Demenza e malattie neurodegenerative PDF
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Università di Milano - Bicocca
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La lezione fornisce linee guida generali sulle malattie neurodegenerative, descrivendo l'epidemiologia, le caratteristiche cliniche, quelle genetiche e anatomopatologiche, ed evidenzia la crescente preoccupazione per la salute pubblica. Il documento sottolinea l'importanza della diagnosi precoce, l'assenza di terapie risolutive e l'interazione complessa tra geni e ambiente nel determinare lo sviluppo di queste patologie.
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MALATTIE NEURODEGENERATIVE La lezione odierna è una lezione introduttiva, in cui saranno date linee guida generali su quando sospettare una malattia neurodegenerativa e quali sono i meccanismi alla base. Questi sono comuni alle varie malattie neurodegenerative, che poi si declineranno con caratteris...
MALATTIE NEURODEGENERATIVE La lezione odierna è una lezione introduttiva, in cui saranno date linee guida generali su quando sospettare una malattia neurodegenerativa e quali sono i meccanismi alla base. Questi sono comuni alle varie malattie neurodegenerative, che poi si declineranno con caratteristiche cliniche diverse. 1. EPIDEMIOLOGIA DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE Le malattie neurodegenerative rappresentano una crescente preoccupazione per la salute pubblica a livello globale, destinata a diventare una vera e propria "pandemia" nei prossimi anni. Questo a causa dell'invecchiamento della popolazione, con un'aspettativa di vita in costante aumento. Si stima che i casi di Alzheimer, la malattia neurodegenerativa più diffusa, aumenteranno drasticamente, raggiungendo i 15 milioni negli Stati Uniti e 150 milioni a livello globale entro il 2050. La crescita sarà più significativa nei paesi in via di sviluppo e nella fascia di popolazione più anziana. Questa tendenza pone un'enorme sfida sociale, economica e sanitaria, poiché le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da un decorso progressivo e irreversibile, che porta alla morte neuronale. A differenza di altre patologie come il cancro, le malattie cardiache, l'ictus e l'HIV, per le quali sono disponibili terapie efficaci che hanno ridotto la mortalità, non esistono ancora cure in grado di arrestare la progressione delle malattie neurodegenerative. L'aumento dell'incidenza delle malattie neurodegenerative è in contrasto con la diminuzione della mortalità per altre malattie, come evidenziato dal grafico presentato. Questo sottolinea l'urgente necessità di investire nella ricerca per sviluppare terapie efficaci per queste patologie. 2. CARATTERISTICHE CLINICHE Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da un processo abiotrofico, ovvero una progressiva morte neuronale, con una distribuzione variabile nel parenchima cerebrale. Tale processo si manifesta clinicamente con un insieme di caratteristiche peculiari che permettono di distinguere queste patologie da altre condizioni neurologiche. Queste caratteristiche sono fondamentali per il sospetto diagnostico e per l’orientamento del percorso clinico: Esordio lento e sfumato: un tratto distintivo delle malattie neurodegenerative è il loro inizio insidioso, con sintomi inizialmente lievi e aspecifici che spesso passano inosservati sia ai pazienti che ai medici. Questo ritardo nella diagnosi è ulteriormente aggravato dalla tendenza dei pazienti a sottovalutare i primi segnali, attribuendoli a normale invecchiamento o stress. Solo quando i sintomi si intensificano e interferiscono con le attività quotidiane i pazienti cercano assistenza medica, a quel punto la malattia potrebbe essere già in uno stadio avanzato. L’anamnesi accurata è fondamentale per ricostruire la storia clinica ed identificare la possibile presenza di sintomi pregressi, inizialmente ignorati; Decorso progressivo: il peggioramento graduale e inesorabile dei sintomi è un altro segno distintivo delle malattie neurodegenerative. Questa progressione permette di escludere altre cause di danno neurologico, come eventi vascolari o infezioni, che presentano un andamento più acuto. La natura progressiva della malattia è dovuta alla continua morte neuronale e alla conseguente compromissione delle funzioni cerebrali; Simmetria dei sintomi e segni: le malattie neurodegenerative tendono a colpire entrambi gli emisferi cerebrali in modo simmetrico, causando sintomi e segni bilaterali. Questa simmetria è particolarmente evidente nei disturbi motori, come il tremore e la rigidità nel morbo di Parkinson. Tuttavia, alcune patologie, come il Parkinson stesso, possono inizialmente manifestarsi in modo asimmetrico, con sintomi più evidenti su un lato del corpo; Correlazione con l’età: l'incidenza delle malattie neurodegenerative aumenta esponenzialmente con l'età. Questo legame con l'invecchiamento suggerisce che i meccanismi di riparazione e protezione neuronale diventano meno efficienti con il passare degli anni, rendendo il cervello più vulnerabile al danno e alla degenerazione. Tuttavia, è importante ricordare che esistono forme giovanili, più rare ma spesso caratterizzate da un decorso più aggressivo e da un forte background genetico; Manifestazioni cliniche d’esordio specifiche: i sintomi iniziali di una malattia neurodegenerativa riflettono il sistema neuronale inizialmente colpito. Ad esempio, il coinvolgimento delle vie motorie può manifestarsi con tremore e bradicinesia nel morbo di Parkinson (sistema extrapiramidale) o con debolezza muscolare, atrofia e fascicolazioni nella SLA (sistema piramidale). Tuttavia, la degenerazione può progressivamente estendersi ad altre aree cerebrali, causando un overlap di sintomi tra diverse patologie e rendendo più complessa la diagnosi differenziale. Le caratteristiche cliniche delle malattie neurodegenerative delineano un quadro complesso e sfidante per la diagnosi e la gestione. La comprensione di queste peculiarità è fondamentale per un'accurata diagnosi differenziale e per l'implementazione di strategie terapeutiche tempestive, volte a rallentare la progressione della malattia e a migliorare la qualità di vita dei pazienti. 3. CARATTERISTICHE GENETICHE Le malattie neurodegenerative, pur manifestandosi con quadri clinici distinti, condividono alcune caratteristiche genetiche comuni. Le forme ad esordio precoce, spesso più gravi, sono strettamente legate all'ereditarietà e hanno permesso di scoprire importanti meccanismi patogenetici. Le principali caratteristiche genetiche comuni sono: Ereditarietà mendeliana rara: sebbene la maggior parte dei casi siano sporadici, esistono rare forme di malattie neurodegenerative con ereditarietà mendeliana. In questi casi, la trasmissione autosomica dominante è più frequente di quella recessiva; Mutazioni geniche: le mutazioni genetiche possono essere di diverso tipo: puntiformi, delezioni o, più raramente, espansioni di triplette. Queste alterazioni possono interessare sia gli esoni che gli introni dei geni coinvolti. Tali mutazioni determinano un'alterazione delle proteine implicate nelle varie patologie; Penetranza variabile: la penetranza, ovvero la probabilità che una mutazione genetica si manifesti clinicamente, è variabile nelle malattie neurodegenerative. Questo suggerisce un'interazione complessa tra geni, e tra geni e ambiente, nel determinare lo sviluppo della malattia; Ereditarietà mitocondriale: in alcuni rari casi, la trasmissione della malattia avviene per via mitocondriale, con ereditarietà matrilineare; Forme sporadiche con fattori di rischio genetici: la maggior parte dei casi di malattie neurodegenerative sono sporadici, senza una chiara ereditarietà familiare. Tuttavia, anche in questi casi sono stati identificati fattori di rischio genetici, come polimorfismi, che predispongono allo sviluppo della malattia in presenza di determinate condizioni ambientali. Esempi di fattori di rischio genetici e ambientali nelle malattie neurodegenerative sono: Morbo di Parkinson: le mutazioni nel gene dell'α-sinucleina (locus PARK1) causano un accumulo anomalo della proteina, determinando la malattia. Anche mutazioni in altri geni, come PARK2 (Parkina) e PARK6 (PINK1), sono state associate a forme recessive di Parkinson. L'esposizione a tossine ambientali, come pesticidi e metalli, può contribuire all'accumulo di α-sinucleina e allo sviluppo della malattia; Malattia di Alzheimer: mutazioni nei geni APP, presenilina 1 e 2, e SORL1 determinano un'aumentata produzione di β-amiloide, la proteina che si accumula nel cervello dei pazienti. La trisomia 21 (sindrome di Down) comporta un aumento della produzione di APP, aumentando il rischio di sviluppare l'Alzheimer in età precoce. Anche l'allele ε4 dell'apolipoproteina E (APOE) è un fattore di rischio genetico per l'Alzheimer, in quanto riduce la clearance di β-amiloide dal cervello. In sintesi, le caratteristiche genetiche comuni alle malattie neurodegenerative evidenziano la complessità di queste patologie e il ruolo chiave dell'interazione tra geni e ambiente nel loro sviluppo. La ricerca genetica ha permesso di identificare importanti meccanismi patogenetici e di sviluppare nuovi approcci terapeutici. 4. CARATTERISTICHE ANATOMOPATOLOGICHE Le malattie neurodegenerative sono accomunate da una serie di alterazioni anatomopatologiche che, pur variando a seconda della specifica patologia, presentano un pattern comune. Le fonti descrivono in dettaglio queste caratteristiche, evidenziando come lo studio autoptico sia stato fondamentale per la comprensione di tali malattie. Le caratteristiche anatomopatologiche fondamentali sono: Apoptosi e perdita neuronale progressiva: la morte neuronale è un elemento centrale nelle malattie neurodegenerative. Il processo apoptotico, che porta alla morte cellulare programmata, è il principale meccanismo attraverso cui i neuroni degenerano. La perdita neuronale non è uniforme nel cervello, ma si concentra in specifiche aree a seconda della patologia. Questa distribuzione selettiva spiega la varietà di manifestazioni cliniche. La perdita di sinapsi, ovvero le connessioni tra i neuroni, è una conseguenza diretta della morte neuronale e contribuisce al deterioramento delle funzioni cerebrali; Coinvolgimento di sistemi neuronali correlati: la degenerazione non si limita a singoli neuroni, ma coinvolge interi sistemi e circuiti neuronali interconnessi. Ad esempio: o Nella SLA si osserva la degenerazione sia del primo che del secondo motoneurone, causando una compromissione sia della funzione motoria volontaria che di quella riflessa; o Nell’Alzheimer la degenerazione interessa principalmente l'ippocampo e la corteccia entorinale, aree cerebrali cruciali per la memoria. Attivazione della microglia e neuroinfiammazione: la microglia svolge un ruolo importante nella neuroinfiammazione. In risposta al danno neuronale, la microglia si attiva e rilascia citochine pro-infiammatorie, contribuendo al processo degenerativo. L'infiammazione cronica nel cervello è un fattore chiave nella progressione delle malattie neurodegenerative; Accumulo di proteine misfoldate: una caratteristica comune a molte malattie neurodegenerative è l'accumulo di proteine con una conformazione anomala, dette "misfolded". Queste proteine tendono ad aggregarsi formando depositi insolubili che interferiscono con le normali funzioni cellulari e causano danno