Storia del cinema PDF: Il peplum e i primi film storici
Document Details

Uploaded by TroubleFreeYeti6409
Tags
Summary
Questo documento esplora la storia del cinema, concentrandosi sui film storici italiani come il peplum, e offre un'analisi dei primi lungometraggi e delle innovazioni tecniche. Vengono discussi film significativi come 'Quo Vadis?' e 'Cabiria?', evidenziando la loro ricezione e influenza culturale. Il documento fornisce una panoramica dettagliata di come si sviluppò il cinema in Italia, dall'uso pionieristico delle scenografie e degli effetti speciali, al fenomeno del divismo.
Full Transcript
STORIA DEL CINEMA 25 10 2024 I FILM A CARATTERE STORICO 1. LA NASCITA DEL PEPLUM Il passaggio al lungometraggio ha segnato un punto di svolta, favorendo i film a tema storico, detti peplum....
STORIA DEL CINEMA 25 10 2024 I FILM A CARATTERE STORICO 1. LA NASCITA DEL PEPLUM Il passaggio al lungometraggio ha segnato un punto di svolta, favorendo i film a tema storico, detti peplum. L’affermazione del lungometraggio è un fenomeno di portata internazionale, ma il contributo italiano ha avuto un ruolo decisivo, soprattutto negli Stati Uniti, dove furono proprio i lungometraggi italiani a promuovere e consolidare questo nuovo formato. Il termine peplum fu coniato successivamente dalla critica francese negli anni ‘50 e ‘60 per descrivere i film di ispirazione storico-mitologica, ma oggi viene applicato anche alle produzioni storiche italiane a partire dal 1910. Quest’etichetta deriva dal peplum, una veste femminile in uso presso le donne greche fino al VI secolo a.C. e allude a un universo ispirato, genericamente, all’antichità. Questo genere si basava su narrazioni dell’antichità, che venivano utilizzate per rafforzare l’identità culturale italiana e attrarre nuovi investimenti, spesso provenienti da ambienti aristocratici (come era avvenuto in Francia). Il primo film italiano a soggetto di carattere storico fu il cortometraggio «La presa di Roma» di Filoteo Alberini (1905) per celebrare il 35º anniversario della presa di Roma (20 settembre 1870). Proiettato davanti a Porta Pia, questo film, originariamente lungo dieci minuti, sopravvive solo in parte, con circa quattro minuti disponibili oggi. Sebbene non ancora un lungometraggio, rappresenta un primo esempio di ricostruzione storica a soggetto, aprendo la strada a ciò che sarebbe diventato il peplum. Nel 1908, la società Ambrosio avviò il genere storico con «Gli ultimi giorni di Pompei», diretto da Luigi Maggi e tratto da un’opera del 1834 dell’inglese Edward Bulwer-Lytton; tuttavia, la popolarità del “colossal” storico italiano si consolidò nel 1911 con «La caduta di Troia» di Giovanni Pastrone, che ebbe un’importante risonanza internazionale e segnò l’inizio dell’ascesa del cinema storico italiano. Il peplum riscuote un grande successo internazionale perché: il film storico alimenta più di ogni altro genere il progetto di una cultura capace di raccogliersi attorno a una serie di valori nazionali; il mito di Roma offre la possibilità di dare a uno stato unitario di recente formazione una base solida e autorevole da riaffermare sulla scena internazionale (perché proprio il 1911 è l’anno in cui viene girata «La caduta di Troia» e si festeggiava il cinquantenario dell’unità d’Italia); il film storico offre ai mercati esteri (soprattutto inglese e statunitense) l’idea di un’antichità “immaginaria” in cui si mescolano elementi eterogenei (catastrofi naturali, lussuria, battaglie, folle in tumulto, ecc..). Tra il 1912 e il 1914 l’Italia produce una ventina di pepla a lungometraggio, ma l’anno d’oro è il 1913, in particolare, due film segnarono questo apice: «Quo Vadis?» di Enrico Guazzoni, prodotto dalla Cines, e «Cabiria» di Giovanni Pastrone, prodotto dall’Italafilm. 