Diritto Delle Imprese Cap. 4 PDF

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2020

N. Abriani, G. Ferri jr, G. Guizzi, M. Notari, M. Stella Richter, A. Toffoletto

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Italian Business Law Corporate Law Business Commercial Law

Summary

This is a textbook on Italian Business Law, specifically focusing on the concept of corporate law. The second edition of the book was published in 2020 by Giuffrè Francis Lefebvre.

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N. Abriani - G. Ferri jr - G. Guizzi - M. Notari M. Stella Richter - A. Toffoletto (a cura di) DIRITTO DELLE IMPRESE Manuale breve Seconda edizione 2020 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 1 SESS: 13 USCITA:...

N. Abriani - G. Ferri jr - G. Guizzi - M. Notari M. Stella Richter - A. Toffoletto (a cura di) DIRITTO DELLE IMPRESE Manuale breve Seconda edizione 2020 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 1 SESS: 13 USCITA: INDICE-SOMMARIO Premessa...................................... 000 Autori....................................... 000 Avvertenze..................................... 000 Prefazione di ALBERTO MAZZONI.......................... 000 PARTE PRIMA IL FENOMENO E LE NOZIONI DI IMPRESA CAPITOLO 1 - Il sistema del diritto commerciale 1. Il sistema economico............................. 1 2. Diritto civile e diritto commerciale...................... 3 3. L’evoluzione del diritto commerciale..................... 7 4. Diritto commerciale e diritto delle imprese................. 13 5. Le fonti del diritto commerciale....................... 19 6. Il sistema del diritto commerciale attuale.................. 21 CAPITOLO 2 - Nozioni e categorie di imprese 1. Profili giuridici e nozioni di impresa.................... 27 2. La nozione di impresa nel codice civile................... 30 3. Le categorie di imprese........................... 35 3.1. Imprese agricole e imprese commerciali............... 35 3.2. Piccolo imprenditore e lavoratore autonomo............. 38 3.3. Gli statuti dell’impresa........................ 42 4. Ambito di applicazione della disciplina delle imprese........... 45 CAPITOLO 3 - I modelli organizzativi dell’impresa 1. Impresa e modelli organizzativi....................... 53 2. Impresa individuale............................. 57 3. Impresa collettiva.............................. 61 3.1. Impresa societaria........................... 61 3.1. Impresa societaria........................... 61 3.2. Impresa collettiva non societaria................... 68 3.3. Impresa sociale............................ 71 3.4. L’impresa pubblica.......................... 72 4. Impresa di gruppo............................. 76 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 2 SESS: 13 USCITA: VI INDICE-SOMMARIO 5. Aggregazioni tra imprese.......................... 79 5.1. I consorzi............................... 79 5.2. Il gruppo europeo di interesse economico (Geie)........... 82 5.3. Le reti di imprese........................... 83 5.4. Le associazioni temporanee di imprese (A.T.I.)............ 85 5.5. La joint venture............................ 86 PARTE SECONDA L’ATTIVITÀ CAPITOLO 4 - La concorrenza 1. Il sistema della disciplina della concorrenza................ 87 2. Il diritto antitrust.............................. 88 2.1. Le intese............................... 91 2.2. Gli abusi di posizione dominante................... 95 2.3. Le concentrazioni........................... 98 2.4. L’applicazione della disciplina antitrust................ 101 3. La disciplina della concorrenza nel codice civile.............. 105 3.1. La concorrenza sleale......................... 108 3.2. I singoli atti di concorrenza sleale................... 111 3.3. I limiti legali e contrattuali alla concorrenza.............. 119 CAPITOLO 5 - La proprietà industriale 1. I diritti di proprietà industriale....................... 125 2. I segni distintivi............................... 127 2.1. Il marchio: nozione, categorie e requisiti............... 130 2.2. Il marchio: tutela e vicende...................... 135 2.3. La ditta, l’insegna e i nomi di dominio................ 138 3. Le invenzioni................................ 140 3.1. Il brevetto............................... 143 3.2. I modelli, i disegni e le altre privative................. 148 CAPITOLO 6 - Contrattazione e contratti d’impresa 1. Le categorie della contrattazione di impresa................ 153 2. Il contratto tra impresa e consumatore................... 155 2.1. Le modalità di conclusione del contratto............... 161 2.2. Il controllo sul regolamento negoziale................ 164 2.3. La tutela del consumatore nell’esecuzione del contratto....... 169 3. Il contratto tra imprese........................... 172 4. I contratti d’impresa: i contratti tipici.................... 177 4.1. I contratti inerenti la prestazione di cose............... 177 4.2. I contratti inerenti la prestazione di servizi.............. 185 5. Mercato globale e lex mercatoria...................... 200 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 3 SESS: 13 USCITA: INDICE-SOMMARIO VII PARTE TERZA IL FINANZIAMENTO CAPITOLO 7 - Titoli di credito e strumenti finanziari 1. La funzione e l’origine dei titoli di credito................. 203 2. La disciplina del titolo di credito...................... 207 3. La fattispecie titolo di credito........................ 213 4. I tipi di titoli di credito........................... 215 4.1. Classificazione per legge di circolazione................ 215 4.2. Classificazione in base al contenuto.................. 218 4.3. I titoli cambiari............................ 221 5. La dematerializzazione........................... 227 6. Strumenti finanziari............................. 229 CAPITOLO 8 - Il finanziamento 1. Impresa e provvista finanziaria....................... 231 2. I finanziamenti bancari a breve termine................... 233 2.1. L’apertura di credito......................... 234 2.2. L’anticipazione bancaria....................... 237 2.3. Lo sconto bancario.......................... 239 3. I finanziamenti bancari a lungo termine................... 240 4. Gli altri contratti di finanziamento..................... 242 4.1. Il leasing................................ 242 4.2. Il factoring e il forfaiting........................ 245 4.3. Cartolarizzazione dei crediti...................... 247 4.4. Il project financing........................... 249 PARTE QUARTA LA STRUTTURA CAPITOLO 9 - Il registro delle imprese 1. La funzione della pubblicità legale..................... 251 2. L’efficacia della pubblicità legale...................... 253 2.1. Pubblicità notizia........................... 253 2.2. Pubblicità dichiarativa........................ 254 2.3. Pubblicità costitutiva......................... 256 3. I principi e la disciplina del registro delle imprese............. 257 3.1. Principi generali............................ 257 3.2. La struttura del registro........................ 258 3.3. Il procedimento............................ 260 CAPITOLO 10 - Patrimonio e contabilità 1. Il patrimonio e le sue funzioni........................ 263 2. La contabilità delle imprese......................... 267 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 4 SESS: 13 USCITA: VIII INDICE-SOMMARIO 2.1. Caratteristiche e funzioni della contabilità.............. 267 2.2. Le scritture contabili obbligatorie e il bilancio............ 270 2.3. Tenuta e valore probatorio delle scritture contabili.......... 272 3. La contabilità delle società......................... 274 CAPITOLO 11 - Gestione e rappresentanza 1. La gestione dell’impresa........................... 277 2. Il controllo sulla gestione.......................... 279 3. La rappresentanza commerciale....................... 282 3.1. L’institore............................... 285 3.2. I procuratori e i commessi...................... 287 4. L’esternalizzazione delle funzioni e la rete distributiva........... 288 4.1. Il contratto di commissione...................... 290 4.2. Il contratto di spedizione....................... 290 4.3. Il contratto di agenzia......................... 291 4.4. La mediazione............................. 293 CAPITOLO 12 - L’azienda 1. La nozione di azienda............................ 295 2. I modi di appartenenza dell’azienda.................... 