neuronale. Esempi di proteine misfolded: o β-amiloide nell'Alzheimer (forma placche senili extracellulari); o α-sinucleina nel Parkinson (forma i corpi di Lewy intracellulari); o Proteina tau nell'Alzheimer e in altre taupatie (forma grovigli neurofibrillari intracellulari). Prion-like spreading: l'accumulo di proteine misfolded può diffondersi da una cellula all'altra attraverso un meccanismo simile a quello dei prioni, le proteine infettive responsabili di encefalopatie spongiformi. Questa diffusione contribuisce alla progressione della patologia in aree cerebrali inizialmente non colpite; Quadro anatomopatologico precede la clinica: le alterazioni anatomopatologiche iniziano anni prima della comparsa dei sintomi clinici. Questo "periodo silente" è dovuto alla capacità del cervello di compensare il danno neuronale iniziale. La sfida attuale è quella di identificare biomarcatori che permettano di diagnosticare le malattie neurodegenerative in fase preclinica, quando il danno è ancora reversibile. La comprensione delle caratteristiche anatomopatologiche delle malattie neurodegenerative è cruciale per lo sviluppo di nuove terapie. La ricerca si sta concentrando sullo sviluppo di farmaci in grado di: o Bloccare la produzione o promuovere la rimozione delle proteine misfolded; o Ridurre l'infiammazione cerebrale; o Proteggere i neuroni dal danno. La diagnosi precoce, resa possibile da nuovi biomarcatori, è fondamentale per poter intervenire tempestivamente e rallentare la progressione di queste malattie debilitanti. Domanda: Quanti sono i pazienti che presentano le alterazioni anatomopatologiche ma non hanno i sintomi? Risposta: Tantissimi, se facciamo l’autopsia a pazienti sani di 80-90 anni è abbastanza comune trovare un quadro di malattia che non si era ancora manifestata clinicamente. Ovviamente dipende dal carico di patologia e da vari meccanismi e cofattori. 4.1. AGGREGATI PROTEICI Le malattie neurodegenerative, come la malattia di Alzheimer e di Parkinson, la corea di Huntington, la SLA o le malattie prioniche sono caratterizzate da meccanismi fisiopatologici comuni che includono l’aggregazione proteica e la formazione di corpi inclusi evidenziabili dal punto di vista neuropatologico. i corpi inclusi vengono osservati nei neuroni superstiti nelle aree coinvolte dal processo degenerativo, ma il loro contenuto varia a seconda della specifica malattia. In funzione del quadro neuropatologico si identificano diverse proteine coinvolte, tra cui: β-amiloide; Tau; α-sinucleina; Proteina prionica; TDP-43. MALATTIA PROTEINA REGIONI DI LESIONI CARATTERISTICHE NEURODEGENERATIVA IMPLICATA ACCUMULO Placche neuritiche e grovigli β-amiloide, tau- Corteccia, ippocampo, Alzheimer neuro brillari iperfosforilata. prosencefalo basale Sostanza nera, corteccia, Parkinson Corpi di Lewy α-sinucleina locus coeruleus, rafe Tau, TDP-43, Corteccia frontale e Demenze frontotemporali Corpi di Pick, inclusi ubiquinati ubiquitina temporale TDP-43, Motoneuroni midollari, Corpi del Bunina e sferoidi SLA neuro lamenti, tronco encefalico, assonali, strutture ubiquitinate ubiquitina corteccia Inclusioni intranucleari e Striato e gangli della Corea di Huntington Huntingtina elongata aggregati citoplasmatici base, corteccia Cervelletto, tronco Atassie spinocerebellari Inclusioni intranucleari Ataxine encefalico Deposizione di amiloide prionica e Corteccia, cervelletto, Malattie prioniche Proteina prionica degenerazione spongiforme talamo, altre aree La presenza di tali proteine identifica dei gruppi neuropatologici a cui far afferire le principali malattia neurodegenerative. Tale classificazione non si limita a rispecchiare unicamente le diversità degli inclusi riscontrati a livello neuropatologico, ma permette anche di definire i diversi pathways molecolari coinvolti, suggerendo così distinti bersagli verso cui dirigere gli sforzi terapeutici presenti e futuri. Dal punto di vista neuropatologico è possibile suddividere le principali malattie degenerative in: Amiloidopatie: malattia di Alzheimer, malattie prioniche; Taupatie: malattia di Alzheimer, demenza fronto-temporale, paralisi sopranucleare progressiva, degenerazione corticobasale, FTDP-17; Sinucleopatie: malattia di Parkinson, Atrofia multisistemica, demenza a corpi di Lewy; Ubiquitinopatie: Sclerosi laterale amiotrofica, demenza frontotemporale. 5. MECCANISMI PATOGENETICI COMUNI Le malattie neurodegenerative, nonostante presentino quadri clinici diversi, sono accomunate da alcuni meccanismi patogenetici fondamentali. Le fonti analizzate illustrano in dettaglio questi meccanismi, mettendo in luce come la ricerca abbia fatto enormi progressi nella comprensione di queste patologie complesse. Il processo di neurodegenerazione comprende: 1) Proteina alterata (misfolded): alla base di tutte le malattie neurodegenerative vi è una proteina patologica, "misfolded", ovvero con una conformazione tridimensionale anomala a foglietto-β. Questa conformazione errata rende la proteina instabile e incline ad aggregarsi, formando dapprima oligomeri e successivamente fibrille insolubili. L’alterazione può essere causata da fattori genetici, ambientali o legati all’invecchiamento; 2) Accumulo di proteine: l'accumulo di proteine misfolded può avvenire sia per un aumento della produzione che per un deficit nei sistemi di smaltimento, come l'autofagia e il proteasoma; 3) Misfolding e aggregazione: le proteine alterate subiscono un misfolding e si aggregano, formando monomeri, oligomeri e fibrille. L'accumulo di proteine misfolded può diffondersi da un'area cerebrale all'altra attraverso un meccanismo simile a quello dei prioni. Questo processo contribuisce alla progressione della malattia e all'estensione del danno neuronale; 4) Danno cellulare: Oligomeri: gli oligomeri, le forme iniziali di aggregazione, sono particolarmente tossici per i neuroni. Interagiscono con i lipidi di membrana, danneggiandole e formando addotti tossici. L'accumulo di proteine misfolded e il danno mitocondriale causano un aumento dello stress ossidativo, ovvero un accumulo di radicali liberi dannosi per le cellule. I neuroni dopaminergici nel Parkinson sono particolarmente vulnerabili allo stress ossidativo, a causa del catabolismo della dopamina che produce radicali liberi; Fibrille: le fibrille, spesso extracellulari, contribuiscono all'attivazione della microglia e alla neuroinfiammazione. Le proteine misfolded attivano la microglia, le cellule immunitarie del cervello, scatenando una risposta infiammatoria. La neuroinfiammazione cronica contribuisce al danno neuronale e alla progressione della malattia. Le ultime ricerche evidenziano anche il ruolo del sistema immunitario periferico nella neuroinfiammazione. I monociti, cellule immunitarie del sangue, possono migrare nel cervello e contribuire al processo infiammatorio. 5) Eccitotossicità da glutammato: lo stress ossidativo e la neuroinfiammazione compromettono la capacità dei neuroni di ricaptare il glutammato, un neurotrasmettitore eccitatorio. L'eccesso di glutammato nello spazio intersinaptico causa un'eccessiva attivazione dei recettori NMDA, portando a un influsso eccessivo di calcio nei neuroni e alla loro morte. 6) Apoptosi e morte neuronale: i danni a più livelli, tra cui stress ossidativo, neuroinfiammazione ed eccitotossicità, culminano nell’apoptosi e nella morte dei neuroni. Il prof parla del proprio laboratorio, in cui si effettuano studi di questo tipo, sia su modelli cellulari, modelli animali che su provette provenienti da pazienti. Il corso elettivo di Neurobiologia tratterà questi aspetti nello specifico ed è fortemente consigliato per coloro i quali vorranno fare la tesi in neurologia. Queste ricerche sono molto importanti, perché possono permetterci di trovare dei biomarcatori (soprattutto per l’Alzheimer) per fare diagnosi precoce. La teoria appena spiegata, della proteina alterata che si accumula e determina danno, è attualmente una teoria accreditata ma non è sempre stato così. Per poter capire i motivi che ci hanno permesso di giungere a tale conclusione, si considerano due esempi speculari, Parkinson e Alzheimer: o Per il Parkinson, i primi studi genetici hanno dimostrato che la mutazione nel gene che codifica per l’alfa- sinucleina fosse responsabile di una sua alterazione, con conseguente accumulo a livello neuronale. Successivamente, si è visto che anche in altre forme genetiche o in forme ambientali, si arriva sempre all’accumulo di tale proteina. In più, ciò è stato studiato anche in modelli murini: animali transgenici con la mutazione umana presentavano la malattia. Le alterazioni proteiche non sono necessarie allo sviluppo della patologia, ci sono altri fattori di rischio, sia genetici che ambientali, che possono determinarla, di solito interferendo con lo smaltimento delle proteine: per esempio, i contadini in Ohio hanno un’altissima incidenza di Parkinson a causa del massiccio uso di diserbanti che vengono versati sui campi con gli aerei; o Lo stesso vale per il morbo di Alzheimer, in cui la proteina accumulata è la beta amiloide. La genetica ci dice che abbiamo una mutazione dell’APP, presenilina o anche la trisomia 21, che determina un’aumentata produzione di APP a causa della presenza di tre copie del gene, localizzato proprio sul cromosoma 21. Anche fattori di rischio genetici o ambientali portano all’accumulo di proteina. Anche in questo caso, animali transgenici presentavano la malattia. 2. MECCANISMI CATABOLICI La cellula possiede una serie di sistemi in grado di degradare le proteine e gli organelli disfunzionanti o invecchiati in modo da garantire il mantenimento dell'omeostasi. Il sistema ubiquitina-proteasoma (UPS) è uno dei due principali sistemi implicati in questo turnover, insieme a quello autofagico, mediato principalmente dai lisosomi. 2.1. PROTEASOMA Il proteasoma è un complesso multiproteico che è in grado, attraverso l'attività coordinata di varie subunità, di catabolizzare vari target polipeptidici. All'interno del proteasoma vengono veicolate solo le proteine a breve emivita che sono state sottoposte all'ubiquitinazione, ovvero al legame con l'ubiquitina, un peptide di 76 aminoacidi che funge da segnale per la degradazione. Il fatto che la maggior parte degli accumuli che caratterizzano le varie malattie neurodegenerative siano positivi per proteine ubiquitinate (β-amiloide, tau, TDP-43, α-sinucleina) ha portato a ipotizzare che alla base di queste patologie potesse esserci una compromissione del sistema di proteolisi svolto dall'UPS. Anche la dimostrazione che mutazioni in alcuni dei geni coinvolti in questo sistema, come ad esempio la parkina, possano essere responsabili di fenocopie, più o meno precise, di malattie degenerative idiopatiche (in quest'ultimo caso, malattia di Parkinson), ha portato a pensare che gli aggregati proteici non più adeguatamente catabolizzati dall'UPS possano portare a morte le cellule. 