2. «QUO VADIS?» DI ENRICO GUAZZONI (1913) «Quo Vadis?», ambientato nell’antica Roma sotto l’impero di Nerone, raggiunse una diffusione straordinaria negli Stati Uniti grazie a un accordo di distribuzione tra la Cines e George Kleine, rimanendo in cartellone per 22 settimane a New York. Questo successo avvenne durante una fase in cui il mercato americano consentiva ancora l’accesso ai film stranieri, una situazione che sarebbe cambiata con la formazione dell’oligopolio della Motion Picture Patents Company, limitando successivamente l’ingresso dei lungometraggi esteri. Enrico Guazzoni, pittore, scenografo e dal 1910 direttore artistico della Cines, è stato uno dei primi in Italia a concentrarsi sull’importanza della scenografia. Nel suo lavoro, i personaggi si muovono liberamente nello spazio scenico, con una dinamicità fino ad allora inedita, superando la rigida distinzione tra individuo e massa (che diventerà una prerogativa di «Cabiria»). «Quo Vadis?» rappresenta un successo popolare in quanto adatta i tratti distintivi del melodramma, un genere già radicato nel gusto popolare, alla narrazione storica. In questa struttura narrativa, la storia fa da sfondo mentre le passioni e le gelosie dei personaggi rimangono in primo piano, permettendo così al pubblico di immedesimarsi nelle emozioni e nei conflitti umani. 3. «CABIRIA» DI GIOVANNI PASTRONE (1913-1914) A cavallo tra il 1913 e il 1914, viene realizzato «Cabiria», uno dei colossal più celebri della storia del cinema italiano, ma che ottiene un successo planetario, rappresentando il film italiano più influente degli anni 1910. Negli Stati Uniti, il film viene lanciato come “the daddy of spectacles” (“il padre di tutti gli spettacoli”). Il film si proponeva una triplice sfida: mostrare cose meravigliose; raccontare un’avventurosa storia d’amore; mettere in scena i violenti conflitti della grande storia. Il suo successo contribuisce in modo significativo a legittimare il cinema come forma d’arte riconosciuta. CHI È GIOVANNI PASTRONE? Giovanni Pastrone era una figura eclettica con molteplici interessi, tanto che verso la fine della sua vita abbandona il cinema per lo studio della medicina. La sua carriera nel cinema inizia rapidamente: assunto a 24 anni come impiegato contabile presso la casa di produzione torinese Carlo Rossi, si avvicina presto alla regia e alla gestione tecnico-artistica come direttore. Quando, nel 1908, la società viene liquidata, Pastrone ne rileva la proprietà insieme a Carlo Sciamengo e la trasforma in Italafilm. In questo nuovo contesto, Sciamengo si occupa della parte amministrativa, mentre Pastrone ricopre vari ruoli: si occupa dell’organizzazione delle riprese, della gestione del set e della pianificazione degli orari, affrontando anche i problemi tecnici delle proiezioni in Italia (lo sfarfallio dovuto alle perforazioni sulla pellicola); Pastrone s’impegna anche nella sincronizzazione delle immagini con il suono e nella sperimentazione con la colorazione delle pellicole (che però non raggiungerà mai la fase finale di sviluppo). Pastrone ricopre anche aspetti creativi: è infatti lui che, come direttore artistico, sceglie di ingaggiare André Deed, interprete di Cretinetti, che porterà grandi guadagni alla Italafilm, reinvestiti in altri progetti (tra cui la costruzione di un nuovo teatro di posa). Infine, Pastrone idea anche il motto dell’Italafilm, «Fixité», con un logo che raffigura una donna che sorregge un cartello con la scritta «Fixité» (si nota questo logo in «Troppo bello!» con Cretinetti). Con l’arrivo della guerra, il ruolo centrale di Pastrone all’interno di Italafilm subisce un ridimensionamento; mentre continua a lavorare a progetti sperimentali e invenzioni tecniche, gli viene diagnosticato un tumore al fegato, con una prognosi sfavorevole. Pastrone, in risposta, progetta una macchina elettrica per curarsi, che tenta di produrre su scala industriale senza riuscirvi. Nonostante la malattia, riesce a prolungare la sua vita di oltre trent’anni e muore solo nel 1959. LA TRAMA DI «CABIRIA» Il film «Cabiria» s’articola in cinque episodi che, dal punto di vista narrativo, coprono una decina d’anni: gli episodi narrano una storia d’amore e d’avventura ambientata nel periodo delle Guerre Puniche. La trama segue Cabiria, una bambina romana figlia del vecchio Batto, che, dopo l’eruzione dell’Etna, viene rapita con la sua nutrice Croessa e vengono vendute ai Cartaginesi. Cabiria è scelta per essere sacrificata al dio Moloch, ma viene salvata dal patrizio romano Fulvio Axilla con l’aiuto dello schiavo Maciste, informati dalla nutrice. Tuttavia, mentre fuggono (attraverso un passaggio che dall’occhio del dio porta alla mano a terra), cadono vittime di un agguato, e vengono imprigionati. Cabiria viene affidata alla regina Sofonisba di Cartagine, sorella di Annibale, che nel frattempo sta attraversando le Alpi e minaccia Roma. Col