298 3. La circolazione dell’azienda......................... 301 3.1. Circolazione e conflitti di appartenenza................ 301 3.2. Circolazione e rapporti con i terzi.................. 304 3.3. Circolazione e rapporti tra le parti.................. 308 PARTE QUINTA LA CRISI CAPITOLO 13 - Le discipline della crisi di impresa 1. Crisi di impresa e insolvenza......................... 313 2. Il sistema delle procedure concorsuali................... 316 3. Le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento...... 323 3.1. L’ambito di applicazione....................... 323 3.2. Le singole procedure......................... 324 CAPITOLO 14 - Le soluzioni concordate 1. Il concordato preventivo.......................... 329 1.1. La proposta di concordato...................... 330 1.2. Concordato con continuità aziendale e finanziamenti all’impresa in crisi.................................. 333 1.3. Proposte e offerte concorrenti.................... 335 1.4. Approvazione............................. 336 1.5. Omologazione ed esecuzione..................... 338 2. Il concordato fallimentare.......................... 340 3. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti.................. 343 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 5 SESS: 13 USCITA: INDICE-SOMMARIO IX 4. I piani di risanamento attestati....................... 346 CAPITOLO 15 - Il fallimento 1. Caratteri generali.............................. 349 2. Apertura della procedura.......................... 351 2.1. La fase prefallimentare......................... 000 2.2. La sentenza dichiarativa........................ 000 3. Effetti del fallimento............................ 352 3.1. Il debitore............................... 000 3.2. I creditori................................ 000 3.3. Le controparti dei contratti pendenti.................. 000 4. Gestione dell’impresa fallita......................... 356 5. La reintegrazione dell’attivo. Le azioni revocatorie............. 358 5.1. L’azione revocatoria fallimentare.................... 000 5.2. L’azione revocatoria ordinaria..................... 000 6. L’accertamento del passivo......................... 362 6.1. La formazione dello stato passivo................... 000 6.2. Le impugnazioni dello stato passivo.................. 000 7. Liquidazione e ripartizione dell’attivo.................... 364 7.1. La Liquidazioone............................ 000 7.2. La ripartizione............................. 000 8. Chiusura della procedura........................... 367 9. Il fallimento delle società........................... 369 9.1. Le azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali..... 000 9.2. Il fallimento dei soci illimitatamente responsabili........... 000 CAPITOLO 16 - Le procedure amministrative 1. L’amministrazione straordinaria....................... 375 1.1. Caratteri generali........................... 376 1.2. L’amministrazione straordinaria “comune”.............. 376 1.3. L’amministrazione straordinaria “speciale”.............. 380 1.4. Amministrazione straordinaria e gruppi di imprese.......... 382 2. La liquidazione coatta amministrativa.................... 386 Indice delle fonti.................................. 391 Indice analitico.................................. 407 NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 7 SESS: 13 USCITA: AUTORI NICCOLÒ ABRIANI Università di Firenze LUCIA CALVOSA Università di Pisa GIUSEPPE FERRI jr Università di Roma “Tor Vergata” GIANVITO GIANNELLI Università di Bari “Aldo Moro” FABRIZIO GUERRERA Università di Messina GIUSEPPE GUIZZI Università di Napoli “Federico II” CINZIA MOTTI Università di Foggia MARIO NOTARI Università di Brescia ANDREA PACIELLO Seconda Università di Napoli PAOLO PISCITELLO Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa” DUCCIO REGOLI Università Cattolica di Milano GIUSEPPE A. RESCIO Università Cattolica di Milano ROBERTO ROSAPEPE Università di Salerno SERENELLA ROSSI Università dell’Insubria MARIO STELLA RICHTER jr Università di Roma “Tor Vergata” ALBERTO TOFFOLETTO Università di Milano NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 9 SESS: 13 USCITA: AVVERTENZE La citazione del numero di articoli di legge senza alcuna indicazione del contesto normativo è da intendersi riferita al codice civile. Le fonti normative frequentemente citate sono individuate con le seguenti abbre- viazioni: cod.ass. Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/2005) cod.comm. Codice di commercio del 1882 cod.cons. Codice del consumo (d.lgs. 206/2005) cod.nav. Codice della navigazione (r.d. 327/1942) cod.pen. Codice penale cod.proc.civ. Codice di procedura civile cod.pr.ind. Codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005) Cost. Costituzione della Repubblica Italiana disp.att. Disposizioni per l’attuazione del codice civile disp.prel. Disposizioni sulla legge in generale l.ant. Legge antitrust (l. 287/1990) l.ass. Legge assegni (r.d. 1736/1933) l.camb. Legge cambiali (r.d. 1669/1933) l.fall. Legge fallimentare (r.d. 267/1942) reg. emittenti Regolamento Consob 11971/1999 reg. intermediari Regolamento Consob 16190/2007 reg. mercati Regolamento Consob 16191/2007 Tratt. FUE Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea T.U.B. Testo unico bancario (d.lgs. 385/1993) T.U.F. Testo unico della finanza (d.lgs. 58/1998) Le restanti fonti normative sono citate con le seguenti abbreviazioni, seguite dall’in- dicazione del numero del provvedimento e dall’anno di emanazione: del. Delibera dir. CE Direttiva Comunità Europea d.l. Decreto legge d.lgs. Decreto legislativo d.m. Decreto ministeriale d.p.r. Decreto del Presidente della Repubblica l. Legge provv. Provvedimento r.d. Regio decreto reg. Regolamento La trattazione è aggiornata al 31 agosto 2012. NOMELAV: 2020_0001651 PAG: 10 SESS: 13 USCITA: XIV AVVERTENZE Il Manuale si cita: AA.VV., Diritto delle imprese. Manuale breve, Milano, 2012 (preceduto, se del caso, dall’indicazione dell’autore e dal titolo della relativa Sezione). Gli autori desiderano ringraziare Alberto Piantelli e Valeria Salamina per la cura redazionale e la stesura degli indici. 4. LA CONCORRENZA SOMMARIO: 1. Il sistema della disciplina della concorrenza. 2. Il diritto antitrust. 2.1. Le intese. 2.2. Gli abusi di posizione dominante. 2.3. Le concentrazioni. 2.4. L’applicazione della disciplina antitrust. 3. La disciplina della concorrenza nel codice civile. 3.1. La concorrenza sleale. 3.2. I singoli atti di concorrenza sleale. 3.3. I limiti legali e contrattuali alla concorrenza. 1. Il sistema della disciplina della concorrenza. Le regole in materia di concorrenza che si sono formate per prime nel nostro diritto nazionale riguardano essenzialmente la dimensione privatistica dei rapporti commerciali, e segnatamente dei rapporti tra imprese che competono per espandere la propria attività e accrescere la propria quota di mercato. Tale disciplina si propone di regolare la competizione in modo da garantire il rispetto dei principi di correttezza e lealtà secondo canoni condivisi dal mondo degli affari e dagli operatori economici. Solo in un momento successivo, sulla scorta di esperienze maturate in ordinamenti stranieri (in particolare quello statunitense) nonché delle norme poste a fondamento dell’ordinamento europeo, la concorrenza è stata percepita dal legislatore nazionale come necessario oggetto di una tutela che prescinde dall’immediato interesse dei singoli soggetti coinvolti nel rapporto concorrenziale, in quanto ineludibile fattore di crescita e di sviluppo dell’intero sistema economico. Assume così un ruolo preponderante la preoccupazione di garantire la concorrenzialità dei mercati, attraverso il contrasto ai monopoli e agli accordi tra imprese in grado di disattivare quel meccanismo virtuoso che, mediante il confronto concorrenziale, solo può garantire la selezione delle migliori opportunità, a vantaggio di tutti i consociati. La tutela della concorrenza nel nostro ordinamento è dunque oggi articolata su due sistemi di norme complementari: il primo, di carattere generale, posto a tutela di tutti i protagonisti del mercato, contenuto nei Trattati Europei e nella l. 287/1990, detta legge antitrust, che ha assunto un’importanza preminente; il secondo, contenuto nel codice civile, avente natura strettamente privatistica, che attiene più specificamente alla correttezza dei rapporti concorrenziali fra le imprese. 