano proibitive: abitazioni precarie, lavori domestici faticosi e raccolta di legna e acqua che richiedevano ore di fatica. Spesso, i bambini e le bambine erano costretti a lavorare fin da piccoli, raccogliendo legna, vendendo pesce o trasportando carichi pesanti. Per molte donne, la vita era segnata da sacrifici e privazioni, ma anche da vulnerabilità allo sfruttamento lavorativo e sessuale. Le difficoltà economiche costringevano molte famiglie a emigrare internamente o verso altre colonie, come l’Angola, prima di tentare la migrazione verso l’Europa o gli Stati Uniti. La solidarietà familiare era spesso l’unico mezzo di sopravvivenza: i figli venivano affidati a famiglie più agiate in cambio di lavoro domestico non retribuito. Questo sistema informale offriva talvolta un’opportunità di apprendere competenze utili, ma lasciava le donne senza protezione in caso di abbandono o sfruttamento. La precarietà delle relazioni familiari e l’irresponsabilità paterna aggravavano ulteriormente la condizione delle donne, che si ritrovavano a crescere i figli da sole, accumulando difficoltà economiche e sociali. L’emigrazione rappresentava per molti l’unica speranza di migliorare le proprie condizioni. Le famiglie con parenti emigrati ricevevano rimesse che consentivano loro di accedere a beni essenziali e, in alcuni casi, persino all’istruzione. Tuttavia, la maggior parte dei poveri era esclusa da queste possibilità. La mancanza di infrastrutture scolastiche superiori nelle isole meno sviluppate costringeva i giovani a rinunciare agli studi, perpetuando il ciclo di povertà. Per le donne capoverdiane, emigrare verso l’Europa significava sfuggire a una vita di privazioni, ma anche affrontare nuove sfide e lottare per un futuro migliore. 3.2 L’emigrazione verso l’Italia. Le donne capoverdiane sono state protagoniste del primo caso di immigrazione femminile in Italia, un fenomeno iniziato negli anni Sessanta in risposta alla crescente domanda di manodopera domestica. Durante il periodo del boom economico, l’Italia si trovava in una fase di forte industrializzazione, che aveva portato molte donne italiane ad abbandonare il lavoro domestico per impieghi nelle fabbriche, lasciando vacanti i ruoli di cura all’interno delle famiglie. Questo scenario ha favorito l’arrivo delle capoverdiane, spesso grazie alla mediazione di comandanti dell’Alitalia e missionari Cappuccini, che organizzavano trasferimenti e inserimenti lavorativi. L’immigrazione capoverdiana si sviluppò inizialmente in modo episodico per poi strutturarsi come un flusso migratorio consolidato. Le donne, generalmente giovani, nubili e provenienti da contesti rurali, intraprendevano la migrazione con l’obiettivo di migliorare le condizioni economiche proprie e delle famiglie rimaste in patria. Il fenomeno si configurò come una catena migratoria, in cui le prime migranti facilitavano l’arrivo di parenti e conoscenti. Questo sistema, oltre a rendere il flusso duraturo, contribuì alla professionalizzazione delle lavoratrici capoverdiane, che spesso arrivavano con contratti regolari, migliorando così la loro posizione nel mercato del lavoro domestico italiano. Queste donne svolgevano un ruolo fondamentale nel sostenere il sistema di cura familiare italiano, garantendo alle donne italiane della borghesia di conciliare lavoro e vita sociale senza abbandonare il modello tradizionale di gestione familiare. Tuttavia, la migrazione comportava sacrifici personali significativi: molte migranti lasciavano figli e mariti in patria, affrontando sentimenti di nostalgia e sensi di colpa. Il loro contributo era cruciale, ma il contesto sociale italiano perpetuava asimmetrie di genere, mantenendo immutato il peso del lavoro di cura sulle spalle delle donne, anche se di diversa origine. Il fenomeno raggiunse il suo apice negli anni Settanta, con circa diecimila presenze, ma subì un calo a partire dagli anni Ottanta, a causa delle restrizioni legislative sull’immigrazione e della crescente concorrenza di nuove ondate migratorie, tuttavia l’emanazione della prima legge organica sull’immigrazione, la n. 39 del 1990, ha, tra le altre cose, introdotto il diritto al ricongiungimento familiare, consentendo così a molte capoverdiane di farsi ricongiungere dai figli e dagli eventuali mariti rimasti in patria o emigrati in altri paesi, in modo da costituire un nucleo familiare in Italia. 