passare degli anni, Cabiria diventa la confidente di Sofonisba e assiste al suo suicidio, mentre Scipione l’Africano sta sconfiggendo i cartaginesi. Alla fine del film, Cabiria, Fulvio Axilla e Maciste possono tornare a Roma, e sul ritorno in patria sulla nave, Cabiria e Fulvio Axilla scoprono di amarsi. La trama porta avanti il contrasto tra una Roma giusta e civilizzata e una Cartagine primitiva e barbara, in cui ancora si praticano sacrifici umani: questo contrasto riflette la contemporanea campagna italiana in Libia da parte di Giovanni Giolitti intrapresa a partire dal 1913. Ogni aspetto di «Cabiria» rende il film un primato: innanzi tutto, la lunghezza di 3.364 metri (circa 3 ore); il budget straordinario di un milione di lire; infine, la collaborazione di Gabriele D’Annunzio. LA FIGURA DI GABRIELE D’ANNUNZIO Nonostante i manifesti pubblicitari presentino D’Annunzio come autore del film, la paternità di «Cabiria» va attribuita a Giovanni Pastrone, che ne è il vero creatore; D’Annunzio apporta un contributo limitato, occupandosi di rivedere le didascalie di Pastrone, inventa alcuni nomi e suggerisce il titolo finale, «Cabiria», al posto dei titoli inizialmente previsti, «La Vittima Eterna» o «Il romanzo delle fiamme». È importante notare che D’Annunzio accetta di firmare come autore di «Cabiria»: non si tratta, quindi, di un’usurpazione (come faceva Edison), ma di una scelta ponderata, concordata con Pastrone e con la casa di produzione. Il motivo principale è che, all’epoca, D’Annunzio era l’autore italiano più famoso e influente, nonché abilissimo nel promuovere la propria immagine. Questa collaborazione ha quindi anche un fine strategico: non solo per pubblicità, ma soprattutto per legittimare il cinema come arte e avvicinare al cinema un pubblico borghese, abituato alla letteratura e al teatro. Nel presentare il progetto, D’Annunzio scrive di «Cabiria» sul «Corriere della Sera» (ammette di aver fatto tutto per denaro e s’attribuisce la paternità dell’idea): «Il gusto del pubblico riduce oggi il cinematografo a una industria più o meno grossolana in concorrenza col teatro. Io stesso, per quella famosa carne rossa che deve eccitare il coraggio dei miei cani corsieri, ho lasciato cincischiare in films alcuni dei miei drammi più noti. Ma questa volta (oh disonore! onta indelebile!) m’è piaciuto di fare un esperimento diretto. Una Casa torinese, diretta da un uomo colto ed energico che ha uno straordinario istinto plastico, dà un saggio d’arte popolare sopra un soggetto inedito da me fornito. - Quale è il soggetto? - Si tratta d'un disegno di romanzo storico, delineato parecchi anni fa e ritrovato tra le mie innumerevoli carte. Il disegno era troppo ambizioso, e non fu attuato in opera d’arte. Che tremendo sforzo di cultura e di creazione ci voleva infatti per rappresentare, nel terzo secolo avanti Cristo, il più tragico spettacolo che la lotta delle stirpi abbia dato al mondo!» LA MUSICA E LA SCENOGRAFIA Un aspetto innovativo di «Cabiria» è la presenza in sala di un’orchestra e un coro che accompagnano il film, con musiche commissionate a Ildebrando Pizzetti e il suo allievo Manlio Mazza (Pastrone conosceva bene la musica, poiché era anche un violinista). Pizzetti, pur riconosciuto compositore, accetta l’incarico con riluttanza, preoccupato per l’impatto del cinema nella sua immagine (non ancora considerato un’arte rispettabile) e la lunghezza del film. Alla fine, si limita a comporre solo la musica per la scena del sacrificio a Moloch (la scena principale), chiamandola «Sinfonia del fuoco», lasciando a Mazza il resto della colonna sonora. Inoltre, le scenografie tridimensionali di «Cabiria» rappresentano un’altra novità: dalla villa patrizia al tempio di Moloch fino alle mura di Cirta, sono costruite come spazi reali e non più come superfici piatte o dipinte. Questi ambienti diventano veri e propri spazi fisici, dove gli attori possono muoversi, interagire e rendere il set più realistico. IL MONTAGGIO: GLI EFFETTI SPECIALI E I MOVIMENTI DI MACCHINA Gli effetti speciali sono curati da Segundo de Chomón, a cui Pastrone affida la fotografia del film: introduce tecniche di illuminazione elettrica per creare effetti di chiaroscuro, (es. la scena del sacrificio) e architetta la sequenza dell’eruzione dell’Etna o la battaglia navale di Siracusa. Infine, «Cabiria» presenta