2. Il diritto antitrust. Come si è avuto modo di vedere (v. Cap. 1, par. 4), la Fonti disciplina antitrust trae origine dall’ordinamento europeo e dall’esigenza di creare un mercato unico in tale ambito. Il sistema normativo della disciplina a tutela della concorrenza è pertanto costituito, anzitutto, dalle norme europee contenute: (i) negli artt. 101 ss. Tratt. FUE, aventi a oggetto principalmente le intese tra imprese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante di una impresa; (ii) nel reg. CE 139/2004, che sottopone a controllo preventivo le operazioni di concentrazione tra imprese. A tali disposizioni si affiancano le norme delle legislazioni nazionali, che in Italia sono state introdotte con la citata l.ant., nella quale trovano disciplina tutte e tre le fattispecie appena indicate. Il legislatore italiano ha adottato, come verrà meglio illustrato nei successivi paragrafi, norme sostanziali ispirate quasi letteralmente alle regole europee, per fare sì che le diverse fattispecie ricevessero una disciplina uniforme nei due diversi ambiti applicativi. Il diritto europeo si applica alle intese e agli abusi di posizione dominante che, a prescindere dal luogo ove si sono verificati, siano idonei a pregiudicare il commercio fra Stati membri, e alle concentrazioni che superano determinate soglie dimensionali (v. par. 2.1, 2.2 e 2.3). Il diritto nazionale ha invece un ambito di applicazione residuale, nel quale rientrano soltanto le fattispecie che non sono disciplinate dalle norme europee (art. 1 l.ant.) e presentano pertanto effetti essenzialmente limitati al mercato italiano. Tuttavia, l’art. 1 l.ant. dispone che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, d‘ora innanzi AGCM (v. par. 12.4), possa applicare, anche parallelamente in relazione a uno stesso caso, gli artt. 101- 102 Tratt. FUE e gli artt. 2-3 l.ant. in materia di intese anticoncorrenziali e di abuso di posizione dominante, con ciò dando corpo a un sistema unico del tutto integrato di enforcement della disciplina antitrust. La contiguità dei due sistemi di norme e la loro sostanziale uniformità di contenuti, pur ponendo talvolta complessi problemi di carattere applicativo (v. par. 2.4), determina l’esigenza di una uniformità anche interpretativa. A questo fine, la legge italiana dispone che l’interpretazione delle norme nazionali deve essere effettuata in base ai principi dell’ordinamento europeo in materia di disciplina della concorrenza. Tra questi ultimi, vanno ricompresi non soltanto quelli ricavabili dalle fonti normative europee, quali il Tratt. FUE e i regolamenti, ma anche quelli derivanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale (dell’Unione Europea), nonché dagli atti amministrativi degli organi dell’Unione Europea, a partire dalle decisioni della Commissione: un sistema interpretativo del tutto peculiare per una norma di diritto interno. Ne deriva un solido e coordinato sistema di norme che si propone, da un lato, di facilitare il compito dell’interprete nell’individuazione della disciplina applicabile, dall’altro, di fare sì che i principi interpretativi dei due sistemi di norme siano fra loro sempre coerenti. L’ambito di applicazione della disciplina riguarda comportamenti ascrivibili a imprese. Deve notarsi, peraltro, che la nozione di impresa che assume rilievo ai fini di tale disciplina non coincide con quella tracciata dal codice civile all’art. 2082 (v. Cap. 2, par. 2). La nozione di impresa rilevante ai fini dell’applicazione delle norme antitrust (europee e nazionali) è infatti assai più ampia: con essa si intende fare riferimento a ogni soggetto che operi nel mercato e compia atti orientati al soddisfacimento di bisogni di carattere economico, senza che assuma rilievo, ove si tratti di un ente diverso dalla persona fisica, né la forma giuridica (società, associazione, ente di altro genere) né la natura (pubblica o privata) né, più in generale, i concreti aspetti organizzativi. Ne discende che le discipline antitrust, europea e nazionale, ben potranno trovare applicazione anche quando l’attività non potrebbe essere qualificata come impresa alla stregua del codice civile: si pensi, emblematicamente, al caso dei soggetti che esercitano professioni intellettuali, come medici e avvocati, la cui attività non si qualifica come impresa ai sensi del codice civile, ma che sono invece considerati imprese ai sensi della normativa antitrust. Le funzioni e gli scopi del diritto antitrust sono sempre stati Funzioni e oggetto di accese discussioni, forse destinate a non approdare obiettivi mai a risultati definitivi in quanto in larga misura condizionate dall’impostazione che si vuole dare alla politica economica. Muovendo dall’assunto che l’assetto concorrenziale del mercato è quello che meglio consente una efficiente allocazione delle risorse fra i suoi partecipanti, il primo e più evidente obiettivo perseguito dagli ordinamenti mediante l’adozione di una normativa antitrust è quello di facilitare lo sviluppo della concorrenza e prevenire la formazione dei monopoli. Questa affermazione, abbastanza ovvia, deve tuttavia essere completata attraverso un percorso che giunga alla definizione di quali siano gli interessi tutelati attraverso questo strumento, anche al fine di individuare i soggetti oggetto della protezione da parte della normativa. Il dibattito parlamentare americano (si è già ricordato che furono gli Stati Uniti d’America la prima nazione a dotarsi di una moderna legislazione antitrust) mostra che quel legislatore, già oltre un secolo fa, poneva al centro del dibattito la protezione dei consumatori (che andavano tutelati sia sul piano della libertà di scelta, sia sul piano dei prezzi pagati), delle imprese (sempre a rischio di essere spazzate via dallo strapotere economico delle grandi aggregazioni industriali) e in ultima analisi della concorrenza nel suo complesso, il cui funzionamento sarebbe stato posto seriamente a rischio dalla presenza di pochi grandi operatori a scapito dell’interesse generale. Se fino a questo punto c’è una certa unanimità di vedute, più complesso è il dibattito in ordine alla esatta individuazione delle modalità con cui questi obiettivi debbano essere perseguiti, con particolare riguardo alla selezione delle pratiche da vietare perché nocive, rispetto a quelle da consentire perché pro-competitive. Una prima e più tradizionale concezione considera che ogni pratica che ha un impatto negativo sull’efficienza del sistema, sia essa relativa alla allocazione delle risorse, sia essa relativa alla redistribuzione delle stesse, debba essere sanzionata dal diritto antitrust e dunque essere considerata vietata. Secondo una seconda più recente concezione (risalente alla c.d. scuola di Chicago), soltanto le pratiche che hanno un effetto negativo sulla efficienza allocativa del sistema meritano di essere sanzionate, mentre quelle che hanno meri effetti redistributivi dovrebbero essere sempre consentite in quanto sostanzialmente neutre per il sistema nel suo complesso. In termini pratici ciò significa che per entrambe le impostazioni teoriche, le pratiche che portano a una ridotta produzione di ricchezza devono essere sanzionate: si pensi al caso di un accordo in base al quale gli aderenti convengono di ridurre le rispettive produzioni al fine di aumentare i prezzi. È chiaro che in questo caso l’efficienza allocativa del sistema è pregiudicata, in quanto viene prodotta meno ricchezza di quella che si sarebbe prodotta in assenza dell’accordo, che pertanto merita di ricadere nell’ambito dei divieti previsti dalla normativa. Al contrario, le due impostazioni teoriche divergono quando una pratica non determina effetti allocativi, ma determina soltanto effetti redistributivi, vale a dire la ricchezza prodotta non cambia, ma cambia il destinatario finale, attraverso normalmente un trasferimento di ricchezza dalle tasche dei consumatori a quelle dell‘impresa. È questo il caso di alcune intese verticali, cioè poste in essere da imprese che operano a livelli diversi della filiera produttiva, che, per certi versi, producono effetti positivi nella concorrenza fra diverse marche ma che, limitando la concorrenza nella vendita dei prodotti della medesima marca, possono determinare un aumento del prezzo di tali prodotti, così costringendo i consumatori a pagare prezzi più elevati di quelli che avrebbero pagato in assenza di tali accordi. In una situazione di questo tipo la teoria tradizionale opta per il divieto e la teoria revisionista propende per la irrilevanza del comportamento rispetto alla normativa antitrust. 