3.3 L’Italia tra immaginazione e realtà. La motivazione principale dell’emigrazione è il sogno di una vita migliore, spinto dalla speranza di emancipazione economica e sociale. Spesso, prima di partire, queste donne non avevano una chiara immagine dell’Italia, ma il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita era più forte della paura dell’ignoto. La partenza era accompagnata da sentimenti di dolore e nostalgia, mitigati solo in parte dalle rassicurazioni di parenti o amici che avevano già trovato lavoro in Italia. L’impatto con la nuova realtà era spesso traumatico: molte donne soffrivano la solitudine, la nostalgia e la difficoltà di adattarsi a una cultura e un contesto completamente diversi. Tuttavia, la presenza di connazionali già integrate svolgeva un ruolo cruciale come mediatori culturali e punti di riferimento. Alcune famiglie italiane si dimostravano comprensive, facilitando l’integrazione attraverso l’accettazione dei cibi e delle tradizioni capoverdiane, ma non mancavano situazioni di sfruttamento, aggravate dalla scarsa conoscenza della lingua e dei diritti lavorativi. Le condizioni economiche iniziali erano precarie: le donne guadagnavano poco e spesso dovevano rimborsare il costo del viaggio. Nonostante ciò, inviavano regolarmente denaro e beni alle famiglie rimaste a Capo Verde, contribuendo al miglioramento delle loro condizioni di vita. Un altro aspetto rilevante era l’immagine idealizzata dell’Italia, alimentata dai racconti e dallo stile di vita ostentato delle emigrate durante le vacanze a Capo Verde. Questo contribuiva a creare un mito dell’emigrazione, spesso lontano dalla dura realtà vissuta quotidianamente. In alcuni casi, il rapporto tra le lavoratrici capoverdiane e le famiglie italiane evolveva in legami profondi di rispetto e solidarietà, dimostrando come l’incontro tra culture diverse potesse trasformarsi in un’opportunità di crescita reciproca. Parte Seconda, Capitolo 4 (Clara Silva) 4.1 La dimensione lavorativa. La prima generazione di donne capoverdiane immigrate in Italia si è inserita principalmente nel lavoro domestico come collaboratrici familiari fisse. Questo percorso lavorativo è stato determinato da diversi fattori: basso livello d’istruzione, assenza di qualificazioni professionali, influenze del retaggio coloniale e una società italiana impregnata di stereotipi colonialisti e discriminazione razziale. La necessità di inviare rimesse a Capo Verde ha ulteriormente limitato la loro capacità di emanciparsi dal lavoro domestico. Inoltre, il sistema sociale italiano, con una forte domanda di colf fisse, ha reso difficile l’accesso a percorsi di formazione professionale o di studio. Tuttavia, già dagli anni Ottanta, alcune donne sono riuscite a uscire dal circuito del lavoro domestico, approdando a carriere autonome o impieghi nei servizi. Questo è stato possibile grazie alla determinazione personale, al supporto di reti sociali e, talvolta, alla possibilità di studiare e ottenere titoli professionali, alcune hanno anche trovato opportunità nel settore pubblico dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana. La seconda generazione, spesso ricongiunta con le madri in età scolare, ha beneficiato di un contesto diverso. Non avendo l’urgenza di lavorare immediatamente, queste donne hanno avuto la possibilità di completare i propri studi e accedere a professioni più qualificate. La dedizione allo studio, sostenuta dalle madri, ha rappresentato un elemento cruciale per la loro mobilità sociale e lavorativa. Queste donne hanno intrapreso percorsi di successo, diventando professioniste o imprenditrici in vari settori, dimostrando una maggiore diversificazione lavorativa rispetto alla generazione precedente. 