un uso innovativo dei movimenti di macchina, che aggiungono dinamismo alla narrazione. Il negativo originale del film del 1914 è andato perduto: le copie rimaste negli archivi sono state riprodotte con tagli e modifiche anche da parte di Giovanni Pastrone stesso, e nel tempo il film è stato restaurato più volte, con l’aggiunta di sequenze e scene inedite. La versione disponibile oggi di «Cabiria» dura circa 157 minuti (contro i 187 minuti della versione originale). Nel 2006, è stato realizzato un restauro proiettato a Cannes, con una breve introduzione di Martin Scorsese. Questo restauro, che non è mai stato distribuito in DVD, è tra le versioni più vicine all’originale per la lunghezza. Almeno due delle versioni modificate del film furono supervisionate dallo stesso Pastrone e possono essere considerate autentiche: una di queste risale al 1931, quando Pastrone rientrò brevemente alla direzione della Italafilm, mentre l’altra è una versione sonora, anch’essa del 1931, adattata per il cinema sonoro italiano emergente. Quest’ultima includeva nuove scene, alcuni tagli, modifiche cromatiche e una colonna sonora con effetti sonori, voci e rumori ambientali. NEL DETTAGLIO: LA CURA DELLE SCENOGRAFIE Un esempio della cura scenografica di Pastrone sono le scene del cortile interno della casa romana di Cabiria. La prima viene divisa visivamente in due piani di profondità di campo da una colonna: sulla sinistra la porta d’ingresso e a destra una scala. La seconda scena, sebbene sia ricca di dettagli, appare più piatta rispetto alla prima, più angolata; tuttavia, ci sono dei personaggi che appaiono dal e nel fondo, e in alto a destra, c’è una serva pulisce, riempiendo ogni spazio dell’inquadratura per dare profondità e movimento. I personaggi, in oltre, non sono solamente più lontani, ma sono sulla scenografia ricostruita (es. la balconata dell’ancella è costruita apposta). La scena dell’eruzione vulcanica è altrettanto impressionante. Qui, la composizione si sviluppa attraverso due punti luce: il vulcano stesso e una linea di lava che scorre, invece in basso c’è una striscia di persone in fuga lungo il pendio, creando movimento. Questo effetto speciale, pur basato su tecniche tradizionali, serve a enfatizzare il realismo e la drammaticità storica, piuttosto che ad aggiungere un elemento magico. Tra le scene iconiche c’è quella del Tempio di Moloch: in questa sequenza, Croessa fugge insieme a Fulvio Axillia e Maciste attraverso il Tempio per salvare Cabiria. La scenografia monumentale e l’uso di inquadrature piene di attori in movimento rafforzano l’impatto visivo, insieme al ritratto dei i Cartaginesi come personaggi primitivi e barbari, mostrando i riti di sacrifici umani e i balli primitivi attorno alla statua del dio. Un’altra scena memorabile è quella dell’assedio romano di Siracusa, dove vengono impiegati complessi effetti scenografici e speciali, come i leggendari specchi ustori di Archimede che, riflettendo la luce solare, incendiano le navi nemiche. Scene di distruzione, incendi ed esplosioni erano particolarmente amate dal pubblico per il loro potenziale spettacolare, e «Cabiria» ne fa ampio uso per accrescere la tensione narrativa. In questo caso, vediamo come Pastrone sfrutti la profondità delle scenografie, dove i personaggi sullo sfondo si muovono tra strutture tridimensionali, mentre in primo piano appaiono gli attori principali. I MOVIMENTI DI MACCHINA Pastrone fa ampio utilizzo del carrello: in «Cabiria», svolge due funzioni principali. La prima è connettiva: collega elementi narrativi e scenografici all’interno della stessa inquadratura; la seconda funzione, più rilevante, è mostrativa: permette allo spettatore di apprezzare la tridimensionalità dello spazio scenico rispetto alla bidimensionalità degli sfondi dipinti. Pastrone non limitava la macchina da presa ai soli movimenti orizzontali (le cosiddette panoramiche), ma la faceva avanzare e arretrare, anche in diagonale, dando l’illusione di un coinvolgimento diretto nella scena e intensificando l’impatto emotivo. Per ottenere questo effetto, montò piccole ruote sotto il cavalletto della macchina da presa, un’innovazione che, come notò il critico Alberto Friedemann: «[…] è difficile credere che nessuno avesse fino ad allora pensato a un semplice espediente del genere per affrontare un problema, quello