2.2. SISTEMA AUTOFAGICO-LISOSOMIALE In parte analoga a quella proteasomica è la funzione del sistema autofagico-lisosomiale (ALP), rappresentata da tre processi. Tali attività sono distinte in base alla modalità con la quale i substrati raggiungono il lume dei lisosomi, organelli vescicolari dove risiedono diverse attività enzimatiche idrolitiche, attive a pH bassi, deputate alla degradazione sia di organelli che di proteine a lunga emivita invecchiate o disfunzionanti: Macro-autofagia: si forma una struttura nota come autofagosoma, in cui i bersagli da degradare vengono circondati da una membrana derivante dal reticolo endoplasmatico cellulare. La successiva fusione con i lisosomi permette di degradare il contenuto dell'autofagosoma; Autofagia mediata da chaperonine (CMA): gli specifici bersagli proteici da degradare (per esempio l'alfa- sinucleina) possiedono un motivo amminoacidico di riconoscimento KFERQ che permette che vengano complessati alla proteina HSP-70 per poi essere importati all'interno dei lisosomi in un processo mediato dalla proteina LAMP-2°; Micro-autofagia. È ben noto che la deficienza di numerose attività enzimatiche associate al sistema lisosomiale viene considerata responsabile di svariate malattie eredo-degenerative da accumulo che interessano anche il sistema nervoso, tra cui ricordiamo, per esempio, le mucopolisaccaridosi o le sfingolipidosi. Si ipotizza inoltre che possa esserci una disfunzione dell'attività autofagica nelle malattie neurodegenerative "classiche" e, in particolare, nella malattia di Parkinson. A ulteriore conferma di queste ipotesi, è stato dimostrato che il gene della glucocerebrosidasi, mutato nella malattia di Gaucher (una sfingolipidosi da accumulo lisosomiale), sembrerebbe essere un vero e proprio gene di suscettibilità implicato nella patogenesi della malattia di Parkinson. 3. RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE Nonostante le prime descrizioni delle malattie degenerative fossero focalizzate proprio sull'assenza di chiare evidenze di infiammazione in corso, quest'ultimo processo è venuto ad assumere sempre più importanza negli ultimi anni, venendo riconosciuto non solo come presente, ma addirittura come uno dei principali fattori che amplificano e mantengono la sofferenza cellulare in queste malattie, interagendo strettamente con effettori finali di danno, quali apoptosi, eccitotossicità e stress ossidativo. Il sistema nervoso centrale limita attivamente l'ingresso al suo interno degli elementi del sistema immune attraverso l'esistenza della BEE, una struttura di primaria importanza per la regolazione omeostatica neuronale. Chiaramente, nonostante questo privilegio immunitario, sia l'immunità innata che quella adattativa si verificano nel sistema nervoso centrale. Le cellule microgliali sono macrofagi residenti che formano la prima linea di difesa del sistema dell'immunità innata, regolando attentamente la composizione del microambiente che circonda i neuroni e le cellule gliali. In condizioni di danno tissutale la microglia assume un fenotipo attivato che promuove e mantiene la risposta infiammatoria volta al contenimento e alla riparazione del danno iniziale. Nella maggior parte dei casi tale processo risulta limitato e svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento dell'omeostasi tissutale e della risposta alle infezioni. La persistenza dello stimolo infiammatorio, o l'incapacità dei meccanismi attivati di risolvere il danno, fa sì che la risposta infiammatoria si protragga nel tempo, essendo essa stessa fonte di danno per le cellule del sistema nervoso centrale. Negli ultimi anni si è dimostrato in maniera sempre più convincente come gli aggregati proteici che caratterizzano le malattie neurodegenerative si comportano come veri e propri induttori endogeni del danno infiammatorio che, a sua volta, viene amplificato grazie alla produzione di citochine e chemochine da parte della microglia e dei leucociti periferici. Le citochine, a loro volta, non solo sono in grado di amplificare e modulare la risposta del sistema immune, ma anche di modificare specifiche funzioni omeostatiche neuronali e astrocitarie come nel caso dell'inibizione della ricaptazione del glutammato extracellulare a opera del TNF-α, con conseguente eccitotossicità. Inoltre, le citochine pro- infiammatorie (TNF-alfa, IL-6 e IL-1) sono anche in grado di attivare nei neuroni una serie di protein-chinasi (GSK3β, CDK5, Ab1) e fosfatasi (PP1), che portano alla formazione di aggregati proteici, come, per esempio, quelli composti da proteina tau iperfosforilata nella malattia di Alzheimer. Tra gli effettori finali del danno vanno invece sicuramente ricordati meccanismi quali l'incremento della sintesi dell'ossido nitrico tramite induzione delle iNOS o la produzione di specie reattive dell'ossigeno (ROS) da parte del sistema della NADPH ossidasi, entrambi importanti meccanismi di difesa antibatterica ed entrambi in grado di partecipare al mantenimento del danno collaterale del parenchima cerebrale. Lo stress ossidativo, a sua volta, amplifica e perpetua la risposta infiammatoria, per esempio mediante la formazione dei prodotti avanzati di glicazione finale (AGE) e la stimolazione dei recettori associati (RAGE), con produzione e rilascio di citochine pro-infiammatorie e ulteriori ROS. Tenendo conto dell'incremento continuo delle evidenze relative al ruolo dell'infiammazione nella patogenesi delle malattie neurodegenerative, non stupisce, dunque, che sia stato proposto l'utilizzo dei farmaci antinfiammatori per la prevenzione o per mitigare il fenotipo di tali malattie. Alcune evidenze indicano, per esempio, un potenziale ruolo protettivo per i FANS sullo sviluppo della malattia di Alzheimer. Un altro capitolo è poi quello dell'utilizzo di strategie immunitarie per arrestare il processo degenerativo. Un esempio classico è quello dell’immunoterapia attiva (vaccino) o passiva (anticorpi) nei confronti della proteina β-amiloide, che si deposita nelle placche senili caratteristiche della malattia di Alzheimer. Diversi studi clinici randomizzati hanno testato proprio questa ipotesi, con un recente spostamento dell'attenzione nei confronti dell'immunoterapia passiva, a causa degli importanti effetti collaterali osservati nei primi trial con il vaccino. Anche la possibilità di monitorare in periferia (per esempio, mediante la misurazione di citochine) il grado di coinvolgimento del sistema immune e l'entità della risposta infiammatoria risulta di potenziale interesse per il clinico, per poter definire con più precisione quali pazienti possano trarre beneficio da un trattamento mirato ad arrestare tali fenomeni. DEMENZE: MALATTIA DI ALZHEIMER 1. DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE Il termine demenza si riferisce a disturbo mentale acquisito, centrato su un deficit cognitivo globale. Secondo il DSM- 5 il termine “demenza” è stato sostituito da “disturbo neurocognitivo maggiore”. Questo disturbo si manifesta con una compromissione significativa delle funzioni cognitive in uno o più domini, tra cui attenzione complessa, funzione esecutiva, apprendimento e memoria, linguaggio, abilità percettivo-motorie, cognizione sociale. Rispetto ad altri disturbi mentali, nei quali si possono presentare deficit cognitivi, nel DNCM la compromissione cognitiva è la caratteristica principale. Il concetto di DNCM si distingue da quelli di: Oligofrenia o insufficienza mentale: fanno riferimento ad uno sviluppo difettoso delle funzioni cognitive; Confusione mentale o delirium: si riferisce ad un deterioramento acuto ma potenzialmente reversibile delle funzioni cognitive. 1.1. APPROFONDIMENTO SULLA DEFINIZIONE Secondo la più recente definizione, il quadro di demenza ha carattere: Sindromico: può avere molteplici cause e molteplici tipologie fenotipiche o profili; Congiunto: deve necessariamente presentare sia declino cognitivo che compromissione nelle abituali attività funzionali. In presenza di solo declino cognitivo senza compromissione significativa delle abituali attività funzionali si parla di quadro di Decadimento cognitivo lieve (MCI); Ecologico: la diagnosi va fatta su base strettamente individuale (declino rispetto a prima + relativo alle abituali attività del singolo pz); Longitudinale: evidenza, diretta o indiretta di un peggioramento rispetto al prima (carattere intrinsecamente longitudinale della diagnosi). D.d. rispetto al ritardo mentale congenito/infantile nel quale i livelli cognitivi e funzionali sono bassi fin dalla partenza. I criteri non presuppongono che i soggetti debbano necessariamente aver raggiunto, in precedenza, un livello intellettivo normale! Possibile quindi la diagnosi di demenza anche nelle persone già affette da ritardo mentale, es. S. di Down (tipicamente sviluppano demenza dopo i 40 – 45 anni); Non transitorio: permette la d.d. rispetto al delirium (stato confusionale sindromico ma transitorio); Non incluso: coinvolge primariamente la sfera cognitiva e secondariamente quella funzionale. Nei sintomi sindromici per la demenza non sono quindi compresi sintomi della sfera psichiatrica e comportamentale (nei pz con demenza possono esserci ma non sono nei criteri diagnostici). I sintomi neuropsichiatrici e comportamentali che possono accompagnare la demenza (BPSD: Behavioral and Psychiatric Symptoms of Dementia) sono molto eterogenei e sembrano dipendere fortemente dall’interazione tra danno neurobiologico (sedi ed estensione) e numerose altre variabili (personalità premorbosa, storia personale, stato di salute somatico globale, ambiente familiare e sociale). Modificazioni della personalità, del comportamento e aspetti psichiatrici (sfera psicotica e affettiva) si associano molto spesso ai disturbi prettamente cognitivi (circa il 90% dei casi) e sono spesso riuniti in 5 cluster: o Apatia: ritiro, mancanza di interessi, demotivazione; o Aggressività: resistenza aggressiva, aggressività fisica, aggressività verbale; o Agitazione: affaccendamento, vagabondaggio, pedinamento, irrequietezza, grida, disinibizione, stereotipie, vestirsi/svestirsi, disturbi del sonno; o Depressione: tristezza, pianto, disperazione, bassa autostima, ansia, colpa; o Psicosi: allucinazioni, deliri, falsi riconoscimenti. 