Un'Idea di Scuola PDF
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Università degli Studi di Firenze
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Questo documento analizza l'evoluzione dell'idea di scuola in Italia, esaminando le politiche e le riforme scolastiche in diversi periodi storici. L'autore evidenzia le tensioni tra diverse scuole di pensiero e i tentativi di riforma, soffermandosi sul ruolo della scuola nel contesto socio-politico del paese.
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PER UN’IDEA DI SCUOLA PREFAZIONE Questo è un libro di PEDAGOGIA MILITANTE: non mira alla teoria pura, ma si pone un problema storico-pratico. La questione che intende affrontare è a quale idea di scuola dobbiamo oggi guardare per concepire le politiche scolastiche e il concreto funzionament...
PER UN’IDEA DI SCUOLA PREFAZIONE Questo è un libro di PEDAGOGIA MILITANTE: non mira alla teoria pura, ma si pone un problema storico-pratico. La questione che intende affrontare è a quale idea di scuola dobbiamo oggi guardare per concepire le politiche scolastiche e il concreto funzionamento del sistema d’istruzione (genere di scuola che avremo, quale tipo di cittadini e lavoratori, quale forma di società viene promossa). Negli ultimi dieci anni però, si è verificato un progressivo tramonto di una vera idea di scuola, dunque non abbiamo più una politica scolastica degna di questo nome. Così, nel riprogettare la scuola per la prossima stagione storica, si corre il rischio di restare imprigionati in queste gabbie di pensiero (Destra e neoliberiste). In altre parole, eventuali futuri governi progressisti potrebbero subire le parole-cornice della Destra, restando ostaggi di perimetri concettuali dati ormai per scontati, e finendo così per accettare come preminenti le questioni imposte dal neoliberismo. Dunque, risulta indispensabile tornare a pensare UN’IDEA DI SCUOLA, ossia riprendere un’elaborazione in grande del suo principio educativo. Oltre a porre e argomentare questa esigenza, intende rappresentare un contributo a una tale elaborazione. A questo scopo, esso si basa su alcuni assunti cardinali: - in primo luogo, un’idea di scuola capace di orientare le politiche scolastiche, elaborata perciò, in rapporto allo scenario storico-sociale; - in secondo luogo, un’idea di scuola dotata di rilevanza storico-sociale non va riferita a uno sviluppo astratto dell’essere umano, questi aspetti devono essere visti nel quadro della formazione dei produttori e dei cittadini del nostro paese; - infine, non può essere il parto di un singolo pensatore, e nemmeno quello dell’intera comunità accademica. Esso può essere soltanto il frutto di un intellettuale collettivo, ossia dell’apporto di studiosi di vario orientamento e di una molteplicità di forze sociali. Questo è anche un libro di pedagogia SCHIERATA → le ipotesi non pretendono di essere neutrali, sono elaborate in spirito di autonomia, ma a partire da un’angolazione laica, critica e progressista. PROGRESSISTA: in quanto, rispetto agli idoli neoliberisti (PRODUTTIVITA’, MERITOCRAZIA, COMPETIZIONE), le tesi del volume privilegiano l’universo di valori sociali proprio del pensiero orientato a sinistra quali → democrazia, emancipazione, uguaglianza e solidarietà. LAICA: non nel senso di anti-ecclesiastica, bensì in quello relativo all’autonomia della formazione rispetto ad altre sfere (politica, economia, religione) con le quali deve interagire senza chiusure autoreferenziali, ma senza subordinarsi a esse, dunque libero da qualsiasi schematismo pratico. CRITICA: poiché pur attingendo ampiamente al pensiero di sinistra, il ragionamento intende serbare un taglio antidogmatico e rimanere quindi distante da ogni imposizione dottrinaria. Il volume è diviso in tre parti: - Prima parte → illustra il senso dell’idea di scuola e ne rileva il progressivo appannamento nell’ultimo decennio, cercando di rintracciare le radici culturali a partire dalle quali divenga possibile rivitalizzarne il ruolo (con Dewey e Gramsci); - Seconda parte → analizza i due attuali grandi paradigmi economico-politici della formazione. Il paradigma del CAPITALE UMANO, volto alla preparazione di produttori efficienti e il paradigma dello SVILUPPO UMANO, teso all’espansione delle libertà sostanziali dei cittadini. Inoltre, sulla base della discussione di tali paradigmi, si provvede ad analizzare le prospettive della formazione del lavoratore e del cittadino, cercando di chiarire il ruolo peculiare che la scuola può svolgere; - Terza parte → porta a sintesi le analisi precedenti traendone le implicazioni sul piano pratico-normativo per la definizione di un certo tipo di scuola, adatto per la presente stagione storica. Vengono focalizzati i diversi piani della formazione scolastica: curriculare, strutturale, didattico, istituzionale e deontologico. E in relazione ad essi, prese di posizioni circa alcuni nodi: istruzione/educazione, professionalizzazione/formazione generale, conoscenze/competenze, individualizzazione/personalizzazione, scuola-azienda/scuola comunità, equità/meritocrazia. PARTE PRIMA: L’IDEA DI SCUOLA COME CORNICE PER LA FORMAZIONE 1. L’idea di scuola e il suo crepuscolo Vi sono due modi di concepire l’idea di scuola. Il primo è quello di senso comune, riflesso dell’ethos sociale dominante, il secondo è quello riflessivamente elaborato, capace di mettere capo a esiti più avanzati e consapevoli. Complessivamente le idee informali di scuola hanno inciso di più di quelle formali, gli snodi però, e gli eventi assiali della vicenda scolastica, sono stati legati alla messa a punto di idee formali che hanno trovato espressioni in riforme. Dopo la legge Casati del 1859, il nostro sistema scolastico ha conosciuto un’unica riforma, la Riforma Gentile del 1923, una riforma reazionaria, prima ancora che fascista, che mirava a dare al sistema scolastico una struttura chiusa e selettiva, capace di separare rigorosamente la formazione delle classi dirigenti da quella delle classi subalterne. Nel dopoguerra, dopo le battaglie nella Costituente sul nodo scuola statale/privata, la scuola affondò rapidamente nella palude dell’immobilismo, che l’inchiesta del ministro Gonella contribuì a creare. In questa fase, l’idea di scuola rimaneva prevalentemente allo stato implicito negli anni del Centrismo. Dopo la metà degli anni Cinquanta, estendendosi fino alla fine degli anni Ottanta, ci fu una stagione contrassegnata dalle battaglie per l’innovazione scolastica, ispirata all’idea di una scuola democratica. Le riforme cardinali di questa fase sono state l’unificazione della scuola media nel 1962 e l’istituzione della scuola materna statale del 1968. Negli ultimi quindici anni, il sistema scolastico è stato soggetto a una permanente tensione di cui sono stati protagonisti gli schieramenti di centrosinistra e di centro-destra. In tali anni, un tentativo di riannodare le diverse linee di innovazione è stato quello del ministro Berlinguer. Il ministro, durante il governo Prodi, ha tentato una riforma delle strutture della scuola secondo una strategia gradualista, andando avanti con provvedimenti mirati. Questo tentativo non ha prodotto però gli effetti sperati a causa del ritorno al governo della destra nel 2001. L’onorevole Berlusconi aveva già espresso il proprio pensiero sulla scuola nel 1994, compendiando nelle celebri tre I: IMPRESA, INGLESE, INTERNET. Si Indicava la scuola come un pezzo del sistema economico, tale messaggio era però difforme dalle convinzioni della parte più consapevole della scuola, che potrebbero essere riassunte con tre C: COMUNITA’, CULTURA, CONOSCENZA. Occorreva una mediazione capace di mettere in una forma pedagogica accettabile lo spirito economicista e funzionalista delle tre I. A questo scopo, il ministro Moratti incaricò il professor Bertagna di disegnare la nuova riforma scolastica. Questi lo fece radicando il nuovo corso su una propria interpretazione del concetto di personalizzazione. La PERSONALIZZAZIONE consiste nella valorizzazione delle specifiche potenzialità di ogni persona, che portate al loro pieno sviluppo, definiscono la vocazione professionale di ciascuno. Perciò, personalizzare significa formare il produttore e valorizzare la persona, nel medesimo tempo. Da questo quadro, viene lasciato fuori il concetto di INDIVIDUALIZZAZIONE, ossia l’idea che tutti, indipendentemente dalla propria estrazione sociale, devono poter raggiungere le competenze basilari per la formazione del cittadino. Il modello di personalizzazione messo a punto ha, dunque, un carattere unilaterale ed è incline ad avallare le disuguaglianze culturali. Pur con questi limiti, l’elaborazione del professor Bertagna consegna un’idea di scuola; un’idea per molti versi non condivisibile, ma pur sempre un’idea. L’idea c’era, si trattava di renderla dominante. Il ministro attivò, perciò, una potente e ben orchestrata campagna di propaganda. All’atto pratico, la realizzazione di questo disegno trova però ostacoli, il conflitto culturale sulla scuola assume così la forma di una guerra di trincea che blocca il compimento del disegno egemonico del ministro Moratti. Dopo la parentesi del secondo governo Prodi, la marcia dei governi di Destra riprende con il ministro Gelmini alla guida del Dicastero dell’istruzione. Il ministero esordisce con una serie di iniziative che sembrano però prive di una cornice organica: dal ritorno ai voti, al cinque in condotta, al grembiulino, fino alla restituzione del maestro unico, che colpisce una delle innovazioni più importanti della scuola base. Il tutto legittimato con il ritorno alla sana tradizione, a una scuola seria e meritocratica e accompagnata a una serie di gravi tagli. Come leggere queste mosse? Da un lato, creare effetti mediatici capaci di distogliere l’opinione pubblica dalla politica di tagli alla scuola. Dall’altro la scelta di parlare solo alle forze più tradizionali. Dall’altro ancora, pare che la rinuncia a un’egemonia organica sulla scuola pubblica vada disinvestire su essa, investendo invece sulla scuola privata. In ogni caso, si fatica a individuare l’elemento fondamentale di un’idea di scuola, tranne che per Berlinguer e Moratti. Senza un’idea di scuola, è come se la politica navigasse priva di bussola. 2. Il filo conduttore della vicenda scolastica italiana Per comprendere la parabola dell’idea di scuola, occorre collocarla entro uno schizzo complessivo della storia della scuola italiana, guarderemo perciò ad alcune interpretazioni che ne hanno proposto un filo conduttore: Borghi, Bertoni Jovine, Barbagli, Gattullo-Visalberghi. Lamberto Borghi ha identificato due tradizioni culturali che, fin dal Risorgimento, hanno inciso sulla vicenda scolastica: una tradizione autoritaria e una democratica. La tradizione autoritaria è insita nella cultura borghese del nostro paese, ed è tesa a riprodurre le gerarchie sociali esistenti. Essa si riflette così in una pedagogia volta a separare la formazione dei ceti dominanti da quella dei ceti subalterni. La tradizione democratica, indubbiamente minoritaria, è invece propensa a una formazione culturale per tutti, capace di superare lo iato tra l’istruzione elitaria e quella popolare. Barbagli ha ipotizzato che l’espansione o la stagnazione dell’istruzione dipenda non solo dalla domanda della stessa, ma anche dal conflitto tra i gruppi sociali per la mobilità sociale. In maniera specifica, questo conflitto riguarda i meccanismi di filtro della domanda d’istruzione e quelli di selezione della popolazione scolastica. Nella situazione italiana, i gruppi sociali privilegiati tenderebbero a evitare una sovrapproduzione di titoli di studio elevati, capace di creare disoccupazione intellettuale e competizione con i gruppi dotati di velleità ascendenti. Questo non significa che i gruppi dominanti siano sempre necessariamente contrari, in certe fasi possono essere anzi favorevoli per esigenze di qualificazione dei lavoratori in rapporto al mutamento dei modi di produzione, vuoi per la loro socializzazione ai valori dominanti. Così, il problema dei gruppi dominanti è quello di realizzare un utile compromesso tra