della mobilità della macchina, tutto sommato facilmente risolvibile.» [Alberto Friedemann, Tecnologie e brevetti dell'Itala film, p. 366] Sebbene non fosse la prima volta che si utilizzava un carrello, all’epoca i movimenti di macchina si svolgevano principalmente attorno a un perno fisso (come nelle panoramiche del cinema americano); in «Cabiria», il carrello introduceva una vera esplorazione in profondità dello spazio scenico, variando i piani (es. primo piano, piano lungo, dettaglio, ecc.) senza interrompere la continuità dell’inquadratura. Pastrone sottolineava l’importanza di mostrare che le scenografie monumentali erano costruzioni reali, non semplici sfondi dipinti («occorreva far comprendere agli spettatori che le gigantesche scenografie da me costruite erano autentiche, e non erano solamente dei fondali dipinti»). Per comprendere l’impatto di questa invenzione, Alfred Hitchcock, in una visita al Museo del Cinema di Torino, ricordò come nei primi set inglesi il carrello venisse genericamente chiamato «cabiria», a indicare quanto questo tipo di movimento fosse associato al film di Pastrone. In «Cabiria», Pastrone utilizza il carrello in modo sistematico, con circa 60 carrelli lungo tutto il film. Ecco alcuni esempi: la scena del banchetto nella reggia di Cartagine, dove il carrello inizia da un campo medio piuttosto ravvicinato e gradualmente svela l’intera ambientazione e rivelando gli altri personaggi, le decorazioni e le tavole imbandite. nella morte di Sofonisba, la ripresa si muove da un campo lungo, che inquadra tutta la sala, fino a un dettaglio dell’oggetto regalato alla regina. Questo movimento non solo ha una funzione mostrativa, in quanto rivela l’oggetto donato a Sofonisba, ma è anche connettivo, passando da uno spazio ampio a uno più ristretto. sebbene non costituisca una vera categoria per catalogare il carrello, è interessante la funzione del carrello nella scena dell’incontro tra i comandanti romani Lelio e Massinissa: durante una discussione tra i due personaggi, Massinissa si avvicina alla tenda per vedere se c’è qualcuno che sta origliando sullo sfondo. I due personaggi, quindi, se ne vanno e la scena resta vuota: da qui, un carrello avanza in avanti, fino a quando la tenda si apre e si vede Sofonisba che stava spiando la conversazione. In questo caso, il carrello viene utilizzato con funzione di attesa narrativa, creando suspance: il carrello, dunque, diventa il protagonista. infine, nel finale del film, dopo la sconfitta di Cartagine nella battaglia di Zama, Fulvio Axilla, Cabiria e Maciste fanno ritorno a Roma: la scena utilizza sovrimpressioni che richiamano «L’Inferno», con putti che ruotano intorno alla nave come elemento di fantasia. Riassumendo, la differenza principale nell’uso di tecniche rispetto al cinema americano coevo, dove ciò che più conta è il rapporto di continuità tra inquadrature, nel cinema muto italiano è più importante il rapporto tra gli elementi interni alla singola inquadratura, quasi come se ciascuna scena fosse un quadro a sé; questo approccio risulta probabilmente meno avanzato rispetto alla contemporanea evoluzione americana. In Italia, le connessioni narrative si sviluppano principalmente all’interno delle singole inquadrature, grazie ai movimenti di macchina piuttosto che al montaggio. Per questa ragione non possiamo nemmeno parlare di cinema narrativo, poiché domina ancora la componente visiva e attrattiva piuttosto che la narrazione; perciò «Cabiria» si colloca nella «fase di transizione» (o nel «cinema dell’integrazione narrativa» secondo Gunning e Gaudreault), motivo per cui Pastrone evita volutamente di segmentare lo spazio tramite il montaggio, privilegiando sempre la rappresentazione dell’ambiente rispetto ai protagonisti o all’azione stessa. Che si tratti delle monumentali scenografie dei palazzi o degli spazi vuoti e rarefatti, la scelta stilistica enfatizza la vastità dell’ambientazione rispetto alla piccolezza dei personaggi, prediligendo così campi lunghi e medi piuttosto che primi piani. LA FIGURA DEL FORZUTO Un altro aspetto che ha contribuito al successo di questo film è la “figura del forzuto”, che compare per la prima volta non in «Cabiria», ma in «Quo Vadis?»: qui il personaggio è interpretato da Brutto Castellani e ha un ruolo marginale (non come Maciste), ma la sua presenza è