Breve Storia Della Grammatica Italiana PDF

Summary

This PDF, titled 'Breve Storia Della Grammatica Italiana', provides an overview of Italian grammar's history. It discusses various types of grammars, analyzes influential works, and highlights key developments in Italian linguistic thought. The detailed examination of different schools of thought within Italian linguistics makes this an invaluable resource in the study of Italian.

Full Transcript

BREVE STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA CAPITOLO 1 – LE GRAMAMTICHE Ci sono due grandi tipologie di grammatica: le grammatiche storiche e le grammatiche descrittive/normative. Le prime si chiamano anche grammatiche diacroniche, le seconde grammatiche sincroniche. Le grammat...

BREVE STORIA DELLA GRAMMATICA ITALIANA CAPITOLO 1 – LE GRAMAMTICHE Ci sono due grandi tipologie di grammatica: le grammatiche storiche e le grammatiche descrittive/normative. Le prime si chiamano anche grammatiche diacroniche, le seconde grammatiche sincroniche. Le grammatiche diacroniche/storiche, sono opere che non si limitano a descrivere lo stato della lingua in quel determinato momento, ma analizzano la sua evoluzione nel corso del tempo. Lo scopo di queste grammatiche è di tracciare la storia degli aspetti morfologici, sintattici e fonetici, che sono gli aspetti che formano la lingua. Questo avviene anche tramite l’individuazione di regole di trasformazione linguistica, come le leggi fonetiche, che riguardano il modo in cui un suono muta nella lingua. Nel caso dell’italiano, l’interesse è rivolto a quei processi che hanno portato alla formazione della nostra lingua partendo dal latino in poi. In ambito italiano l’opera di riferimento è quella di Gerard Rohlfs in tre volumi. L’autore af anca all’analisi dell’evoluzione dell’italiano anche lo studio dei dialetti. Questo grazie alle competenze di dialettologia che Rohlfs acquisì direttamente sul campo. L’opera risulta completa proprio perché non si limita ad analizzare il toscano, ma analizza tutti i dialetti. Il primo libro si apre con una sezione dedicata al vocalismo. Nei primi paragra si discute dell’evoluzione del sistema vocalico italiano e viene spiegato il passaggio dal latino, che aveva un sistema basato sulla quantità, a quello italiano basato sulla qualità. Analizza anche la riduzione delle dieci vocali latine no alle sette italiane. Vengono poi analizzate le differenze del sistema vocalico anche tra le varie parlate italiane, come il sistema sardo o siciliano che sono diversi. Si occupa anche di questioni minute, come la questione degli avverbi “domani” e “crai”, di cui spiega l’origine e l’uso. L’opera di Rohlfs è molto importante ma non è l’unica. Fu preceduta da quella di Meyer-Lubke, i cui studi furono un punto di partenza per Rohlfs, anche se lui ne aggiornò i metodi introducendo la sue ricerca diretta sul campo. Abbiamo poi la grammatica di Pavao Tekavcic, una grammatica più teorica che si concentra maggiormente sull’italiano letterario. Pavao spiega che analizzare i dialetti italiani sarebbe stato troppo dif cile e non avrebbe portato aggiunte al lavoro già fatto da Rohlfs. A partire dagli ultimi anni del XX secolo vennero realizzate anche opere da parte di italiani. La più importante è quella di Arrigo Castellani del 2000, di cui venne realizzato solo il primo volume intitolato Introduzione. Tratta della formazione dell’italiano e dell’in usso che hanno avuto sulla lingua gli elementi germanici e galloromanzi, delle varietà toscane diverse dal orentino, della formazione della prima lingua poetica italiana. È un’opera per specialisti. Un’opera più snella e che non richiede conoscenze speci che è quella di D’Achille. Ci sono poi le opere di Patota e Caratù molto simili e anche quella di Serianni. Le grammatiche sincroniche, al contrario delle diacroniche, descrivono lo stato della lingua in un determinato periodo. Lo scopo è quindi quello di studiare le regole e le caratteristiche della lingua in un determinato momento. Le grammatiche sincroniche possono essere descrittive se si limitano a descrivere le strutture della lingua e normative se invece vogliono presentare un modello di lingua con le eventuali regole da seguire. Spesso i due piano coesistono nella stessa opera in quanto per dare delle regole è anche necessario descrivere una lingua. La consultazione di una semplice grammatica scolastica sarà suf ciente per chiarire dei dubbi, ma ci sono strumenti più approfonditi che si rivolgono agli specialisti. Un posto di rilievo spetta a Serianni, la cui grammatica è riconosciuta come punto di riferimento per chi si occupa di grammatica. Serianni tenta e riesce a conciliare l’aspetto descrittivo e quello normativo. L’obbiettivo dei grammatici e dei linguisti è la descrizione della lingua con i suoi errori, che non vanno condannati ma vanno spiegati e valutati per capirne l’origine. Questo atteggiamento si differenzia da quello dei grammatici del passato che era prevalentemente normativo e rigido. Serianni analizza anche le varie possibilità e alternative che derivano dall’uso di altri registri linguistici più colloquiali. Ad esempio, parlando dell’articolo da usare con il sostantivo “pneumatico”, Serianni da un lato ci informa che l’uso corretto vuole gli articoli lo e uno, dall’altro ci informa che in contesti familiari si usa anche il e un serianni non condanna queste forme ma ci spiega perché vadano evitate. Un altro esempio è l’uso del pronome “ci” usato 1 fi fi fl fi fi fi fi fi come complemento di termine: ci dico, e dice che non è accettabile in quanto appartiene al livello linguistico più popolare. inoltre, nella Grammatica, sono frequenti le notazioni relative agli usi antichi e questo permette all’opera di rivelarsi utile per le ricerche di grammatica storica. Molto importante anche la Grande grammatica di consultazione di Renzi, che non è frutto del lavoro di un solo studioso, ma di un’equipe composta da ben 34 collaboratori. Ciò che più la distingue dalle grammatiche tradizionali è l’impostazione, basata su criteri di tipo linguistico lontani da quelli normativi. Questo porta gli autori a considerare tutte le forme usate nella lingua includendo espressioni considerate scorrette. Espressioni come “a me mi” vengono analizzate per spiegare il perché siano così diffuse. Queste forme vanno comunque distinte da quelle non accettabili grammaticalmente, le quali vengono fatte precedere da un asterisco che ne indica l’inaccettabilità. Bisogna dire sia cosa c’è nella lingua sia cosa non c’è. Anche la struttura è diversa in quanto parte dalla frase per poi passare alle singole parti del discorso secondo un procedimento inverso rispetto a quello tradizionale. Si tratta di una grammatica descrittiva che si muove sul piano della sincronia, ma è uno strumento destinato agli specialisti, infatti si chiama “di consultazione” perché è utile per condurre indagini rigorose. CAPITOLO 2 – STORIA DELLA GRAMMATICA La grammatica non nasce prima delle lingue e prima che abbiano espresso una tradizione letteraria, infatti i grammatici formalizzano e rendono uf ciale quanto in genere si era già affermato in altre vie. La nascita della grammatica in Italia è legata alla letteratura e all’affermazione dei tra grandi trecentisti, Dante, Petrarca e Boccaccio. Il volgare acquisì dignità proprio grazie all’uso che ne fecero loro. Tale situazione determinò l’esigenza di ssare le regole sulle quali la nuova lingua si reggeva. Non tutti la pensavano però allo stesso modo, infatti c’era chi intendeva rivalutare il ruolo del toscano parlato senza fare riferimento alla lingua letteraria. Tante diverse posizioni diedero luogo a vivaci dibattiti e alla pubblicazione di opere di argomento grammaticale. Le grammatiche hanno un ruolo fondamentale nel portare avanti la questione della lingua, ma non sono gli unici strumenti. Il campo di indagine della storia della lingua è proprio il succedersi di queste proposte dei grammatici. Inoltre, no al nascente interesse per la prospettiva storica e no alle moderne realizzazioni nel Novecento e nel Duemila, la storia della grammatica è una storia di grammatiche sincroniche e normative, anche se non si possono comunque dare le regole di una lingua senza prima descriverla. La differenza tra l’atteggiamento degli antichi grammatici e quelli moderni è molto profonda: i grammatici antichi avevano un atteggiamento troppo rigido che spesso era la manifestazione delle proprie preferenze personali. I grammatici moderni mirano a descrivere ogni aspetto della lingua senza condannare certe scelte. Questa mentalità venne comunque acquisita molto lentamente: una storia della grammatica deve tenerne conto sia dal punto di vista metodologico sia per non risolversi in un arido elenco di opere e di altri fattori. Questo è il rischio da cui Renzi mette in guardia. Lui ci dice che le storie delle grammatiche riescono raramente bene perché i loro autori trovano spesso dif cile rilevare le differenze tecniche più minute tra un’opera e l’altra, con il rischio di realizzare un’opera che è il presupposto allo studio di una grammatica che lo studio stesso. La storia della grammatica non è fatta solo di opere grammaticali, ma si esprime anche in trattati di altro tipo come quelli incentrati sulla logica o sulla retorica. Un settore che oggi fa parte della grammatica è la sintassi, ma una volta veniva considerata di pertinenza della retorica, e i grammatici iniziarono a occuparsene solo nell’Ottocento. Lodovico Dolce testimonia questo atteggiamento in quanto disse che dell’ordine delle parole non si occupa il Grammatico ma il Retore. Allo stesso modo si occuparono di questioni grammaticali anche gli autori di trattati sulla punteggiatura così come gli autori di opere loso che. Inoltre, se si prende in