1.2. DELIRIUM Il delirium è una sindrome clinica caratterizzata da un'alterazione acuta dello stato di coscienza, dell'attenzione, della vigilanza e della cognizione. I pazienti affetti da delirium mostrano una ridotta capacità di focalizzarsi, mantenere o spostare l'attenzione, con fluttuazioni dei sintomi nel corso della giornata. Il delirium si sviluppa in un breve lasso di tempo (ore o giorni) ed è causato da una condizione medica sottostante (sofferenza cerebrale di natura organica), come infezioni, squilibri metabolici o effetti collaterali di farmaci, e non può essere spiegato meglio da altri disturbi neurocognitivi preesistenti o in evoluzione (d.d. con la demenza). Il delirium è caratterizzato da un decorso acuto/subacuto e fluttuante. EPIDEMIOLOGIA Il delirium è particolarmente comune tra gli anziani e i pazienti ospedalizzati. Si stima che colpisca tra il 10% e il 30% dei pazienti ricoverati in ospedale e fino all'80% dei pazienti in unità di terapia intensiva (ICU). È più frequente nei pazienti anziani (soprattutto sopra i 65 anni), nei soggetti con declino cognitivo preesistente o in quelli sottoposti a interventi chirurgici importanti. La prevalenza del delirium post-operatorio può variare dal 5% al 42%, a seconda del tipo di intervento chirurgico. EZIOLOGIA Le cause del delirium sono molteplici e possono essere suddivise in fattori predisponenti (vulnerabilità) e fattori precipitanti (triggers). Tra i fattori predisponenti troviamo età avanzata, demenza, comorbilità, potus, deficit sensoriali. I fattori precipitanti possono essere infezioni, squilibri metabolici, utilizzo di farmaci, dolore acuto, immobilizzazione prolungata e recente chirurgia. Le principali patologie associate a rischio di sviluppo di delirium sono: Patologie extra-craniche: intossicazione da farmaci, alterazioni metaboliche o idroelettriche, stati tossi- infettivi, compromissione cardio-polmonare e/o ipossia, interventi chirurgici, deprivazione sensoriale; Patologie cerebrali: vascolari, infettive, traumatiche, epilessia, ipertensione endocranica. PATOGENESI Il meccanismo patogenetico del delirium non è completamente compreso, ma si ritiene che coinvolga una disfunzione diffusa delle reti cerebrali responsabili dell'attenzione e dell'arousal. Le ipotesi principali includono: Squilibri neurotrasmettitoriali: riduzione dell'acetilcolina e aumento della dopamina sono stati associati allo sviluppo del delirium. Anche glutammato, noradrenalina e GABA possono essere coinvolti; Infiammazione: citochine pro-infiammatorie come IL-1β e IL-6 possono alterare la barriera ematoencefalica, causando danno neuronale e disfunzione sinaptica; Disregolazione ormonale: alterazioni nei livelli di cortisolo e altri ormoni dello stress possono contribuire all'insorgenza del delirium QUADRO CLINICO Il quadro clinico del delirium può variare notevolmente ed è suddiviso in tre sottotipi principali: Delirium iperattivo: caratterizzato da agitazione, aggressività, allucinazioni e comportamento combattivo; Delirium ipoattivo: caratterizzato da letargia, ridotta reattività e sonnolenza; spesso viene confuso con depressione o stanchezza; Delirium misto: alternanza tra fasi iperattive e ipoattive. I sintomi principali includono: o Confusione acuta; o Disorientamento temporale e spaziale; o Disturbi del sonno. Il delirium tende a peggiorare durante la notte (fenomeno noto come “sundowning”); o Alterazioni dell'umore (ansia, irritabilità). DIAGNOSI Secondo il DSM-5-TR i criteri diagnostici per delirium sono: 1) Disturbo dell’attenzione e della consapevolezza: ridotta capacità di dirigere, focalizzare, sostenere o spostare l’attenzione. Ridotta consapevolezza dell’ambiente circostante; 2) Sviluppo acuto e andamento fluttuante: il disturbo si sviluppa in un breve periodo di tempo (ore o giorni) e rappresenta un cambiamento rispetto allo stato cognitivo di base. I sintomi tendono a fluttuare durante il corso della giornata; 3) Alterazione cognitiva aggiuntiva: deve essere presente un’altra alterazione cognitiva, con deficit di memoria, disorientamento, disturbi del linguaggio, deficit visuospaziali o disturbi percettivi (es. allucinazioni); 4) Esclusione di altri disturbi neurocognitivi: le alterazioni descritte non sono meglio spiegate da un altro disturbo neurocognitivo preesistente, stabilito o in evoluzione (come la demenza); 5) Evidenza di una causa fisiologica sottostante: deve esserci evidenza, dalla storia clinica, dall’esame fisico o dai risultati di laboratorio che il disturbo è una conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale, intossicazione o astinenza da sostanze (inclusi farmaci), esposizione a tossine o una combinazione di più fattori eziologici. CARATTERISTICA DELIRIUM DEMENZA Improvviso, con un momento d'esordio Lento e graduale, con un momento Esordio chiaro d’esordio incerto Da giorni a settimane, anche se può essere Durata maggiore Solitamente permanente Quasi sempre un’altra condizione morbosa Solitamente un disturbo cerebrale cronico Causa (es: infezione, disidratazione) (es: malattia di Alzheimer) Evoluzione Di solito reversibile Lentamente progressiva Andamento notturno Peggioramento quasi costante Peggioramento frequente Attenzione Notevolmente compromessa Non compromessa no agli stadi più gravi Livello di coscienza Variabilmente compromesso Non compromesso no agli stadi più gravi Orientamento nel tempo e Vario Alterato nello spazio Uso del linguaggio Rallentato, spesso incoerente e inappropriato Talvolta dif coltà nel trovare la parola giusta Compromessa, specialmente per gli eventi Memoria Varia recenti Necessità di consultare un Immediata Necessaria, ma meno urgente medico Può rallentare la progressione, ma non può Effetto del trattamento Di solito risolve la sintomatologia mutare o curare il disturbo Demenza e delirium sono due condizioni cliniche sindromiche differenti. Però possono sia coesistere che essere reciprocamente prodromiche (fragilità cognitiva). PROGNOSI La prognosi del delirium dipende dalla rapidità con cui viene diagnosticato e trattato. Se non riconosciuto o trattato tempestivamente, può portare a complicanze gravi come: o Polmonite ab ingestis; o Piaghe da decubito; o Cadute con conseguenti fratture; o Malnutrizione e disidratazione; o Peggioramento cognitivo a lungo termine. Inoltre, il delirium è associato a un aumento della mortalità sia durante il ricovero che nei mesi successivi alla dimissione. TRATTAMENTO Il trattamento del delirium si basa principalmente sull'identificazione e la correzione delle cause scatenanti: 1) Correzione dei fattori precipitanti: trattamento delle infezioni, correzione degli squilibri elettrolitici/metabolici, sospensione dei farmaci potenzialmente implicati; 2) Cura di supporto: mantenimento di un ambiente calmo e familiare per il paziente, promozione dell'idratazione e della nutrizione adeguata, gestione del dolore; 3) Farmacoterapia: l'uso di farmaci sedativi o antipsicotici è riservato ai casi in cui i sintomi comportamentali siano gravi o pericolosi per il paziente o gli altri. Questi farmaci devono essere utilizzati con cautela. 2. EPIDEMIOLOGIA La demenza rappresenta il secondo disturbo neurologico più frequente nella popolazione generale dopo le cefalee e il primo nella popolazione anziana. La demenza non è conseguenza inevitabile dell’invecchiamento anche se l’incidenza aumenta progressivamente dai 65 ai 90 anni (l’età è comunque un fattore di rischio). L’incidenza della demenza continua ad aumentare anche dopo i 90 anni, ma non è ubiquitaria neppure in età molto avanzata. L’incidenza mostra un andamento in diminuzione nel corso degli ultimi 40 anni (demenza in generale). Dividendo i pz per coorti, si è studiato una tendenza di diminuzione dell’incidenza negli ultimi 40 anni per la sindrome dementigena generale, mentre ciò non è avvenuto per le forme neurodegenerative; questo è avvenuto perché forme di demenza non neurodegenerative, in particolare le demenze vascolari, hanno avuto un’identificazione e quindi una rimozione dei fattori di rischio, cosa non avvenuta al contrario per le forme neurodegenerative. La demenza è una condizione patologica (associata all’età avanzata) ma non un semplice invecchiamento estremo del cervello! Si stima in Italia ci siano circa 1 milione i casi di demenza, di cui circa il 60-70% sono forme degenerative. Accanto a questi si è iniziato a stimare la prevalenza dei MCI, che si è rivelata essere nello stesso ordine di grandezza. Considerato il progressivo invecchiamento della popolazione, non solo nell’Occidente, secondo le stime la prevalenza è destinata a salire vertiginosamente nei prossimi anni, portando quindi ad ingenti allocazioni di risorse ed energie. 3. FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI La demenza presenta diversi fattori di rischio modificabili e nono modificabili che è importante conoscere per sviluppare strategie preventive efficaci: Fattori di rischio cardiovascolari: o Ipertensione arteriosa: l'ipertensione arteriosa è un fattore di rischio per la demenza. Il trattamento dell'ipertensione può aiutare a prevenire i danni ai vasi sanguigni del cervello; o Alterazioni del profilo lipidico: profilo aterogeno (LDL alte, HDL basse, trigliceridi alti). Un alto livello di colesterolo LDL è un nuovo fattore di rischio per la demenza. Una consulenza individuale su dieta ed esercizio fisico ha un piccolo effetto nella riduzione del colesterolo LDL. Le statine, oltre a ridurre il colesterolo, hanno proprietà antinfiammatorie e antiossidanti e potrebbero avere benefici nella prevenzione della demenza. o Diabete mellito: il diabete mellito è associato ad un aumentato rischio di demenza- Mantenere un buon controllo glicemico può aiutare a proteggere la funzione cognitiva; o Obesità e alterazioni del BMI: l'obesità, in particolare nella mezza età, è un fattore di rischio per la demenza. La perdita di peso, se si è in sovrappeso o obesi, può ridurre il rischio di demenza; o Steatosi epatica non alcolica (NAFLD). Fattori legati allo stile di vita: o Sedentarietà e scarsa attività fisica: la mancanza di attività fisica regolare è legata ad un aumentato rischio di demenza. L'esercizio fisico regolare può migliorare la salute cardiovascolare e cerebrale, riducendo il rischio di demenza; o Fumo: il fumo è un noto fattore di rischio per la demenza. Smettere di fumare ha benefici immediati per la salute e riduce significativamente il rischio di demenza a lungo termine; o Consumo eccessivo di alcol: il consumo eccessivo di alcol è collegato ad un aumentato rischio di demenza. Il consumo eccessivo di alcol può danneggiare il cervello e aumentare il rischio di demenza; o Dieta non equilibrata; o Alterazioni del microbiota intestinale: Fattori sociodemografici: o Scarsa istruzione: un basso livello di istruzione è associato ad un aumentato rischio di demenza. L'apprendimento permanente, la lettura, i giochi di memoria e le attività sociali possono contribuire a mantenere il cervello attivo; o Condizioni economiche; o Differenze regionali e razziali. Altri fattori: o Perdita dell’udito: la perdita dell'udito è stata collegata ad un aumentato rischio di demenza. Un intervento precoce per affrontare la perdita dell'udito può aiutare a proteggere la funzione cognitiva; o Perdita della vista: la perdita della vista non trattata è un nuovo fattore di rischio per la demenza. Il trattamento della perdita della vista può aiutare a mantenere l'indipendenza e la qualità della vita, riducendo potenzialmente il rischio di demenza; o Depressione: la depressione è associata ad un aumentato rischio di demenza. Il trattamento e la gestione della depressione possono contribuire a ridurre il rischio di demenza; o Isolamento sociale: la mancanza di interazione sociale è associata ad un aumentato rischio di demenza. L'interazione sociale regolare può stimolare il cervello e ridurre il rischio di isolamento sociale; o Inquinamento atmosferico: l'esposizione all'inquinamento atmosferico è un fattore di rischio per la demenza. L'inquinamento atmosferico può danneggiare il cervello, quindi è importante minimizzare l'esposizione; o Traumi cerebrali: un trauma cranico, a qualsiasi età e da qualsiasi fonte, è un fattore di rischio per la demenza. La prevenzione dei traumi cranici, in particolare quelli gravi, è fondamentale per la salute del cervello. Tra i fattori protettivi c’è l’ampia riserva cognitiva, influenzata da genetica, sviluppo intrauterino, età, istruzione, stile di vita fino a 40-50 anni, attività fisica, attività culturali e sociali. I soggetti ad alta riserva cognitiva (High reserve) hanno prestazioni cognitive che si mantengono elevate per un periodo di tempo più prolungato rispetto ai Low reserve, anche di fronte alla stessa entità di carico neuropatologico; l’inizio del declino e il superamento della soglia sono quindi più tardive rispetto ai Low reserve. Si noti come le due linee di decadimento cognitivo si congiungano a un certo punto: la pendenza della linea dei soggetti High reserve è più marcata rispetto a quella dei Low reserve. Questo mostra che negli stadi più avanzati e gravi della