significativa al punto da dare origine a un vero e proprio filone di personaggi simili. Il personaggio di Maciste in «Cabiria», interpretato da Bartolomeo Pagano, un facchino del porto di Genova, privo di formazione attoriale; il nome di “Maciste”, inventato da D’Annunzio, deriva dall’antico soprannome di Ercole, ma la figura è stata ideata da Pastrone. Sebbene Maciste sia rappresentato come uno schiavo africano mulatto, Pagano era un attore bianco, e il personaggio venne interpretato con la tecnica del blackface, pratica comune all’epoca per rappresentare personaggi di altre etnie; questa scelta riflette sia l’assenza di attori neri nell'industria cinematografica italiana e internazionale, sia una visione eurocentrica. Le poche sequenze mostrate rivelano alcuni tratti distintivi di Maciste: uomo di grande stazza ma dal cuore gentile. Per esempio, in una scena evade dalla prigione insieme a Fulvio Axilla; in un’altra, mostra un lato tenero quando, dopo la fuga, si prende cura di una bambina, cucendole un vestito. Questo dualismo – forza fisica e sensibilità – caratterizzerà Maciste e molti dei personaggi simili che nasceranno negli anni a venire. Già a partire dal 1914, si ha quello che può essere considerato il primo spin-off del genere storico- mitologico ispirato alla figura di Maciste. Il film, intitolato proprio «Maciste», fu diretto da Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Denizot. L’opera assume una prospettiva metacinematografica: la trama ruota attorno alla vicenda di una nobildonna, perseguitata da alcuni malfattori, che cerca rifugio in un cinema. Qui, si proietta «Cabiria», e la donna, vedendo Maciste in azione sullo schermo, si convince che solo lui possa salvarla. Così si reca agli studi della Italafilm, in cerca dell’attore Bartolomeo Pagano, che interpreta Maciste, per ottenere il suo aiuto. Anche questo film del 1915 è prodotto dalla Italafilm e sceneggiato da Pastrone, ed è interessante sottolineare il passaggio di Maciste da uno schiavo africano romano a bianco abitante dell’Italia (salto temporale). Un altro esempio significativo è «Maciste alpino» del 1916, diretto ancora da Borgnetto insieme a Luigi Maggi. In questo film, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, Maciste combatte contro le truppe austriache. La trama segue un filone metacinematografico simile a «Maciste»: durante le riprese di un film, Maciste e la sua troupe cinematografica vengono catturati dagli austriaci, ma lui riesce a sconfiggere gli avversari e a liberare la troupe. Il ciclo di film dedicati a Maciste si estenderà fino alla fine degli anni ‘20, e Bartolomeo Pagano resterà indissolubilmente legato al personaggio: Maciste incarnava il “superuomo” di stampo dannunziano, un archetipo che sarebbe poi stato ripreso nel Futurismo di Marinetti e successivamente da Mussolini e l’ideologia di “uomo nuovo” fascista. Questa figura, insieme alle molte imitazioni e varianti del personaggio muscoloso (come Spartaco, Ercole, Sansone e altri), nasce in un contesto storico per poi abbandonare il peplum e proiettarsi in epoca moderna («Maciste» e «Maciste alpino»): Maciste lascia dunque i panni dell’eroe classico per assumere quelli borghesi dell’epoca contemporanea, pur mantenendo il ruolo di protettore degli indifesi. Si assiste quindi a una sorta di transizione tra generi. IL DIVISMO Allo stesso tempo, il personaggio di Maciste ha contribuito alla nascita di uno dei primi esempi di divismo maschile in Italia. Durante gli anni del cinema muto, il divismo era prevalentemente femminile, mentre Maciste, interpretato da Bartolomeo Pagano, rappresentava uno dei pochi esempi di divismo maschile. Nonostante la presenza di altri attori maschili nel cinema dell’epoca, molti interpretavano ruoli di supporto, raramente come protagonisti. Maciste, infatti, incarna un modello specifico di mascolinità dell’epoca, caratterizzato dalla sua fisicità possente e da un’interpretazione legata a valori terreni e quotidiani, contrapposta alle figure femminili del cinema muto, che incarnavano ideali ultraterreni, divise nei ruoli della “donna angelica” e della “femme fatale”. Altri due attori maschili soggetti a divismo (ma in contrasto con la figura del forzuto) sono: 1. Emilio Ghione (“cascatore”, oggi “stuntman”, presso la Ambrosio di Torino): conosciuto per il personaggio di