considerazione la produzione didattica ottocentesca, si può notare che è formata da opere non di grammatica, ma di prontuari concentrati sulla pronuncia, sull’ortogra a. CIRO TRABALZA E L’EDERITA’ CROCIANA: Trabalza realizzò la Storia della grammatica italiana, l’unico manuale che ad oggi tratta la storia della grammatica in Italia in maniera completa e organica a partire dalle origini quattrocentesche 2 fi fi fi fi fi fi fi fi no alla seconda metà dell’Ottocento. Il lungo arco di tempo trascorso dalla sua realizzazione lo rende però ormai insuf ciente alle esigenze moderne. Si possono trovare al suo interno anche dei giudizi poco oggettivi che si esprimono anche con ferme condanne, che però non scaturiscono da una analisi profonda dei testi in quesitone. È il caso della sentenza che colpisce la Grammatica ragionata di Soave ritenuta di scarso valore in quanto prodotta da un ingegno super ciale. Le parole che Trabalza rivolge al Soave permettono di individuare anche un altro difetto di metodo: Trabalza dimostra di non aver letto la prima edizione dell’opera, datata 1771, ma basa le sue conclusioni sulla lettura di ristampe successive a cui furono apportate modi che dagli editori. Nonostante questi difetti, il lavoro di Trabalza è molto importante per la quantità dei dati e degli spunti che offre, ma è semplicemente frutto di un’altra epoca segnata in particolare dal pensiero del losofo Croce, il quale considerava la grammatica come una materia avente nalità esclusivamente didattiche, non degna di essere considerata una scienza. Per questo il compito di Trabalza era problematico, in quanto doveva scrivere la storia di qualcosa che era considerata di poco valore, e infatti cerca di giusti care le sue scelte nell’Introduzione, seguendo il pensiero di Croce. Secondo Croce la grammatica esiste solo nelle sue realizzazioni concrete e non come scienza autonoma, quindi grammatica e letteratura sono inseparabili. Secondo questa visione, le categorie grammaticali non servono perché per fornirci del materiale linguistico basta ascoltare chi parla e leggere chi scrive. Questi sono i motivi che rendono la Storia della grammatica uno strumento inadeguato alle esigenze moderne. L’assenza di un manuale aggiornato rende molto preziosi gli studi e gli articoli scritti da studiosi contemporanei che trattano la storia della grammatica nel suo complesso, dalle origini a oggi. Importante è l’articolo della studiosa Teresa Poggi Salani, il cui nucleo centrale è un breve excursus sulle principali grammatiche dell’italiano dal Quattrocento no al Novecento, completato da un’indagine su alcuni casi concreti grazie a cui è possibile individuare alcuni dei caratteri dell’evoluzione della norma grammaticale attraverso i secoli. Dagli esempi presi in esame si può constatare che pur nella sostanziale conservatività della grammatica attraverso i secoli, esiste una lenta e graduale evoluzione. La base della grammatica di oggi non è molto diversa da quella delle origini salvo alcune differenze di carattere lessicale e sintattico. GIUSEPPE PATOTA: un’impostazione diversa è quella scelta da Patota nei suoi Percorsi grammaticali. Il suo intento è quello di ricostruire l’evoluzione della norma grammaticale e della sua descrizione come prodotto dei grandi movimenti del pensiero. I singoli testi presi in esame sono le realizzazioni concrete nelle quali si manifestarono gli atteggiamenti prevalenti nei vari percorsi discussi. Il percorso iniziale, dedicato alla Grammatica degli umanisti, delinea uno scenario in cui la norma è fortemente legata alla presentazione di un modello linguistico e letterario fondato sulla lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio. Questa tendenza si manifestò nelle opere gramamticali di Bembo e Fortunio. Secondo la ricostruzioni di Patota, solo con la grammatica di Buommattei si veri cò una svolta, in quanto Bembo si concentrò su fattori stilistici, Buommattei tentò di conciliare quegli autori e l’uso moderno. Patota ha scelto di toccare i momenti più importanti e le opere più signi cative senza trascurare casi concreti di prassi grammaticale. Utile è Grammaticogra a di Ilaria Bonomi, un sintetico e puntuale pro lo storico della grammaticogra a italiana che non si limita a esaminarne la produzione grammaticale, ma esamina anche i problemi relativi alla didattica dell’italiano. Un’altra opera importante è il IV volume dell’opera collettiva Storia dell’italiano scritto di Giuseppe Antonelli, Motolese, Tomasin intitolato Grammatiche. non è un pro lo storico delle opere grammaticali in quanto adotta un’impostazione non cronologica, ma è importante per tracciare l’evoluzione della materia. L’impostazione cronologica prevale in alcuni capitoli, ma il grosso della trattazione predilige un approccio per contenuti grammaticali come le parti del discorso, e ciò si vede anche dal titolo dei diversi capitoli: Punteggiatura, Gra a e pronuncia, Pronome e articolo, Verbo, La frase semplice. Si presta attenzione a questioni di natura teorica e con approfondimenti puntuali e mirati su alcuni temi, come le oscillazioni terminologiche nella classi cazione dei tempi verbali, o il caso delle vocali aperte e chiuse. 3 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi Altri testi non dedicati esclusivamente alla storia della grammatica sono i principali manuali di storia della lingua italiana, come quello di Migliorini e Marazzini, i volumi della collana diretta da Francesco Bruni, ciascuno dei quali af dato a noti studiosi come Luca Serianni. In questi volumi sono presenti dei paragra dedicati alla storia della grammatica che permettono di aggiornare il Trabalza e di inserire l’evoluzione delle vicende grammaticali nel tema ampio della questione della lingua. Bisogna anche considerare le informazioni ricavabili dagli strumenti elettronici, come l’iniziativa dell’Accademia della Crusca, La Fabbrica dell’italiano, in cui si possono consultare le banche dati di oltre duemila dizionari e di quasi quattrocento grammatiche possedute dall’Accademia. Tutto ciò è molto utile per avere un quadro generale riguardo a una certa opera. Si possono anche sfogliare virtualmente le pagine digitalizzate. CAPITOLO 3 – IL QUATTROCENTO Fino a buona parte del Quattrocento, i dotti consideravano il volgare inferiore al latino. L’affermazione del volgare in Italia fu un processo lento e graduale e solo durante la prima metà del Cinquecento la nuova lingua venne accettata all’unanimità (quasi) dai dotti. Il latino era considerato la lingua della letteratura e la lingua grammaticale per eccellenza. Esemplare è il caso del Petrarca, che era solito scrivere in latino ma che compose la sua opera più celebra in volgare. Per lui era un raf nato divertimento poetico, infatti la lingua più familiare al Petrarca era il latino, in cui aveva scritto anche degli appunti e delle postille in un codice manoscritto del Canzoniere. In latino è anche il titolo originale dell’opera. Il progetto di promuovere l’uso del volgare non interessava a Petrarca, e in questo sta la sostanziale differenza tra lui e Dante, il quale con la sua Commedia voleva dimostrare le in nite possibilità della nuova lingua, il sole nuovo destinato a prendere il posto del latino. Dante è il primo grande teorico del volgare, a cui dedicò il De vulgari eloquentia, opera che non ebbe però in uenza nel dibattito dell’epoca in quanto riscoperto solo nel Cinquecento. La scelta di Petrarca di af dare i suoi messaggi più importanti al latino ebbe come effetto uno screditamento del volgare da parte dei dotti, che non lo consideravano un mezzo di espressione valido dal punto di vista letterario, quanto piuttosto nell’uso pratico. Nell’età dell’Umanesimo l’opinione comune era che il volgare fosse accettabile nelle scritture pratiche e d’affari, mentre il latino era la lingua giusta per tramandare nei secoli quel patrimonio culturale costituito dagli autori latini. Venne dunque seguito l’esempio di Petrarca, e vennero imitati lo stile e la lingua degli stessi latini. Si tratta del principio di imitazione per cui quando esistono dei modelli di lingua e stile assoluti, è indispensabile imitarli se si vuole raggiungere l’immortalità letteraria. Nel Cinquecento questo principio, trasferito dal latino al volgare, fu alla base degli sviluppi della nostra letteratura e grammatica. Per buona parte del Quattrocento, le discussioni tra i dotti confermano che al volgare era ancora dato scarso rilievo, tanto che venne preso in considerazione in relazione a dibattiti incentrati su altre problematiche. È il caso di Biondo Flavio e Leonardo Bruni che, preoccupati di stabilire le cause del crollo della romanità, si dedicarono anche a questioni di tipo linguistico. Secondo Biondo Flavio, la lingua diffusa a Roma si corruppe e si contaminò a causa delle invasioni barbariche dando origine all’italiano, e questa teoria connota la nascita del volgare in maniera negativa. Secondo Leonardo Bruni, invece, già nell’antica Roma esistevano due tipologie di latino, una tipologia alta e propria dei dotti e una più popolare e bassa. Da questa seconda tipologia si sarebbe sviluppato il volgare. La posizione di Bruni è più vicina a quelle della modernità, che identi cano nel latino volgare la lingua da cui hanno avuto origine le lingue romanze. Ma nel Cinquecento è la posizione del Biondo che ebbe maggiore successo e venne poi abbracciata da Bembo. Il dibattito tra il Biondo e il Bruni in uenzò sulla realizzazione della prima grammatica del volgare. La posizione del Bruni, che ipotizzava la presenza di due livelli della lingua, agli occhi degli umanisti implicava la non grammaticalità del volgare. La posizione di Biondo Flavio invece aveva come necessaria conseguenza l’ammissione della grammaticalità in quanto derivante dal latino classico. Su