2.1. Le intese. Le intese sono disciplinate in maniera quasi identica, fatte salve alcune piccole differenze, dall’art. 101 Tratt. FUE e dagli artt. 2 e 4 l.ant. Nozione di Le intese sono definite dalla l.ant. come gli accordi e/o le “intesa” pratiche concordate tra imprese, nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari di consorzi, associazioni di imprese e altri organismi similari. Sebbene la nozione delineata dal Trattato sia appena più sintetica, la dottrina ritiene che non vi siano sostanziali differenze fra le due nozioni. In termini molto generali si può dunque dire che possono essere definite intese tutte le forme di cooperazione tra le imprese, siano esse il frutto di un accordo, di una pratica in essere fra le parti, di una comune decisione di un organismo di coordinamento. È insomma una definizione ampissima che non richiede requisiti di forma né di altro genere. Il concetto di accordo, usato dal legislatore in maniera sapiente per sfuggire alle categorie classiche del diritto civile, ricomprende ogni genere di comune intendimento di due o più imprese, sia esso consacrato in un contratto, valido oppure no, o in un semplice accordo che pure non costituisce tecnicamente un contratto. Non importa se esso è orale o scritto, se è espresso, tacito o stipulato per comportamenti concludenti. Non occorre neppure che sia vincolante per le parti, essendo sufficiente a integrare la fattispecie quello che nel gergo degli affari viene chiamato gentlemen’s agreement, accordo fra gentiluomini o patto d’onore, così come una lettera di intenti, un memorandum of understanding o una semplice puntazione, magari neppure formalizzata o che ha cessato di essere in vigore. Più complessa e sfuggente è la nozione di pratica concordata, concetto a cui fanno riferimento sia la norma europea sia quella italiana. Nella interpretazione della Corte di giustizia e dei giudici nazionali è una nozione ampia e flessibile volta a coprire qualsiasi comportamento coordinato di due o più imprese nella consapevolezza che esso altera la concorrenza. Gli elementi costitutivi sono l’esistenza di un contatto tra le imprese e la conseguente alterazione del loro comportamento sul mercato. Il più delle volte il contatto tra le parti si risolve in uno scambio, anche solo indiretto, di informazioni, in grado di orientare le strategie concorrenziali delle imprese coinvolte. Solitamente questo elemento è l’unico che consente di distinguere la pratica concordata (illegittima) dai comportamenti paralleli (legittimi) che le imprese sono razionalmente portate a tenere, seppure in assenza di coordinamento, in certe situazioni di mercato (segnatamente nell’oligopolio). La differenza tra le due situazioni sta proprio nel fatto che mentre in un caso i comportamenti sono il frutto di un contatto preliminare, nell’altro i comportamenti sono genuinamente unilaterali e dovuti alla particolare condizione strutturale del mercato. La condotta illecita viene per questi motivi individuata anche solo nello scambio di informazioni a prescindere dal conseguente riscontro della modifica del comportamento concorrenziale sul mercato. Per contro, quando l’autorità non riesce a dimostrare lo scambio di informazioni, avvenuto evidentemente in segreto, la pratica concordata può essere dedotta dall’analisi del comportamento sul mercato. Tutte le volte in cui i comportamenti paralleli non appaiono giustificati dalle particolari condizioni concorrenziali (e dunque non sono economicamente razionali) essi non possono che essere il frutto di un precedente contatto tra le imprese. In questi casi peraltro i giudici nazionali richiedono che l’autorità fondi la propria ipotesi accusatoria su una serie di indizi gravi, precisi e concordanti che consentano di far ritenere, in assenza di una razionalità economica contraria, la sussistenza di un pre-esistente accordo. Anche con riguardo alle decisioni di associazioni di imprese la norma europea e la norma italiana sono equivalenti, nonostante quest’ultima sia più specifica e dettagliata. La nozione tuttavia è identica: sono considerate intese tutte le decisioni di associazioni di imprese, come sono ad es. le associazioni di categoria, i consorzi o qualsiasi altro organismo di cooperazione, che determinino un allineamento di comportamenti concorrenziali. Poco importa se esse siano vincolanti o si riducano a semplici raccomandazioni, o se siano adottate in conformità a statuti e regolamenti. Il secondo comma dell’art. 2 della l.ant., analogamente Le intese vietate all’art. 101 del Tratt. FUE, stabilisce che « sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante ». La norma europea contiene un requisito aggiuntivo, che ne definisce il campo di applicazione, costituito dalla idoneità dell’intesa a pregiudicare il commercio tra Stati membri. La Corte di giustizia da sempre ha chiarito che, affinché una intesa ricada nel divieto, non è necessario che sussistano entrambi gli elementi dell’oggetto e dell’effetto. Una intesa è vietata sia quando abbia per oggetto una restrizione concorrenziale senza sortire alcun effetto, sia quando, pur avendo un oggetto del tutto diverso, nella sua applicazione si determini l’effetto restrittivo. Si distinguono intese orizzontali e intese verticali in funzione della partecipazione al disegno di imprese operanti allo stesso livello della filiera produttiva, e dunque in diretta o potenziale concorrenza fra loro, oppure di imprese operanti a livelli diversi della filiera, come ad es. accade in accordi di esclusiva tra un produttore e un distributore, e dunque tra imprese che non sono in concorrenza fra loro. Mentre la natura anticoncorrenziale delle prime appare facilmente percepibile, e dunque il più delle volte esse ricadono nell’ambito del divieto previsto dal diritto antitrust, per le seconde l’analisi è più articolata. In particolare le intese verticali possono rientrare nell’ambito del divieto tutte le volte in cui determinino un effetto di chiusura del mercato nel suo complesso, tanto da rendere difficoltoso l’accesso allo stesso mercato da parte di concorrenti. L’oggetto dell’intesa va ricercato nella sua oggettiva funzione e non nella comune intenzione delle parti. Sono normalmente considerate pericolose e conseguentemente, per la loro stessa natura, fatte rientrare nell’area del divieto tutte le intese inequivocabilmente anticoncorrenziali, come i cartelli di prezzo (pratiche attraverso le quali due o più imprese fissano congiuntamente i prezzi da praticare), la divisione dei mercati (sia territoriali sia di prodotto: pratiche mediante le quali le imprese si spartiscono i mercati nei quali ciascuna di esse opera), le restrizioni quantitative della produzione, etc. Al contrario, tutte le volte in cui l’oggetto sia diverso dal coordinamento di comportamenti concorrenziali, l’analisi richiederà una più accurata verifica degli effetti che l’intesa ha o può avere sul mercato. Tuttavia, affinché l’intesa sia da considerarsi vietata, non è necessario che l’effetto anticoncorrenziale si sia già prodotto, ma è sufficiente che tale effetto sia anche solo potenziale. Un effetto attuale o potenziale è considerato sussistente tutte le volte in cui l’intesa abbia o possa avere un impatto apprezzabile anche soltanto su uno degli elementi strutturali di funzionamento del mercato quali i prezzi, la produzione, l’innovazione, lo sviluppo tecnologico o la libertà di scelta dei consumatori finali. La norma richiede altresì che la restrizione concorrenziale sia « consistente ». Dunque sono escluse dal campo di applicazione della norma le intese aventi effetti minimali e irrilevanti. A livello europeo, la Commissione ha emanato una comunicazione nella quale fornisce delle linee guida per interpretare tale requisito, fondate sostanzialmente su criteri quantitativi. A livello nazionale, sebbene in assenza di norme specifiche tale interpretazione sia affidata alla discrezionalità dell’autorità e alla sensibilità dei giudici, le citate linee guida europee sono comunque prese a riferimento. L’analisi è solitamente condotta sia in una