le esigenze di selezione e quelle di socializzazione. I mezzi con cui realizzare questi obiettivi sarebbero connessi principalmente all’assetto strutturale della scuola, e più precisamente al grado di chiusura/apertura della secondaria inferiore e al grado di professionalizzazione/deprofessionalizzazione della secondaria superiore. La storia della scuola italiana può essere vista alla luce del conflitto tra forze moderate e forze progressiste. La posta di questo conflitto può essere considerata duplice → da un lato egemonia culturale e dall’altro mobilità sociale. Ovviamente queste due poste sono connesse, perciò i gruppi sociali in conflitto tentano di conquistarle entrambe. Lo sviluppo socio-politico del nostro Paese è stato segnato dalle debolezze della borghesia risorgimentale e post-unitaria, che invece di assumere la guida del progresso e della modernizzazione del Paese ha preferito un compromesso con i grandi proprietari agrari mondiali e uno sviluppo industriale protetto e finanziato dallo Stato, fino a realizzare ampie forme d’infeudamento con esso. Di questa vicenda fa parte la tendenza a separare la formazione dei ceti dirigenti da quella dei ceti subalterni, così da mantenere rapporti di potere gerarchici e privilegi sociali. Una tendenza che permane anche nel dopoguerra e perdura in parte tutt'oggi, ovviamente tutto questo vale solo per lo più. Ma in generale, si è mantenuto e perdura questo conflitto tra una tendenza a gerarchizzare la formazione e una tendenza verso un progresso culturale di massa. Circa i mezzi con cui viene combattuto questo conflitto, oltre al fondamentale filtro dell’assetto strutturale, la selezione viene realizzata attraverso dimensioni curricolari, didattiche e istituzionali. La selezione ha visto almeno quattro diverse forme: selezione per evasione dell’obbligo, selezione esplicita (bocciature), selezione implicita (promozioni che non corrispondevano ad un’effettiva padronanza delle conoscenze). La selezione si basa oggi sulla combinazione tra la selezione implicita nella scuola dell’obbligo con la selezione esplicita nel primo biennio della secondaria superiore ancora in parte professionalizzata. L’obiettivo delle forze democratiche è quello dell’emancipazione culturale attraversi la realizzazione di un sistema scolastico aperto e caratterizzato da un obbligo esteso capace di abbattere i processi di selezione sia di tipo esplicito che di tipo implicito, portando tutti gli studenti a padroneggiare le conoscenze e le competenze cruciali sia come cittadini, sia come produttori. Occupandoci della forma vedremo le ipotesi di Bertoni Jovine e di Gattullo-Visalberghi. Il filo conduttore è stato individuato da Gattullo e Visalberghi nella resistenza alle riforme scolastiche attraverso la tattica dell’ostruzionismo di maggioranza, ovvero un’alternativa alla pura resistenza programmatica, ed è basata su tecniche che partendo dalla apparente accettazione di soluzioni avanzate, ne vanificano la realizzazione durante l’iter parlamentare o in sede attuativa. Tuttavia, la sua adozione come chiave interpretativa generale suscita perplessità. In primo luogo, questo canone interpretativo non sembra generalizzabile all’intera storia della scuola italiana: inapplicabile non solo ai periodi liberale e fascista, ma anche alla fase 1983- 1992, nonché al recente periodo di governo della sinistra e della destra, dove si dovrebbe semmai parlare di attivismo della maggioranza. Ma soprattutto, questa ipotesi rischia di attribuire l’iniziativa alle sole forze progressiste di opposizione, mentre la classe al potere si limiterebbe a cercare di mantenere lo status quo. Dobbiamo perciò guardare altrove, prima di questi studiosi la Bertoni Jovine aveva pronunciato un giudizio diverso, paragonando il conflitto per la scuola a una guerra in trincea, per sottolineare la lentezza dei mutamenti nella scuola. Questa espressione richiama con ogni evidenza la categoria gramsciana della guerra di posizione e si presta quindi a raccogliere le suggestioni teoriche in essa implicate. Nei Quaderni del carcere, Gramsci, trasporta la distinzione tra guerra di posizione e guerra manovrata dal campo militare a quello politico, la guerra di posizione consiste sempre in un assedio reciproco tra le forze avverse. Inoltre, secondo Gramsci le sovrastrutture della società civile rappresentano le trincee della moderna lotta politica. Perciò quando la Bertoni Jovine parla del conflitto scolastico come guerra in trincea, dobbiamo intenderla non solo come lotta nelle sedi direttamente politiche, ma in senso più ampio, come una battaglia entro le sovrastrutture ideologiche della società. A conferma di ciò, secondo Gramsci, la guerra di posizione non mira solo a mutamenti materiali, bensì a modificare i modi di pensare e di operare. In altre parole, il conflitto e l’assedio reciproco tra conservatori e progressisti non si svolge solo nella sfera politico- giuridica, legata all’emanazione di leggi scolastiche, ma si estende alla sfera culturale delle idee sulla scuola. Secondo Gramsci, soltanto la guerra di posizione può essere decisiva, la guerra manovrata dà frutti solo se le posizioni già raggiunte sono favorevoli, altrimenti porta a risultati secondari. Quando la battaglia culturale a favore di certe misure ha già condotto il mondo della scuola a un orientamento favorevole, allora l’emanazione di una legge può dare un cambiamento effettivo delle cose. La categoria della guerra di posizione identifica però più la forma politico-culturale del conflitto che la morfologia dei processi reali a cui esso dà luogo. Su quest’ultima questione possiamo solo dare un cenno ricordando la connessione operata da Gramsci tra guerra di posizione e rivoluzione passiva. La rivoluzione passiva rappresenta il modo in cui i moderati hanno guidato il Risorgimento, attraverso modificazioni molecolari, capaci di trasformare progressivamente la situazione senza rotture clamorose, accogliendo in una certa misura qualche parte delle esigenze popolari. Secondo Gramsci la rivoluzione passiva si compie attraverso la guerra di posizione cosicché le due categorie sono connesse. Le forze moderate possono accettare anche istanze favorevoli a un progresso culturale di massa, se questo è funzionale allo sviluppo delle forze produttive. Tuttavia, le forze dominanti cercano di piegare le riforme alla logica della rivoluzione-restaurazione, accogliendo in parte le istanze progressive ma per imbrigliare e contenere i cambiamenti. Il filo conduttore della storia della scuola italiana può essere ravvisato nel conflitto tra forze conservatrici e forze progressiste, un conflitto che ha per contenuto l’emancipazione culturale delle masse popolari e per forma quella della guerra di posizione politico-culturale. Il rischio, dunque, è quello che ci si fermi a mutamenti nelle cornici, mentre occorre un cambiamento delle cornici. La ripresa del movimento progressista nel campo scolastico deve, cioè, essere accompagnata da una rinnovata elaborazione teorica e da una fase della battaglia culturale. 3. I fondamenti dell’idea di scuola: Dewey e Gramsci In questo paragrafo intendiamo mettere a fuoco il punto nodale dell’idea di scuola: il principio educativo. Occorre dunque chiarire la pertinenza di un attributo come educativo per la scuola in quanto istituzione deputata all’istruzione. La distinzione tra istruzione ed educazione è di natura concettuale: nella pratica, l’educazione accompagna sempre l’istruzione, producendosi collateralmente a essa. Questo concetto implica che si consideri l’istruzione come un’istruzione educativa. Gramsci in riferimento a questo afferma: Non è completamente esatto che l’istruzione non sia anche educazione: l’aver insistito troppo su questa distinzione è stato il grave errore della pedagogia idealista. In altre parole, l’istruzione non è mai una ricezione meramente passiva di nozioni, implica sempre un’elaborazione attiva da parte del discente. Se le cose stanno così, allora l’istruzione non è solo istruzione, bensì è anche educazione. Pertanto, si può riassumere dicendo che si educa la mente ad apprendere. Gramsci supporta questa tesi asserendo che se il nesso istruzione-educazione viene sciolto per risolvere la questione dell’insegnamento secondo schemi cartacei in cui l’educatività è esaltata, l’opera del maestro risulterà ancora più deficiente: si avrà una scuola retorica, senza serietà. Una scuola che cerchi di essere direttamente educativa, rompendo il nesso dell’educazione con l’istruzione, fallisce proprio sul terreno dell’educazione, riducendola a una retorica predicatoria. A scuola, dunque, si ha una vera educazione solo nel nesso con l’istruzione. In questo modo si può cogliere il valore formativo dei saperi, si realizza nel lungo termine e consiste nella strutturazione di abitudini mentali quelle che Gardner definisce forma mentis, ovvero l’acquisizione di forme di intelligenza e di mentalità legate ai vari domini del sapere. Enfatizzare la strutturazione delle formae mentis vuol dire spostare l’attenzione sugli effetti formativi d’insieme e di lungo termine della scuola. Domandarsi quali saranno o dovrebbero essere questi effetti significa mettere a tema la questione del principio educativo della scuola. Prendiamo in considerazione il modo di affrontare la questione da parte di Dewey e Gramsci. Gli elementi cardine degli autori, in estrema sintesi, sono quello da ravvisare nel carattere unitario e unificante del principio educativo, e nel suo carattere storico-relativo. Consideriamo brevemente le prospettive di questi due autori. Dewey nella prefazione di Democrazia ed educazione precisa che la filosofia collega lo sviluppo della democrazia con quello del metodo sperimentale delle scienze. Il principio educativo di Dewey è precisamente costituito da questo nesso tra metodo scientifico e spirito democratico. Il metodo scientifico è di per sé promotore di democrazia, perché associa la logica della ricerca sperimentale alla libera discussione dei risultati in qualsivoglia campo, incluso quello dei problemi sociali della comunità. D'altra parte, la democrazia rappresenta la condizione del pieno uso dell'intelligenza per la soluzione di tali problemi, poiché garantisce la possibilità di una discussione realmente libera. Se da un lato la democrazia è il contesto in cui si può applicare il metodo dell'intelligenza per la soluzione dei problemi della società, dall'altro la democraticità della ricerca ne rappresenta una garanzia di validità epistemologica, perché è un'interpretazione sottratta alla pubblica discussione rischia di essere “soggettiva” nel senso deteriore del termine o ancora peggio autoritaria. Così l'educazione al metodo scientifico, al metodo dell'intelligenza, rappresenta un'autentica educazione democratica e alla democrazia. Per Dewey, l'educazione non consiste nel modellare i giovani secondo modelli precostruiti, ma nel liberare la loro intelligenza e farne un abito mentale cosicché diventano capaci di imparare da soli ad affrontare i loro futuri problemi sociali. L'abitudine all'uso dell'intelligenza è precisamente una di queste abitudini da formare, poiché l'uso del metodo dell'intelligenza è un abito mentale, esso è un effetto collaterale di lungo termine della formazione scolastica. Passiamo adesso a Gramsci, anche per lui il compito fondamentale della scuola è quello di promuovere democrazia, ma una democrazia politica che faccia coincidere governanti e governati (nel senso di un governo con il consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito delle capacità e della preparazione tecnica generale necessaria al fine, ossia formandolo come un soggetto capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Pertanto, il principio educativo di Gramsci consiste nell’idea che la scuola non deve pensare solo alla formazione del produttore, ma anche a quella del cittadino. tutti devono essere dotati delle competenze per poter diventare dirigente politico, cosicché chiunque anche se non lo diventerà effettivamente, sarà in grado di controllare chi dirige e giudicare se dargli il proprio consenso