questo punto si concentrarono gli sforzi di Leon Battista Alberti per promuovere il volgare nel Quattrocento. L’Alberti partecipò al dibattito e cerò di promuovere la nuova lingua in molti modi, anche organizzando delle gare di poesia in volgare, il Certamen coronario, proprio per dimostrare che il volgare era una lingua suf ciente. Egli per il 4 fi fi fi fl fi fi fi fi fl suo impegno viene considerato l’iniziatore dell’Umanesimo volgare, movimento che si sviluppò nella corte di Lorenzo de’ Medici e che vede l’appoggio di gure come il Landino o il Poliziano. L’impegno dell’Alberti fu molto importante dal punto di vista teorico: nel 1437 nel III libro del trattato Della famiglia riprende le posizioni di Biondo Flavio sostenendo che il latino stesso avesse mostrato al volgare la via da seguire. Benché nato dalla corruzione della barbarie, il latino poteva comunque riscattarsi e diventare una lingua di rilievo. È per questo che l’Alberti realizza la Grammatichetta, per dimostrare agli occhi dei dotti che anche il volgare si fondava su delle regole e strutture ben de nite. L’opera dell’Alberti è la prima grammatica di una lingua volgare a livello europeo, ma rimase sconosciuta perché non venne pubblicata. Una copia era nelle mani di Bembo, ma egli non aveva interesse nel diffonderlo per non ammettere di essere stato preceduto nella realizzazione di una grammatica del volgare. La prima edizione dell’opera si ebbe nel Novecento, quando Trabalza la citò nella sua Storia della grammatica. La sua iniziativa ebbe il merito di destare interesse sull’operetta. Ne venne discussa a lungo la paternità e intorno agli anni Sessanta si dimostrò che l’autore era l’Alberti, poi venne affrontato il problema della datazione (1437-1441) che dimostra il notevole anticipo sulle altre grammatiche. La frase iniziale della Grammatichetta è rivolta a quegli studiosi che, come il Bruni, sostenevano che il latino fosse anticamente parlato solo dai dotti. L’intento dell’Alberti è la dimostrazione che questa teoria si basa su un errore, in quanto è possibile individuare delle precise regole grammaticali anche per il volgare, così come hanno fatti i latini per le loro lingue. Il confronto con le lingue classiche merita particolare attenzione: i primi grammatici del volgare non avevano nessun modello a disposizione per scrivere una grammatica. I modelli andavano ricercati in altre tradizioni e la più vicina era quella latina. Nella storia della nostra grammatica c’è la particolarità che nessun autore può sottrarsi al confronto con il latino e spesso la storia della grammatica coincide con il tentativo di adeguamento degli schemi preesistenti alle nuove esigenze. Nel caso della Grammatichetta il legame con la tradizione latina è molto stretto per svariati punti di vista: la materia è divisa per parti del discorso e le parti individuate dall’Alberti sono sette: N, Pn, V, Pp, Av, I, C. l’articolo non viene mai discusso probabilmente perché è un elemento proprio del volgare e assente dal latino. Gli elementi nuovi propri del volgare erano spesso fonte di dubbi e incertezze e questo provocava una profonda dif coltà di codi cazione. L’Alberti segue qui il modello di Prisciano anche se la dipendenza non è assoluta. Un altro legame con la grammatica latina è la terminologia: l’Alberti usa termini molto simili ai corrispettivi latini come nel caso del numero, del genere, il cui uso era comunque già diffuso a partire dal Duecento. Molti altri termini hanno un antecedente proprio nelle Istitutiones di Prisciano, ad esempio adverbio per avverbio, coniunctione per congiunzione. L’adesione a una terminologia di derivazione latina fa apparire l’Alberti vicino al nostro uso odierno, e questo accade perché l’aderenza alla terminologia latina prevalse nel corso dei secoli. L’Alberti inoltre aveva come scopo principale di dimostrare che tali regole esistevano nella lingua, quindi semplicemente tradusse a adattò al volgare ciò che era proprio del latino. Va tuttavia precisato che in certi passi della Grammatichetta l’Alberti si limitò ad accogliere passivamente quanto gli veniva offerto dalla tradizione. Se la Grammatichetta, per quanto strettamente legata alla tradizione latina, da un lato era una notevole eccezione nel panorama della grammatica del volgare. Le grammatiche del Cinquecento erano infatti tutte basate solo sulla lingua degli autori che prendevano a modello e fanno quindi un ampio uso di citazioni testuali. Nella Grammatichetta non ci sono invece delle citazioni d’autore in quanto lui non descrive un modello di lingua letteraria, ma prende come modello la lingua viva in uso presso i parlanti colti orentini. Adattare gli schemi della lingua latina alla lingua volgare è uno dei punti più problematici che i primi grammatici dovettero affrontare. Un esempio è il determinare il numero delle coniugazioni. In questo caso la dif coltà è data anche dal fatto che la tradizione latina non forniva un unico modello: Prisciano quattro coniugazioni, Diomede, Donato e Carisio tre. Alberti invece individua due coniugazioni. 5 fi fi fi fi fi fi Il peso della tradizione grammaticale latina è evidente per quanto riguarda la distinzione del congiuntivo, in quanto nella Grammatichetta persiste la distinzione tra optativo e subenctivo. Il riconoscimento dell’autonomia del condizionale rispetto al congiuntivo è uno dei nodi cruciali in quanto si tratta di un modo verbale proprio del volgare. Alberti è uno dei pochi grammatici a distinguere il condizionale dal congiuntivo, le forme ammesse dall’Alberti sono lui e lei e non egli ed ella in funzione di soggetto, e questo si spiega perché è un uso della lingua viva di Firenze. Inoltre, la tradizione latina considerava l’aggettivo una sottoclasse del nome, dunque i grammatici latini usavano le espressioni nomen substantivum e nomen adiectivum. L’Alberti parla indistintamente di nomi per identi care sia i sostantivi che gli aggettivi. CAPITOLO 4 – IL CINQUECENTO Il Cinquecento fu un secolo decisivo per lo sviluppo della grammatica dell’italiano. A in uire sulle posizioni dei grammatici fu soprattutto l’ammirazione per la lingua e lo stile di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma anche lo sviluppo dell’arte tipogra ca. FORTUNIO E BEMBO: dopo il tentativo da parte dell’Alberti, la pubblicazione di altre opere grammaticali avvenne solo agli inizi del Cinquecento, quando il volgare aveva ormai raggiunto la propria maturità. Le opere che vengono realizzate sono scritte dai dotti per i dotti stessi, nalizzate a perfezionare l’uso del volgare letterario per insegnarlo a chi ancora non lo conosceva. La prima grammatica dell’italiano a essere stampata uscì con il titolo di Regole grammaticali della volgar lingua, nel 1516 e scritta da Giovanni Fortunio. L’opera è il tentativo di individuare le regole grammaticali che stanno alla base della lingua usata dai grandi trecentisti, in quanto è impensabile, secondo Fortunio, che avessero scritto i loro capolavori privi di norme. Il metodo di Fortunio consiste inizialmente nella lettura dei testi presi a modello e poi da un lavoro di schedatura. L’opera è quindi costruita ricorrendo molto spesso alle citazioni testuali delle Tre Corone. Le regole sono composte da due libri dedicati alla morfologia e all’ortogra a, anche se era nelle intenzioni dell’autore realizzarne cinque. Morì prima di poterli realizzare, nel 1517. Il primo libro si richiama alla tradizione grammaticale latina e riprende Prisciano, sempli candone gli schemi e riducendo le parti del discorso a quattro, che però presenta seguendo l’ordine di Donato: nomi, pronomi, verbi e avverbi. Ogni singola parte si suddivide secondo regole generali, le quali vengono poi discusse attraverso gli esempi d’autore. il problema di un metodo del genere è il suo approccio lologico tipicamente umanista, con conseguente presenza di molte eccezioni che mettono in dubbio la validità delle stesse regole. Un esempio è il caso del pronome lui/lei in funzione di soggetto: ne esclude la validità, ma deve anche sottolineare le eccezioni presenti nei testi dei singoli autori. Essendo il suo scopo quello di dimostrare la validità delle regole, Fortunio demolisce le interpretazioni precedenti dei passi fatte da altri studiosi, ricorrendo a ogni metodo. Il secondo libro, la cui fonte principale è il De orthographia di Giovanni Tortelli che si apre anch’esso con una serie di regole generali con cui Fortunio cerca di classifciare l’ortogra a del volgare. Ad esempio, la seconda regola descrive il passaggio dei nessi latini come bt, ct, dt, pt > tt. Segue anche una parte molto ampia dedicata alle consonanti, e l’attenzione si concentra soprattutto sulle geminazioni (il raddoppiamento). Fortunio si mostra in generale molto attento ai fenomeni che differenziano il volgare dal latino. Anche la terminologia grammaticale adottata dal Fortunio è legata alla terminologia classica, anche se presenta numerose oscillazioni: il caso del numero singulare/plurale ma anche numero del più/numero del meno; per il genere abbiamo maschile/feminile e di maschio/di femina, ma non abbiamo mai la coppia masculino/feminino. L’in uenza della tradizione grammaticale latina, sia classica che umanistica, viene mitigata dalla volontà di dare all’opera una propria originalità. Le Regole di Fortunio furono un grande successo editoriale, infatti dal 1517 al 1562 ne furono stampate venti edizioni, e ancora nel 1643 le Regole si trovano stampate in un’altra raccolta veneziana. Da questo si deduce che la pubblicazione delle Prose di Bembo non ebbe un’in uenza negativa sulla diffusione della sua opera. Inoltre, grazie ai vari esempi, la grammatica di Fortunio è facilmente fruibile. 