malattia l’elevato carico neuropatologico porta effetti simili indipendentemente dalla riserva cognitiva di partenza. Fattori genetici implicati nel rischio o protezione dalla demenza sono: Fattori di rischio genetici: APOE ε4 (principale fattore di rischio genetico), FARMT2, CELF1, COPI, APPm; Fattori protettivi genetici: CHRNA2, PILRA, SORT1, EPDR1, PLCG2, RIN3, CD2AP. 4. DIAGNOSI DI DEMENZA In caso di sospetto di declino cognitivo in un pz è necessario: 1) Valutare la possibile presenza di DNCM; 2) In caso di positività definirne la causa (diagnosi causale). I criteri per la diagnosi di DNCM (ex. demenza) secondo il DSM-V sono (diagnosi su base clinico-psicometrica): 1) Evidenza di un significativo deficit cognitivo in uno o più domini cognitivi (attenzione complessa, funzioni esecutive, apprendimento e memoria [amnesia], linguaggio [afasia], abilità percettivo-motorie [aprassia, agnosia], cognizione sociale), non transitorio, rispetto alle normali prestazioni del soggetto, basata su: testimonianza del pz, di un informatore attendibile o di un clinico + chiari deficit delle prestazioni cognitive risultanti da una valutazione neuropsicologica standardizzata; 2) Deficit di entità tale da compromettere in modo significativo l’autonomia e l’indipendenza funzionale del pz; 3) Deficit non secondario a delirium o ad altri disturbi mentali (es. schizofrenia, disturbo depressivo maggiore). Secondo il prof i criteri per la diagnosi di sindrome dementigena sono in realtà: 1) Deficit in almeno due ambiti cognitivi: memoria, linguaggio, gesti e uso degli oggetti, riconoscimento di oggetti e persone, giudizio e critica, visuo-spaziale, calcolo, etc. Se i deficit sono in un solo ambito si parla di MCI; 2) I deficit cognitivi sono di entità tale da ripercuotersi significativamente sulle attività quotidiane del pz; 3) I deficit costituiscono un peggioramento rispetto ai precedenti livelli cognitivi e funzionali; 4) I deficit non si manifestano esclusivamente durante una condizione potenzialmente transitoria (d.d. con delirium, intossicazione, stato settico, trauma, etc.). Molto importante è poi fare diagnosi differenziale con: Declino parafisiologico (età correlato): quando si valuta la prestazione cognitiva del soggetto è indispensabile normalizzarla in base ai suoi parametri anagrafici fondamentali e non valutarla in termini assoluti. I risultati dei vari test cognitivi sono sempre confrontati con le prestazioni di soggetti di pari età e scolarità per valutare se la prestazione sia patologica, borderline o fisiologica; Disturbo neurocognitivo lieve (ex. MCI): condizione che comporta un declino cognitivo lieve o modesto non abbastanza grave da interferire con l’indipendenza nelle attività quotidiane. Delirium, depressione, epilessia e stato di male epilettico parziale: es. epilessia amnesica del lobo temporale, epilessia del lobo frontale. Questo grafico descrive come il livello di prestazione media in diversi ambiti cognitivi, con l’avanzare dell’età, fisiologicamente o para-fisiologicamente, va incontro ad un declino non patologico. Per questo motivo, quando si valuta la prestazione cognitiva del singolo soggetto, questa va sempre normalizzata in base ai suoi parametri anagrafici fondamentali, non va valutata in termini assoluti. I risultati dei vari test cognitivi, infatti, sono sempre confrontati con le prestazioni di soggetti di pari età e scolarità, per poter valutare se la prestazione di un determinato soggetto sia patologica, borderline o fisiologica. L'altro elemento da tener conto è la deviazione standard dei livelli di normalità dei vari test cognitivi, che aumenta con l’età. Per questi motivi, un test è considerato accurato se prende come riferimento livelli di normalità non assoluti, ma relativi alle classi di età, di scolarità e talvolta anche di genere. Il grafico mostra la deviazione standard riferita alla normalità della prestazione cognitiva di un test di memoria; essa si amplia notevolmente con l’aumentare degli anni. Inoltre, i valori di normalità non sono immutabili: nei decenni le varie coorti presentano modifiche sia delle prestazioni medie sia delle deviazioni standard. Per cui anche i valori di normalità dei vari test cognitivi vengono aggiornati costantemente. Tuttavia, ci sono alcuni ambiti cognitivi che non declinano con l’età, ma anzi hanno una tendenza a migliorare, tra cui gli ambiti della conoscenza lessicale e della memoria semantica. NORMALE DECLINO VS DEMENZA CARATTERISTICA NORMALE DEMENZA Attività quotidiana Indipendenza nelle attività quotidiane Dipendenza da altri nelle attività quotidiane Il soggetto si lamenta di una perdita di Può riferire problemi di memoria solo su speci ca Perdita di memoria memoria ma sa fornire dettagli sugli episodi richiesta; non sa ricordare esempi di quando si è di amnesia veri cata la perdita di memoria Relazione con familiari Il soggetto è più preoccupato dei familiari I familiari sono più preoccupati del pz Memoria recente e Conservate Netto de cit capacità conversazionale Ripetizione di parole Occasionale dif coltà Frequenti dif coltà Il soggetto non si perde in un territorio Orientamento conosciuto, ma può avere bisogno di far una Si perde in ambienti familiari sosta per ricordarsi la strada Il soggetto è capace di far funzionare le Diventa incapace di utilizzare le comuni Rapporto con comuni apparecchiature anche se riluttante apparecchiature, e di imparare ad adoperare nuovi apparecchiature ad utilizzare i nuovi dispositivi apparecchi anche semplici Perdita di interesse verso la vita sociale, Contatto interpersonali Invariati comportamenti inappropriati MMSE Normali prestazioni Anomale prestazioni L’iter diagnostico prevede nello specifico: 1) Anamnesi: permette di fare inferenze relative alla presenza o meno di declino cognitivo. Vanno indagati il profilo riportato dei disturbi cognitivi, l’esordio e il decorso, l’autonomia nelle attività quotidiane, le possibili modifiche nella personalità, affettive e del comportamento; 2) Esame obiettivo: generale e neurologico; 3) Valutazione neuropsicologica (o psicometrica): valutazione della prestazione cognitiva, la quale può essere: o Informale: colloquio con il pz durante la valutazione; o Formale: utilizzo di test cognitivi. Può essere distinta in: - Globale: test di screening cognitivo somministrati in breve lasso di tempo. Es. MMSE; - Dettagliata: test per singolo ambito cognitivo. Valutazione più lunga da effettuare in un momento diverso dalla prima visita. Effettuata da neuropsicologi; - Funzionale: test sulle attività strumentali ed elementari quotidiane del pz. Indispensabile per la diagnosi. La singola valutazione è trasversale, non longitudinale. Per ovviare a questo, la valutazione viene ripetuta in tempi diversi, in genere a distanza di qualche mese tra la prima e la seconda, oppure facendo inferenze formalizzate con questionari specifici riguardanti le prestazioni cognitive antecedenti. Infatti, la singola valutazione psicometrica non valuta il declino, ma valuta in modo trasversale la normalità o meno della prestazione rispetto ad un gold standard. La scelta di quest’ultimo è decisiva, così da rendere possibile il confronto della prestazione del paziente in riferimento ad un campione analogo per i fattori demografici fondamentali: l’età, la scolarità e il genere. 4.1. MINI MENTAL STATE EXAMINATION Il Mini Mental State Examination (MMSE) è uno strumento di screening cognitivo ampiamente utilizzato in ambito clinico, particolarmente nella popolazione anziana, per valutare lo stato mentale dei pazienti. È uno dei test di tipo cognitivo globale più conosciuti a livello internazionale. È un test di screening, non permette di fare diagnosi di demenza. Infatti, il punteggio che si ottiene è globale, non è riferito ad un singolo ambito cognitivo, mentre per la diagnosi è necessaria la compromissione di almeno due ambiti cognitivi distinti. Permette di farsi un’idea sul fatto che il pz possa effettivamente avere o meno un quadro di demenza o di compromissione cognitiva lieve. Il test richiede circa 5-10 minuti per essere completato e viene somministrato verbalmente. È considerato il test più diffuso per la valutazione cognitiva standardizzata in ambito clinico ed è stato tradotto in numerose lingue. Il MMSE valuta diverse funzioni cognitive: attenzione, linguaggio, memoria non verbale, prassia visuo-costruttiva, memoria verbale uditiva. In ambito clinico risulta particolarmente utile per lo screening cognitivo: o Identificare deficit cognitivi di varia gravità; o Monitorare lo stato cognitivo nel tempo; o Intercettare precocemente danni neurocognitivi. I cut-off diagnostici sono: o 29,7 deficit cognitivo lieve; o 26,1 soglia generale per identificazione per deficit cognitivo; o 24 deficit cognitivo severo; o 15 demenza (deficit neurocognitivo severo). È importante notare che: o Il test può essere influenzato da problemi di udito nei pazienti anziani; o Non è particolarmente sensibile nell'identificare deficit cognitivi molto precoci; o La sua accuratezza diagnostica può variare in base alla popolazione esaminata. 5. FORME DI DEMENZA Sono state descritte diverse forme di demenza, distinte sulla base del profilo clinico o dell’origine eziopatogenetica. Esistono più di 60 possibili cause di demenza. Si distinguono innanzitutto le demenze in due macrocategorie: Forme primitivamente neurologiche; Forme non primitivamente neurologiche (sistemiche). Le forme principali di demenza comprendono: Demenze su base neurodegenerativa (malattie da accumulo): o Malattia di Alzheimer (60 – 70%): età media di insorgenza a 65 – 75 anni (prima dei 65 si parla di esordio precoce), prevalenza femminile (2/3). La popolazione a rischio è > 65 anni in particolare le donne; o Demenza a corpi di Lewy (5 – 10%): età media di insorgenza a 50 – 85 anni, leggera prevalenza maschile, popolazione a rischio anziana con storia familiare di demenza o malattia di Parkinson; o Demenza frontotemporale (5 – 10%): età media di insorgenza 45 – 65 anni, equamente distribuita tra uomini e donne, popolazione a rischio adulti di mezza età e con storia familiare di demenza frontotemporale; o Demenza associata a morbo di Parkinson (3 – 5%): età media di insorgenza 50 – 80 anni, leggera prevalenza maschile, popolazione a rischio persone con malattia di Parkinson di lunga durata; o Corea di Huntington. Demenze vascolari (15 – 20%): età media di insorgenza 60 – 75 anni, leggera prevalenza maschile, fortemente associate a fattori di rischio CV; Demenze trasmissibili/infettive: o Malattie da prioni: es. CJD; o Meningoencefaliti: in particolare la forma erpetica in quanto si localizza preferibilmente a livello delle regioni temporali e temporo-mesiali; o Neurosifilide; o AIDS dementia complex: quadro tipico delle fasi avanzate non trattate; o Leucoencefalopatia multifocale progressiva: causata da riattivazione del virus JC nei soggetti immunodepressi. Demenze su base disimmune: o Malattie demielinizzanti: es. forme di Sclerosi multipla non trattate o refrattari che nel tempo portano a perdita di sostanza bianca centrale; o Vasculiti: alterazione su base immune dell’integrità dei vasi del parenchima cerebrale; o Encefalite autoimmune: paraneoplastica, pura (es. encefalite limbica). Demenze da cause neurochirurgiche: o Ematomi subdurali cronici: o Tumori frontali: intra o extra-cerebrali. Possono manifestarsi con un quadro di decadimento cognitivo progressivo. In