Za La Mort (letteralmente «Viva la morte» nel gergo della malavita). Questa figura nasce come criminale per poi trasformarsi in un vendicatore dei più deboli, con caratteristiche ispirate ai personaggi di Fantômas e Arsenio Lupin. Ghione porta a maturazione il suo personaggio con la serie «I topi grigi» (1916-1918), dove Za La Mort s’incarica di proteggere un giovane orfano da una banda di malfattori che lo insegue per impadronirsi della sua eredità. La sua interpretazione spiccava per una recitazione espressiva, caratterizzata da movimenti stilizzati di mani e occhi, molto diversa dalla fisicità massiccia di Maciste. Ghione fu affiancato in molti film da Kalliope (Kally) Sambucini, compagna sullo schermo e nella vita, che interpretava la sua fragile partner, Za La Vie. Nonostante il successo, come Pagano, Ghione rimase intrappolato nel ruolo, tentando senza successo di rilanciare il personaggio in Germania durante l’ascesa del cinema espressionista. Mentre Za La Mort aveva una moralità ambigua per il suo passato criminale, le imprese di Maciste seguivano schemi melodrammatici più definiti (Maciste rispondeva solitamente alle richieste d’aiuto di figure indifese, spesso giovani donne minacciate da delinquenti). 2. Leopoldo Fregoli (attore professionista di varietà): la sua abilità principale era il trasformismo, riuscendo a ricoprire numerosi ruoli con una straordinaria versatilità (poteva adottare due diverse sembianze e interpretare personaggi parlando e cantando con cinque voci differenti). Scriveva personalmente i suoi copioni, che prevedevano una vasta gamma di personaggi da interpretare da solo. Nelle sue memorie racconta un episodio del 1895, quando si trovava a Lione, proprio mentre i fratelli Lumière realizzavano le prime proiezioni cinematografiche. In quell’occasione, incontrò i fratelli Lumière e ottenne il loro permesso per proiettare alcuni dei loro film alla fine dei suoi spettacoli teatrali; i Lumière, conquistati dalla sua simpatia, gli concessero addirittura un proiettore e un gruppo di brevi pellicole. Dopo una fase iniziale in cui proiettava i filmati dei Lumière come parte finale delle sue esibizioni dal vivo, iniziò a realizzare dei cortometraggi propri, interpretando alcune delle sue celebri scene di varietà, sfruttando le possibilità del cinema per ampliare l’impatto spettacolare delle sue rappresentazioni teatrali. Tra i suoi corti più noti, anche se in pessime condizioni oggi, troviamo «Fregoli dietro le quinte», dove svelava i segreti delle sue trasformazioni, mostrando il backstage del suo spettacolo (veniva aiutato da delle persone a cambiarsi velocemente per poi rientrare in scena). Così, il cinema divenne un elemento stabile dei suoi spettacoli di varietà. Per proiettare i suoi filmati, Fregoli costruì uno schermo di quattro metri per tre, incorniciato da lampadine colorate, chiamato fregoli grafo; il suo spettacolo era, quindi, una combinazione innovativa di teatro e cinema, un’esperienza completa in cui lui e le sue performance restavano i protagonisti assoluti. 4. IL «CINEMA IN FRAC» Tuttavia, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nell’estate del 1914, il settore cinematografico italiano subì un duro colpo: le esportazioni calarono drasticamente, gli stabilimenti cinematografici chiusero, e si verificò un rallentamento produttivo generale, mentre le pellicole straniere, soprattutto americane, arrivavano in Italia con facilità (poiché gli USA entrano in guerra nel 1917). In questo periodo, il genere storico perse popolarità a favore del cosiddetto «cinema in frac», caratterizzato da tematiche aristocratiche e fortemente connesso al fenomeno del divismo, che viveva allora il suo periodo aureo (1913-1919): infatti, il termine «cinema in frac» è stato coniato solo in seguito dagli storici, e inizialmente si chiamava «diva film», proprio perché era strettamente legato al divismo, un fenomeno prevalentemente femminile di origine europea durante il periodo simbolista e liberty. A partire dagli anni 1910, il divismo si diffuse in America, dove trovò a Hollywood il terreno ideale per svilupparsi ulteriormente (lo «stardom»). Il primo vero esempio di divismo si registrò in Europa, precisamente in Danimarca, con «L’Abisso» di Urban Gad, regista danese, e l’attrice Asta Nielsen, che contribuirono a stabilire le basi per quello