6 fl fl fi fi fi fi fl fi fi fi Pietro Bembo fu il massimo teorico del classicismo volgare e aveva elaborato la teoria dell’imitazione in riferimento alla lingua latina, ssando come modelli Cicerone e Virgilio. Nelle Prose applicò questa teoria al volgare, identi cando nella lingua di Boccaccio e Petrarca il modello da imitare. Sulla lingua di Dante, Bembo espresse una riserva data dalla constatazione che nella Commedia c’era spesso l’uso di un linguaggio crudo e realistico. Anche la lingua di Boccaccio non andava presa tutta allo stesso modo: quella migliore si trovava nelle parti discorsive del Decameron in cui è presente la voce narrante del prosatore, e non nei dialoghi in cui abbondano le espressioni popolari. La sostituzione della coppia di autori latini con la coppia di autori volgari è decisiva per gli sviluppi della nostra storia linguistica. moltissimi furono gli scrittori che si adeguarono al Bembo, primo fra tutti Ariosto, che riscrisse l’Orlando furioso per adattarlo alla lingua da lui codi cata. La teoria di Bembo provocò però la cristallizzazione della lingua letteraria nel passato trecentesco, bloccandone lo sviluppo. Tuttavia, fu la teoria vincitrice del dibattito sulla lingua proprio per questo motivo, perché ssare i modelli della lingua non lasciava spazio a dubbi. Le prose della volgar lingua sono la conclusione di un percorso impegnativo di Bembo, che svolse sia dal punto di vista teorico che pratico, grazie alla collaborazione con Aldo Manuzio che portò anche alla realizzazione di un’edizione del Canzoniere di Petrarca e della Commedia dantesca. Anni dopo uscì invece gli Asolani riguardo la lingua di Boccaccio. Le Prose sono scritte sottoforma di dialogo che avviene tra quattro personaggi, ognuno rappresentante di una teoria linguistica differente: Giuliano de’ Medici era rappresentante dell’Umanesimo volgare, Fregoso delle testi storiche, Strozzi era difensore del latino e Carlo Bembo, suo fratello, si fa portavoce delle sue idee. Le Prose sono divise in tre libri di cui i primi due si occupano di questioni teoriche (appoggia la teoria di Biondo Flavio), mentre il terzo libro è un vero e proprio manuale di grammatica molto più complesso rispetto alle Regole di Fortunio. In queste pagine troviamo un elenco ordinato di regole enunciate attraverso il dialogo tra i protagonisti. La divisione della materia non è di conseguenza rigida e non indugia sulle classi cazioni della grammatica latina. Bembo non vuole dare l’impressione di aver scritto un manuale di grammatica, e molto spesso le categorie del discorso vengono introdotte da perifrasi: i nomi diventano allora “voci che in vece di nomi si pongono”. Quando non ricorre alle perifrasi, Bembo cerca comunque di allontanarsi dalla tradizione latina. Tuttavia, questa prassi, insieme all’assenza di schemi e di classi cazioni rigide, è alla base dei dubbi e delle incertezze che gli studiosi hanno avuto nel classi care con precisione le parti del discorso descritte da Bembo. Dovrebbero essere sei parti: N, Ar, Pn, V, Pt, Av. Anche se alcune categorie non vengono incasellate con precisione in uno schema, non è detto che Bembo non la tratti. Alcuni pensano infatti che Bembo non distingua dal congiuntivo al condizionale, altri che lo consideri un sottotipo del congiuntivo, ma nonostante il passo delle Prose possa essere soggetto a diverse interpretazioni, sembra evidente che Bembo sia certo della differenza tra i due. In conclusione, la rinuncia al tecnicismo grammaticale, nelle Prose, non è segno di approssimazione, ma è una scelta funzionale all’obbiettivo perseguito. Le grammatiche di Fortunio e Bembo, fondate sull’uso degli autori, sono la dimostrazione del legame tra lingua e letteratura che caratterizza la nostra cultura. Ma anche i primi vocabolari dell’italiano nascono dal culto degli autori: grammatica e dizionari hanno percorsi molto simili. Se da un lato le grammatiche teorizzano una lingua modellata sugli scritti delle tre corone, dall’altro i primi vocabolari si con gurano come un vero e proprio repertorio della loro lingua. Uno dei primi risultati concreti è il primo vocabolario monolingue del volgare italiano ed è Le tre fontane di Messer Niccolò Liburnio, in cui vengono presi a modello i tre grandi autori. Dante, Petrarca e Boccaccio sono i punti di riferimento per chiunque voglia scrivere con ambizioni letterarie. Lo sviluppo della lessicogra a degli anni seguenti conferma questa tendenza. Va notato inoltre che spesso le gure di grammatico e di compilatore di vocabolario coincidono. Il Cinquecento è caratterizzato da una produzione grammaticale copiosa in cui possiamo individuare tre linee di tendenza principali. Abbiamo la linea inaugurata da Fortunio e Bembo, la più seguita e imitata da tanti grammatici. Tra le opere di questo lone abbiamo il Vocabolario, grammatica et orthographia de la lingua volgare di Acarisio. Appartengono a questo lone anche le Regole grammaticali di Giacomo Gabriele, un testo breve scritto in forma dialogica. Verso la metà del secolo si incontrano due tra le grammatiche più interessanti di questo periodo, i Fondamenti del parlare thoscano di Rinaldo Corso e 7 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi le Osservationi nella volgar lingua di Lodovico Dolce. L’opera di Corso è una grammatica molto estesa e completa che fa grande riferimento alle citazioni d’autore. Le Osservationi di Dolce sono una delle grammatiche più importanti del Cinquecento: descrive il toscano letterario ma allarga il canone di Bembo introducendo anche autori come Sannazaro e Ariosto. L’opera ha un’impronta principalmente didattica ed è divisa in quattro libri. Le parti del discorso occupano il primo libro, l’ortogra a il secondo. Sono presenti anche alcuni cenni di sintassi e metrica, trattata nel quarto libro, e per l’interpunzione che viene trattata nel terzo. Anche i Commentarii della lingua italiana di Ruscelli sono importanti, anche se condizionati da Bembo. In generale tutti questi autori si adattano alla terminologia latina, a differenza di Bembo. La seconda linea è quella inaugurata con la Grammatichetta del Trissino, uno dei primi a opporsi alla posizione di Bembo e la cui posizione viene de nita “italiana”. Lui non vede nella lingua delle Tre Corone un esempio da seguire, sostenendo che persino lo stesso Petrarca avesse attinto da volgari differenti, e la sua posizione è legata alla riscoperta del De vulgari eloquentia. Nel De vulgari, Dante aveva cercato di individuare i tratti del volgare illustre, giungendo alla conclusione che nessuno di questi tratti fosse presente nei volgari italiani, tanto meno nel toscano. Dante stabilì che questa lingua dovesse essere costruita attingendo dalle caratteristiche migliori di ognuno di quelli. Trissino pensava che Dante avesse seguito questo principio nella composizione della Commedia. Dal punto di vista grammaticale, la Grammatichetta del Trissino si pone come il capostipite di un nuovo modo di intendere la grammatica: c’è una maggiore adesione agli schemi della grammatica latina, che comporta la tendenza a suddividere le categorie oggetto della trattazione secondo schemi più articolati rispetto a quelli adottati da Fortunio e Bembo. Questa scelta ha delle conseguenze sul piano della terminologia tecnica, in quanto porta ad avere termini molto vicini ai grammatici latini, come: masculino/feminino, singulare/plurale, apostropho, acuto, grave, circun exo. Oltre a questa caratteristica, la Grammatichetta ha pochissimi riferimenti d’autore perché la lingua descritta è quella che chiama “italiana” o “comune”, e non presenta modelli concreti. Dopo Trissino altri grammatici scelsero la via della classi cazione, come Carlino, autore della Grammatica volgar dell’Atheneo, che contiene solo il Ragionamento primo, sul nome, scritta in forma dialogica. A quest’opera si ispirò Gaetano Tizzone, che scrisse La grammatica volgare, ma sentì il bisogno di mitigare l’aspetto classi catorio del predecessore. Un dato interessante è che tutti i grammatici del volgare di questo lone seguirono generalmente la teoria trissiniana della lingua comune/italiana e non il modello proposto da Bembo. Ciò avvenne perché la lingua che tentarono di descrivere è sfuggente e non ben de nita, dunque il ricorso a una classi cazione maggiore esprime il bisogno di avere dei punti di riferimento. La terza linea è quella orentina. La maggior parte delle grammatiche erano inizialmente prodotte e stampate fuori dalla Toscana, specialmente a Venezia, a Roma, a Napoli, ad Ancona, e da studiosi non toscani. Questo perché gli intellettuali orentini non avvertirono la necessità di trovare le regole di una lingua che già conoscevano naturalmente per nascita. La terza linea della grammaticogra a cinquecentesca cerca di promuovere l’autorità della lingua viva di Firenze. La prima grammatica a essere stampata a Firenze fu quella di Pierfrancesco Giambullari, mentre la prima scritta da un orentino è le Regole osservanze et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare toscana di Paolo Del Rosso. Egli era un letterato orentino che si oppose ai Medici e che venne quindi condannato all’esilio. Era molto interessato a questioni di pronuncia, come la distinzione tra vocali aperte e chiuse nella parlata orentina, caratteristica propria della Toscana. Il tentativo più completo di scrivere una grammatica a Firenze fu quello di Pierfrancesco Giambullari con le Regole della lingua orentina. L’opera non ebbe il successo sperato e il suo intento non era quello di rivolgersi agli studiosi, ma ai giovanetti e ai forestieri. Questo suo intento spiega anche la struttura dell’opera che risponde a nalità di tipo didattico e presenta una ordinata divisione della materia in regole. contiene inoltre anche delle novità, come quattro libri interamente dedicati alla sintassi, chiamata “costruzzione” e due sulle gure retoriche. L’interesse per la sintassi fa della grammatica di Giambullari un caso unico. Presenta anche delle innovazioni terminologiche, soprattutto quando vengono discusse le gure retoriche: levinmezzo: sincope, levinnanzi: aferesi, troppodire: iperbole. La lingua è quella dell’uso vivo delle persone colte di Firenze, af ancata da quella delle Tre Corone. 