questo caso l’imaging risulta evidente per la diagnosi. Oltre ai tumori parenchimali, possono anche essere coinvolti tumori extracerebrali, tipicamente meningiomi a rapida evoluzione, che possono dare un quadro clinico iniziale di compromissione cognitiva, non tanto mnesica quanto più comportamentale disesecutiva. L’individuazione del tumore, soprattutto dei meningiomi, permette l’intervento chirurgico, che può rivelarsi risolutivo; o Idrocefalo normoteso: causa più nota e più frequente. Si caratterizza per la presenza della triade di Hakim (disturbi della deambulazione, incontinenza sfinterica, declino cognitivo). Demenze secondarie a patologie internistiche: distiroidismi, carenza di B12 e folati, sindrome di Wernicke- Korsakoff, connettiviti; Altre demenze: idrocefalo normoteso, forme psichiatriche, secondaria a cause chirurgiche, etc. Questa distinzione, in realtà, si è scoperto non essere perfettamente riscontrabile nella clinica: analizzando i reperti autoptici di soggetti con demenza, è infatti stato notato che è frequente la presenza contemporanea di più quadri dementigeni. Il riscontro più frequente è la compresenza di demenza vascolare e demenza di Alzheimer. Per ciascuna di queste cause di demenza esistono criteri diagnostici specifici, in aggiunta a quelli generali. Tra di essi rientrano biomarcatori, caratteristiche all’imaging etc. L’approccio nosografico causale può essere essenzialmente di due tipi: o Fisiopatologico: dalle cause eziologiche ai sintomi. Classifica le demenze secondo quattro meccanismi fisiopatologici principali: - Cause neurodegenerative; - Perdita di tessuto cerebrale non neurodegenerativa; - Cause neurochirurgiche; - Cause extra-cerebrali. o Clinico: dai sintomi alla diagnosi. Approccio più utilizzato. 5.1. DEMENZE DI ORIGINE NEURODEGENERATIVA In questo gruppo di patologie è compresa una serie di condizioni sottese da morte progressiva dei neuroni cerebrali conseguente alla presenza di depositi anomali di materiale proteico, e accomunate da: o Esordio insidioso ed eziologia ignota (sporadica o familiare); o Andamento lentamente ingravescente e irreversibile: progressivo accumulo di proteine neurotossiche e conseguente morte neuronale; o Assenza di trattamento eziologico. La topografia loco-regionale è sfruttata in termini diagnostici perché ogni patologia neurodegenerativa esordisce in una determinata regione. Il motivo di questa localizzazione iniziale elettiva per ciascuna proteina in accumulo non è però al momento chiaro. Nell’immagine a lato si può osservare lo schema topografico per la distinzione delle varie patologie. Inoltre, la diversa topografia regionale implica una differenziazione degli ambiti cognitivi compromessi e quindi la presenza di profili cognitivi diversi per le varie forme neurodegenerative. Il decorso clinico delle diverse patologie neurodegenerative si divide essenzialmente in: 1) Fase iniziale: deficit cognitivi e funzionali lievi. Possibile depressione reattiva. MMSE 24 – 18. Utile effettuare diagnosi differenziale; 2) Fase intermedia: deficit cognitivi franchi. Compromissione funzionale significativa. 3 – 6 anni dall’esordio iniziale; 3) Fase avanzata: istituzionalizzazione con possibili complicanze internistiche. 8 – 12 anni dall’esordio. Ristretto spazio terapeutico per atrofia cerebrale diffusa; 4) Fase terminale: morte per complicanze internistiche. La progressione delle patologie può essere monitorata con il punteggio al test MMSE che si va riducendo nel corso degli anni. Inoltre, si può anche valutare il quadro di atrofia con le scale di visual rating. Un elemento importante è il periodo prodromico, ovvero una fase, molto ampia (20-30 anni), in cui si inizia ad avere accumulo proteico, ma sono ancora assenti le manifestazioni cliniche. In questa fase si distinguono due diversi momenti: Fase subclinica: coincide con il quadro di MCI, situazione in cui un soggetto ha un iniziale decadimento cognitivo non ancora definibile come demenza; Fase preclinica: fase asintomatica in cui, dal punto di vista clinico, non c’è nessuna evidenza, ma si ha una positività dei biomarcatori. Al confine tra la fase preclinica e la fase subclinica si è ipotizzata la presenza di un intermedio, definito disturbo cognitivo soggettivo in cui il soggetto non ancora anosognosico comincia ad avvertire il fatto che le sue prestazioni cognitive, pur rientrando ancora nell’ambito della normalità, stanno peggiorando. 6. MALATTIA DI ALZHEIMER La AD è la principale demenza di origine neurodegenerativa, oltre che la più frequente causa di disturbo neurocognitivo maggiore in assoluto, rappresentando circa il 60% di tutti i casi di demenza. Negli ultimi anni si sono fatti enormi passi in avanti nell’ambito delle malattie neurodegenerative, ed in particolare, per quanto riguarda l’Alzheimer, si sono scoperti biomarcatori, che permettono di fare diagnosi precoci e siamo in procinto di avere terapie efficaci per bloccare la malattia. La malattia di Alzheimer (AD), precedentemente definita come demenza presenile o senile a seconda dell'età di insorgenza, è la patologia neurodegenerativa più comune. Descritta per la prima volta nel 1901 dal neurologo Alois Alzheimer e dall'anatomopatologo italiano Gaetano Perusini, la AD è caratterizzata da un declino cognitivo progressivo e irreversibile che compromette la memoria, il linguaggio, il pensiero e le capacità funzionali. Nel 1901 fu descritta la prima paziente affetta, Auguste Deter, che manifestava un quadro di demenza all’età di 51 anni. Questa venne chiamata demenza presenile, perché ad insorgenza precoce. In seguito alla sua morte, Alzheimer e Perusini descrissero il quadro autoptico, dimostrando le lesioni tipiche e quindi la causa della neurodegenerazione e demenza. Si è poi scoperto che i meccanismi sono gli stessi nella demenza senile 6.1. EPIDEMIOLOGIA Nella popolazione italiana di età compresa tra i 65 – 84 anni ha un’incidenza pari al 6,6% per 1000 abitanti per anno, e una prevalenza del 4,4% che tende ad aumentare con l’età, passando dal 2 - 3 % tra i 65 e i 69 anni, all’8% circa tra gli 80 e gli 84 anni. È prevalente nel sesso femminile rispetto a quello maschile e nella maggior parte dei casi si presenta come forma sporadica (> 95%). La MA rappresenta una vera e propria pandemia silenziosa, con un impatto sociale, economico e sanitario in costante crescita. Le stime indicano che attualmente ci sono 5-6 milioni di pazienti affetti da MA solo negli Stati Uniti, un numero destinato a triplicare entro il 2050. A livello globale, si prevedono circa 150 milioni di casi entro il 2050, con un incremento maggiore nei paesi in via di sviluppo e nella popolazione anziana. 6.2. EZIOPATOGENESI L’articolazione dei meccanismi eziopatogenetici che portano alla prematura morte neuronale nell’AD non sono del tutto noti. L’eziologia della malattia di Alzheimer-Perusini è complessa e multifattoriale, con un’interazione tra fattori genetici e ambientali. Nell’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer, i fattori genetici e ambientali giocano un ruolo fondamentale, interagendo in modo complesso: Fattori genetici: contribuiscono in modo significativo al rischio di sviluppare l’Alzheimer. o Gene APOE: il polimorfismo del gene APOE è uno dei fattori di rischio genetici più importanti. In particolare, l’allele APOE ε4 è associato a un aumento significativo del rischio di Alzheimer. Uno studio ha rilevato che la frequenza dell’allele APOE ε4 era significativamente più alta nei pazienti con Alzheimer rispetto ai controlli, con un odds ratio di 5,73; o Gene KIF24: questo gene, che codifica per una proteina espressa nei neuroni e coinvolta nel trasporto assonale e nello sviluppo neuronale, è stato oggetto di studi per il suo potenziale ruolo nell’Alzheimer; o Geni dell’infiammazione: polimorfismi in geni come RAGE e TNF-α, coinvolti nei processi infiammatori, sono stati studiati per il loro potenziale ruolo nell’aumentare la suscettibilità individuale alla malattia; Fattori ambientali: interagiscono con quelli genetici nell’influenzare il rischio di Alzheimer. o Pesticidi organoclorurati (OCP): alcuni studi hanno evidenziato che l’esposizione a pesticidi organoclorurati può aumentare il rischio di Alzheimer. In particolare, il β-esaclorocicloesano e il dieldrin sono stati associati a un aumento del rischio, con odds ratio rispettivamente di 11,38 e 10,45; o Livelli di colesterolo: elevati livelli di colesterolo sierico sono stati identificati come un fattore di rischio indipendente per l’Alzheimer; o Stile di vita: fattori come la dieta, l’attività fisica e la stimolazione cognitiva possono influenzare il rischio di sviluppare la malattia, anche se non sono stati esplicitamente menzionati nei risultati di ricerca forniti. Interazione geni-ambiente: l'interazione tra fattori genetici e ambientali è cruciale nell'eziopatogenesi dell'Alzheimer. o Modificazioni epigenetiche: molti fattori ambientali di rischio per l'Alzheimer possono indurre modificazioni epigenetiche, alterando l'espressione genica senza modificare la sequenza del DNA. Questo aspetto è stato a lungo trascurato negli studi sulle interazioni geni-ambiente nell’Alzheimer; o Suscettibilità individuale: l'interazione tra geni e ambiente può determinare una maggiore o minore suscettibilità individuale alla malattia. Ad esempio, l'effetto dei fattori di rischio ambientali può essere modulato dallo status dell'allele APOE ε4. In conclusione, l'eziopatogenesi della malattia di Alzheimer è il risultato di una complessa interazione tra fattori genetici e ambientali. La comprensione di queste interazioni è fondamentale per sviluppare strategie di prevenzione e trattamento più efficaci, nonché per identificare individui a maggior rischio di sviluppare la malattia. Fino a pochi anni fa, non era così sicuro che fosse la beta amiloide la causa del danno neurologico. La conferma è arrivata successivamente, studiando gli affetti da sindrome di Down, che sviluppavano forme di Alzheimer precoce. Il motivo risiede nell’aumentata produzione di APP, il cui gene risiede sul cromosoma 21. A causa della trisomia 21, si ha produzione in eccesso di APP, che porterà ad un suo accumulo con conseguente iper-attivazione della via amiloidogenica e formazione delle placche senili. Il ruolo della β-amiloide nella patogenesi dell’Alzheimer è avvalorato inoltre dalla presenza di forme a trasmissione autosomica dominante causate da mutazioni su: o Gene APP (cromosoma 21); o Gene presenilina 1 (cromosoma 14); o Gene presenilina 2 (cromosoma 1); o Coinvolgimento della sortilina. Le proteine pre-senilina 1 e 2 fanno parte dell’enzima gamma secretasi, mentre la sortilina è quella che condiziona il taglio secretasico dell’APP. In tutte queste mutazioni, si ha un’aumentata produzione di β-amiloide. Sono inoltre state descritte mutazioni protettive nei confronti della AD. Come per il Parkinson, le forme sporadiche sono più frequenti. In queste forme sono state indagate le interazioni tra l’amiloide con le vie da essa innescate. Un lavoro di Lancet di due anni fa vedere come i vari geni scoperti nell’Alzheimer possano essere geni causativi, con un grosso peso. Le mutazioni prese in considerazione sono quelle elencate sopra (APP, pre-senilina 1 e 2 e sortilina) e altre mutazioni frequenti. Il grafico dimostra che la penetranza è massima in presenza delle mutazioni di APP e pre-senilina, che hanno, però, frequenze molto basse, al contrario delle mutazioni più frequenti (che sono principalmente polimorfismi e non vere mutazioni) che hanno una penetranza minore. Una via di mezzo tra mutazioni e polimorfismi è costituita da TREM2 e apoE4. Avere un’alterazione di TREM2 condiziona di quasi quattro volte il rischio di malattia. L’apoE4 è un’apolipoproteina che facilita il trasporto dei frammenti Aβ dal cervello al sangue. Nella sua isoforma ε4 aumenta la probabilità di avere la malattia, perché meno funzionante. 