che diventerà il fenomeno dello «stardom» (quindi si parla di proto-divismo). Nel contesto europeo dei primi del Novecento, Asta Nielsen è una delle prime vere star internazionali: i suoi ruoli includevano spesso donne tormentate, sedotte e abbandonate o pronte a sacrificarsi per amore. Pur provenendo dal teatro, Asta Nielsen riuscì a sviluppare uno stile recitativo innovativo, distante dai codici teatrali: in «L’Abisso», Nielsen interpreta un’insegnante di pianoforte che si innamora follemente, nonostante sia già impegnata con un altro uomo. Questo suo approccio alla recitazione, carico di sensualità e pathos, mostrava qualcosa di completamente nuovo per l’epoca. Tuttavia, per comprendere meglio il fenomeno, dobbiamo trattare del contesto italiano. Il cinema di quel periodo, con i suoi idoli e le sue storie, iniziava a rappresentare un sogno di evasione per il pubblico, offrendo modelli ideali da ammirare e imitare. Con il «cinema in frac» viene a cadere la dimensione interclassista del cinema storico perché era un tipo di cinema che si rivolgeva ad un pubblico borghese - aristocratico e riprendeva i temi simbolisti (rapporto tra amore e morte): in questo genere, la diva rappresentava bellezza e comportamento ideali, creando fenomeni di immedesimazione soprattutto nel pubblico femminile. LYDA BORELLI Emblematica in Italia fu Lyda Borelli, che, con il film «Ma l’amor mio non muore» (1913) di Mario Caserini, fissò i canoni di questo stile recitativo, diventando un modello di riferimento per il pubblico. Le sue movenze fluide, la testa leggermente rivolta verso dietro, e il suo stile erano tanto imitati che nacque il fenomeno del borellismo, e le sue fan (le borelline) emulavano il suo portamento, le sue pose e i suoi gesti. Un esempio emblematico della recitazione di Lyda Borelli è il film «Rapsodia Satanica» di Nino Oxilia, realizzato nel 1915 ma distribuito solo nel 1918 dalla Cines. La trama rappresenta una variante del tema faustiano, una sorta di Faust al femminile: la protagonista, Alba d’Oltrevita, è una nobildonna anziana e malinconica che desidera riottenere la giovinezza e bellezza perdute. Per esaudire questo desiderio, stringe un patto con Mefisto, che le concede la giovinezza in cambio della rinuncia all’amore: Alba deve promettere di non innamorarsi mai più. Inizialmente, Alba accetta il patto con entusiasmo e ritrova la sua bellezza e il piacere di vivere, attirando subito l’attenzione di due giovani fratelli, Sergio e Tristano, che si innamorano di lei. Contravvenendo all’accordo con Mefisto, Alba decide di sposarsi con Sergio. Mefisto, quindi, torna a reclamare il prezzo del tradimento: Alba, ormai sola e disillusa, è costretta a perdere nuovamente la giovinezza, riconsegnando il suo corpo alla vecchiaia e al rimpianto. Nel film, Borelli incarna uno stile recitativo unico, caratterizzato da pose plastiche, movimenti fluttuanti delle braccia e la testa inclinata, che richiamano l’estetica liberty e simbolista, ispirata all’Art Nouveau e alla pittura di Klimt. FRANCESCA BERTINI Lyda Borelli è contrapposta nettamente alla sua contemporanea e rivale Francesca Bertini, il cui stile era più realistico e misurato. Francesca Bertini, celebre soprattutto per il film «Assunta Spina» (1915) di Gustavo Serena, rappresenta l’opposto di «Rapsodia Satanica»: «Assunta Spina» è un’opera di ambientazione verista, una rarità nel cinema dell’epoca, considerato un film anticipatore del neorealismo. Qui, Bertini interpreta una lavandaia napoletana dal carattere fiero, fidanzata con un macellaio geloso che la sfregia al volto per gelosia. Mentre il macellaio finisce in carcere, lei s’innamora di un altro uomo: quando il fidanzato di lei viene sprigionato uccide l’altro uomo, suscitando un’escalation tragica che la porta ad assumersi la responsabilità di un omicidio per amore. In una sequenza in particolare, cioè durante il compleanno di Assunta Spina, le viene fatta una profezia: sul momento, Assunta non da molto peso alla profezia e si diverte insieme agli amici e ai parenti, ma poi pian piano mostra un’inquietudine crescente, che risalta il talento di Bertini nel dare al personaggio intensità e autenticità. Bertini recita con gesti essenziali e una mimica del volto particolarmente espressiva, che anticipano il naturalismo di attrici successive (come Anna Magnani).