o no. Questa finalità implica una formazione basata sul “nuovo” umanesimo, dove l’aspetto professionale è connesso con la competenza politica che, in una società democratica, deve fare di ogni uomo un cittadino capace di svolgere la funzione di dirigente. Gramsci, quindi, connette due fondamentali assi culturali: quello tecnico- scientifico e quello storico- umanistico, indispensabile per la formazione in senso democratico del cittadino. Concludendo quindi il principio educativo di Gramsci consiste nel superamento della separazione fra una formazione culturale per le classi dirigenti e una formazione meramente utilitaria per quelle subalterne: in un Paese democratico, tutti devono essere formati come potenziali dirigenti. La riflessione di questi pensatori è accomunata dal metodo generale che adoperano: in primo luogo, la ricerca di un principio educativo nella scuola, ossia l’interrogarsi sul valore formativo del percorso scolastico, ponendosi la questione dell’esito finale complessivo della sua organizzazione. L’altro tratto è quello di porsi la questione del principio educativo non in maniera astratta e metafisica, ma bensì storicizzata → di fatto Dewey afferma che l’educazione è sempre una funzione del contesto sociale, per questo la mette in rapporto con l’epoca dell’industrialismo. Uguale Gramsci, lega la questione del principio educativo a quella dell’americanismo, il quale è la risposta culturale (e anche pedagogica) alle esigenze dell’industrialismo, cioè la necessità di “elaborare un nuovo tipo di umano” conforme al nuovo tipo di produzione. Qua nasce anche la divergenza fra i due pensatori: di fatto, Gramsci teorizza la conformità della formazione allo sviluppo storico dei modi di produzione, legando così l’americanismo al conformismo, dove lo sviluppo della personalità non è un processo spontaneo ma è il frutto dell'ambiente storico. il principio educativo è quindi legato all’esigenza di conformazione. Dewey, invece, pur ponendo il nesso fra democrazia e industrializzazione, asserisce che il compito delle generazioni adulte non è quello di conformare i giovani a qualche condizione ritenuta migliore o più idonea, bensì quella di dotarli di abitudini intelligenti per far fronte ai loro problemi. In ogni caso, l’attenzione alla storia e alla realtà sociale comporta un principio educativo declinato non a un uomo astratto, ma sull’uomo concreto che vive in una certa realtà storico- sociale. Sarà perciò in relazione a tale uomo concreto e storico che dovrà essere pensato un principio educativo in grado d’informare in maniera omogenea e coerente l’intera formazione scolastica. (oggi si parla di un'epoca post-industriale e di economia fondata sulla conoscenza, per questo le ipotesi sul principio educativo vanno ripensate). PARTE SECONDA: LINEAMENTI DELL’IDEA DI SCUOLA 4. Livelli e costrutti della formazione scolastica Il punto di partenza di questo capitolo è l'idea dell'uomo concreto → ossia un individuo in carne e ossa che vive in un certo contesto storico-sociale. la realtà dell’uomo concreto si coglie attraverso le sue forme di funzionamento sociale. Egli è produttore e consumatore di beni (materiali e immateriali) grazie ai quali può soddisfare i propri bisogni (fisici e spirituali). Ma questo suo duplice funzionamento sociale, come produttore come consumatore, si compie in una situazione segnata dalla divisione sociale del lavoro, per cui i beni che egli produce non sono volti direttamente al proprio personale consumo, ma sono il mezzo con cui egli -attraverso la circolazione delle merci- può ottenere i beni (prodotti da altri) di cui ha bisogno. cosi ogni uomo è in rapporto d’interdipendenza con i propri simili, insieme ai quali forma la comunità sociale e perciò egli è produttore e consumatore in quanto è al tempo stesso cittadino di tale comunità. Quindi se bisogna considerare l'uomo concreto come consumatore, produttore e cittadino, bisogna affrontare la questione educativa da un'angolazione differente ovvero porsi il problema della formazione dell’uomo in quando produttore, consumatore e cittadino. Si tratta di una prospettiva diversa, partendo dalle direzioni ideali della sua esperienza: la formazione intellettuale, la formazione etica- sociale ecc. individuare un principio educativo storicizzato significa dare risposte al problema della formazione dell'uomo (in quanto produttore consumatore e cittadino) in una data realtà storica o sociale. Questo ci porta a identificare due grandi ambiti di proiezione della formazione dell'uomo: il lavoro e la democrazia, in quanto spazi entro cui si è estrinsecano i suoi funzionamenti sociali di produttore e di cittadino. Si tratta delle due grandi dimensioni che campeggiano nella nostra costituzione fin dal suo primo articolo (L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro). Prima di affrontare l'articolazione del principio educativo in rapporto a questi ambiti di riferimento, è però necessario mettere rapidamente a fuoco alcuni costrutti della formazione scolastica, sia in quanto istruzione sia in quanto educazione. Alla formazione scolastica possiamo ricondurre un insieme di processi d'apprendimento. È opportuno distinguere però i vari livelli di apprendimento a seconda del cambiamento che si verifica (Bateson): - l’apprendimento di primo livello consiste in una modificazione del comportamento e della struttura cognitiva, a seguito dell’esperienza. in questo livello si imparano conoscenze, abilità e saperi scolastici. - l’apprendimento di secondo livello concerne un cambiamento del modo di apprendere al primo livello. Si apprende in modo più rapido e le acquisizioni tipiche sono abiti mentali, ossia in disposizioni durevoli capaci di dare luogo a modi di vedere le cose e a maniere di pensare. In altre parole, si formano abitudini astratte che rendono propensi a ragionare in certi modi e agire in certe maniere. Il primo livello riguarda l'istruzione, si imparano conoscenze e abilità relative a un campo di saperi; il secondo livello concerne invece l'educazione, si strutturano abiti mentali ed emotivi che costituiscono la mentalità e il carattere dell'individuo. Secondo Bateson, l'apprendimento di secondo livello è collaterale a quello di primo livello, ossia si struttura soltanto parallelamente a quest'ultimo ma non in modo isolato. Pertanto, non vi sono momenti in cui si apprendono conoscenze e momenti in cui si strutturano abiti mentali, bensì il modo in cui si apprendono le conoscenze da parallelamente forma a certi abiti mentali. La differenza tra questi livelli è l'ordine temporale: le conoscenze e le abilità si imparano a breve medio termine, gli abiti mentali hanno tempi medio lunghi di strutturazione. Il rapporto collaterale tra il primo e il secondo livello dell'apprendimento informa anche il nesso tra istruzione ed educazione, confermando la nozione di istruzione educativa: a scuola, l'educazione è legata ai processi di istruzione. Recidere questo nesso tentando di fare direttamente educazione, ne causa una degenerazione retorica e predicatoria. Di fatto mentre le conoscenze e in parte anche le abilità, sono esposte ad un certo tasso di dissipazione, gli abiti mentali divengono una sorta di seconda natura e quindi tendono a condizionare il funzionamento mentale dell'individuo in modo permanente (diventando il prodotto più durevole e importante della formazione scolastica). Pertanto, è ragionevole impostare il problema del principio educativo nei termini degli esiti formativi d’insieme e di lungo termine della formazione scolastica, legandolo al guardaroba di abiti mentali strutturato nel corso di questa. per comprendere la questione relativa a quale corredo mentale la scuola deve dotare l’individuo gioca un ruolo fondamentale lo studio delle competenze → per competenza si intende la capacità di usare le conoscenze inerenti a un certo campo di attività per agire in modo efficace rispetto a compiti e contesti non banali, che non implicano solo prestazioni standard ma anche la soluzione di problemi. Il motivo per cui si è iniziato a usare per la scuola questo costrutto è legato ai limiti ravvisati nell'istruzione tradizionale, basata sulla mera trasmissione di conoscenze. Tali limiti sono almeno due: in primo luogo, la formazione tradizionale tende spesso a esaurirsi nella capacità di ripetere le conoscenze senza però saperle usare; in secondo luogo, anche laddove si accede a tale uso, esso tende a rimanere incapsulato nel contesto scolastico stentando a trasferirsi in situazioni extra scolastiche. La competenza è allora la capacità di usare creativamente le conoscenze relative a un certo campo d'attività, trasferendola in vari contesti problematici. Così concepita, la competenza mostra una struttura complessa, tale da includere sia la conoscenza, sia l'abilità, sia l'abito di pensiero. Difatti la competenza richiede sia un certo sapere (o conoscenza) sia un dato saper fare (o abilità), cosicché l'elemento conoscitivo costituisce la base che informa quello procedurale. Pertanto, essere competenti significa a un tempo sapere, saper fare e saper pensare e questo mette in grado di affrontare i compiti e i problemi di un certo campo d'attività. La struttura della competenza implica una sinergia fra le componenti del primo livello (abilità e conoscenze) a quelle di secondo livello (abiti mentali). Prima di concludere, occorre evidenziare un limite nella formazione scolastica delle competenze. una competenza strutturata nel senso professionale del termine include un aspetto pragmatico inerente alla capacità di usare conoscenze e abilità come mezzi per gli scopi concernenti un dato ambito professionale e i suoi contesti tipici. Il profilo pragmatico di una competenza dal punto di vista professionale si acquisisce mettendola in pratica al tirocinio o nell’esercizio della professione. la scuola non può formare competenze dotate del profilo pragmatico specifico per contesto. La strategia degli stage e dei tirocini durante il percorso formativo va vista con un'ottica di prevenzione dell’incapsulamento delle competenze. (spiegata meglio, la scuola dota i soggetti di competenze ma se non applicate a lavoro non funzionano) Se la questione del principio educativo significa, perciò, mettere a tema gli effetti educativi di lungo termine dell'istruzione. Se in linea di principio il primo livello ottiene all'istruzione e il secondo all'educazione (intellettuale), il motore della formazione scolastica è comunque l'istruzione, perché l'educazione - ossia la strutturazione di abiti e competenze - è il portato di lungo termine di un certo assetto dell'istruzione stessa. Siamo infine all'apprendimento di terzo livello, processo di modificazione degli abiti precedentemente appresi. Questo tende ad avvenire quando il mutamento di condizioni e contesti rende inadeguati certi abiti che in precedenza assicuravano il nostro equilibrio con le esigenze poste dall'ambiente sociale (vecchiaia). Se poi questo processo si ripete, tende allora a strutturarsi un abito più astratto, di terzo livello: l'abitudine a cambiare i propri abiti, ossia la capacità di abbandonare rapidamente modalità di pensare e di agire è diventata inadeguate, e contrarre altrettanto rapidamente nuovi abiti. Potremmo definire questo abito più astratto come l'abito della flessibilità mentale. Questo terzo livello rappresenta così un livello formativo che ha per oggetto la ristrutturazione dei risultati dell'educazione, può essere anche denominato meta educazione. 