prospettiva soggettiva, avendo riguardo alle imprese coinvolte e alla loro posizione di mercato, sia in una prospettiva oggettiva, prendendo in considerazione gli effetti sul mercato. La norma europea e la norma italiana contengono poi un elenco non esaustivo di ipotesi di intese certamente vietate. Tra queste rientrano: (i) la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali (i c.dd. cartelli); (ii) la creazione di vincoli o limitazioni della produzione, dell’accesso al mercato, degli investimenti, dello sviluppo tecnico o del progresso tecnologico; (iii) la ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento; (iiii) l’applicazione, nei rapporti commerciali con altri contraenti, di condizioni diverse per prestazioni equivalenti (la c.d. discriminazione); e, infine, (v) il subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che per loro natura non hanno alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi (i c.d. tying contracts o contratti leganti). Le intese vietate sono considerate, sia dalla normativa europea sia dalla normativa italiana, nulle a ogni effetto (artt. 101, comma 2, Tratt. FUE e 2, comma 3, l.ant.). Inoltre, sebbene le intese siano prive di efficacia giuridica, le imprese che vi hanno preso parte sono assoggettate a un articolato sistema di sanzioni pecuniarie amministrative e all’obbligo di risarcire il danno che avessero eventualmente causato a terzi. L’ordinamento tuttavia, in certe particolari circostanze stabilite dalla legge, considera che anche intese in astratto vietate possano beneficiare di un trattamento di favore in considerazione degli effetti positivi che esse possono determinare. È così previsto che esse possono sfuggire al divieto in presenza di quattro condizioni, due positive e due negative. Deve essere dimostrato che le intese: in positivo, (i) contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione di prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, e (ii) riservano agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che deriva alle parti; nonché, in negativo, (iii) non contengono restrizioni concorrenziali che non siano indispensabili per l’ottenimento dei benefici e (iv) non consentono alle parti di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti oggetto dell’accordo. 2.2. Gli abusi di posizione dominante. Gli artt. 3 l.ant. e 102 Tratt. FUE prevedono una ulteriore fattispecie vietata costituita dall’abuso di posizione dominante. Le norme contengono un precetto asciutto e sintetico, la cui interpretazione non può prescindere da una accurata analisi dei precedenti: « [è] vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante » (così l’art. 3 l.ant. e similmente l’art. 102 Tratt. FUE che contiene altresì il requisito aggiuntivo del pregiudizio al commercio fra Stati membri e fa riferimento al mercato interno dell’Unione o a una parte sostanziale di questo). In entrambe le disposizioni segue poi una lista di comportamenti espressamente vietati che verranno illustrati in seguito. Dal testo della norma appare chiaro che a essere vietata non è la costituzione o la detenzione di una posizione dominante ma il suo « sfruttamento abusivo ». Il che significa che non è vietato acquisire una posizione di assoluto dominio, persino di monopolio, purché ciò rappresenti il frutto della corretta competizione e del successo dell’impresa sul mercato (c.d. crescita interna), non già la conseguenza di intese o concentrazioni tra imprese. Una volta acquisita una posizione dominante, è in ogni caso vietato il suo sfruttamento abusivo. Nulla invece è detto con riguardo alla nozione di posizione Nozione di dominante. La Corte di giustizia ha chiarito che la posizione posizione dominante dominante è « una posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione e ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori ». Per capire se una impresa si trova in posizione dominante la Corte ha indicato un percorso che si fonda in primo luogo su una accurata individuazione del c.d. mercato rilevante. Esso deve essere determinato sia dal punto di vista territoriale (il test ha una sua autonoma rilevanza anche al fine di stabilire quale legge sia applicabile) sia dal punto di vista merceologico. Si tratta, in buona sostanza, di individuare un ambito nel quale esista una relazione di sostituibilità tra i prodotti e i servizi ivi offerti, tanto da poterlo considerare come un unico mercato. Sotto il profilo territoriale, tale relazione viene accertata considerando, da un lato, le caratteristiche del prodotto (deperibilità, dimensioni, costi di trasporto in rapporto al valore unitario delle merci, ecc.), dall’altro le abitudini dei consumatori e le tecniche di distribuzione adottate dalle imprese (si pensi alle vendite per corrispondenza o tramite internet che consentono alla impresa di allargare la propria offerta a una clientela geograficamente distante e di fare in tal modo concorrenza anche a operatori localizzati in territori diversi dal proprio). Sotto il profilo merceologico, si tratterà invece di indagare sulla funzione che i prodotti e i servizi offerti dall’impresa specificamente assolvono in relazione alle esigenze e ai gusti dei consumatori. Vi sarà pertanto concorrenza sul piano del prodotto nei limiti in cui le imprese offrano (o siano in grado facilmente di offrire) prodotti o servizi ritenuti dai consumatori come alternativi e fungibili. Tecnicamente, tale accertamento viene compiuto osservando, ad es., come le variazioni di prezzo di un prodotto incidono sulla domanda di un altro prodotto e osservando altresì i limiti territoriali entro i quali si espande la domanda alternativa. Il mercato rilevante si estende inoltre fino a comprendere i c.d. concorrenti potenziali, e cioè le imprese che, pur non essendo presenti sul mercato del prodotto, vi possano agevolmente entrare per ragioni di contiguità territoriale o merceologica. Una volta individuato il mercato rilevante, sarà possibile stabilire la quota di mercato detenuta dall’impresa e valutarne concretamente la rilevanza. La Corte di giustizia ha stabilito che: (i) una quota nell’ordine dell’ottanta per cento è sufficiente di per sé, salvo casi eccezionali, ad attribuire al suo detentore una posizione dominante; (ii) quote intermedie fra il quaranta per cento e il settantacinque per cento possono essere un serio indizio di dominanza, se corroborate da altri indicatori; e (iii) quote sotto il trenta per cento difficilmente possono determinare un potere di mercato così significativo da attribuire al suo titolare quella indipendenza di comportamenti che caratterizza la condizione del dominante. Tra gli indicatori aggiuntivi che possono contribuire a configurare la posizione dominante, va in primo luogo considerata la stabilità della quota di mercato: quanto più essa è in grado di rimanere invariata nel tempo, tanto più risulta rilevante, dimostrandosi che l’impresa è sostanzialmente insensibile agli effetti della concorrenza. Alla stabilità della quota si affiancano le c.d. barriere all’ingresso, che costituiscono un ostacolo per le imprese che volessero accedere al mercato: più elevate sono le barriere, più salda sarà la posizione del dominante e più difficile quella dei concorrenti. Costituiscono barriere all’ingresso le circostanze che l’impresa già presente su un dato mercato sia dotata di notevole forza finanziaria (in quanto le consente di reagire con prontezza agli investimenti del nuovo entrante), che disponga di importanti diritti di proprietà industriale (in quanto richiedono al nuovo entrante forti investimenti e tempi lunghi per affermare i propri prodotti), che sia verticalmente integrata (in quanto costringe l’altra impresa a entrare sul mercato a diversi livelli della catena produttiva o distributiva), che goda di una forte reputazione (in quanto determina una significativa fidelizzazione della clientela che rende difficile l’accesso di un nuovo entrante sul proprio mercato), che disponga di una capillare rete distributiva (in quanto rende più complessa la possibilità per i prodotti concorrenti di raggiungere efficacemente il mercato), che operi su un’ampia gamma di prodotti (in quanto costringe il nuovo entrante a dover disporre di una gamma comparabile per poter competere efficacemente), etc. La misurazione della barriera deve essere operata considerando gli investimenti richiesti per