4.2 La dimensione familiare. Le scienze sociali oggi riconoscono la pluralità di modelli familiari in molte società, inclusa Capo Verde, dove questi sono strettamente legati alla storia di colonizzazione e schiavitù. La famiglia capoverdiana si distingue per una struttura complessa e una forte influenza della figura materna. Le relazioni tra uomo e donna sono state storicamente asimmetriche, con un ruolo maschile spesso distaccato dalla cura dei figli. Questo fenomeno è stato aggravato dall’assenza di donne bianche tra i coloni e dal sistema schiavistico, che assegnava la responsabilità dei figli alle sole madri, supportate da reti informali femminili. Ne è derivata una predominanza delle “famiglie matricentriche”, dove il padre è poco presente. Il modello patriarcale e l’influenza cattolica non hanno sradicato queste dinamiche. Ancora oggi, molte famiglie capoverdiane sono formate da madri sole con i loro figli, spesso a causa della povertà e di gravidanze precoci. Nonostante queste difficoltà, la maternità rappresenta un valore centrale nella cultura capoverdiana, fornendo alle donne riconoscimento sociale. La madre è rispettata e sostenuta da una rete di parenti femminili, trasformando spesso la famiglia in un sistema cooperativo piuttosto che monoparentale in senso classico. L’emigrazione è un aspetto distintivo della società capoverdiana. Le famiglie transnazionali mantengono legami affettivi forti anche quando i membri vivono in paesi diversi. L’emigrazione ha portato alla formazione di famiglie miste e ricomposte, dove donne capoverdiane creano unioni con uomini italiani o di altre nazionalità. Questo riflette sia la mobilità sociale che l’adattamento culturale, con famiglie che integrano elementi patriarcali e matriarcali. Nonostante le sfide, i racconti delle donne evidenziano il valore dei legami familiari come fonte di identità e supporto. Inoltre, l’emigrazione ha permesso a molte donne di raggiungere una realizzazione personale e familiare, spesso grazie a una rete di solidarietà tra parenti e amici, sia nei paesi d’origine che in quelli di immigrazione. 4.3 Il vissuto dei gli e il rapporto intergenerazionale. Le esperienze delle donne capoverdiane emigrate in Italia e dei loro figli rappresentano una narrazione complessa di migrazione, separazione e ricostruzione dei legami familiari. I figli delle immigrate capoverdiane, definiti dalla sociologia come “immigrati di seconda generazione” o “ragazzi della terra di mezzo”, si trovano spesso a vivere un triplo trauma affettivo, legato al ricongiungimento familiare. Le madri, spesso costrette a lasciare i figli nel paese d’origine per motivi economici o lavorativi, affidano la loro cura alle nonne o ad altri parenti. Questo genera una separazione dolorosa e un successivo percorso complesso di ricostruzione dei legami, durante il quale i figli faticano a riconoscere l’autorità e l’affetto della madre biologica, vista talvolta come una figura distante. La rete intergenerazionale di cura, rappresenta un aspetto cruciale della vita familiare capoverdiana, ma talvolta si traduce in conflitti, incomprensioni e profonde fratture emotive. Un altro elemento chiave è la maternità precoce, una tendenza diffusa sia nelle prime generazioni che tra le figlie nate o cresciute in Italia. Spesso le giovani donne si trovano ad affrontare la gravidanza in condizioni di instabilità economica e affettiva, senza il sostegno di un partner. Questo schema si ripete, nonostante l’investimento delle madri sull’educazione delle figlie e gli sforzi per fornire loro migliori opportunità rispetto a quelle disponibili nel paese d’origine. Le madri, impiegate principalmente come lavoratrici domestiche, incontrano spesso ostacoli nel conciliare lavoro e famiglia, con la necessità di affidare nuovamente i figli a collegi o a famiglie ospitanti. In alcuni casi, il progetto di ricongiungimento familiare fallisce del tutto, generando nuove separazioni e sofferenze per entrambe le parti. Sia le madri che le figlie si dimostrano nel complesso molto resilienti, in particolare per la capacità di superare le difficoltà relazionali imposte dalla lontananza reciproca. Le donne capoverdiane, pur tra sacrifici e difficoltà, riescono a costruire nuove vite per sé e per i loro figli, spesso facendo leva su una rete di solidarietà che comprende amici, parenti, benefattori e datori di lavoro. Alcune storie evidenziano come l’intervento di persone sensibili, come datori di lavoro o istituzioni religiose, abbia facilitato il percorso di integrazione e contribuito a ridurre il trauma della separazione. Inoltre nel tempo, molte donne sono riuscite a recuperare i rapporti con i figli e con le loro famiglie d’origine. Il processo di ricostruzione affettiva, seppur lungo e impegnativo, evidenzia la capacità di comprendere e