5. I grandi paradigmi formativi economico-politici: il capitale e lo sviluppo umano Come si è detto, sulla formazione scolastica si registra una transazione, da un'impostazione centrata sulle conoscenze a un'impostazione centrata sulle competenze. Con quest'ultima, oltre alle conoscenze si includono nella formazione e le abilità e gli abiti di pensiero, e si tende a spezzare l'incapsulamento scolastico delle conoscenze stesse, ponendo a tema il loro trasferimento nei contesti sociali d'uso. Pur con alcuni innegabili limiti, l'approccio centrato sulle conoscenze sembra garantire un'istruzione generale di ampio respiro culturale fondamentale per l'emancipazione dei soggetti. Oltre a ciò, la competenza non è esente da sospetti: la sua nascita in sede di formazione professionale sembra preludere a uno schiacciamento della formazione scolastica sulle esigenze della produzione economica con la rinuncia a una formazione di tenore generale. Occorre perciò analizzare criticamente l'ipotesi della transizione dal costrutto della conoscenza a quello della competenza interrogandosi sul senso e sui limiti di tale operazione. Come si è visto, questo è il vero problema del principio educativo e dell'idea di scuola: tracciare una cornice culturale omogenea al cui interno acquisisca senso organicità la formazione scolastica. A questo scopo, analizzeremo il senso del costrutto della competenza entro due grandi paradigmi politico formativi: quello del capitale umano e quello dello sviluppo umano. Si tratta di due paradigmi sorti in ambito politico- economico e dunque extra pedagogico, ma è questo l'ambito pertinente per impostare la formazione scolastica nei termini dei funzionamenti sociali da garantire all'individuo. Il contributo pedagogico, in questo caso, consiste nel non accettare dogmaticamente l'uno o l'altro paradigma, ma nello sviluppare un'analisi critica dei loro portati formativi, considerandoli dapprima nella loro potenziale opposizione. 5.1. Il paradigma del capitale umano Il paradigma del capitale umano tematizza in senso funzionalista il rapporto tra scuola e sistema socioeconomico. In quest'ottica, la scuola è vista come un pezzo di tale sistema virgola e la sua funzione è perciò quella di preparare i lavoratori da impiegare nei processi produttivi, così da assicurare l'efficienza di quest'ultimi. “Capitale” è tutto ciò che entra nel processo produttivo. Si può distinguere tra capitale fisico- come i mezzi di produzioni, le materie prime, i macchinari- e capitale intangibile, che consiste nella capacità di lavoro dell’individuo (capacità fisiche e intellettuali) e nel sapere sociale di tipo tecnico-scientifico necessario al funzionamento produttivo. Il “capitale umano” è inerente alla componente intangibile del capitale, e ne costituisce un aspetto inseparabile dalla persona fisica che lo detiene. Il capitale umano può essere definito come lo stock di conoscenze e competenze possedute in un certo momento da un dato individuo, e suscettibili d'uso nei processi produttivi. Secondo una prima critica, tale definizione sembra riferirsi a una concezione ristretta che identifica piuttosto il capitale intellettuale vale a dire le conoscenze e le competenze possedute. In un'accezione più ampia, il capitale umano include anche la qualità dell'individuo che possono incidere sul processo produttivo, ossia i suoi modi di essere e di pensare (il suo carattere e la sua mentalità, cioè i suoi abiti mentali). Una seconda critica evidenzia che un mero stock di conoscenza o di competenze non costituiscano in sé per sé il capitale, lo diventano solo se incorporate in un piano di impiego produttivo ossia quando sono sussunte sotto un rapporto sociale di produzione. Unicamente sotto questa condizione, lo stock di conoscenza e competenze di un individuo diventano un capitale umano capace di generare un flusso di servizi produttivi. L'ipotesi fondamentale è che tale flusso sia in grado di incrementare l'efficienza del processo di produzione e perciò il capitale umano sia un fattore di miglioramento della produttività del sistema economico (e quindi capace di favorire la crescita economica e l'innalzamento del livello di vita della popolazione). Tali miglioramenti sarebbero misurabili in termini di accrescimento del prodotto nazionale lordo e dei redditi individuali. In questo modo l’investimento sociale nell’istruzione scolastica viene giustificato dall’esigenza di assicurare ai futuri produttori le conoscenze, le competenze e gli abiti capaci di farne lavoratori produttivi. La funzione sociale della scuola viene dunque identificata non con la mera istruzione, ma con l’istruzione volta alla formazione del produttore capace ed efficiente. Tuttavia, il nesso fra il capitale umano e la produzione necessita di essere argomentato e criticato. Gli argomenti a favore del nesso fra istruzione (come formazione di capitale umano) e produttività sono essenzialmente di due tipi: 1. Si basa sul tasso di ritorno sociale degli investimenti nell’istruzione ed evidenzia i benefici su scala aggregata che si ottengono da questa spesa. Secondo vari studi, tale investimento risulta in generale profittevole per la società. 2. Si basa sul legame fra gli elevati livelli di istruzione presenti in un paese e il suo progresso tecnologico. questo legame è evidente in relazione al tenore dei processi di ricerca e sviluppo volti all’innovazione tecnologica (disporre di più scienziati e ingegneri favorisce l'innovazione e l’applicazione di nuove tecnologie), sia in rapporto dell’appropriazione da parte dell'individuo delle competenze tecnologiche. Il nesso fra istruzione/ produttività viene però anche messo in discussione. Secondo l’ipotesi credenzialista, la ricerca di personale in possesso di certi livelli d’istruzione non sarebbe legata al tenore delle conoscenze e delle competenze garantite da tali livelli. I titoli di studio elevati costituirebbero credenziali in grado di assicurare il possesso di certe qualità personali considerate utili per l'efficienza dell’impresa. Una volta acquisiti dipendenti con queste caratteristiche, l'assimilazione delle competenze specifiche al processo produttivo avverrebbe prevalentemente on the job o con modalità formative interne, secondo le esigenze dell’azienda. In questa concezione, più che sulle competenze acquisite nell'istruzione si mette l'accento sul tipo di mentalità connessa a una formazione scolastica prolungata, considerandola simile a quella richiesta dalla cultura di impresa e quindi funzionale alle logiche della produttività. In questo modo, il nesso fra istruzione e produttività viene visto come indiretto: non sono tanto le competenze acquisite nell'istruzione a contare ma il tipo di mentalità strutturata collateralmente a un'istruzione prolungata. Pertanto, la scuola viene vista come produttrice non tanto di capitale intellettuale, quanto di capitale umano in senso più ampio, valorizzando anzi gli aspetti emotivi sociali. Il rischio è però quello di ridurre la scuola a un'agenzia ideologica, invece di mettere l'accento sul suo specifico intellettuale. La necessità di un adeguato stock di capitale umano diventa evidente soprattutto nell’odierna economica globalizzata fondata sulla conoscenza. I caratteri dell'economia fondata sulla conoscenza sono riepilogabili nei seguenti punti: - i settori economici legati all'informazione e alle tecnologie informatiche hanno un ruolo decisivo - nel totale del capitale impiegato nella produzione, la quota del capitale intangibile è preponderante rispetto al capitale fisico - il tasso di occupazione a elevato tenore di conoscenza cresce significativamente - cresce il ruolo della cooperazione cognitiva della produzione, le competenze sono acquisite da diversi soggetti che collaborano attraverso una rete organizzativa complessa (esempio amazon) - cresce la dinamicità del sistema-> per cui le innovazioni scientifiche acquisiscono un ritmo rapido e molti cambi di direzione - aumentano gli investimenti sociali nell’istruzione e nella ricerca Questi processi risultano correlati alla globalizzazione dell’economia, in quanto lo sviluppo di tecnologie avanzate dell’informazione e della comunicazione e la loro messa in forma di rete mondiale è una condizione fondamentale per il coordinamento dei processi di produzione e di vendita che coinvolgono diverse zone del mondo. In presenza di un'economia globale fondata sulla conoscenza, un'adeguata disponibilità di capitale umano e di capitale intellettuale, si pone come una condizione necessaria di funzionamento del sistema, nonché come un fattore cruciale di competitività economica per ogni singolo sistema- paese. L'idea di questa necessità è stata recepita nella strategia di Lisbona, che rappresentava il tentativo di rispondere alla dinamicità degli Stati Uniti e delle altre economie emergenti, facendo dell’Europa l'economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo entro il 2010. Tale strategia prevedeva un aumento dell'investimento in capitale umano, promuovendo l'istruzione post-obbligatoria e superiore, una formazione permanente con misurata necessità del mercato del lavoro, la formazione di una quantità adeguata di personale specializzato nelle tecnologie e nella ricerca. (tali obiettivi sono falliti, soprattutto in Italia). Occorre adesso analizzare i limiti e i rischi del paradigma del capitale umano: - Un primo limite è legato ai modi di valutare la rilevanza sociale dell’istruzione scolastica. Entro questo paradigma, la spesa capace d’incrementare dell’istruzione viene considerata come un investimento nella formazione di un capitale umano e la produttività. La rilevanza dell’istruzione viene perciò valutata secondo la classica analisi costi- benefici, attraverso il tasso di ritorno sociale della spesa dell’istruzione. Ma i benefici sociali dell’istruzione non si misurano in termini produttivi, ma si devono cogliere i benefici non economici dell’istruzione, ovvero i benefici sociali che innalzano il grado di civiltà e democrazia del paese. Quindi i costi non economici concernenti degli scarsi livelli d’istruzione sono il minore sviluppo umano e l’inferiorità di coesione sociale di un paese. - Un secondo limite riguarda i trascinamenti ideologici dell'eccezione larga del capitale umano. Se si attribuisce alla scuola il compito di formare le conoscenze e le competenze inerenti al capitale intellettuale da impiegare nei processi produttivi, si afferma una visione funzionalista del rapporto scuola/sistema socio-economico, ma si chiede alla scuola di fare qualcosa di inerente al suo mestiere: insegnare conoscenze e competenze. D'altra parte, sebbene la formazione dei futuri produttori non sia il solo compito della scuola, sarebbe velleitario non assegnarle anche questa funzione: significherebbe solo condannarla all'irrilevanza sociale. Se invece si chiede alla scuola di formare anche una mentalità funzionale alla cultura d'impresa, le si chiede qualcosa di estraneo ai suoi compiti istituzionali. Spesso la si spinge ad agire essa stessa come un'impresa, adottandone le logiche e le strategie, cosicché il governo (anzi la governance) e la gestione scolastica vengano piegate dall'ideologia manageriale (l'idea del dirigente scolastico come manager). Nella formazione professionale è ormai diffuso mettere l'accento sul saper essere, piuttosto che sul sapere e sul saper fare. Il punto è che porre la questione del principio educativo significa, interrogarsi sugli esiti di lungo termine dell'istruzione in termini di abiti mentali, chiedendosi quale tipo di guardaroba e si debbano costruire. Una scuola democratica ha necessariamente di mira alla formazione del corredo mentale proprio del cittadino democratico, e non quello del produttore prono alla cultura di impresa. D’altra parte, entra in ballo il concetto di competenza, ovvero la capacità di usare le conoscenze per agire efficacemente in rapporto ai compiti di un certo contesto. Ma essa ha senso solo in rapporto a una soglia standard relativamente stabile mentre gli obbiettivi dell’impresa possono essere spostati sistematicamente verso l’alto. Allora non è più in gioco la competenza ma bensì la propensione a adattarsi a qualsiasi costo alle richieste del management. - Un terzo limite non riguarda tanto il paradigma del capitale umano come tale, quanto la metà-cornice entro cui esso si colloca quella del neoliberismo. Entro questa cornice più ampia, la produzione del capitale umano da parte delle scuole sarebbe stimolata da meccanismi di competizione analoghi a quelli del mercato. In altre parole, le scuole sarebbero imprese che agiscono in un mercato la cui posta consiste nell'iscrizione degli studenti. A questo scopo, un sistema nazionale di valutazione (Invalsi) dovrebbe certificare pubblicamente la qualità degli apprendimenti conseguiti dagli studenti di ciascun istituto scolastico, questo meccanismo indurrebbe le scuole a competere tra loro per conseguire i risultati formativi migliori, così da mantenere e possibilmente aumentare la propria quota di studenti. La competizione tra scuola in un regime di libero mercato formativo accrescerebbe così la qualità del capitale umano prodotto, ma in questa retorica della competizione tra imprese scolastiche si trascurano rilevanti problemi: in primo luogo, si minimizza il peso del contesto sociale sui risultati scolastici, il quale non agisce solo come variabile di input (caratteristiche iniziali degli studenti) ma anche come variabile di processo. (influenze sociali durante il periodo formativo) In secondo luogo, si minimizzano i problemi epistemologici e metodologici legati alla misurazione degli apprendimenti scolastici. In terzo luogo, si trascurano gli effetti perversi di un clima diffusamente competitivo. Questi effetti perversi sono tali da poter disgregare la coesione sociale e valoriale della scuola, rendendo il clima educativo nervoso e compromettendo la sua efficacia per la crescita umana. Questo porta a spaventare l’insegnante per la possibile perdita della cattedra, però chi ha paura non può educare. Si trascura anche il fatto che una scuola costretta a dispotismo manageriale, può perdere la capacità formativa dei cittadini. Concludendo, questi limiti possono essere riassunti così: nel paradigma del capitale umano le competenze sono strumenti e l’uomo viene preparato per l’asservimento all’impresa, laddove una concezione umanista della formazione deve considerare kantianamente ogni uomo come un fine in sé. Insieme ai limiti, il paradigma del capitale umano possiede anche punti di forza storico-sociali, dai quali sarebbe ingenuo prescindere, perché la formazione di un capitale intellettuale costituisce un’esigenza oggettiva del funzionamento dell’economia fondata sulla coscienza. I governi dei Paesi europei cercheranno necessariamente di potenziare questa produzione di capitale intellettuale da parte dei sistemi di istruzione. La produzione di conoscenze e competenze è in linea con il compito della scuola. Si può evidenziare il tenore unilaterale delle conoscenze-competenze richieste alla scuola dal mondo produttivo rispetto all’esigenza di una formazione completa. La prospettiva del capitale intellettuale esclude che la scuola possa essere ridotta a un’agenzia di socializzazione. Al contrario, la scuola è riconfermata nel suo ruolo di agenzia d’istruzione e cultura, e qui sta l’aspetto progressista di quel paradigma. il paradigma del capitale umano tende a sospingere la scuola verso un ruolo di agenzia ideologica che mal si concilia con i suoi compiti. 5.2 Il paradigma dello sviluppo umano Il paradigma del capitale umano appare attualmente quello dominante. Sebbene senza intaccare la supremazia del capitale umano, negli ultimi vent’anni è sorto e ha guadagnato progressivamente attenzione un quadro alternativo: il paradigma dello sviluppo umano. Per la messa a punto di questo paradigma sono stati fondamentali i lavori di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, e Martha Nussbaum, studiosa di filosofia politica. L’idea fondamentale di questo paradigma è la seguente: lo sviluppo di un Paese non può essere ridotto alla crescita di Pil o dei redditi individuali. Piuttosto, lo sviluppo deve essere visto in termini d’espansione delle libertà sostanziali degli esseri umani. È importante soffermarsi sulle libertà al plurale e sostanziali perché non si fa riferimento ad un’astratta libertà formale, ma a singole e specifiche forme di libertà concretamente realizzate, un’effettiva possibilità di scelta. Perciò l’uomo non è visto come un mezzo per la produzione economica, perché egli è il motore della produzione stessa. Le libertà sostanziali sono al tempo stesso gli scopi dello sviluppo e i suoi stessi mezzi. Una caratteristica di questo approccio consiste nel ritenere che l’espansione delle libertà abbia anche riflessi positivi sullo sviluppo economico. La nozione di libertà sostanziale si lega a due concetti centrali per Sen: - Funzionamento: si intende ciò che una persona può desiderare fare o essere - Capacitazione (Capability): si intende l’insieme dei possibili funzionamenti che una persona è in grado di realizzare effettivamente. L’insieme delle capacitazioni di cui si dispone determina il suo effettivo campo di scelta di modi di vita alternativi. Lo sviluppo umano di una persona sarà tanto più elevato, quanto più questo campo è ampio e include le cose alle quali ella attribuisce in valore. La capacitazione diviene così il costrutto centrale di questo paradigma. Per comprendere la rilevanza di questo approccio occorre confrontarlo con approcci alternativi: - Utilitarismo: le cui forme classiche risalgono alla fine del XVIII secolo. Il nucleo di questo pensiero consiste nell’idea di una massimizzazione dell’utilità collettiva, cioè ciò che conta è accrescere la ricchezza sociale, così da aumentare il benessere della collettività. La validità intuitiva di quest’idea trova un limite nell’indifferenza di quest’approccio alle modalità di distribuzione della ricchezza prodotta. Questo significa che il principio di massimizzazione dell’unità collettiva non impedisce distribuzioni diseguali, tali da creare disparità evidenti, perché questa dottrina non risolve i problemi di giustizia distributiva e dei diritti a un’equa suddivisione della ricchezza. La visione utilitaristica mette capo alla problematica di un’educazione volta alla “felicità”, intendendo la felicità in modo più ampio e neutrale possibile. Il punto di vista utilitarista sull’educazione consiste nella crestomazia (dal greco “utile” e “imparo”), ossia nell’idea secondo cui l’educazione deve produrre un apprendimento utile. A questo scopo, formare la capacità di esercitare un lavoro atto a procacciare all’individuo un adeguato reddito è visto come un fattore fondamentale della sua felicità, così come della felicità dell’intera società. L’approccio utilitarista vuole dotare l’individuo di un capitale intellettuale capace di procurargli un reddito migliore, cioè, farne un individuo potenzialmente più felice. L’utilitarismo accetta di fatto la realtà socio-economica esistente e si propone semplicemente di adattare l’individuo a tale realtà. - Dottrine deontologiche: muovono dalla priorità dei diritti, e dunque dalla questione della giustizia distributiva. Il problema è quello di garantire un’equa suddivisione della ricchezza sociale prodotta. Uno studio rilevante è quello di Rawls, secondo il quale la giustizia distributiva dovrebbe seguire il principio di differenza, cioè, sono ammissibili solo le diseguaglianze distributive che migliorano la posizione dei più sfavoriti. Questo principio cattura e focalizza le politiche che stanno alla base di welfare. I diritti d’accesso alla ricchezza sociale sono prioritari rispetto all’accrescimento della torta sociale. Dal punto di vista formativo, la dottrina deontologica mette capo all’idea dell’istruzione come diritto di cittadinanza, e alla conseguente tensione inclusiva che deve caratterizzare la scuola. Il principio di differenza di Rawls sembra essere stato anticipato da Don Milani: la scuola deve pensare prioritariamente ai soggetti più deboli, deve dare di più a chi ha meno. Il contrasto tra questi due approcci deriva dalla tensione tra utilità collettiva e diritti individuali, tra lo scopo di accrescere la torta sociale e il principio di assicurarne un’equa ripartizione. Dahrendorf ha detto che questa tensione non sia inconciliabile, perché crede nel progresso umano come espansione della libertà e lega quest’idea al concetto di chances di vita. Le chances sono “opzioni”, possibilità di scelta aperte agli individui. Il cardine della posizione di Dahrendorf è che la determinazione delle chances di vita effettive chiama in causa tanto l’utilità quanto i diritti. Infatti, le opzioni di una persona sono legate da un lato alla disponibilità di provisions (di beni e risorse), dall’altro alla sussistenza di entitlements (di diritti d’accesso). Questo significa che deve essere disponibile una torta sociale sufficientemente adeguata e si devono possedere i titoli d’accesso alla sua ripartizione. La carenza di una o dell’altra limita le chances. Questo studioso sembra aver fornito una soluzione realistica al problema del rapporto tra benessere e giustizia sociale. Il valore della posizione di Sen consiste nell’individuare l’insufficienza della teoria di Dahrendorf. L’approccio interpretativo basato sulle chances di vita è perciò inadeguato se non viene incluso nel più comprensivo approccio delle capacitazioni. Occorre analizzare in modo più profondo il concetto di capability e per questo sono fondamentali i lavori di Martha Nussbaum. Martha Nussbaum distingue tra: - Capacità innate: consistono nelle facoltà che caratterizzano biologicamente l’essere umano. Si tratta perciò di facoltà nel senso inteso da Chomsky, ossia delle capacità naturali comuni a tutti gli uomini; perciò, non devono essere confuse con disuguaglianze genetiche delle doti intellettive. - Capacità interne: sono gli stati interni della persona che costituiscono le condizioni sufficienti per l’esercizio di certe funzioni. La studiosa interpreta queste capacità in modo ampio, ad esempio una donna che non ha subito mutazioni sessuali conserva la capacità interna di provare piacere sessuale. Si tratta delle capacità apprese durante l’esperienza e la formazione scolastica. In questo modo le competenze, intese come la capacità di agire efficacemente sulla base di un complesso di conoscenze, abilità e abiti di pensiero, sono da classificare come le capacità interne. - Capacità combinate: corrispondono alle capabilities, e sono costituite da capacità interne connesse con certe condizioni esterne. Per definire le “condizioni esterne” occorre utilizzare il concetto di chances di vita, ossia, alla sussistenza congiunta di certe previsions e di determinati entitlements (diritti d’accesso). Le capacitazioni sono definibili come la combinazione tra la disponibilità di adeguare chances di vita e il possesso delle capacità interne per convertile tali chances di vita in effettivi funzionamenti. Tra le capacità interne necessarie per compiere tale conversione svolgono un ruolo cruciale determinate competenze fondamentali. In altri termini: Capacitazioni = f (Chances di vita, Competenze fondamentali) Quest’impostazione cambia il senso della formazione, non si tratta di acquisire uno stock di competenze suscettibile di funzionare come un capitale intellettuale. Si tratta invece di formarsi un sistema di competenze in grado di convertire in effettivi funzionamenti le chances di vita. Il senso dell’istruzione scolastica è strappato a qualsiasi subordinazione al sistema socio- economico: lo scopo della scuola è di dotare gli individui delle competenze necessarie per espandere e realizzare le libertà sostanziali. In questo quadro le competenze sono anche capitale intellettuale poiché l’accrescimento della ricchezza sociale e la disponibilità di un certo reddito personale sono uno dei fattori delle chances. È importante soffermarci sul quadro socio-politico che sia Sen che Nussbaum giudica adeguato: il quadro della democrazia. Sen critica una concezione diffusa secondo la quale la democrazia sarebbe un lusso da Paesi avanzati. Secondo lo studioso indiano, è errato opporre i bisogni economici e le libertà politiche: tra l’uno e le altre vi sono tre ampie connessioni: a) La concettualizzazione dei bisogni economici e il modo d’impostare il loro soddisfacimento dipende in maniera rilevante dalla discussione pubblica. b) Entro una democrazia vi sono maggiori possibilità di portare l’attenzione dei politici sui bisogni economici. c) Le libertà politiche sono direttamente legate alle capacitazioni concesse ai cittadini, sia sotto forma di diritti d’accesso (entitlements) che sotto forma di diritti all’istruzione. È possibile sostenere che la