il suo superamento, in relazione alla redditività attesa dalla futura attività: in termini assoluti, più gli investimenti sono consistenti, più la barriera è elevata perché espone chi li effettua a un rischio più elevato; in termini relativi, più gli investimenti sono elevati rispetto ai ritorni attesi, più la barriera si rivelerà elevata, ancora una volta perché il rischio per l’investitore è più alto. La norma non dà indicazioni circa la nozione di abuso se Nozione di non fornendo un elenco di comportamenti vietati. Così è abuso previsto che l’impresa dominante non possa (i) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; (ii) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori (esclusione, boicottaggio); (iii) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza (discriminazione o esclusione); (iiii) subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi (tying contracts o contratti leganti). Dalle fattispecie elencate dal legislatore è possibile trarre utili indicazioni per comprendere la natura dei comportamenti abusivi. L’impresa in posizione dominante, avvantaggiandosi della sua condizione di potere, può comportarsi in maniera indipendente dagli altri protagonisti del mercato (siano essi le imprese concorrenti, i potenziali concorrenti o fin anche gli utilizzatori finali), senza temere la loro reazione, e imporre condizioni in qualche misura gravose per i propri clienti (c.d. abusi di sfruttamento) o adottare comportamenti tali da impedire ai propri concorrenti di scalfire la sua posizione di dominio (c.d. abusi escludenti). Tutte le volte che l’impresa in posizione dominante pone in essere strategie di questo tipo incorre in una violazione della norma, che può comportare la irrogazione da parte dell’autorità di controllo di pesanti sanzioni pecuniarie amministrative e l’obbligo di risarcire il danno ai terzi eventualmente danneggiati. 2.3. Le concentrazioni. Più discussa e problematica è la rilevanza concorrenziale delle operazioni di concentrazione, tanto che il Trattato di Roma del 1957 non conteneva alcuna disposizione in merito al controllo delle concentrazioni e che la prima disciplina europea è stata introdotta soltanto con il reg. CE 4064/1989, poi sostituito dal reg. CE 139/2004. La l.ant., emanata successivamente all’introduzione del primo regolamento europeo, contiene come detto anche la disciplina delle concentrazioni. Le concentrazioni sono nella sostanza forme di integrazione fra imprese che prima dell’operazione erano tra loro indipendenti. L’effetto potenzialmente anticoncorrenziale sta nel fatto che viene meno almeno uno degli operatori del mercato oppure, pur rimanendo gli stessi operatori, se ne modificano le quote di mercato. L’integrazione tra due imprese, da un lato, rafforza la impresa risultante e, dall’altro, fa venire meno la pressione concorrenziale che la presenza di un maggior numero di imprese assicurava sul mercato. Per contro, si obietta che molto spesso le operazioni di concentrazione sono idonee a determinare numerosi effetti positivi, primo fra tutti un accresciuto livello di efficienza che si traduce in un incremento di competitività del sistema. Dopo lunghi anni di dibattiti, la soluzione di compromesso è stata raggiunta evitando di impedire ogni forma di concentrazione, ma vietando soltanto quelle operazioni che fanno nascere un’impresa dotata di una posizione sul mercato che mette a rischio il funzionamento del meccanismo concorrenziale. Nozione di L’art. 5 l.ant. stabilisce che una operazione di concentrazione concentrazione si realizza: (i) quando due o più imprese procedono a fusione; (ii) quando uno o più soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese acquisiscono il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese, direttamente o indirettamente, sia mediante acquisto di quote di partecipazione sia mediante acquisto di elementi del patrimonio sia infine mediante contratto o qualsiasi altro mezzo; (iii) quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di una impresa comune, ossia un’impresa che sia assoggettata al controllo comune da parte di due o più imprese. Come si vede, la norma non fornisce una nozione unitaria di concentrazione, bensì si limita a specificare le principali fattispecie che la realizzano. Si può in ogni caso affermare che l’elemento essenziale della nozione di concentrazione consiste nella modifica duratura del controllo di un’impresa o di una sua parte, come si può anche desumere dalla formulazione dell’art. 3 del reg. CE 139/2004 Con riguardo alla terza fattispecie (costituzione di un’impresa comune), la norma precisa che non danno luogo a una concentrazione le operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti, proponendo così una distinzione fra imprese comuni concentrative e imprese comuni cooperative: le prime regolate dalla disciplina delle concentrazioni, le seconde invece dalla più rigorosa disciplina delle intese. La motivazione di questa scelta risiede ancora una volta nella considerazione che le concentrazioni hanno quasi sempre anche effetti pro-competitivi, come sopra accennato, mentre tutte le ipotesi di coordinamento fra imprese (siano esse contrattuali, consortili o societarie) determinano con certezza effetti anticompetitivi, discendenti dal coordinamento delle politiche di imprese concorrenti, senza produrre quei guadagni in termini di efficienza che ne potrebbero eventualmente giustificare l’ammissibilità. Il test di esenzione, più rigido, in questi casi dovrà dunque essere quello sopra illustrato previsto per le intese. La distinzione tra le due fattispecie non è peraltro agevole. In linea generale può dirsi che ricorre un’impresa comune concentrativa, là dove quest’ultima venga costituita da due o più imprese e tenda a sostituirsi integralmente, come soggetto presente sul mercato, alle imprese che vi danno vita, mentre ricorre un’impresa comune cooperativa, quando le imprese che la costituiscano continuano a operare in via autonoma sul mercato. Di grande rilevanza ai fini del realizzarsi della fattispecie è la nozione di controllo. L’art. 7 l.ant. ne detta una nozione ampia che si basa sulle tre fattispecie previste dall’art. 2359 (controllo azionario di diritto, controllo azionario di fatto e controllo contrattuale) e viene estesa a ogni forma di diritto, di contratto o di altro rapporto giuridico che conferisce al suo titolare, tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare una influenza determinante sulle attività di una impresa. Ne risulta che l’acquisto del controllo idoneo ad assicurare tale influenza determinante può avvenire sia attraverso l’acquisto di partecipazioni sociali, là dove l’impresa sia costituita in forma societaria, sia attraverso contratti che trasferiscano la proprietà di elementi del patrimonio di una impresa, tra cui, tipicamente, il contratto di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda (v. Cap. 12, par. 3). Non ogni concentrazione è vietata, ma soltanto quelle che Le comportano effetti pregiudizievoli sulla struttura del mercato. Al concentrazioni vietate fine di accertare la ricorrenza di tale presupposto, il legislatore europeo e quello italiano hanno istituito due test valutativi differenti. In particolare, secondo l’art. 6 l.ant., sono vietate le concentrazioni che comportano « la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza ». Il reg. CE 139/2004, invece, qualifica come vietate — « le concentrazioni che ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante ». Si può notare che, mentre la norma nazionale pone come elemento fondante del divieto la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante, la norma europea sembra prescinderne, potendo risultare sufficiente per la dichiarazione di incompatibilità anche solo che la concentrazione ostacoli in modo significativo una concorrenza effettiva, senza che debba necessariamente comportare la costituzione di una posizione dominante. Si tratta del c.d. SIEC test (substantially impede effective competition), che elimina incertezze e difficoltà applicative sorte in relazione ai c.d. « effetti coordinati », ossia alla possibilità che una concentrazione, pur senza creare una posizione dominante in capo a una singola impresa, conduca a una struttura di mercato in grado di facilitare la collusione tacita tra le (poche) imprese restanti. La notifica La parte che