accettare il passato, spesso influenzata dalle esperienze personali di maternità che spingono a riflettere sul sacrificio e sulle scelte delle proprie madri. Parte Seconda, Capitolo 5 (Maria de Lourdes Jesus) 5.1 Il tempo libero e i luoghi di aggregazione. Le prime generazioni di donne capoverdiane arrivate in Italia negli anni ‘60 e ‘70 hanno vissuto una condizione di isolamento sociale legata alla natura del lavoro domestico. La loro vita ruotava intorno a lunghe giornate lavorative presso famiglie italiane, con poche ore libere alla settimana. L’assenza di spazi specifici di socializzazione, unita alla “sodade” (nostalgia della terra natale), ha spinto queste donne a formare reti di supporto informali. Inizialmente, le prime forme di aggregazione avvenivano nelle case dove qualcuna di loro aveva più libertà. Cucinare insieme piatti tradizionali, come la katchupa, e ascoltare musica capoverdiana erano attività centrali per mantenere viva la cultura d’origine e affrontare la solitudine. Tuttavia, con l’aumento del numero di immigrate, spazi come le piccole stanze non erano più sufficienti. Si passò così a luoghi pubblici e religiosi, con un primo punto di aggregazione significativo nel Villaggio Azzurro a Roma. La religione giocò un ruolo fondamentale per molte di loro. Centri come il Movimento Tra Noi offrirono alle donne capoverdiane non solo un rifugio spirituale, ma anche un ambiente dove poter rafforzare la propria fede e assumere ruoli come catechiste. Attraverso la religione, alcune donne fi trovarono una via per accettare e affrontare le difficoltà della vita in un paese straniero. Al contempo, luoghi come la Stazione Termini, la Galleria Umberto I a Napoli e Piazza Politeama a Palermo divennero punti strategici per scambiarsi informazioni, trovare lavoro e mantenere i contatti con i propri cari a casa. A Napoli, la Galleria Umberto I funse persino da mercato del lavoro, dove le famiglie italiane potevano incontrare le domestiche. La comunità capoverdiana ha esercitato un forte controllo sociale sulle giovani donne, scoraggiando comportamenti percepiti come inappropriati, come frequentare sale da ballo o avere relazioni con uomini italiani. Nonostante ciò, molte ragazze frequentavano comunque luoghi come la Sala Pichetti a Roma, dove ballare diventava un’occasione per divertirsi e socializzare. Questo ambiente favorì anche i matrimoni misti, inizialmente osteggiati ma col tempo accettati, che segnarono una graduale apertura culturale. La seconda generazione di capoverdiani in Italia tende a distanziarsi dalla comunità d’origine, percepita talvolta come troppo chiusa. Questi giovani preferiscono spesso integrarsi nella società italiana, partecipando ad attività culturali e sociali più ampie. Tuttavia, l’associazionismo continua a svolgere un ruolo cruciale, aiutando le nuove arrivate ad adattarsi e costruire una rete di sostegno. Questo processo, inizialmente spontaneo e non pianificato, ha permesso a molte di loro di superare le difficoltà iniziali e di inserirsi progressivamente nella società italiana, mantenendo un equilibrio tra solidarietà intraetnica e affermazione interetnica. 5.2 Il ruolo dell’associazionismo. L’associazionismo capoverdiano in Italia nasce da un contesto di lotta politica e consapevolezza sociale nella comunità migrante, iniziato informalmente a Roma grazie a figure come Maria Cresciencia Mota, Deolinda Lima e Jacinta Ramos. Le prime iniziative erano volte a sensibilizzare la comunità sulla lotta per l’indipendenza di Capo Verde e Guinea-Bissau, sostenendo il movimento guidato da Amílcar Cabral contro il colonialismo portoghese. Il contesto sociopolitico italiano degli anni ‘70, caratterizzato da contestazioni per i diritti civili e l’uguaglianza di genere, ha influenzato il gruppo, che ha trovato sostegno in organizzazioni come il MOLISV (Movimento Liberazione e Sviluppo). La presa di coscienza ha portato a una maggiore partecipazione politica e all’impegno per i diritti lavorativi delle donne capoverdiane in Italia. Nel 1975, anno dell’indipendenza di Capo Verde, si celebra la prima manifestazione organizzata dal gruppo romano con il supporto del MOLISV. Questo momento segna l’inizio della prima associazione dei capoverdiani in Italia, l’“Associação dos Cabo-Verdianos em Itália”, che ha avuto un