democrazia costituisca una situazione favorevole alla crescita e garantisce una situazione di libero mercato. Per questi motivi, il rafforzamento della democrazia è un aspetto cruciale per lo sviluppo umano. Una delle condizioni per realizzare le possibilità aperte dalla democrazia risiede nell’istruzione pubblica che è fondamentale per la formazione delle capacità interne. Nussbaum ha dedicato una riflessione volta a mettere a fuoco il profilo di un’istruzione adeguata al funzionamento della democrazia. Secondo la studiosa stiamo attraversando una crisi mondiale dell’istruzione perché tutti i Paesi stanno formando produttori efficiente e non cittadini democratici e denuncia il cedimento generale del paradigma del capitale umano. I Paesi non formano più cittadini attivi e critici, protagonisti di una vita democratica, ma produttori efficienti. Si sta spostando l’attenzione agli studi scientifici e tecnologici tralasciando gli studi umanistici e artistici. Secondo Nussbaum un’istruzione per la democrazia deve preservare uno spazio adeguato alla formazione generale di tipo umanistico (la letteratura, la storia, la filosofia e l’arte) e che preservi lo spazio del ragionamento critico. Il paradigma dello sviluppo umano costituisce l’alternativa più organica e convincente al paradigma del capitale umano. Il rafforzamento della democrazia, la formazione di cittadini critici e attivi, l’espansione delle libertà individuali, non possono riscuotere l’attenzione di un Paese democratico. La Nussbaum rileva correttamente l’unilateralità tecnologico-scientifica di cui soffre il programma scolastico volto alla produzione del capitale umano, ma le equazioni da lei formulate sono troppo schematiche: Saperi tecnologico – scientifici = Formazione del produttore Saperi umanistici = Formazione del cittadino Sen mette in evidenza un’affinità tra il paradigma del capitale umano e quello dello sviluppo umano: entrambi pongono l’accento sulle capacità acquisibili dagli esseri umani, uno per la crescita produttiva uno per l’espansione delle libertà sostanziali. Entrambi prevedono una formazione scolastica ma volta a due obiettivi diversi. 5.3 Il confronto tra il capitale umano e lo sviluppo umano I due paradigmi in questione convergono nell’assegnare una notevole importanza alle capacità individuali. La specificità della nostra interpretazione consiste nell'identificare un sottoinsieme rilevante delle capacità interne con le competenze fondamentali impartite. Si trova così una direzione fondamentale per la formazione scolastica: non un’educatività stratta all’istruzione, ma un solido nesso tra istruzione e educazione. Da un lato le competenze costituiscono un capitale intellettuale per incrementare la produttività, dall’altro rappresentano condizioni interne per l’espansione delle libertà sostanziali. I limiti del paradigma del capitale umano sono: - La scuola è vista in un’ottica funzionalista rispetto al sistema economico. - Prevale una concezione eteronoma della formazione scolastica - Formazione del produttore Il paradigma dello sviluppo umano ripristina il principio kantiano secondo il quale l’uomo va sempre visto come fine e non come uno strumento. Questo fa valere un’esigenza di tipo politico che converge e fa tutt’uno con un’esigenza formativa. La maggiore prossimità del paradigma dello sviluppo umano alle esigenze della formazione scolastica non significa però che si debba optare unilateralmente per tale impostazione. La formazione di competenze suscettibili di porsi come un capitale intellettuale, corrisponde a un’esigenza oggettiva inerente all’economia della conoscenza. Una critica umanistica astratta della teoria del capitale umano rischia perciò di essere anacronistica. Il superamento delle unilateralità presenti nel paradigma del capitale umano non va visto come un suo semplice abbandono. Tale superamento deve avere un taglio conservativo: deve andare oltre il paradigma del capitale umano, mantenendone le acquisizioni cruciali. La teoria del capitale umano non può essere la cornice per la formazione scolastica, ma può fornire elementi da integrare entro un quadro più ampio e adeguato: quello dello sviluppo umano. Ciò significa due cose: a. Dare alla formazione delle competenze da produttore un senso ulteriore, legato al valore di tali competenze per l’uomo e il cittadino: il conferimento di un più ampio significato democratico alla formazione delle competenze tipiche del produttore. Il problema è se e quale significato democratico possa rivestire l’acquisizione di queste competenze, di là dalla loro valenza per la produttività economica. Si deve evidenziare l’unilateralità dell’analisi della Nussbaum, se la cultura umanistica è senz’altro essenziale in una istruzione per la democrazia, le competenze scientifico-tecnologiche non sono riducibili a una dimensione meramente economicista. In primo luogo, il possesso di conoscenze scientifiche e tecnologiche è necessario per la comprensione di molti problemi sociali con cui si confrontano le decisioni politiche dato che i cittadini sono gli unici soggetti in grado di scegliere ciò che è meglio per il loro bene. A questo diritto di cittadinanza deve fare da corrispettivo la capacità di convertire tale diritto in effettivo funzionamento. La democrazia matura è chiamata a essere una democrazia cognitiva e un’istruzione in grado di dare le conoscenze e le competenze scientifiche e tecnologiche essenziali. In secondo luogo, come evidenziato da Dewey, l’atteggiamento scientifico è strettamente legato allo spirito democratico. La discussione democratica, per essere effettivamente tale, deve fare propri molti caratteri tipici della discussione scientifica e le prese di posizione hanno il valore di congetture da discutere liberamente. L’ultimo elemento da considerare è la contraddizione interna al paradigma del capitale umano, almeno quando questo venga ricollocato nella più ampia cornice dello sviluppo umano. L’incremento delle conoscenze e delle competenze scientifiche e tecnologiche viene legato alla formazione di una mentalità democratica. Se le competenze tecnologico- scientifiche sono suscettibili di porsi come un capitale intellettuale, la loro crescita in una cornice democratica le porta a diventare un fattore d’estensione. Se l’espansione della democrazia si deve estendere all’intera società, fino a interessare la stessa sfera economica allora sono indispensabili le conoscenze e le competenze scientifiche e tecnologiche. b. Pensare la formazione delle competenze in quanto tale in un modo più ampio: l’esigenza di pensare la formazione delle competenze in modo coerente con la prospettiva dello sviluppo umano e l’espansione della democrazia. In questa cornice il valore delle competenze è connesso all’espansione delle libertà sostanziali. Occorre non limitare questo assunto alle conoscenze, ma estenderlo alle competenze, competenze relative al ragionamento storico e all’argomentazione discorsiva razionale. I saperi umanistici, in quanto tali, non sono esenti da ipotetiche dogmatiche, legate alla funzione delle tradizioni di pensiero e delle relative autorità culturali. Diversamente dalla Nussbaum, Preti aveva messo in evidenza questo rischio di conformismo verso i grandi pensatori. L’insistenza della Nussbaum sullo spirito critico socratico sembra capace di affrancare la cultura umanistica da questo rischio di dogmatismo. La cultura umanistica come intende lei non è basata sulle autorità di pensiero, ma sulla messa in discussione di quanto è comunemente accettato. Una formazione delle competenze ristretta tanto all’ambito scientifico-tecnologico quanto a quello umanistico sarebbe parziale e unilaterale, la prospettiva dello sviluppo umano esige una formazione completa, per garantire l’effettiva espansione delle libertà sostanziali. Una formazione democratica e per la democrazia esige il superamento della separazione tra la formazione per le classi dirigenti e quella per i ceti subalterni. Tutti i cittadini devono essere formati come potenziali dirigenti politici, ma non si acquisisce la capacità di dirigenza se la formazione è limitata all’ambito scientifico-tecnologico, si rimane semplicemente “specialisti”. Il dirigente non è solo uno specialista, ma è anche un “politico”. Concepire lo sviluppo umano alla luce di questo principio consente di superare impostazioni unilaterali nella formazione delle competenze. Un’autentica espansione delle libertà sostanziali è legata alla formazione di dirigenti. Al tempo stesso, collocare la formazione delle competenze entro la cornice dello sviluppo umano vuol dire dare loro un significato più ampio, legato allo sviluppo delle libertà e della democrazia. Pertanto, formare competenze vuol dire creare le condizioni interne per l’espansione delle libertà sostanziali individuali, oltre a questo la formazione delle competenze contribuisce a tale espansione anche in un altro modo: migliorando le stesse opportunità esterne o chances di vita. Le capacità non permettono solo di avvalersi dei diritti esistenti ma consentono anche di capire i limiti di tali diritti. L’incremento della capacità produttiva che deriva da accresciute competenze dei lavoratori si traduce potenzialmente in una più ampia disponibilità sociale di risorse da ripartire. Come sostiene Dahrendorf senza la produzione di un’adeguata torta sociale, i diritti a un’equa distribuzione sono resi inefficaci; perciò, un adeguato sviluppo delle forze produttive, pare una condizione per l’espansione delle stesse libertà sostanziali. Il corollario di questo duplice è che gli elementi di quadro attinti dal capitale umano devono essere depurati dalle incrostazioni ideologiche aziendaliste: la formazione scolastica delle competenze va coniugata con la promozione di una mentalità ispirata all’ethos democratico. Il punto non è che la cultura d’impresa sia cattiva, ma che essa non può essere il riferimento di una scuola che guarda alla Costituzione. Nel paradigma del capitale umano formare competenze per incrementare la produttività riveste lo stato di fine. Nella cornice dello sviluppo umano questo è solo un obiettivo intermedio e strutturale: costituisce un semplice mezzo per migliorare le condizioni esterne delle capabilities, non lo scopo ultimo. Concludendo, l’adozione della teoria dello sviluppo umano come cornice entro la quale pensare la formazione scolastica delle competenze permette di cogliere il potenziale democratico di tale formazione e consente altresì di dare un senso democratico alla stessa formazione di un capitale intellettuale. Ora occorre trasportare i due paradigmi nel funzionamento sociale dell’essere come: produttore e cittadino. 6. La formazione del produttore e la formazione del cittadino Il principio educativo non deve essere concepito in relazione a un uomo astratto, bensì a un uomo concreto definito da: lavoro, consumo, partecipazione e comunità politica. Tale principio non deve essere fissato in forma aprioristica, ma deve essere ricavato da un’analisi storica della realtà sociale. In questo capitolo si affronterà: - Prima metteremo a fuoco alcune categorie teoriche utili per interpretare il relativo ambito sociale. - Poi compiremo una sommaria analisi storico-sociale di tale ambito. - Cercheremo di definire alcuni lineamenti del principio educativo. 