intende acquisire il controllo di un’altra preventiva impresa deve preventivamente notificare l’operazione alla competente autorità di controllo, qualora la concentrazione superi determinate soglie dimensionali, basate sul fatturato delle imprese interessate. A differenza che nelle altre fattispecie, nelle quali le autorità nazionali possono applicare anche il diritto europeo, nell’ambito delle concentrazioni la competenza è sempre ripartita fra le due autorità in ragione di criteri quantitativi stabiliti dalle norme: così le concentrazioni di dimensione europea dovranno essere notificate alla Commissione UE, quelle di dimensione nazionale, che superano a loro volta una soglia dimensionale minima, alla AGCM. Le autorità valutano l’operazione e possono vietarla, quando crea un serio ostacolo alla concorrenza (in applicazione dei criteri sopra illustrati), autorizzarla con condizioni, quando viene ritenuto necessario correggere alcuni effetti distorsivi che l’operazione potrebbe determinare, o autorizzarla, quando non rafforza o costituisce una posizione dominante né comporta un ostacolo significativo alla concorrenza effettiva. Deve essere notato, dunque, che il divieto non opera mai di per sé, ma necessita di un provvedimento dell’autorità di controllo. Questo comporta che la disciplina delle concentrazioni, a differenza di quella sulle intese e sull’abuso di posizione dominante, non potrà mai essere applicata dai giudici direttamente, ma soltanto a seguito di tale provvedimento. 2.4. L’applicazione della disciplina antitrust. Le autorità di Le autorità di controllo sono, per la applicazione della controllo disciplina europea, la Commissione UE e, per la applicazione della disciplina nazionale — nonché di quella europea sulle intese e sull’abuso di posizione dominante, in forma concorrente con la Commissione UE — l’AGCM, istituita dalla l.ant. L’AGCM è un organo collegiale che decide a maggioranza, costituito da un Presidente e due membri, nominati congiuntamente dai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica fra persone di notoria indipendenza, il cui mandato dura sette anni e non è rinnovabile. L’AGCM non ha rango costituzionale ma, in virtù del metodo di nomina dei suoi componenti, della sostanziale autonomia contabile e della potestà regolamentare di determinazione della propria organizzazione, viene considerata una autorità indipendente, nel senso che è autonoma rispetto ai poteri dello Stato. Ciò comporta che essa è soggetta soltanto alla legge e non opera in nessun caso come organo di politica economica. Oltre che alla tutela della concorrenza, l’AGCM è preposta a diverse altre funzioni a protezione dei consumatori, tra cui la repressione delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole, nonché il controllo preventivo delle condizioni generali di contratto (v. par. 3.1 e 3.2). Nell’ambito della funzione di garante della concorrenza, l’AGCM è dotata di penetranti poteri investigativi, di poteri decisori, di poteri sanzionatori in merito alle eventuali violazioni accertate, di poteri inibitori di pratiche anticompetitive, di poteri cautelari a protezione del meccanismo concorrenziale, di poteri consultivi in merito alle nuovi leggi, nonché di poteri di segnalazione sui profili di eventuale incompatibilità delle leggi esistenti con il mercato. Inoltre l’AGCM è legittimata ad agire innanzi al TAR Lazio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza. Ogni disciplina antitrust regola altresì il procedimento di Il procedimento accertamento delle violazioni delle regole concorrenziali. In tutti i sistemi giuridici le norme antitrust vengono attivate da un organo indipendente, ma mentre negli Stati Uniti d’America la Antitrust Division (articolazione del Department of Justice federale) promuove un’azione innanzi al giudice ordinario svolgendo un ruolo simile a quello del Pubblico Ministero nel nostro processo penale, nell’Unione Europea e in Italia il ruolo dell’autorità di controllo è quello di avviare, in presenza del sospetto di una violazione, un procedimento amministrativo, all’esito del quale, se accerta la violazione, ordina la cessazione dei comportamenti illeciti e sanziona le imprese responsabili. Il procedimento per l’accertamento delle violazioni delle norme sulle intese e sugli abusi di posizione dominante deve essere avviato ogniqualvolta vi sia il sospetto di una violazione dei divieti previsti dalla legge. L’apertura dell’istruttoria viene notificata alle parti interessate. L’autorità ha il potere di chiedere alle imprese interessate e ai terzi tutte le informazioni e i documenti che ritiene utili all’analisi del caso; può altresì condurre ispezioni presso le imprese coinvolte e acquisire tutta la documentazione utile. Al procedimento amministrativo instaurato dall’autorità possono partecipare tutte le parti a cui l’autorità ha notificato il provvedimento di avvio del procedimento nonché i soggetti che possono essere stati danneggiati direttamente dalla violazione che forma oggetto del procedimento. Le parti hanno il diritto di essere sentite, di produrre difese scritte, documenti e perizie, nonché di avere accesso alla documentazione acquisita durante le investigazioni, con il solo limite della riservatezza che può essere opposta su motivata istanza delle parti interessate. Qualora l’autorità ritenga di avere raccolto un numero sufficiente di prove dell’ipotesi accusatoria, comunica alle parti le risultanze dell’attività compiuta. Le parti hanno il diritto di chiedere di essere sentite in un’udienza finale innanzi all’autorità, nella quale hanno facoltà di sviluppare tutte le loro difese. Al termine dell’udienza finale l’autorità dichiara chiuso il procedimento e nei giorni successivi adotta il provvedimento finale che viene comunicato alle parti. Regole analoghe disciplinano il procedimento per le concentrazioni che però viene instaurato per iniziativa delle parti interessate che devono notificare l’operazione all’autorità. La pronuncia dell’autorità avviene in termini molto più stretti, salvo che essa non sollevi obiezioni alla concentrazione, nel qual caso i termini sono più estesi. I poteri dell’autorità sono comunque analoghi a quelli previsti nell’ambito del controllo sulle altre violazioni delle norme sulla concorrenza e la decisione viene sempre adottata dall’autorità. Una norma di coordinamento con il sistema di enforcement europeo ha introdotto anche nella l.ant. i c.d. « impegni ». Si tratta della possibilità che i procedimenti istruttori in tema di intese e abusi di posizione dominante (a eccezione di quelli riguardanti i cartelli segreti) si chiudano senza accertamento dell’infrazione, qualora le parti presentino impegni in grado di « far venir meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria », sempreché l’autorità li giudichi tali, rendendoli obbligatori per le parti dopo la pubblicazione a fini di confronto con le eventuali osservazioni di terzi interessati (c.d. market test). Le sanzioni Le autorità di controllo, sia a livello nazionale, sia a livello europeo, hanno la possibilità di comminare pesanti sanzioni agli autori degli illeciti. Nel caso di violazione delle regole sulle intese e sugli abusi di posizione dominante l’autorità ordina la cessazione dell’illecito e in funzione della durata e della gravità dell’illecito può applicare una sanzione pecuniaria amministrativa fino al 10 per cento del fatturato delle imprese responsabili. Le parti che nel corso dell’istruttoria hanno collaborato con l’autorità possono beneficiare di una riduzione o della non applicazione delle sanzioni in funzione del contributo dato all’indagine (c.d. programmi di clemenza o leniency programmes). Più articolato e complesso è il sistema sanzionatorio delle concentrazioni: anche in questo caso la sanzione può arrivare fino al 10 per cento del fatturato per le ipotesi di realizzazione di una concentrazione vietata, oltre all’obbligo di ripristinare lo status quo ante mediante misure di deconcentrazione, e all’1 per cento del fatturato per le ipotesi di omessa notifica. Vi sono poi altre sanzioni, sempre di carattere pecuniario, per il mancato completo e tempestivo adempimento alle richieste istruttorie dell’autorità, per la violazione di un provvedimento cautelare, per la violazione di obblighi assunti nei confronti dell’autorità. Se viene violato l’obbligo di