ruolo centrale nella creazione di una rete di supporto per la comunità, comprese attività consolari e sociali. Tuttavia, il progetto ha incontrato difficoltà organizzative e critiche interne, culminando nella chiusura dell’associazione negli anni ’80. Dalle ceneri di queste esperienze è nata nel 1988 l’“Organização das Mulheres Cabo Verdianas em Itália (OMCVI)”, la prima associazione capoverdiana composta esclusivamente da donne. L’OMCVI ha ampliato il proprio raggio d’azione, affrontando temi come i diritti delle donne, l’intercultura, l’istruzione dei bambini e il supporto legale e burocratico. L’associazione ha anche promosso iniziative in Capo Verde, come la lotta alla povertà e alle malattie come l’HIV. Negli anni successivi sono nate altre associazioni, tra cui l’Associação dos Caboverdianos de Florençia e Provincia (1975), l’“Associazione Italo- Capoverdiana” di Genova (2002) e la Casa di Capo Verde a Milano (2018). Alcune di queste hanno sviluppato iniziative innovative, come il Premio Amílcar Cabral istituito dall’“Associazione Tabanka Onlus” di Roma nel 2006. Tuttavia, la gestione delle associazioni si è spesso rivelata difficile a causa di diffidenze interne e scarsa partecipazione della comunità. Inoltre, la comunicazione si è arricchita attraverso strumenti come radio comunitarie (“Radio Onda Capo Verde”, “Radio Città Aperta”) e pubblicazioni (“ModaNosé”). 5.3 Ritornare o restare? Il sogno del ritorno alla terra d’origine è un elemento centrale e ricorrente nella narrativa migratoria degli emigrati capoverdiani. Tuttavia, questo desiderio si scontra con realtà complesse, che ne determinano spesso un rinvio continuo. Il ritorno rappresenta uno degli stadi finali del progetto migratorio, che si articola in diverse fasi: ➠ l’emigrazione iniziale per migliorare la propria condizione economica, ➠ il lavoro all’estero per accumulare risparmi, ➠ infine la pianificazione dettagliata del rientro. La realizzazione di questo sogno è influenzata da fattori personali, come le opportunità economiche e il raggiungimento della pensione, ma anche da elementi esterni quali i mutamenti socioeconomici nel paese di origine e le politiche governative. Per molte donne capoverdiane emigrate in Italia, il progetto migratorio include l’accumulo di risorse per costruire una casa in patria, spesso arredata con oggetti di alta qualità provenienti dall’Italia. Tuttavia, il ritorno avviene spesso in età avanzata, quando la capacità di godere pienamente della pensione è compromessa da problemi di salute. Alcune donne riescono a utilizzare il tempo trascorso all’estero per migliorare la loro istruzione e acquisire competenze che potrebbero essere sfruttate al rientro, ma spesso incontrano difficoltà nel reintegrarsi, sia per la mancanza di un riconoscimento formale delle qualifiche, sia per il peso delle aspettative sociali nei loro confronti. Il legame con la famiglia gioca un ruolo cruciale nelle decisioni riguardanti il ritorno. Molte emigranti si trovano divise tra il desiderio di tornare e la necessità di restare vicino ai figli o ai nipoti cresciuti nel paese ospitante. Questo vincolo familiare, unito alla rete sociale costruita negli anni, contribuisce a trasformare il ritorno definitivo in un progetto stagionale o parziale. Inoltre, il sistema sanitario di Capo Verde, ancora carente, rappresenta un ulteriore deterrente per coloro che necessitano di assistenza medica continuativa, scoraggiando il ritorno permanente. Nonostante i progressi infrastrutturali registrati negli ultimi decenni, il ritorno è spesso accompagnato da un senso di disillusione. Gli emigrati si scontrano con la difficoltà di ritrovare un posto nella società di origine, che può percepirli come estranei o portatori di una mentalità diversa. Questo fenomeno, spesso definito come “doppia assenza”, sottolinea la condizione di chi non si sente pienamente parte né del paese d’origine né di quello di accoglienza. In molti casi, il ritorno non è dettato dalla volontà, ma dalla necessità, come avviene per alcune donne che, non riuscendo ad adattarsi alla vita all’estero, rientrano a causa di problemi psicologici o fisici. Per altre, il sogno del rientro resta un’ancora di salvezza psicologica, alimentato da un’immagine idealizzata della patria che però non corrisponde alla realtà.