6.1 Il lavoro e la formazione del produttore Il lavoro è l’attività volta a produrre i beni necessari al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, dai bisogni naturali connessi con le condizioni di esistenza, a quelli spirituali legati alla qualità della vita. Come categoria teorica: il lavoro ha un carattere problematico, dotato di un doppio lato: un lato luminoso che fa tutt’uno con la realizzazione dell’uomo; e un lato oscuro, che lo rende una condanna e un immiserimento. La riflessione sul lavoro trova un’espressione particolarmente significativa nel pensiero di Hegel, richiamandosi alle dottrine di Adam Smith, aveva rilevato anche il carattere freddo e meccanico assunto dal lavoro mediato dalle macchine nella realtà della fabbrica. Nella Fenomenologia dello spirito egli aveva attribuito al lavoro un valore antropogenico: l’uomo diviene compiutamente tale solo nell’attività lavorativa. Il Marx dei Manoscritti economico-filosofici rimprovera però a Hegel di aver visto solo l’aspetto positivo del lavoro, anche quando non è necessariamente tale. Nell’economia capitalista il lavoro si presenta in forma degradante per l’essere umano. Questa critica viene formulata nei Manoscritti economico-filosofici nei quali Marx elabora la cruciale categoria dell’alienazione e del lavoro alienato. Sotto l’imperio del bisogno fisico anche l’animale “produce”, ma l’uomo produce anche senza tale imperio e produce in modo conforme alla propria essenza quando è libero da tale bisogno. Il prodotto è l’oggettivazione dell’uomo in quanto essere umano. In questa forma però la realizzazione dell’uomo nel lavoro si perde e ha almeno due aspetti: in primo luogo, l’oggetto prodotto viene sottratto al lavoratore quindi gli diviene estraneo. In secondo luogo, la stessa attività lavorativa diviene estranea all’uomo. Questa duplice estraneazione determina la realtà del lavoro alienato. L’emancipazione dell’uomo dall’alienazione postula un superamento della divisione del lavoro e della proprietà privata dei mezzi di produzione, realizzabile attraverso l’approdo al comunismo. La pedagogia del lavoro è destinata a trovare una soluzione insoddisfacente non solo entro il quadro dell’economia politica borghese che divide lavoro manuale e intellettuale. Evidenziare come il lavoro abbia una potenzialità formativa positiva che nelle attuali condizioni produttive finisce pervertita, non è di grande aiuto a una pedagogia del lavoro, e spinge verso misure compensative al lavoro stesso: la pedagogia del tempo libero. La divisione del lavoro che caratterizza l’economia capitalistica classica ha il proprio riflesso formativo nella separazione tra scuole d’istruzione professionale, che preparano all’ingresso nel mondo del lavoro, e scuole di formazione estesa a loro volta suddivise in quelle tecniche e quelle di tipo generale. Le prime, le scuole professionali, sono volte a formare il personale addetto al livello della produzione, le secondo sono volte a preparare i quadri tecnici intermedi e alla direzione scientifica e organizzativa del processo produttivo; nel ramo generale sono mirate a formare i livelli dirigenziali generali. In base a questa divisione però ci sono delle contraddizioni, perché nella specializzazione degli operai si assiste alla tendenza a rendere polivalente la formazione professionale così da formare lavoratori versatili, nella fase fordista della produzione industriale si registra una spinta a superare il vecchio operaio di mestiere a vantaggio dell’operaio di massa detentore di forza lavoro non qualificata da impiegare. Si tratta di un quadro che contra in crisi con il passaggio alla fase postfordista, legata all’economia della conoscenza, la quale innesca la tendenza al superamento delle mansioni puramente esecutive, e mette in crisi un sistema formativo gerarchizzato. Questa è grossomodo la realtà della pedagogia del lavoro nel quadro dell’economia politica borghese ed entro il modo di produzione fordista. Dalla critica basata sulla categoria dell’alienazione non possono però venire progressi sostanziali rispetto a tale realtà. Tralasciando il superamento tout court del modo di produzione capitalista, se il lavoro è alienante occorre ridurne l’orario ed espandere il tempo libero. La pedagogia guarda il tempo libero e si preoccupa di evitare la degradazione del tempo libero. Per non intaccare il tempo libero la pedagogia offre un supporto alle iniziative d’educazione permanente e alle esperienze dell’associazionismo culturale. Ma questa soluzione mantiene un residuo d’ambiguità. Una reale modifica di questo quadro può venire solo da misure extrapedagogiche: da una riduzione consistente del tempo di lavoro, ma nell’idea capitalista è utopico e la pedagogia è condannata sia dall’economia politica borghese che dalla critica dell’alienazione. La pedagogia del lavoro e la questione della formazione del produttore possono ricevere una soluzione organica e costruttiva solo attraverso una rimessa a punto della loro categoria reggente. Occorre spostare l’idea verso la categoria adoperata da Marx per definire la realtà del lavoro nel capitalismo: la categoria del lavoro astratto. Com’è noto, il Capitale si apre con l’analisi della realtà della merce nell’economia capitalistica: come valore d’uso, volta a soddisfare un bisogno; e come valore di scambio, destinato ad alimentare il mercato. Anche il lavoro presenta due lati: lavoro concreto, finalizzato a produrre beni; e lavoro astratto, come produzione di un mero valore di scambio. Il lavoro concreto e astratto non sono molto diversi, ma sono le due facce del lavoro: la prima vista dal lato del valore d’uso del bene, la seconda vista da quello del valore di scambio. La produzione capitalista è basata sul lavoro astratto che è il lavoro sociale in generale, colto facendo astrazione del contenuto specifico dei singoli lavori. Sorge però il problema del rapporto tra lavoro alienato e lavoro astratto e sono possibili due linee interpretative: la prima è di tipo continuista, cioè il lavoro astratto è la continuazione della tematica del lavoro alienato in cui le due categorie coincidono. Il lavoro astratto va inteso come lavoro alienato astratto, perché non vi sarebbe alienazione se il lavoro come produzione di valore di scambio non si separasse dal lavoro utile concreto. Tuttavia, nonostante l’astrazione possa essere vista come la condizione per l’alienazione, non significa che il senso dell’astrazione sia riducibile a quello di alienazione. Se non si accetta ciò la soluzione è la linea di tipo discontinua: la categoria del lavoro astratto è differente da quella di lavoro alienato e identificarle significherebbe collassare l’idea di Marx, perdendone la novità e la specificità. La categoria di alienazione che viene messa a punto dal giovane Marx si fonda su un’assunzione antropologica derivata da Feuerbach che riguarda il sussistere di un’essenza umana atemporale e fissa. Per il pensatore questa essenza si ritrova nella libertà e nella creatività dell’uomo e si realizza nel lavoro in quanto attività vitale. Sotto lo sfruttamento capitalista e quindi con l’alienazione si ha la perdita di questa essenza originaria dell’uomo che può essere recuperata solo con l’approdo al comunismo. Dal punto di vista del Marx maturo, l’idea di un’idea di essenza umana atemporale e fissa viene meno per lasciare il posto all’idea di un’essenza umana che si fa nella storia. La cornice teorica in cui si sviluppa questo pensiero è quella dialettica tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. In questa ottica la realtà del lavoro viene colta nella categoria del lavoro astratto. Questo tipo di lavoro è co-referenziale al lavoro alienato, poiché entrambi si riferiscono al lavoro sociale colto dal lato del valore di scambio anche se il significato che gli viene attribuito è differente poiché nel lavoro alienato viene segnalata una contraddizione interna al modo di produzione capitalista, mentre nel lavoro astratto viene evidenziata la differenza dai singoli lavori utili configurandolo come lavoro in generale. Questo concetto è ricavato facendo astrazione dai contenuti qualitativi particolari dei singoli lavori per concentrarsi sulle cose che hanno in comune, costituito da un dispendio di forza lavoro. Nel capitalismo moderno il lavoro astratto diventa un tipo di lavoro reale, caratterizzando la società moderna con una mobilità del lavoro ovvero gli individui vengono spinti a passare periodicamente da un settore produttivo all’altro seguendo le dinamiche del mercato e fornendo così delle prestazioni. Bisogna però distinguere tra un primo livello di astrazione, che riguarda la manodopera non qualificata, generica, utilizzata nelle operazioni semplici e meccaniche che si apprendono rapidamente, ed un secondo livello di astrazione nel quale fanno parte lavoratori versatili e corrisponde al grado più avanzato della qualificazione del lavoratore. Una prima espressione di formazione versatile si ritrova nelle scuole politiche all’interno delle quali gli alunni ricevono istruzioni sull'uso pratico degli strumenti di produzione. Questa versatilità però rimane funzionale alle esigenze del capitale facendo rimanere così la formazione politecnica legata al modo borghese di considerare l’istruzione professionale: come adattabilità esecutiva del lavoratore entro la divisione tecnica del lavoro. La formazione dei lavoratori versatili si basa quindi sulla separazione dell’aspetto esecutivo da quello intellettuale risolvendosi in una versatilità esecutiva (lavoratore messo davanti ad una nuova mansione imparerà più velocemente). Il principio educativo di Marx riguarda la formazione di un uomo omnilaterale, ossia un uomo sviluppato completamente sia nella manualità che nell’intelletto. Per Marx l’educazione deve essere concepita in rapporto al superamento della divisione tecnica del lavoro, dalla separazione tra lavoro manuale e mentale; risulta necessario quindi unire l’istruzione intellettuale con la formazione politica e il lavoro fisico. La capacità di mobilità e di rapida riqualificazione professionale del lavoratore viene affidata sia alla versatilità esecutiva che alla comprensione dei fondamenti scientifici e intellettuali del processo lavorativo. Nella forma del movimento d’astrazione il lavoratore diviene esecutivamente versatile e il professionista diviene intellettualmente flessibile. Queste forme di astrazione danno la possibilità di superare la fase fordista giungendo ad un’economia fondata sulla conoscenza dando l’avvio a nuovi modi di organizzazione produttiva come la lean production (produzione leggera) e la lavorazione just in time andando a superare la vecchia filosofia produttiva in due direzioni differenti: 1. La catena di montaggio viene sostituita dall’automazione robotica integrata dal lavoro di squadre di qualità; 2. La tendenza a creare stock di magazzino da immettere sul mercato, cede il passo all’idea di attivare la catena produttiva solo in presenza di ordini d’acquisto. Subentra così il regime del lavoro flessibile, un processo produttivo disponibile solo quando serve, diviso in: Flessibilità esterna che si basa sulla precarizzazione del rapporto di lavoro (le imprese assumono e licenziano in base alle esigenze di produzione); Flessibilità interna consiste nella modulabilità degli orari e periodi di lavoro in funzione delle esigenze produttive; Flessibilità intellettuale o cognitiva è connessa sia alla flessibilità esterna riguarda il passaggio del lavoratore da un settore all’altro, sia alla flessibilità interna legata alla polivalenza delle mansioni richieste al lavoratore per rendere duttile il processo produttivo. La forma di astrazione del lavoro viene spinta verso la flessibilità cognitiva con lo spostamento d’importanza della dimensione sincrona a quella diacronica delle variazioni inerenti al lavoro spingendolo a un nuovo e più elevato livello. Il fattore cruciale risiede ora nella capacità di apprendere di continuo nuovi paradigmi e disapprendere quelli vecchi, giungendo così ad una forma di astrazione che riguarda gli abiti mentali. Marx individua come con l’automatizzazione delle macchine il ruolo del lavoratore sia destinato a trasformarsi, passando da dispendio di forza lavoro a sorvegliante e regolatore del processo produttivo. Con questa svolta il sapere generale diventa forza produttiva diretta e lo sviluppo della società passa sotto il controllo del General intellect (intelligenza generale) che consiste in uno stadio di avanzamento tecnologico-scientifico. Per far sì che questa intelligenza diventi forza operante, è necessario che sia incorporata sotto forma di conoscenza, competenza e abiti mentali. Quando le General intellect diventano rapide e diversificate occorre non solo formare un’intelligenza tecnico-scientifica, ma è necessaria un’intelligenza flessibile e proteiforme capace di modificarsi in base allo sviluppo dei paradigmi