pagamento di una sanzione l’autorità può ordinare la sospensione dell’attività dell’impresa per un massimo di 30 giorni. È bene sottolineare che la natura di tutte queste sanzioni è amministrativa e che normalmente destinatarie ne sono (solo) le imprese che hanno violato la disciplina. Tuttavia, nel mondo non mancano ordinamenti (come ad es. quello degli Stati Uniti d’America) nei quali la violazione della disciplina antitrust è sanzionata nei casi più gravi anche con sanzioni penali, come la reclusione, che colpiscono i dirigenti delle imprese che hanno commesso le violazioni. Le decisioni dell’AGCM possono essere impugnate innanzi al TAR del Lazio, con possibilità di impugnazione della sua decisione al Consiglio di Stato, e quelle della Commissione UE innanzi al Tribunale, con appello alla Corte di giustizia. Il private L’attività repressiva delle condotte illecite in violazione delle enforcement norme antitrust non è però affidata soltanto alle autorità di controllo. Le norme antitrust, almeno quelle sulle intese e sull’abuso di posizione dominante, possono essere azionate innanzi ai giudici ordinari anche da chiunque vi abbia interesse per ottenere una declaratoria di nullità (ad es. di una intesa) e se del caso per ottenere il risarcimento del danno, nonché per ottenere una tutela cautelare. La disciplina delle azioni di danno antitrust è stata oggetto di un significativo intervento di armonizzazione in sede europea con l’adozione della dir. UE 104/2014, i cui contenuti sono stati recepiti nel nostro ordinamento dal d.lgs. 3/2017, che ha introdotto una sorta di testo unico della materia, superando molti dei problemi interpretativi sollevati da giurisprudenza e dottrina. Anzitutto, è stato definitivamente chiarito (sulla scia della giurisprudenza e della dottrina pressoché unanimi) che qualsiasi persona, fisica o giuridica, nonché gli enti privi di personalità giuridica, possono agire per ottenere la tutela risarcitoria in caso di violazioni della disciplina antitrust. Le azioni risarcitorie solitamente seguono all’accertamento della violazione da parte dell’autorità di controllo. Per i privati è molto difficile scoprire l’illecito e avere la possibilità di dimostrarlo con le regole del processo civile in assenza di poteri inquisitori di alcun tipo. In questo senso, al provvedimento sanzionatorio definitivo (ossia non più impugnabile) adottato dall’AGCM è attribuita efficacia vincolante per il giudice ordinario quanto alla natura della violazione e alla sua portata materiale, personale, temporale e territoriale (con esclusione, quindi, del nesso di causalità e dell’esistenza del danno, che devono essere provati dall’attore in base alle regole ordinarie del processo civile in materia di distribuzione dell’onere probatorio). Non è comunque escluso che il danneggiato possa prescindere dal preventivo intervento dell’autorità di controllo e promuovere l’azione innanzi al giudice indipendentemente da tale preventivo intervento. I divieti sono autonomamente efficaci e non presuppongono la previa attivazione dell’AGCM. Anzi, l’iniziativa privata è vista come un ulteriore strumento di attuazione delle norme che può portare alla scoperta di illeciti che rimarrebbero altrimenti nascosti. Il d.lgs. 3/2017 ha inoltre introdotto alcune disposizioni particolarmente importanti in tema di (i) accesso alla prova, tese ad agevolare l’ostensione in giudizio di documenti rilevanti ai fini di causa, che si trovino in possesso del convenuto, di un terzo o dell’autorità antitrust; (ii) quantificazione del danno, con cui è specificato che il risarcimento comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi, che esso va quantificato secondo i criteri tradizionali posti dagli artt. 1223, 1226 e 1227 e che l’esistenza del danno cagionato da un cartello si presume, salva prova contraria dell’autore della violazione; (iii) termine di prescrizione, fissato in cinque anni ma con previsioni speciali in punto di decorrenza del termine (ad esempio, è previsto che la prescrizione rimanga sospesa quando l’AGCM avvia una istruttoria in via amministrativa sulla stessa violazione fatta valere con l’azione risarcitoria e che la sospensione si protrae per un anno dal momento in cui la decisione relativa alla violazione antitrust è divenuta definitiva o dopo che il procedimento si è chiuso in altro modo); (iv) passing-on (ossia di traslazione del sovrapprezzo anticoncorrenziale a valle della catena produttiva o distributiva), stabilendo sia la legittimazione ad agire dell’acquirente indiretto (cioè del soggetto che — pur non avendo avuto alcun rapporto diretto con l’autore dell’illecito antitrust — sia stato danneggiato dalla traslazione del sovrapprezzo di cui sopra) sia il diritto dell’impresa autrice dell’illecito di eccepire il difetto di legittimazione dell’attore che abbia traslato a valle l’asserito sovraprezzo anticoncorrenziale; (v) tribunali competenti, con la concentrazione presso le sezioni specializzate in materia di impresa dei Tribunali di Milano, Roma e Napoli. Un ostacolo che potrebbe far desistere il singolo consumatore dall’intraprendere una difficile e costosa azione giudiziaria è costituito molto spesso dal modesto ammontare del danno individualmente subito. A questo inconveniente ha posto rimedio il nostro legislatore introducendo la « azione di classe » (c.d. class action), da ultimo con la disciplina introdotta dalla l. n. 31/2019, mediante la quale una pluralità di soggetti titolari di diritti individuali omogenei può esercitare un’unica azione per il risarcimento del danno prodotto (tra l’altro) dai comportamenti concorrenziali (art. 840-bis ss. c.p.c. e fino alla sua entrata in vigore, attualmente prevista per il novembre 2020, limitatamente ai consumatori v. art. 140 cod.cons.). La disciplina di questo strumento processuale — caratterizzato dalla particolare enfasi posta sui meccanismi di pubblicità dell’esistenza del giudizio, ai fini di favorire l’adesione di soggetti portatori di diritti individuali omogenei — rafforza ulteriormente la rilevanza dell’accertamento preventivo della violazione da parte dell’AGCM, in quanto consente al giudice di sospendere il giudizio di risarcimento del danno qualora penda istruttoria davanti all’autorità. 3. La disciplina della concorrenza nel codice civile. Oltre alle disposizioni che regolano i comportamenti delle imprese con l’obiettivo primario di assicurare un sufficiente grado di concorrenzialità del mercato, e pertanto a tutela di interessi generali, la concorrenza è oggetto di una disciplina di natura privatistica, destinata a regolare i rapporti tra imprese allo scopo di evitare che la competizione commerciale degeneri in condotte ingiustamente lesive dell’altrui libertà di iniziativa economica. Fonti Le disposizioni del codice civile in materia di concorrenza sleale, di cui agli artt. 2598 ss., riproducono in gran parte il contenuto dell’art. 10-bis della Convenzione di Unione di Parigi del 1883 (v. Cap. 5, par. 2.1.) e ne replicano la struttura. Individuano, infatti, alcune fattispecie di concorrenza sleale, quali gli atti idonei a creare confusione con i prodotti e con le attività di un concorrente, nonché gli atti volti a screditare l’altrui impresa o ad appropriarsi dei pregi dei prodotti e dell’attività del concorrente, ma prevedono altresì una clausola generale di chiusura che estende la responsabilità a chiunque si avvalga di qualsiasi altro mezzo contrario alla correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. In analogia a quanto previsto dalla Convenzione di Unione nel richiamo agli « usi onesti in materia industriale e commerciale », l’art. 2598 demanda all’interprete il compito di individuare gli ulteriori comportamenti che possano considerarsi illeciti concorrenziali perché contrari alla correttezza professionale, sebbene diversi da quelli già specificamente previsti dalla disciplina. Inoltre, la giurisprudenza, valutando i comportamenti degli operatori economici alla luce della clausola generale di correttezza professionale, ha declinato quest’ultima in alcune figure paradigmatiche di illecito concorrenziale che si aggiungono alle fattispecie legali tipiche. La disciplina civilistica prevede poi specifici limiti legali alla concorrenza, giustificati dall’esigenza di fornire protezione all’impresa di

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