6.2.1. NEUROPATOLOGIA L’esame istopatologico su tessuto neuronale mostra: Atrofia cerebrale spiccata: circonvoluzioni più sottili anche alla TC o MRI accompagnata da ingrandimento dei ventricoli e dello spazio subaracnoideo; Placche senili extracellulari: accumuli di β-amiloide con alone amorfo al centro. Si colorano di Rosso Congo. Le placche si presentano circondate da microglia e terminazioni nervose degenerate; Grovigli neurofibrillari intracellulari: accumuli di proteina Tau iperfosforilata. Il depauperamento neuronale conseguente determina un’atrofia cerebrale inizialmente localizzata a livello ippocampale e peri-ippocampale, e poi diffusa anche in sede parietale e frontale. A causa delle alterazioni strutturali si verifica la deplezione di Ach cerebrale, NT legato direttamente al funzionamento dei circuiti della memoria e di altre capacità cognitive. In particolare, ciò avviene a livello del nucleo basale di Meynert, le cui proiezioni colinergiche raggiungono diffusamente la corteccia cerebrale, l’ippocampo, l’amigdala, il talamo e il tronco encefalico. Proprio la degenerazione del nucleo di Meynert spiega l’importante diminuzione della concentrazione di Ach a livello corticale nel cervello del pz affetto. 1- PLACCHE SENILI Sono aggregati di materiale amiloide (colorabile tramite rosso Congo e birifrangenza verde alla luce polarizzata), circondati da neuriti distrofici. Il principale costituente di tali ammassi è rappresentato dal peptide β-amiloide che, a causa della struttura secondaria prevalentemente a foglietto beta, risulta essere insolubile e resistente all’azione delle proteasi. Il peptide presenta un potenziale di aggregazione estremamente elevato che la porta a formare strutture oligomeriche, che oggigiorno si pensa possano giovare il ruolo maggiormente lesivo nei confronti dei meccanismi omeostatici neuronali. L’ulteriore aggregazione degli oligomeri porta alla formazione delle pre-fibrille, e quindi, infine, delle fibrille (le quali vengono espulse dalla cellula) che si depositano nelle placche senili. A livello extracellulare le placche senili richiamano cellule gliali e scatenano la neuroinfiammazione. Una delle principali ipotesi fisiopatologiche della malattia di Alzheimer prevede che la beta amiloide giochi un ruolo di centralità, generando tutte le alterazioni che caratterizzano tale malattia. L’accumulo di amiloide, inoltre, può scatenare una serie di processi patogenetici paralleli: o Iperattivazione delle chinasi con fosforilazione di tau; o Gli oligomeri all’interno della cellula danneggiano i mitocondri e producono ROS, i quali promuovono la fosforilazione delle Tau e l’eccitotossicità; o Gli oligomeri vengono estrusi come fibrille che danno neuroinfiammazione e attivano la microglia danneggiando i vasi e aumentando tutti questi meccanismi. Il precursore del peptide β-amiloide è stato identificato nella proteina APP (Amyloid precursor protein), il cui gene codificante è localizzato a livello del cromosoma 21. Si tratta di una proteina transmembrana che viene normalmente tagliata in modo prevalentemente non amiloidogenico mediante un pathway che vede coinvolta l’attività enzimatica α- secretasica. Nel morbo di Alzheimer si ha un incremento del taglio enzimatico secondo una modalità anomala (via amiloidogenica), ad opera della β e γ-secretasi, che porta alla produzione di due frammenti: Aβ-40 (maggiormente prodotto) e Aβ-42 (poco prodotto ma più facilmente aggregante). Normalmente, la via amiloidogenica processa la APP con rapporto di 1:5 rispetto alla via amiloidogenica. Nonostante queste osservazioni, la patogenesi della malattia di Alzheimer rimane, ad oggi, in gran parte da chiarire. In particolare, è discusso quale possa essere il contributo dei fattori genetici e quale quello dei fattori ambientali che potrebbero ostacolare la corretta degradazione del peptide amiloide, piuttosto che favorirne la produzione. Domanda: cosa fa la β-amiloide fisiologicamente? Risposta: cosa faccia la β-amiloide ancora non si sa, potrebbe essere implicata nella formazione di nuove sinapsi e nei processi della memoria. Il suo ruolo specifico in alcune strutture spiegherebbe perché sono le prime a essere danneggiate. 2- GROVIGLI NEUROFIBRILLARI Indubbiamente tra tutti i gruppi neuropatologici, quello delle Taupatie presenta la numerosità maggiore. Inoltre, è degno di nota il fatto che nella classificazione neuropatologica di Braak della malattia neurodegenerativa più frequente, la demenza di Alzheimer, la quantità e la distribuzione dei gomitoli neurofibrillari (le lesioni tipicamente caratterizzate dalla presenza di proteina tau iperfosforilata e aggregata nei filamenti elicoidali appaiati), ma non quelle delle placche amiloidee, correlano con la suddivisione nei diversi stadi di malattia. La proteina tau è codificata da un gene che si estende per un centinano di kb circa sul cromosoma 17 (17q21). La caratteristica chiave che distingue le diverse isoforme e ne determina il potenziale patologico consiste nel numero delle ripetizioni nella zona carbossi-terminale, in quanto il loro ruolo sarebbe quello di determinare la stabilità del legame con i microtubuli: tre isoforme presentano 3 domini di legame per i microtubuli, mentre le altre tre presentano 4 domini. Il rapporto fisiologico tra queste isoforme dovrebbe essere circa uguale a uno; in caso di alterazione aumenta il rischio di formazione delle lesioni neurofibrillari. L’aggregazione viene inoltre notevolmente intensificata aggiungendo alcune grandi molecole cariche negativamente, come i solfo-GAG o acidi nucleici (RNA), tutte sostanze che sono state riscontrate in associazione con le lesioni neurofibrillari nel cervello dei pz affetti da malattia di Alzheimer. La proteina tau è una componente strutturale fisiologica localizzata a ponte tra i microtubuli con ruolo di stabilizzazione degli stessi e facilitazione del flusso assonale. La sua iperfosforilazione, causata da un’iperattivazione delle chinasi GSK-3𝛽 e Cdk5 (la loro attivazione è facilitata dagli oligomeri dei A𝛽) o da una ipoattivazione delle fosfatasi PP-1 e PP-2, ne determina il distacco con conseguente liberazione nel liquido cerebrospinale (diagnosi biologica con biomarcatori). Questo distacco provoca una destrutturazione microtubulare, i quali si intrecciano e daranno origine ai neurofibrillar tangles con conseguente compromissione del flusso assonale, neurodegenerazione e morte neuronale. In fin dei conti il danno diretto sulla cellula è causato dall’iperfosforilazione della proteina Tau ma il primo movens è l’amiloide che va a provocare questa iperfosforilazione. Tau alterata significa danno già presente con morte neuronale, con accumulo nell’ippocampo e nel lobo temporale che rispecchiano la manifestazione clinica. L’amiloide è diffusa in più aree, ma magari non ha ancora prodotto abbastanza danno alla cellula, mentre tau produce danno precocemente. 6.2.2. IPOTESI VASCOLARE Circa 15 – 20 anni fa alcuni ricercatori avanzarono un’ipotesi alternativa alla ipotesi dell’amiloide, chiamata ipotesi vascolare. Questa ipotesi mette in discussione l'idea che l'accumulo di amiloide sia la causa principale dell'Alzheimer. Sostiene invece che il danno vascolare sia il fattore scatenante, portando a una riduzione dell'apporto di ossigeno (oligoemia) e a una minore capacità di eliminare la β-amiloide. Di conseguenza, si verificherebbe un accumulo di β- amiloide, non come causa primaria ma come conseguenza del danno vascolare. Questa ipotesi non spiega però le forme familiari di Alzheimer, dove è stata dimostrata un'alterazione genetica che influenza la produzione di amiloide. L'ipotesi vascolare potrebbe avere un ruolo nelle forme sporadiche di Alzheimer, soprattutto in quelle che si manifestano in età avanzata (70-75 anni), dove spesso si riscontra la presenza sia di placche senili (accumuli di amiloide) sia di danni vascolari. Le forme di Alzheimer che si presentano in età più giovane tendono ad essere "pure", ovvero caratterizzate solo da uno dei due fattori. Esistono anche demenze puramente vascolari, causate da infarti ed emorragie cerebrali, che portano alla perdita di tessuto cerebrale senza accumuli di amiloide. Si tratta di una patologia distinta dall'Alzheimer, sebbene entrambe possano causare demenza. In sintesi, diverse cause, tra cui il danno vascolare e l'accumulo di amiloide, potrebbero contribuire allo sviluppo della malattia, soprattutto nelle forme sporadiche che si manifestano in età avanzata. In sostanza si potrebbe vedere la demenza d’Alzheimer e la demenza vascolare non come entità distinte ma come un continuum di entità patologiche con un apporto vascolare e delle placche nella patogenesi differente. Tra i fattori che accumunano la demenza di Alzheimer e le demenze vascolari ci sono: o Segni neuropatologici di AD in 1/3 delle demenze vascolari. Segni di danno vascolare in 1/3 delle demenze di AD; o Fattori di rischio comuni: ipertensione arteriosa, arteriosclerosi, dislipidemia, iperomocisteinemia, diabete, allele ε4 della APOE; o Efficacia degli anticolinesterasici nelle demenze vascolari, degli anti-ipertensivi e dell’ASA nell’AD. 6.2.3. ANGIOPATIA CEREBRALE AMILOIDE La Cerebral Amyloid Angiopathy (CAA) è una condizione caratterizzata dall'accumulo di amiloide, una proteina, nelle pareti dei vasi sanguigni del cervello. Questa condizione, prevalente negli anziani, rappresenta una delle principali cause di ictus emorragico in questa fascia d'età. I meccanismi e conseguenze dell’accumulo di amiloide perivascolare sono: Disfunzione endoteliale: l'accumulo di amiloide intorno ai vasi sanguigni causa un'infiammazione, nota come CAA-IR (inflammation-related), che coinvolge anticorpi che si legano alle proteine dei vasi, causando edema. Questa infiammazione danneggia l'endotelio, lo strato interno dei vasi sanguigni, compromettendone la funzionalità. Il danno endoteliale diretto da parte dell’accumulo è causato da: o Legame con i RAGE sull’endotelio vascolare; o Attivazione dei RAGE con produzione di citochine pro-infiammatorie; o Produzione di ROS che promuovono l’infiammazione e l’aterosclerosi stimolato dalle citochine. Oligoemia e danno di barriera: la disfunzione endoteliale porta a una riduzione del flusso sanguigno (oligoemia) e a un danno alla barriera emato-encefalica, che normalmente protegge il cervello da sostanze dannose; Accumulo di amiloide e demenza: l'alterazione della clearance, il processo di eliminazione delle sostanze di scarto dal cervello, a causa del danno vascolare, favorisce l'accumulo di amiloide sia a livello vascolare che nel parenchima cerebrale e nei mitocondri. Questo accumulo contribuisce allo sviluppo della demenza. Secondo una teoria definita "two-hit hypothesis", il primo evento patogenetico (hit 1) nella CAA è un danno vascolare primitivo, causato da fattori di rischio come ipertensione e ipercolesterolemia. Questo danno innesca due processi