tecnologico-scientifici. Sotto questo tipo di intelligenza il tipo di umano necessario è quello dotato di un’intelligenza generale e flessibile e configurare i giovani a questo tipo di umano vuol dire dotarli di una forma mentis. Risulta quindi necessario pensare ad una scuola deprofessionalizzata, nella quale vige un carattere unitario, che superi il mero livello di conoscenze per coltivare competenze e abiti mentali astratti. In quest’ottica l’aspetto professionale viene rivestito da corsi di formazione post-secondaria o post-universitari, inoltre, risulta necessario pensare anche ad un sistema di formazione permanente dei lavoratori che permetta la plasticità degli abiti mentali e la manutenzione e il rinnovo delle loro competenze. L’esigenza del superamento di forme autoritarie di comando sul lavoro si era posto in America con la scuola delle Relazioni umane nella quale la produttività del lavoratore dipende dal suo benessere sul posto di lavoro, facendo sorgere il paradigma manageriale basato sulla gestione delle risorse umane. Questo paradigma vede il coinvolgimento dei dipendenti attraverso una distribuzione di potere verso il basso, la connessione di ampi margini di autonomia e di responsabilità sui modi di condurre il proprio lavoro; il personale viene selezionato privilegiando il tipo di mentalità e la formazione in servizio è orientata verso una cultura d'impresa. Il paradigma manageriale però presenta dei limiti: Le questiono politiche vengono trasformate in problemi psicologici illudendosi di poterle risolvere sul piano delle questioni umane; Vi è una contraddizione tra l’enfasi sull’autonomia del lavoratore e la versione mutilata data dall’autonomia stessa relativa ai mezzi e marginalmente agli obiettivi che dipendono dalle decisioni delle imprese. In questo quindi vi è il rischio che si generino forme di autoritarismo nascosto poiché l’imposizione degli obiettivi da parte delle imprese si possono trasformare in un dispositivo colpevolizzante in caso del loro mancato raggiungimento. La contraddizione risiede nella mancanza di democrazia economica. 6.2 La democrazia e la formazione del cittadino La categoria teorica della democrazia si distingue da due punti di vista: 1. Descrittivo: volto ad individuare i tratti essenziali e nel quale la democrazia si pone come forma di governo (governo del popolo) che tende a massimizzare la libertà degli individui, considerati come cittadini titolari di diritti e doveri; 2. Valutativo: riguarda l’interrogativo circa la preferibilità della democrazia rispetto ad altre forme di governo poiché i caratteri democratici hanno la capacità di espandere la libertà e la possibilità di crescita dell’uomo come essere umano. Sia per Dewey che per Sen la democrazia rappresenta il presupposto per lo sviluppo umano. Esiste quindi un modo di vivere insieme, un ethos democratico, che rappresenta un valore e che deve essere promosso dalle istituzioni come la scuola, attuando una formazione volta all’espansione della democrazia. Le forme ideali della democrazia rappresentano i traguardi- limite verso cui tendere. La democrazia attuale corrisponde alla democrazia liberale di tipo rappresentativo nella quale però, si vengono a creare dei problemi tra i rappresentanti del popolo (eletti da questi ultimi) e i cittadini. Ma affinché la democrazia possa davvero svilupparsi è necessario che i cittadini vengano formati come potenziali dirigenti così da avere la capacità di controllare chi governa e giudicare le sue scelte. Oggi questa soluzione entra in crisi e troviamo la difficoltà di assicurare una crescita della vita democratica e il mantenimento dei livelli già raggiunti. Tra le cause che hanno influito alla crisi della vita democratica troviamo: La globalizzazione dell’economia e l’avvento del neoliberalismo hanno favorito l’affermazione di potentati economico-finanziari multinazionali capaci di condizionare le politiche degli Stati nazionali, facendo nascere anche grandi imperi mediatici che hanno la capacità di monopolizzare l’informazione e imporre le proprie interpretazioni andando a manipolare così l’opinione pubblica; L’informazione ha subito uno spostamento dai mezzi a stampa a quello televisivo che permette modalità meno riflessive di quelle attivate con la lettura di un testo scritto; I problemi sociali hanno assunto dei caratteri più complessi richiedendo così conoscenze più specialistiche portando i soggetti a delegare molte questioni a caste tecnocratiche o burocratiche; L’accrescersi delle disuguaglianze sociali ed economiche, determinate con la ridistribuzione delle ricchezze, incide sulle opportunità formative di cui possono godere i vari strati sociali. Mutano anche i partiti di massa, i quali sono portati a rinunciare a forme organizzative strutturate e continuative della partecipazione dei cittadini. Si assiste così ad una metamorfosi del cittadino, il quale sta diventando sempre di più passivo e superficiale, rinunciando alla partecipazione per ripiegare nel ruolo del consumatore politico. Risulta indispensabile rilanciare la figura del cittadino attivo e critico, capace di acquisire consapevolezza dei problemi e alcuni elementi di rivitalizzazione della democrazia costituiscono delle condizioni per lo stesso rilancio della cittadinanza ma non si collegano strettamente alla formazione del cittadino (un esempio si ritrova sul controllo delle concretizzazioni mass-mediatiche che innesca nuovi bisogni formativi e l’esigenza di formare nuovi tipi di competenze e abiti mentali). A livello dei governi locali vengono realizzate delle ipotesi e delle esperienze che si ispirano ai modelli della democrazia partecipativa e deliberativa che permettono la rivitalizzazione della democrazia rappresentativa, la quale viene affiancata con forme di coinvolgimento diretto del cittadino nell’elaborazione di decisioni di particolare rilevanza per la comunità, attraverso un dibattito. In questo modo si ritiene di promuovere delle competenze di virtù civiche come la capacità argomentativa, l’attitudine all’ascolto e la tolleranza verso la diversità di opinioni. Questo cerca di assicurare un dispositivo di formazione permanente del cittadino, tema che riveste un’importanza cruciale per la qualità della vita democratica all’interno della quale ogni cittadino ha il compito di controllare i governanti tramite dei segnali di consenso e dissenso e partecipare al processo democratico attraverso associazioni politiche. In questo modo il cittadino gioverà di conoscenze necessarie per comprendere i problemi interni alla società, competenze di varia natura e abiti mentali declinati nella direzione dell’ethos democratico. Ma per avere una reale espansione della libertà sostanziali questo non basta. Occorre necessario adeguare le chance di vita dei singoli soggetti, ovvero adeguare la disponibilità di risorse e diritti d’accesso di ognuno, poiché la qualità della democrazia di esprime anche nella capacità di assicurare a tutti eque opportunità di vita, ossia ricchezze sociali e diritti politici e sociali. Il cittadino si forma attraverso la partecipazione alla vita democratica della comunità. La scuola dà al cittadino una formazione iniziale, cioè il risultato complessivo e duraturo per tutta la sua formazione scolastica secondo alcuni principi educativi. * La formazione scolastica, quindi, deve funzionare come un recipiente in grado di fondere conoscenze e competenze con gli abiti mentali tipici dell’ethos democratico, così da formare un cittadino democratico capace di: - Avere un atteggiamento di dialogo e attenzione verso persone; - Mediare i conflitti tramite la discussione; - Sapere che la conoscenza non deve portare a porsi in una condizione autoritaria verso gli altri; - Avere un atteggiamento critico e scientifico; - Avere un atteggiamento inclusivo e cooperativo; - Avere un’aperura alla diversità; - Avere spirito di tolleranza. Così facendo si forma la struttura mentale del cittadino che sarà l‘inizio della formazione permanente attraverso la partecipazione alla vita democratica. * I principi educativi che formano il cittadino come potenziale dirigente derivano dalla connessione tra cultura-umanistica e cultura tecnologico-scientifica. Il rapporto tra queste discipline si articola diversamente a secondi di vari livelli logici. 1° Complementarità tra conoscenze umanistiche e scientifiche per interpretare i problemi sociali. (Nella scuola si parla di pluridisciplinarità); 2° Si da importanza sia al 1° livello (cioè, alla complementarità di competenze umanistiche e scientifiche), sia alla MENTALITA’ umanistica e scientifica. Il problema è che si rischi che si verta solo sulla direzione umanistica o solo sulla direzione scientifica. Tuttavia, è inevitabile che il cittadino verta più su la direzione umanistica piuttosto che sulla direzione scientifica ma l’importanza sta nel fatto che non debbano essere unilaterali. 3° Modificazione degli abiti mentali precedentemente acquisiti; coltivando entrambi gli abiti umanistici e scientifici evitandone così la cristallizzazione. Così si stimola l’intelligenza di carattere generale e astratto. È questa il tipo di intelligenza necessaria al cittadino per comprendere problemi di carattere democratico e quando si esercita il controllo sull’operato dei governati. → Conseguenze: 1. Superamento dell’opposizione tra conformazione e liberazione dell’intelligenza. 2. Superamento della separazione tra formazione del produttore e quella del cittadino. La formazione del cittadino come dirigente politico ha come corrispondente la formazione del lavoratore come dirigente d'impresa. La scuola, quindi, non deve separare la formazione delle classi dirigenti da quella dei ceti subalterni, sia in senso politico sia in senso economico- produttivo. Dare all'individuo una formazione da dirigente non implica che lo debba diventare veramente. Ma dobbiamo dotarlo di conoscenze e capacità che gli permetteranno di decidere consapevolmente e controllare i rappresentanti politici o sindacali. Parte terza. Dall’idea di scuola a un paradigma di scuola Il paradigma di scuola si costituisce su piani differenti: Piano curriculare: il percorso formativo definito sia in termini culturali che in termini di tipologia umana da promuovere in un’epoca storico-sociale. La scuola è di carattere formale. Mentre l’educazione si compie in realtà non formali e informali. 1. Il rapporto tra scuola ed extra-scuola può essere concepito secondo linee di: continuità dove la scuola si pone nel solco della cultura territoriale rafforzandone le tendenze; e di discontinuità dove assume un atteggiamento di rottura verso questa cultura stimolando tendenze alternative. Quindi si tratterebbe di accogliere l’identità socioculturali degli alunni, ma solo come punto di partenza per favorire la loro evoluzione verso forme di cultura più avanzate. 2. Il compito scientifico della scuola è quello di istruire nell’apprendimento dei saperi e di educare dagli effetti di tale apprendimento. La formazione della scuola è volta alla formazione dell’uomo completo e quindi al pieno sviluppo umano. L’uomo completo si sviluppa conciliano la formazione tecnologico scientifica così da formare produttori specializzati e la formazione umanistica che coltiva individui astrattamente istruiti. Quindi dato che l’istruzione scolastica non deve separare il sapere dal fare e il pensare occorre che le conoscenze si trasformino in competenze all’agire, che a loro volta si trasformino in modi di pensare (abiti mentali) più duratori e persistenti durante la formazione scolastica. In conclusione, il traguardo della formazione sta nel modificare spesso i propri abiti mentali e apprendere sempre nuove conoscenze e forme di pensiero. Piano strutturale: articolazione del pensiero formativo complessivo in una serie di gradi e cicli scolastici. Esso deve essere articolato in differenti piani scolastici tra loro in comunità. ❖ La scuola dell’infanzia: primo segmento del sistema scolastico. Il curriculum di attività formative attentamente selezionate, organizzate in rapporto ai vari campi di esperienza, portano a raggiunger