Summary

Questo documento tratta di filosofia etica, in particolare degli aspetti di Aristotele, toccando argomenti come la virtù, la felicità e la giustizia. Il testo descrive le virtù etiche e dianoetiche, spiegando come queste siano legate al raggiungimento della vita virtuosa e felice.

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Il bene umano deve coincidere con l’attività più propria dell’uomo, ossia quella dell’anima secondo ragione, che consiste nella capacità di realizzare in maniera perfetta e stabile tale attività; si tratta del “valore aggiunto” della virtù; infatti è proprio del citarista suonare la cetra, è proprio...

Il bene umano deve coincidere con l’attività più propria dell’uomo, ossia quella dell’anima secondo ragione, che consiste nella capacità di realizzare in maniera perfetta e stabile tale attività; si tratta del “valore aggiunto” della virtù; infatti è proprio del citarista suonare la cetra, è proprio del bravo citarista suonarla bene. D’altronde, la virtù è una disposizione abituale (hexis) all’agire razionale, stabilizzata attraverso l’educazione e l’esercizio, idonea a dirigere costantemente verso fini buoni. Per comprendere l’ideale di una vita virtuosa come vita compiuta si può affermare che come una rondine non fa primavera neanche in un solo giorno, allo stesso modo un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno. Il bene perfetto non è né momentaneo né solitario ma è autosufficiente; in realtà, Aristotele precisa che con “autosufficienza” non si fa riferimento al fatto che un singolo individuo viva una vita solitaria, ma piuttosto al fatto di vivere anche insieme a genitori, figli, moglie e, più in generale, agli amici e ai concittadini, in quanto per natura l’essere umano è un animale politico. Il coronamento virtuoso, che rende felice una vita buona, coinvolge due tipologie differenti di virtù: etiche e dianoetiche; le prime coincidono con la parte irrazionale dell’anima, dalla quale dipende il carattere (ethos) e costituiscono il risultato di un esercizio che diventa abitudine. Con riferimento alle passioni (ad esempio, desiderio, ira, paura, ardimento, invidia, ecc.), da cui discendono piacere e dolore, e quindi rispetto alle facoltà di provare tali sentimenti (adirarci, addolorarci, provare pietà, ecc.), le disposizioni sono stati abituali in base ai quali ci si rapporta bene o male alle passioni, ossia in modo scorretto (oscillando fra l’eccesso e il difetto) o corretto (secondo il giusto mezzo). È in questo senso che virtù e vizi corrispondono alle suddette disposizioni, vale a dire a comportamenti abituali, volti a ripetere atti volontari, buoni nel caso delle virtù e cattivi nel caso dei vizi, non per costrizione né per ignoranza. Pertanto, le virtù etiche consistono nella disposizione a scegliere il giusto mezzo tra vizi opposti, 18 come il coraggio rispetto alla viltà e alla temerarietà, la temperanza rispetto all’intemperanza e all’insensibilità, la magnanimità rispetto alla pusillanimità e alla vanità, ecc. La scelta del giusto mezzo è legata alla valutazione del fine e dei valori coinvolti, nonché all’importanza che viene attribuita ad essi nel proprio progetto di vita, in quanto per alcune cose occorre sacrificare la vita, mentre per altre esporsi sarebbe ridicolo. La virtù etica perfetta è la giustizia, la quale si colloca in una posizione intermedia fra il troppo e il poco; chi la possiede è in grado di esercitare la virtù non solo verso se stesso, ma anche verso il prossimo, ragion per cui si ritiene che essa sia la virtù più eccellente. La giustizia è distributiva se riguarda una distribuzione di onori e beni pubblici, che avviene in maniera proporzionata secondo i meriti; invece, è commutativa o correttiva quando regola i rapporti privati stabilendo un’uguaglianza puramente aritmetica; infine, essa può anche avere valenza politica, perché stabilisce l’uguale diritto dei cittadini nella partecipazione al governo della città. Le citate virtù dianoetiche corrispondono alla parte dell’anima dotata di ragione (dianoia); nel libro VI dell’Etica Nicomachea ne sono elencate cinque, suddivise in due gruppi: l’intelligenza (nous), la scienza (episteme) e la sapienza (sophia) appartengono alla ragione “scientifica” o teoretica, che ha come oggetto l’essere eterno o necessario; mentre l’arte (techne) e la saggezza (phronesis) fanno parte della ragione pratica, che ha come oggetto ciò che è contingente e quindi dipende dall’uomo. In realtà, queste virtù sono per lo più riconducibili a due, ossia alla sapienza e alla saggezza: la prima è insieme intelligenza e scienza e consiste nel conoscere ciò che deriva dai principi e nel trovarsi nel vero rispetto ad essi, identificandosi con la filosofia prima; mentre la seconda consiste nella capacità di valutare correttamente ciò che è bene e ciò che è male, in modo da deliberare correttamente. La techne è finalizzata alla produzione di oggetti, mentre la phronesis, che unifica in sé desiderio e ragione, dirige razionalmente l’azione verso fini buoni e calcola concretamente i mezzi per conseguirli. Secondo Aristotele, compie una corretta valutazione chi segue il ragionamento per perseguire il migliore dei beni realizzabili dall’essere umano mediante l’azione; infatti, la saggezza non riguarda solo l’universale ma deve conoscere anche il