8 fi fl fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi Nei diversi paesi europei, le prime grammatiche del volgare nascono con caratteristiche proprie che le distinguono l’una dall’altra. Queste caratteristiche derivano dalla naturale diversità delle lingue e sono il ri esso delle diverse situazioni storico- culturali presenti nei singoli paesi: in Italia in mancanza di uno stato unitario, la grammatica nasce slegata dal contesto politico ma immersa in un contesto letterario. La prima grammatica della lingua volgare a essere stampata fu quella dello spagnolo, la Grammatica de la lengua castellana di Antonio de Nebrija pubblicata nel 1492. In Spagna lo stato politico era unitario e la norma gra ca era piuttosto stabile e la grammatica prese subito piede lasciando in secondo piano la letteratura e legandosi al contesto politico. In Francia, invece, emergeva il ruolo dominante della corte monarchica nazionale e la situazione linguistica era caratterizzata da un forte divario tra gra a e pronuncia. Tra i primi grammatici ricordiamo Louis Megret con il Trettè de la grammere françoeze. Gli sforzi dei primi grammatici furono indirizzati a superare il problema ortogra co. Le nostre prime grammatiche nacquero in risposta a esigenze stilistico-letterarie ed erano quindi estranee a scopi didattici perché il volgare non era ancora insegnato nelle scuole. Per trovare grammatiche con scopo didattico bisogna rivolgersi all’ambito dell’insegnamento dell’italiano per gli stranieri. Si avviò all’estero una produzione di grammatiche pensate per questo pubblico, ma il problema principale era quello di dover trovare una lingua da proporre, in quanto non esisteva una vera lingua italiana di comunicazione, quanto piuttosto una lingua di cultura, letteraria. Il modello più seguito fu quello offerto dalle Prose di Bembo e dalla lingua delle Tre Corone. I grammatici più in uenti all’estero furono quelli che seguirono la linea di Fortunio e Bembo. LA NORMA Nel corso del Cinquecento si è prodotto un parziale staccamento tra la questione della lingua e il modo di scrivere la grammatica: da un lato il classicismo volgare di Bembo trionfò, dall’altro il suo modo di scrivere la grammatica fu soppiantato dall’atteggiamento opposto che portò i grammatici ad avvicinarsi gradualmente alla tradizione grammaticale latina. La via della tradizione latina era più sicura e conveniente, anche la terminologia risentì di questo in usso. I grammatici cinquecenteschi seguirono due vie principali per quanto riguarda il numero delle coniugazioni: Fortunio, Gabriele e Dolce individuano solo due coniugazioni in -a e in -e sulla base della terza persona singolare, mentre glia altri ne individuano quattro sulla base dell’in nito: -are, -ére, -ere, -ire. Si distinguono il Trissino con tre coniugazioni in -are, -ere, -ire, e il Giambullari con cinque coniugazioni, aggiungendo i verbi in -rre come porre. Per il congiuntivo, quasi tutti i grammatici distinguono tra desiderativo o ottativo e congiuntivo o soggiuntivo, che segue un criterio semantico più che morfologico, giacché le forme sono quasi sempre le stesse per entrambi i modi. La distinzione è assente a livello di etichetta in Bembo e Del Rosso che ricorrono alla perifrasi. Per il condizionale, Fortunio pone congiuntivo e condizionale sotto il termine di soggiontivo/soggiuntivo considerando insieme le voci del condizionale presente con quelle del congiuntivo imperfetto. Lo stesso fanno Acarisio, Del Rosso, Dolce e San Martino. Tizzone classi ca i due modi con il termine ottativo, ma è più aperto verso una possibile distinzione assegnando al condizionale presente un tempo speci co etichettato come un altro futuro che ha del presente. Una scelta analoga è quella di Giambullari che pone il condizionale sotto temi a sé stanti sia all’interno del desiderativo (amerei, avrei amato), sia all’interno del soggiuntivo (amerei). Bambo anche in questo caso ricorre alla perifrasi ed è uno dei grammatici che riesce meglio a spiegare e a identi care il condizionale rispetto al congiuntivo. Riuscirono a identi care il condizionale anche Trissino, con il termine redditivo in opposizione a soggiontivo, e Corso, che ricorre invece all’opposizione tra conditionale e congiontivo. Egli si mostra ben conscio dell’autonomia del primo che etichetta come tempo sciolto, anche se nisce per collocarlo sotto il modo dimostrativo. Per quanto riguarda la prima persona dell’indicativo imperfetto, la maggior parte dei grammatici è concorde nell’ammettere la sola forma in -a piuttosto che la forma in -o che aveva iniziato a diffondersi nel orentino all’inizio del Quattrocento. Non tuti gli autori si comportano allo stesso modo: Bembo non prende nemmeno in considerazione la forma alternativa. Altri 9 fi fi fi fi fi fi fi fl fi fl fi fi fl come Fortunio e Ruscelli preferiscono comunque menzionarla per precisare che si tratta di una forma da non utilizzare in quanto non supportata dai grandi autori. Una apertura maggiore nei confronti della forma in -o avviene solo con Del Rosso e Giambullari. La forma in -o era infatti propria della parlata viva di Firenze. Per quanto riguarda l’uso di lei/lui in funzione di soggetto, sono tutti concordi ad affermare che si possano usare solo nei casi obliqui. Le eccezioni vanno ricondotte tutte alla norma, così fa Bembo. Ma non tutti concordano: Giambullari nota semplicemente che l’uso poetico non rispetta sempre la norma. Del Rosso ricorda che Dante e Sannazaro pure usarono la forma lui/lei e Trissino ammette l’uso di lei/lui nei casi retti rarissime volte. Matteo di San Martino si spinge contro la regola di Bembo in esplicita polemica, sulla base di in nite autorità che proverebbero la debolezza per la prescrizione. In conclusione, l’apertura verso la forma meno tradizionale è solo occasionale. Inoltre, nessun grammatico assegna autonomia all’aggettivo, che in linea con la tradizione latina è considerato una sottoclasse del nome. Persiste la denominazione di nome aggettivo. Molti grammatici non si soffermano sulla distinzione degli aggettivi in classi o categorie. CAPITOLO 5 – IL SEICENTO Anche nel Seicento le sorti della grammatica italiana furono legate al culto degli autori. In questo secolo venne realizzato il Vocabolario degli Accademici della Crusca. La prima edizione venne stampata a Venezia nel 1612. L’Accademia aveva sede a Firenze e la scelta di stampare a Venezia fu dettata da esigenze economiche. L’Accademia era un’associazione privata e dovette quindi auto nanziarsi. I criteri di compilazione furono in uenzati dalle idee di Salviati, morto nel 1589, che aveva preso posizione nella questione della lingua con gli Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decamerone, che si basava sull’Ercolano di Varchi. Salviati aveva fatto una correzione alla teoria di Bembo: per salviati veniva dato spazio anche ad autori orentini minori sempre del Trecento, oltre alle Tre Corone. Salviati celebrò il ruolo di Firenze e della lingua parlata dal popolo, ma elaborò anche un concetto di uso differente, sostenendo che il orentino moderno fosse decaduto rispetto a quello trecentesco, più puro. Queste idee permettono di classi care Salviati come il fondatore del purismo, una concezione linguistica che cerca nel passato la perfezione perduta nel presente. Queste idee tornarono prepotentemente nell’Ottocento. L’impegno di Varchi e Salviati portò alla rivalutazione del ruolo di Firenze dal punto di vista linguistico e il lavoro lessicogra co dell’Accademia è da vedere come il punto d’arrivo di un lungo percorso avviato anche dall’opera dei due intellettuali. Gli Accademici inclusero nel vocabolario gli scrittori toscani del Trecento anche meno conosciuti integrandoli con l’uso moderno orentino. La differenza con i grammatici precedenti, è che nel Vocabolario anche l’uso moderno veniva documentato attraverso gli autori del Trecento, per questo i compilatori fecero molta attenzione alle fonti manoscritte e spesso inedite, proprietà degli stessi Accademici. Questo atteggiamento venne aspramente criticato perché rendeva dif cile veri care l’esattezza delle fonti. Un altro punto molto discusso fu l’esclusione di molti autori moderni come Tasso. Il Vocabolario ebbe comunque tanto successo da avere altre due edizioni nel corso del Seicento, in cui vennero fatti aggiustamenti, correzioni e ampliamenti. Nell’ultima edizione il Vocabolario contava tre tomi, con ampliamento delle voci e delle citazioni e vediamo anche un cauto ammodernamento con l’inclusione di autori moderni come Guicciardini e Tasso e l’inserimento di voci dell’ambito scienti co grazie al contributo di Galileo e di Redi e Megalotti. Il Vocabolario della Crusca venne ovviamente criticato n dalla sua pubblicazione nel 1612, e uno dei primi oppositori della Crusca fu Paolo Beni, che scrisse un’opera chiamata l’Anticrusca. In quest’opera egli oppone gli autori del Cinquecento al canone di Salviati. Agli Accademici si oppose anche Alessandro Tassoni, autore del poema La secchia rapita, che approntò una serie di osservazioni alle prime due edizioni del Vocabolario. Criticava soprattutto l’eccessivo arcaismo linguistico e il linguaggio poco chiaro. Per lui la lingua da prendere a modello era quella della corte romana, avvertita come “italiana” e meno connotata regionalmente. Qualche anno dopo Daniello Bartoli scrisse Il torto e il diritto del Non si può, costituita da pungenti osservazioni rivolte sia all’Accademia, ma più in generale all’autoritarismo dei grammatici, che giudicano delle determinate abitudini linguistiche per il proprio gusto personale. 