cruciali: 1) Attivazione degli enzimi β-secretasici: l’oligoemia risultante dal danno vascolare attiva gli enzimi β- secretasici, che promuovono la produzione di amiloide; 2) Diminuzione della clearance di amiloide: il danno vascolare compromette i meccanismi di eliminazione dell'amiloide dal cervello. Questi due processi, combinati, portano al secondo evento (hit 2): l'accumulo di amiloide, che a sua volta causa danno neuronale e demenza. Esistono due meccanismi principali per l'eliminazione dell'amiloide dal cervello: Trasporto attraverso la parete dei vasi: o L'amiloide si lega all'apolipoproteina E (APOE), una proteina coinvolta nel trasporto dei lipidi; o Il complesso APOE-amiloide si lega a un recettore delle lipoproteine sulla parete dei vasi sanguigni; o L'amiloide attraversa la parete, viene ceduta a recettori solubili e degradata in periferia, principalmente nel fegato e nei reni; o Una disfunzione endoteliale compromette questo processo di trasporto. Drenaggio perivascolare (sistema glinfatico): o Il sistema nervoso centrale non possiede un sistema linfatico tradizionale; o Il drenaggio avviene attraverso lo spazio perivascolare, tra le pareti dei vasi sanguigni e il tessuto cerebrale; o Il liquido cerebrospinale (liquor) favorisce il flusso di sostanze nello spazio perivascolare; o I recettori dell'acquaporina 4 (AQP4) sugli astrociti, cellule gliali, facilitano l'estrusione delle sostanze di scarto; o La pulsazione delle arterie contribuisce al drenaggio; o L'angiopatia amiloidea, irrigidendo i vasi, compromette il drenaggio perivascolare. Si instaura un circolo vizioso in cui l'ipertensione e altri fattori di rischio vascolare favoriscono l'oligoemia, l'irrigidimento dei vasi, l'aumento della produzione e la riduzione della clearance di amiloide. L'amiloide depositata, a sua volta, facilita l'aterosclerosi, che a sua volta contribuisce all'accumulo di amiloide. Il danno vascolare, causato da fattori come ipertensione, diabete, fumo e ridotta attività fisica, è un fattore di rischio significativo per l'Alzheimer. L'ipossia, la mancanza di ossigeno, è stata dimostrata aumentare la produzione di beta-amiloide. 6.2.4. NEUROINFIAMMAZIONE La neuroinfiammazione svolge un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia di Alzheimer (AD). Nonostante in passato si considerasse il sistema nervoso centrale (SNC) come un'entità isolata, oggi è evidente la stretta interazione tra SNC e periferia, creando un sistema integrato. Questa interconnessione è alla base del ruolo significativo della neuroinfiammazione nell'AD. L’interconnessione tra SNC e sistema immunitario periferico è evidente in quanto: o I processi cerebrali, come il rilascio di chemochine e radicali liberi, influenzano la periferia, attivando il sistema immunitario. A sua volta, il sistema immunitario periferico può inviare segnali e cellule infiammatorie al cervello; o Il nervo vago, rilasciando acetilcolina, stimola la produzione di citochine nella milza. Queste citochine possono poi raggiungere il cervello, evidenziando un controllo riflesso dell'immunità; o Le proteine accumulate nel cervello durante i processi degenerativi, come l'amiloide beta nell'AD, attraggono monociti dal midollo osseo e dalla milza. Questi monociti migrano nel cervello, attraversando la barriera emato- encefalica, e si differenziano in microglia, contribuendo all'infiammazione locale. La microglia, le cellule immunitarie residenti nel cervello, si attiva in risposta al danno cerebrale, rilasciando chemochine che richiamano ulteriori monociti dalla periferia. I recettori PBR (peripheral benzodiazepine receptors), ora noti come TSPO (translocator protein), presenti nei mitocondri, sembrano coinvolti nell'attrazione delle cellule infiammatorie. L'attivazione di questi recettori sui linfociti li fa spostare sulla superficie cellulare, suggerendo un ruolo nella chemiotassi. Il farmaco PK 11195, un antagonista dei recettori PBR, viene utilizzato come tracciante nelle PET per evidenziare l'attivazione della microglia in varie malattie neurodegenerative, inclusa l'AD. Questo evidenzia la presenza di neuroinfiammazione in queste patologie. L'amiloide, oltre al suo ruolo nell'attivazione della microglia, contribuisce direttamente all'infiammazione vascolare: CAA e danno endoteliale: l’accumulo di amiloide nei vasi sanguigni cerebrali (CAA) causa infiammazione (CAA-IR) e danneggia l'endotelio, lo strato interno dei vasi. Questo danno compromette la funzione vascolare e la barriera emato-encefalica, favorendo l'ingresso di cellule infiammatorie nel cervello; Attivazione dei recettori RAGE: l'amiloide si lega ai recettori RAGE (Receptor for Advanced Glycation End- products) sull'endotelio vascolare. L'attivazione dei RAGE induce la produzione di citochine pro-infiammatorie, che amplificano la risposta infiammatoria e contribuiscono al danno vascolare. La neuroinfiammazione cronica, sostenuta dall'interazione SNC-periferia e dall'accumulo di amiloide, contribuisce alla progressione dell'AD attraverso diversi meccanismi: Danno neuronale: Le citochine pro-infiammatorie e i radicali liberi rilasciati dalle cellule immunitarie danneggiano i neuroni, contribuendo alla loro degenerazione. Alterazione della clearance dell'amiloide: l'infiammazione compromette i meccanismi di eliminazione dell'amiloide dal cervello, favorendo il suo accumulo e la formazione di placche; Compromissione della funzione sinaptica: l'infiammazione interferisce con la comunicazione tra neuroni, alterando la funzione sinaptica e contribuendo al declino cognitivo. La comprensione del ruolo cruciale della neuroinfiammazione nell'AD apre nuove strade per lo sviluppo di terapie. L'utilizzo di antagonisti dei recettori PBR, come il farmaco PK 11195, potrebbe bloccare la chemiotassi delle cellule infiammatorie indotta dall'amiloide beta. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per confermare l'efficacia e la sicurezza di questo approccio terapeutico. 6.3. QUADRO CLINICO 1- ESORDIO DI MALATTIA L’esordio della malattia è rappresentato, in genere, dalla comparsa insidiosa di un deficit della memoria episodica, con incapacità di apprendere e rievocare nuove informazioni (amnesia anterograda), mentre le rievocazioni degli eventi più lontani nel tempo e la memoria semantica (vocabolario, conoscenze generali sul mondo, riconoscimento di oggetti e volti noti) sono ancora risparmiate. Integra appare anche la memoria implicita in tutti i suoi aspetti, che declina solo in fase moderata-avanzata di malattia. Le attività della vita quotidiana non risultano all’inizio della malattia significativamente compromesse. Questa fase subclinica della malattia, detta “decadimento cognitivo lieve” (MCI) ha ricevuto recentemente grande attenzione. Il MCI o disturbo neurocognitivo minore, è definito dalla presenza di una compromissione cognitiva di grado lieve non interferente con l’autonomia funzione e dunque non classificabile come demenza, a carattere progressivo. L’MCI rappresenta una condizione ad alto rischio di evoluzione a demenza, con un tasso di conversione del 12 – 15% annuo (rispetto al 2% della popolazione generale di pari età). Per definire le turbe mnesiche che si osservano nei pz con esordio di demenza di Alzheimer non è corretto parlare di “deficit di memoria a breve termine”. Si tratta più propriamente di compromissione della memoria a lungo termine, per eventi recenti (mentre i ricordi remoti sono preservati fino alla fase moderata di malattia). DECADIMENTO COGNITIVO LIEVE (MCI) Per MCI si intende un deficit/compromissione/peggioramento in uno o più domini cognitivi (confermato da test Nps.) senza significative ripercussioni nelle abituali attività funzionali. La prevalenza del MCI è del 6,7% tra i 60 – 64 anni e del 25,2% tra i 80 – 84 anni. Una significativa % evolve nel tempo in demenza conclamata (8 – 12% all’anno, fino al plateau del 60% a 10 anni). Una altrettanto significativa % di MCI rimane stabile nel tempo (o addirittura torna nel range di normalità) (14 – 55%). In questo caso si parla di MCI non dementigeni. In conclusione, MCI è un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza, ma non è necessariamente un prodromo della stessa. 2- DEMENZA CLINICA DI GRADO LIEVE Con il progredire della malattia compaiono ulteriori deficit cognitivi che iniziano ad interferire con lo svolgimento delle attività quotidiane, inizialmente quelle più impegnative dal punto di vista intellettivo (gestione del denaro o ricordare appuntamenti e impegni). Questo segna il passaggio alla fase di demenza clinica vera e propria. I deficit cognitivi comprendono: Disorientamento temporale (quello spaziale è più tardivo); Turbe del linguaggio: vocabolario ridotto, con frequenti anomie; Iniziale compromissione delle capacità prassiche, del pensiero astratto e della critica; Alterazioni affettivo-comportamentali: il pz può reagire alla comparsa dei deficit cognitivi con deflessione del tono dell’umore, irritabilità, apatia (questi disturbi possono avere anche un’origine organica, correlata alla neurodegenerazione a livello del sistema limbico e della corteccia frontale). 3- STADIO INTERMEDIO Nello stadio intermedio di malattia, oltre ad avere sempre più difficoltà a formare nuove tracce mnesiche, i pz iniziano a presentare gradualmente amnesia retrograda. La memoria per gli avvenimenti remoti, in particolari quelli autobiografici, risulta progressivamente compromessa a partire da quelli più prossimi all’inizio della malattia, per cui i pz iniziano a vivere in un passato sempre più lontano. Altre alterazioni cognitive che compaiono o evolvono in questa fase sono: Difetti della comunicazione verbale (sia orale che scritta): diventano sempre più evidenti, con interessamento anche della capacità di comprensione fino all’afasia; Sindrome alogica: prosopoagnosia, agnosia visiva, aprassia, afasia; Disorientamento spaziale, discalculia, difficoltà nel ragionamento e nella pianificazione; Peggioramento del quadro neuropsichiatrico: comparsa di aggressività, attività motoria aberrante, allucinazioni e deliri. L’esacerbazione dei comportamenti disturbanti si ha frequentemente nelle prime ore della sera, quando il pz diventa più confuso e irrequieto, presumibilmente in relazione al venire meno di punti di riferimento spaziali e temporali anche in relazione alla scarsa illuminazione. A questo progressivo deterioramento cognitivo si accompagna in modo parallelo una crescente compromissione dell’indipendenza nello svolgimento delle attività quotidiane fino a coinvolgere anche quelle più elementari, legate alla cura del sé. 4- FASE AVANZATA E TERMINALE Nella fase avanzata della AD i sintomi neuropsichiatrici e neurologici dominano il quadro clinico con tutte le capacità cognitive severamente compromesse e il pz completamente dipendente dal caregiver poiché non più in grado di eseguire anche i compiti più semplici senza assistenza. Il pz sviluppa una perdita della consapevolezza di malattia (anosognosia) che può comparire anche nella fase intermedia. In fase terminale i pz divengono incapaci di deambulare, sono incontinenti, disfagici, possono presentare mioclonie, talvolta epilessia con crisi generalizzate, rigidità motoria progressiva, fino a un quadro di tetraparesi in flessione. Il decesso avviene di solito per patologie intercorrenti, in particolare infezioni delle vie respiratorie (spesso ab ingestis) o urinarie, o a partenza da ulcer