particolare, perché è ciò che orienta l’azione che riguarda i casi precisi. Dunque, la saggezza non è scienza, ma è un tipo diverso di sapere; si tratta di una virtù intellettuale riconducibile alla parte dell’intelletto che si occupa delle cose che possono anche essere diversamente, che dipendono da noi e in cui c’è un fine da raggiungere, e dunque 19 appartiene a quella parte dell’anima che produce opinioni e calcola cosa fare. Tuttavia, Aristotele riconosce alla phronesis una forma specifica di razionalità, oltre quella propria della filosofia pratica, che si esprime nel procedimento diaporetico. Il principio della scelta si pone a fondamento dell’azione, intesa come frutto del desiderio di raggiungere un fine, in un processo di deliberazione attraverso il calcolo dei mezzi necessari; in tal modo, questo principio assume uno specifico statuto razionale che presenta molti aspetti comuni a quello della filosofia pratica, in quanto applica le direttive generali di quest’ultima a casi particolari. Tale capacità di applicare la regola generale al caso particolare si riassume in un tipo di ragionamento che è una sorta di sillogismo “pratico”, il quale, analogamente a un sillogismo, che consente di dedurre da due premesse una conclusione come loro conseguenza, è una forma di inferenza, in cui, però, dalla premessa maggiore (“tutte le acque pesanti sono dannose”) e da quella minore (“quest’acqua è pesante”) si conclude con una scelta concreta (“evito quest’acqua”), e non con una proposizione. I libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea contengono un vero e proprio trattato sull’amicizia (philia), in cui viene data preferenza a quella fondata sulla virtù rispetto a quelle che si basano sul piacere o sull’utilità. La philia non coincide con il semplice affetto e con la passione, poiché essa è una forma di benevolenza attiva che comporta un’autentica sollecitudine per il bene dell’altro e si manifesta in una scelta di vita in comune, che è il risultato di una deliberazione razionale. Infatti, se l’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso, allora come per ciascuno è desiderabile il fatto di esistere, è altresì desiderabile l’esistenza dell’amico. In una mandria gli animali pascolano insieme ma in modo del tutto solitario, mentre vivere insieme condividendo ragionamenti e pensieri è proprio degli esseri umani e si realizza in modo eminente nell’amicizia. Quest’attenzione all’amicizia è tipica del mondo antico, anche se in questo caso rientra in una visione più generale della comunità e della vita politica. Secondo Aristotele, l’uomo è definibile come “animale politico” perché la vita nella polis corrisponde alla condizione propria dell’umano, cosicché solo chi ha una natura superiore o inferiore ad esso, ossia un dio o un animale, può esserle estraneo. Il conseguimento della felicità richiede la sussistenza di alcune condizioni esterne, in quanto gli esseri umani danno attuazione al bene comune ispirandosi alla giustizia e all’amicizia all’interno della cornice della città, la quale permette ai cittadini di partecipare attivamente 20 all’elaborazione di obiettivi comuni. Dunque, Aristotele considera la città come la “comunità completa” che assicura una vita umana piena e autosufficiente, distinguendosi dallo stato platonico, dove non c’è spazio per la felicità individuale. Le etiche di Platone e Aristotele condividono l’idea di un baricentro unificante avente la funzione teleologica di polo di attrazione dell’essere umano, rispetto al quale teoria e prassi, sapienza e virtù si mostrano come alleati indispensabili per conseguire una vita buona e felice. A parte tale aspetto, le strade di questi due filosofi sono molto diverse: in particolare, nell’approccio ai problemi morali, nel metodo individuato per affrontarli e, molto spesso, anche nelle soluzioni proposte per le singole questioni. Aristotele, misurandosi con la dimensione plurale e pratica del bene, si è interrogato sulla possibilità di ricercare una tensione teleologica unificante a partire dalla dinamica stessa della vita morale, ponendosi un problema di metodo per la sua indagine e offrendone un’articolazione analitica che diventerà un punto di riferimento irrinunciabile anche nelle epoche successive. La compaginazione teoretica dell’intero edificio speculativo, la potenza dell’argomentazione dialettica e la capacità di modulare l’esercizio dell’indagine razionale in rapporto alla diversità dei suoi oggetti non impediscono un biologismo e un naturalismo latenti, e se ne coglie qualche testimonianza nella tensione irrisolta fra un’etica legata al naturale e, al contempo, aperta all’universale, nonché nelle questioni lasciate irrisolte sull’immortalità dell’anima umana. L’assenza di una teoria compiuta della persona umana sembra il motivo di una scarsa resistenza critica nei confronti di alcuni stereotipi culturali dominanti, come l’affermazione della superiorità del maschio sulla femmina o la tesi della naturale inferiorità dello schiavo e del “barbaro”. In conclusione, la stagione d’oro del pensiero greco si chiude con questi due personaggi, Platone e Aristotele, e lascia in eredità due universi di senso e due paradigmi fondamentali dell’etica, ai quali il pensiero occidentale sarà continuamente rinviato

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