10 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fl fi fi Paolo Beni, oltre ad aver criticato la Crusca, ebbe modo di giudicare anche un libro del orentino Benedetto Buommattei sminuendone l’importanza e de nendolo “non necessario”. Il libro è Delle cagioni della lingua toscana e si presentava come il primo di tre dedicati a illustrare le caratteristiche della grammatica volgare. L’edizione de nitiva del libro venne stampata solo vent’anni più tardi, nel 1643, e comprendeva solo due dei libri iniziali. Quella di Buommattei è la più in uente e importante grammatica del Seicento. Divisa in due libri, si apre con una premessa ai lettori in cui dichiara di non aver avuto riguardo per ciò che era stato già detto da altri. Afferma di non essere stato persuaso dall’autorità, ma dalla ragione. Egli afferma di aver agito così non per poca stima nei confronti dei suoi predecessori, ma perché ha ritenuto più opportuno indagare le ragioni che stanno dietro la grammatica senza accettare a priori la tradizione. In questo atteggiamento risiede una grande novità che ha spinto Patota a chiamare il percorso di Buommattei La grammatica ragionevole. Il primo libro contiene la parte principalmente teorica, in cui il grammatico de nisce cosa sia la lingua e da quali elementi sia costituita. La sua analisi è condotta attraverso l’utilizzo delle categorie aristoteliche di sostanza e accidente per spiegare i fatti linguistici sul modello del De causis linguae latinae di Giulio Scaligero. La differenza di metodo con gli autori del passato è notevole: questi ultimi, come Bembo e Fortunio, avevano incentrato subito il discorso sulla grammatica, mentre Buommattei intende rivolgersi a tutti e quindi non presuppone che il lettore abbia delle conoscenze già acquisite. Scrive quindi una prima parte che ha il ne di mettere in ordine in quello che già c’è e già si sa intorno alla lingua. Nel secondo libro invece si discende alla pratica e contiene quindi la vera e propria grammatica divisa in dodici trattati corrispondenti alle dodici parti del discorso che lui individua: N, S, Ar, Pn, V, Pt, G, Pp, Av, C, I, R. rispetto ai grammatici cinquecenteschi si veri ca un signi cativo aumento delle categorie individuate, che risponde all’esigenza di illustrare nelle norme della lingua con una maggiore sistematicità. Buommattei, cercando di chiarire delle incertezze, pensa di distinguere tra segnacasi (le preposizioni che hanno la stessa funzione delle desinenze latine) e preposizione vere e proprie, due categorie che a volte presentano forme comuni. Introduce poi la categoria dei ripieni, che comprende tutte quelle parti non ritenute necessarie alla completezza grammaticale, come egli usato in funzione di pronome espletivo (introduttivo). Buommattei è spesso in uenzato dai grammatici del passato, in particolare da Salviati che aveva anche lui individuato parti del discorso diverse dai suoi contemporanei. Altri autori che il Buommattei ammira sono Bembo, Varchi e Ludovico Castelvetro. L’in uenza di Varchi la ritroviamo nell’attenzione del Buommattei verso l’uso moderno della lingua che viene af ancato a quello antico. La ricerca di un equilibrio tra antico e moderno è uno dei grandi pregi dell’opera. Questo suo atteggiamento di ragionevolezza è uno dei grandi pregi che lo distinguono dalla restante produzione grammaticale. Per la terminologia, lui adotta quella latina. Oltre a quella del Buommattei ci sono tante altre grammatiche che sono state pubblicate nel Seicento, che non raggiungono comunque il livello di quella del Buommattei. Tra queste c’è quella del Cinonio, intitolata Osservazioni della lingua italiana di Marcantonio Mambelli, nato a Forlì e noto come il Cinonio. Il contenuto potrebbe far pensare a una grammatica tradizionale, e il Cinonio segue il sistema tradizionale dell’osservazione del fatto con relativo esempio allegato, ma dall’altro lato ci troviamo di fronte a un’opera in parte diversa, soprattutto per il secondo libro che contiene una serie di annotazioni che si trovano all’interno delle varie voci. Si tratta di un repertorio fondato su uno spoglio accurato di documenti antichi che lo rende interessante è la presenza di osservazioni di carattere sintattico, un ambito che era rimasto escluso dalla maggior parte delle opere grammaticali precedenti. Nel 1613 venne stampato a Venezia il Trattato della lingua di Giacomo Pergamini, un’opera che ottenne un discreto successo e varie ristampe. Si tratta di una grammatica completa di impianto tradizionale basata sulla lingua dei trecenteschi dalle Tre Corone a Passavanti e Villani. Il successo si spiega con lo schematismo e la conseguente praticità dell’opera. Ci sono anche tanti esempi di declinazione e parti del discorso. Tale caratteristica è testimoniata anche dalla presenza di un indice molto dettagliato. Lo schematismo del Pergamini si spiega anche con l’insoddisfazione che l’autore provava nei confronti delle grammatiche scritte no ad allora. Se da un lato lo schematismo spiega il favore del pubblico, dall’altro non giusti ca il giudizio troppo generoso del Trabalza, che classi cò il Trattato come un primo tentativo di portare le ampie trattazioni precedenti verso un uso scolastico. 11 fi fi fl fl fi fl fi fi fi fi fi fi fi fi La grammatica si apre con una sezione dedicata ai suoni e alle lettere dell’alfabeto, in linea con gli schemi della grammatica latina, e passa poi a discutere le parti del discorso (Ar, N, Pn, V, G, Pt, Pp, Av, C, I) a cui viene aggiunta quella delle particelle, analoga ai ripieni del Buommattei. Un altro manualetto molto diffuso era gli Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua italiana di Pietro Sforza Pallavicino del 1661; non una grammatica completa ma una serie di osservazioni dalle quali emerge un atteggiamento prudente e mai rigido o prescrittivo. L’intento dell’autore è di fornire dei consigli e non dei precetti. Un altro trattato di interesse sintattico è Della costruzione irregolare della lingua toscana del orentino Benedetto Menzini. Nel Seicento abbiamo anche una raccolta di testi di argomento grammaticale intitolata Degli autori del ben parlare, diciannove volumi raccolti da Giuseppe degli Aromatari stampati nel 1643. I trattati sulla lingua italiana si concentrano nei primi sei volumi, nei quali trovano spazio gli scritti di Fortunio, Bembo, Corso, Dolce, GIabullari, Ruscelli e Buommattei. La raccolta è il corpus più ampio e completo di scritti che riguardano la questione della lingua, dalle sue origini no alla metà dei Seicento. LA NORMA Nel corso del Seicento i gramamtici si mossero seguendo due linee principali: da un lato quelli che continuarono a proporre i modelli più tradizionali, come il Pergamini, dall’altro quelli che iniziarono a sentire il bisogno di rinnovare la grammatica, come il Buommattei, che non si limitarono a fornire indicazioni di tipo prescrittivo. In conseguenza di ciò si sviluppò un atteggiamento più ragionevole e più incline ad analizzare la lingua per trovare i motivi che la regolano senza accettare o riproporre a priori ciò che era stato ereditato dal passato. comune a entrambe le tendenze è il rispetto degli schemi grammaticali e della terminologia tenica di derivaizone latina. Per quanto riguarda le coniugazioni, Buommattei distingue tre coniugaizoni seguendo l’esempio del Trissino. Le parole con cui motiva la sua scelta sono molto ragionevoli, ma la soluzione proposta dal Buommattei non fu accolta dagli altri grammatici per molto altro tempo ancora. Per il congiuntivo anche i gramamtici secenteschi dimostrano in questo caso di non sapersi staccare dalla tradizione grammaticale latina: nel Buommattei permane la distinzione tra congiuntivo o soggiuntivo e ottativo o desiderativo; il Cinonio distingue tra soggiuntivo e ottativo o desiderativo. Un passo indietro viene fatto riguardo il condizionale, infatti utilizza il termine condizionale solo come sinonimo di congiuntivo e non ne riconosce l’autonomia. Analogamente il Cinonio lo include nel soggiuntivo, de nendolo tempo sospeso o imperfetto secondo. Per quanto riguarda la prima persona dell’indicativo, da un lato il Buommattei fa ragionare sui vantaggi della scelta più moderna, dall’altro è ancora condizionato dai grammatici del passato che lo portano ad accogliere la sola forma in -a nei paradigmi dei verbi. Più netto è l’atteggiamento di alcuni grammatici come il Pergamini, che ricorda la forma in -o solo per condannarla. La grammaticogra a secentesca è concorde nel non accogliere i pronomi lui/lei in funzione di soggetto e il Buommattei non ammette eccezioni in questo caso. Permane la classi cazione dell’aggettivo come una sottocategoria del nome. CAPITOLO 6 – IL SETTECENTO La nota più rilevante che si veri cò durante il Settecento è l’avvicinamento della grammatica alla scuola in risposta alle nuove esigenze didattiche. In questo periodo, in seguito a importanti riforme, l’insegnamento della lingua italiana entrò uf cialmente nella scuola: prima veniva insegnata solo la latina. Nel Settecento l’intento didattico è evidente anche nel lone della grammatica ragionata di cui il maggiore esponente era Francesco Soave. 12 fi fi fi fi fi fi fi fi Nel corso del Settecento il passaggio da una grammatica pensata per i letterati a una con impostazione didattica non fu immediato né improvviso, ma fu un processo graduale che si manifestò in diverse forme. In questo periodo troviamo opere che perseguono un ideale di chiarezza nell’esposizione delle regole, ma ciò non signi ca che vi fu la creazione di un manuale scolastico. È il caso della Prattica, e compendiosa istruzzione a’ principianti, circa l’uso emendato et elegante della lingua itliana del gesuita Benedetto Rogacci, stampata a Roma e indirizzata non a inesperti assoluti. L’impostazione didattica è ottenuta attraverso un accentuato schematismo e una meticolosa suddivisione in paragra , con un indice posto a ne volume. Gli esempi che illustrano le varie regole sono presentati quasi sempre senza i consueti rimandi agli autori. L’opera conobbe una buona diffusione anche grazie all’approvazione dell’Accademia della Crusca. Interessanti sono le due opere grammaticali del senese Girolamo Gigli, le Regole per la toscana favella e le Lezioni di lingua toscana. La loro originalità è data soprattutto dall’introduzione di espedienti didattici che rappresentano una novità nell’insegnamento della lingua italiana. Si ricordano in particolare i gruppetti di esercizi modellati sulla didattica latina che servono per veri care l’apprendimento delle regole. l’apprendimento è facilitato anche dalla presenza di specchietti riassuntivi relativi ai verbi suddivisi in quattro colonne a seconda delle varianti d’uso: corretto, antico, poetico e corrotto. Sono specchietti innovativi perché mettono a confronto forme concorrenti del medesimo verbo. Il metodo elaborato dal Gigli derivò probabilmente dalla sua esperienza con lo Studio senese, in cui egli occupò la cattedra di toscana favella. L’insegnamento per gli stranieri si rivelò decisivo per molti autori di grammatiche dell’italiano sin dai tempi più antichi, proprio perché costituiva un banco di prova importante dal punto di vista didattico. Accanto a opere come quella del Rogacci e del Gigli, in cui troviamo i primi segni di un mutamento in senso didattico della grammatica, abbiamo anche opere che mantengono un impianto più tradizionale, come i due volumi Della lingua nobile d’Italia di Nicolò Amente. Ci sono poi le Lezioni di lingua toscana di Domenico Maria Manni destinate agli allievi del Seminario arcivescovile di Firenze stampate nel 1737. Nonostante fossero destinate a un pubblico di giovani, il livello culturale degli stessi spinse il Manni a dare per scontate certe conoscenze di grammatica che gli allievi dovevano già conoscere. Questo spiega le frequenti omissioni e l’impianto poco sistematico. Invece, la Grammatica italiana per uso de’ giovanetti di Jacopo Angelo Nelli, stampata a Torino nel 1744, era stata pensata proprio per i principianti anche se ebbe scarsa circolazione. Il Nelli non dà nulla per scontato e organizza la materia in tre parti: le parti del discorso; le regole grammaticali vere e proprie; l’ortogra a. La struttura testimonia l’intento didattico reso particolarmente evidente dall’intenzione di introdurre gli alunni gradualmente nel campo della grammatica, con un impatto morbido. Per questo la prima parte dell’opera ha un carattere introduttivo. I modelli grammaticali latini si dimostrano comunque un punto di riferimento insostituibile nora, ma assumono un ruolo differente a seconda dell’impostazione data dagli autori. Si mantengono molto vicini agli schemi latini degli autori con ni didattici come il Rogacci e il Nelli, mentre le opere con un impianto più discorsivo come quella del Manni e il Gigli se ne allontanano. Il modello grammaticale latino torna a essere decisivo quando si fa pressante l’esigenza didattica. Ciò conferma la tendenza che vede nel ricorso agli schemi della grammatica latina un modo sicuro per raggiungere una maggiore precisione nel descrivere la lingua, tendenza che si individua già a partire dalla metà del Cinquecento. Inoltre la grammatica latina era un patrimonio che gli autori consideravano già noto al loro pubblico, quindi sfruttavano questa conoscenza per lo scopo didattico. Le Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo per uso del Seminario di Bologna di Salvadore Corticelli, stampate nel 1745, sono una delle prime e la più importante grammatica del Settecento a essere indirizzata esplicitamente alla scuola. Siamo lontani da un vero e proprio manuale scolastico, in quanto dà per scontate alcune conoscenze basilari di 13 fi fi fi fi fi fi fi alfabetizzazione, il cui insegnamento era ancora af dato alle grammatiche latine. In particolare, il Corticelli faceva riferimento alla grammatica latina di Manuel Alvarez, che faceva parte del percorso di studi di ogni suo allievo. Nel titolo compare particolare la parola metodo, con questo Corticelli vuole intendere una esposizione ordinata e facilmente consultabile della materia grammaticale che consenta ai giovani di apprendere e memorizzare le regole grammaticali abbastanza facilmente. Le Regole si presentavano in effetti come una struttura ordinata, con una trattazione suddivisa in capitoli numerosi e brevi che si chiudono con un sommario. L’opera è divisa in tre libri, dei quali il primo tratta delle otto parti del discorso (N, Pn, V, Pt, Pp, Av, I, C) e il terzo Della maniera di pronuziare e di scrivere toscano, quindi questioni di ortogra a, pronuncia e punteggiatura. Particolare attenzione la merita il secondo libro, interamente dedicato alla costruzione, cioè alla sintassi. Il Corticelli si preoccupò di colmare una lacuna che era ormai secolare nella grammatica italiana. Era dai tempi delle Regole del Giambullari che nessun trattato dedicata il giusto spazio alla sintassi. Con il Corticelli si ha una svolta perché la sintassi viene trattata in modo approfondito e toccando la complessità del periodo con particolare attenzione al verbo. Si identi ca anche l’ordine naturale della frase, per Corticelli soggetto, verbo e complementi indiretti, anche detta costruzione regolare o semplice, che si oppone a quella irregolare o gurata di cui è ricco il Decameron. La presenza di questa distinzione è importante perché dimostra la capacità di osservazione dell’autore, anche se comunque il Corticelli considera la prosa di Boccaccio come il modello migliore per scrivere bene. Nonostante le novità, nelle Regole permangono dei forti legami con la tradizione grammaticale precedente, a partire dal contenuto normativo che mostra ancora una dipendenza dai criteri del Vocabolario della Crusca. In fatto di norma il comportamento di Corticelli è molto rigido, e si perde quella ricerca di equilibrio tra antico e moderno che era propria del Buommattei. Forse per reazione alla spinta di nuove esigenze metodologiche, il Corticelli fece appello all’autorità in modo forte enunciando n da subito la validità dei modelli forniti dalle Tre Corone e dal Vocabolario. Questa mancata apertura e questo irrigidimento nel passato è in parte comune anche alla quarta edizione del Vocabolario, che segna un passo indietro rispetto alla precedente edizione in cui si era veri cato un ampliamento del lessico. Dal punto di vista della terminologia con il Corticelli si conferma la prevalenza latina, che ha il vantaggio dell’essere già nota. L’importanza delle Regole nella storia grammaticale italiana è testimoniata dall’enorme successo che ottennero. Non solo l’opera venne ristampata diverse volte, ma venne anche adottata in molto scuola anche durante l’Ottocento e all’inizio del Novecento. Per capire l’evoluzione della grammaticogra a nel Settecento è opportuno considerare anche la situazione scolastica dell’epoca e al ruolo che aveva la didattica dell’italiano. Nel Settecento l’insegnamento dell’italiano entrò uf cialmente nelle scuole, mentre prima era riservato alle scuole di alcuni ordini religiosi e in ambienti privati. Prima delle riforme settecentesche l’ambiente scolastico era controllato dalla Chiesa e l’insegnamento era af dato al clero e si dava largo spazio all’apprendimento mnemonico e nozionistico e prescriveva l’uso della lingua latina. In alcuni collegi il volgare veniva a volte letto e scritto, ma era una materia complementare e subordinata al latino. Solo l’Illuminismo portò con sé una svolta, anche se la frammentazione politica dell’Italia comportò delle notevoli differenze nella messa a punto delle riforme da stato a stato. L’entrata dei singoli stati nella politica scolastica segnò la caduta del monopolio ecclesiastico. In questo periodo molti intellettuali espressero dubbi e critiche sui tradizionali metodi didattici e si impegnarono per formulare nuovi progetti e nuovi manuali. Fra di essi ricordiamo personalità importanti come Ludovico Antonio Muratori, Jacopo Facciolati, Girolamo Tagliazucchi, tra l’altro impegnato direttamente nelle riforme scolastiche, il suo allievo Pier Domenico Soresi e Francesco Soave. Molti di loro pensavano che fosse necessario insegnare l’italiano prima del latino. Un esempio di grammatica composta secondo i nuovi principi pedagogici viene da Pier Domenico Soresi, pedagogista e riformatore lombardo. La sua opera, I rudimenti della lingua italiana, lascia capire n dal titolo che non è un trattato grammaticale per dotti, ma un manuale per principianti in modo che apprendano i principi basilari della grammatica italiana. Critica anche i modelli educativi del passato e di percepisce il suo desiderio di giovare realmente a chi deve apprendere. La critica riguarda anche i grammatici precedenti, da Bembo a Corticelli, di cui rimprovera il non aver avuto un 14 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi pensiero per i principianti. Ciò porta l’autore alla conclusione che manchi in Italia una grammatica che per chiarezza, precisione e brevità di precetti sia adatta anche ai fanciulli e che non sia passata per il latino. La volontà di realizzare un manuale elementare e snello porta il Soresi a rinunciare totalmente alle citazioni d’autore e a ricorrere a esempi di proprio pugno. I rari esempi d’autori sono privi della fonte per evitare di appesantire e confondere i giovani. La scrittura è discorsiva per sempli care gli argomenti. A volte alle spiegazioni teoriche fanno seguito regole grammaticali e pratiche, come l’espediente per distinguere il nome aggettivo dal sostantivo, che consiste nell’aggiungere il termine “cosa” per identi care i primi: uomo cosa è sbagliato, cosa onesta è giusto. Il pensiero di intellettuali come il Soresi e il Soave fu decisivo per l’evoluzione della scuola in Italia. Il nome del Soave è legato a riforme scolastiche in Lombardia, per cui riuscì a realizzare un Compendio rivolto agli insegnanti in cui indicava di iniziare a far leggere ai fanciulli la lingua italiana prima del latino. Soave stesso realizzò numerosi manuali, tra cui l’Abbecedario, gli Elementi della lingua italiana, gli Elementi di aritmetica, la Grammatica delle due lingue italiana e latina. Insieme all’impegno di educatori come il Soave, per la creazione di nuovi manuali fu decisiva l’in uenza della scuola di Port Royal, sorta in Francia durante la metà del Seicento. Da questo centro si diffusero in tutta Europa teorie pedagogiche e linguistiche molto innovative, con le quali tutti gli intellettuali dovettero confrontarsi. Uno dei prodotti della Scuola fu la Grammaire générale et raisonée nata dalla collaborazione tra Lancelot e Arnauld. L’idea alla base è che esistono dei principi comuni e universali a tutte le lingue, quindi si con gura come una grammatica generale da cui bisogna partire per individuare poi i caratteri delle singole lingue. Il Lancelot alcuni anni prima aveva anche pubblicato un manuale rivolto alle scuole di Port-Royal per apprendere la lingua latina secondo i nuovi metodi pedagogici. Il manuale arrivò in Italia nella prima metà del Settecento, quando fu tradotto e pubblicato prima a Napoli, poi a Venezia e in Piemonte. Quest’ultima edizione si intitolò Nuovo metodo per apprender agevolmente la lingua latina, e conteneva anche delle indicazioni utili per l’apprendimento della lingua italiana. L’importanza di questo manuale è legata al fatto che insegnava la lingua latina ricorrendo al volgare e quindi costituiva il precedente di manuali confezionati apposta per servire alla scuola dell’italiano. Francesco Soave, appartenente alla congregazione dei padri somaschi, in contrasto con i metodi dei gesuiti, si impegnò attivamente nelle riforme della scuola elementare con buoni risultati. La sua gura è nota anche per l’impegno nelle università. Prima di dedicarsi alle scuole lombarde operò nel Ducato di Parma, uno die più attivi centri riformatori italiani. Qui lui partecipò alla riforma dell’università e in questo momento ideo la Gramatica ragionata della lingua italiana, stampata nel 1771. Questo è il più noto esempio di grammatica razionale in Italia e risente dell’in uenza sia della Grammaire della Port-Royal, sia del pensiero degli enciclopedisti francesi, di cui cita Lancelot e Du Marsais. Altre opere appartenenti a questo lone della grammatica vennero pubblicate sempre in Italia anche durante l’Ottocento. La Gramatica ragionata è un’opera innovativa nel panorama italiano. La tradizione grammaticale italiana si fonde con le teorie pedagogiche elaborate in Francia e questa fusione determina la particolarità dell’opera del Soave, caratterizzata da un impianto loso co che af anca quello grammaticale. Alla base del pensiero del Soave c’è il principio che il linguaggio è la manifestazione del pensiero e le parole sono i segni con cui identi chiamo le idee. Il suo scopo è individuare le leggi della lingua a partire dall’analisi concreta dei fatti linguistici, senza però ignorare le caratteristiche universali a tutte le lingue. Soave cerca quindi di conciliare un modo empirista di intendere la lingua, che dà maggiore rilievo ai fatti concreti, e uno logicista, che preferisce un atteggiamento speculativo e teorico. Non si deve tuttavia pensare che la Grammatica ragionata rompa con la tradizione, anche se assume un punto di vista diverso e raggiunge risultati più moderni. Soave non si accontenta di dare indicazioni sulla lingua, ma vuole cercare le ragioni che stanno dietro i fenomeni grammaticali. Egli vuole realizzare un manuale che unisca alla componente didattica la piacevolezza della scrittura. La parte più nuova dell’opera è la quarta, quella sulla sintassi che conferma il crescente interesse per questa sezione della grammatica a lungo ignorata, mentre la quinta parte è dedicata all’ortogra a. L’apparato normativo può apparire in linea con la tradizione ed è per questo che l’opera venne criticata dal Trabalza, ma il suo giudizio era stato frettoloso in quanto la Grammatica del Soave appare molto più complessa e accorta. Egli, infatti, non 15 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fl fl accetta le norme della tradizione in maniera passiva, ma le analizza e le vaglia. Un altro aspetto moderno è che non ricorre a esempi d’autore, ma a esempi tratti dalla lingua d’uso; inserisce anche la distinzione tra i diversi registri; il confronto con le altre lingue (quindi un approccio comparatistico); l’interesse per la sinonimia. L’opera ebbe molto successo e questo portò l’autore a rivederla più volte, no alla realizzazione di un’edizione espressamente adatta all’uso per la gente comune, priva quindi dell’apparato loso co. LA NORMA Nel Settecento le regole del Bembo hanno ormai perso il loro fascino. I grammatici settecenteschi non hanno ancora raggiunto un accordo per quanto riguarda il numero delle coniugazioni, che oscilla tra tre e quattro. Il Corticelli indica quattro coniugazioni, mentre il Nelli e il Soresi preferiscono individuarne tre. Il Manni è indeciso tra le due opzioni, mentre il Soave, pur dichiarando che le coniugazioni siano tre, fornisce i quadri sinottici di quattro verbi. La distinzione tra congiuntivo e ottativo è ancora presente in autori come Manni e Corticelli, ma viene meno nel Soresi e Soave che parlano solo di soggiuntivo, preferito rispetto al congiuntivo. Il Soave è l’unico grammatico settecentesco a distinguere in modo inequivocabile il condizionale come modo autonomo rispetto al congiuntivo. Manni e Corticelli invece tengono ancora il condizionale entro l’ottativo, così come il Soresi che parla di soggiuntivo senza distinzioni. Per quanto riguarda la prima persona dell’indicativo imperfetto, il Corticelli afferma in modo inequivocabile che la forma corretta sia quella in -a, benché riconosca il valore distintivo di -o in un contesto familiare. Tutti i grammatici sono in generale d’accordo con queste posizioni, anche se alcuni sono meno rigidi. Per lui/lei in funzione di soggetto sono tutti d’accordo nell’affermare che sia tipico del parlato familiare, ma a cambiare è l’atteggiamento più o meno rigido. Tra i più intransigenti abbiamo Rogacci, Corticelli, Soresi, Soave, mentre Gigli, Manni e Nelli spendono qualche considerazione in più. Permane ancora la denominazione di nome aggettivo in tutte le grammatiche settecentesche. CAPITOLO 7 – OTTOCENTO Se durante il Settecento le grammatiche iniziarono ad avere un’impostazione più didattica, nell’Ottocento il legame tra grammatica e scuola si fece sempre più stretto. In seguito al raggiungimento dell’Unità d’Italia nel 1861, la scuola fece sentire l’esigenza di raggiungere una lingua unitaria. Ciò provocò vivaci dibattiti tra gli intellettuali che ebbero conseguenze sugli sviluppi della grammaticogra a. Nell’ultimo ventennio del secolo, inoltre, la codi cazione grammaticale si stabilizzò e acquisì una sionomia ben de nita. La prima metà dell’Ottocento fu abbastanza povera di grammatiche originali, ma prevalsero le ristampe di quelle del Settecento, come le Regole del Corticelli e la Grammatica ragionata del Soave. Le opere originali invece si possono distinguere in due grandi gruppi: le grammatiche ragionate sulla scia del Soave e le grammatiche puristiche di carattere più normativo. Vi furono poi autori che tentarono di conciliare i due aspetti in un’unica opera. Tra le grammatiche ragionate dopo quella del Soave abbiamo l’Analisi del linguaggio di Mariano Gigli del 1818 e la Teorica della lingua italiana di Giovanni Romani del 1826. Nonostante l’assunto di partenza, ovvero, che il linguaggio sia manifestazione del pensiero, sia comune a tutte queste opere, l’atteggiamento dei singoli può variare signi cativamente. Il Gigli per esempio decise di bandire dalla sua trattazione ogni riferimento alle partizioni consuete delle grammatiche, rinunciando a ogni intento normativo in favore della descrizione della lingua al solo livello teorico, partendo da criteri semantici e senza toccare il piano sintattico. Il Romani, invece, si proponeva di colmare una lacuna data dall’assenza di una descrizione grammaticale loso ca della lingua. Secondo il Romani le grammatiche no ad allora erano state prodotte 16 fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fi fondandosi sul metodo positivo o meccanico, costruito sulla base incerta e non oggettiva dell’uso di alcuni autori e non sulle reali ragioni grammaticali. Lo scopo della Teorica era quello di chiarire i principi che regolano il funzionamento della lingua. L’opera, divisa in due parti, si risolve in un’analisi troppo minuziosa e con una tendenza esasperata alla catalogazione delle forme distinte sulla funzione logico-semantica. Ciò si spiega con l’inclinazione da lessicografo propria del Romani, infatti la sua opera più importante fu proprio il Dizionario generale de’ sinonimi italiani. Con il termine purismo si intende quell’ideale linguistico basato su un modello sso e prestabilito che può ben essere de nito cronologicamente e geogra camente e che persegue lo scopo di purezza assoluta respingendo ogni in usso esterno o straniero. Il purismo si presentò più volte nel corso dei secoli, ma assunse importanza tra il Sette e l’Ottocento soprattutto in reazione alla crescente in uenza della lingua francese in Italia. Il capo la del Purismo fu Antonio Cesari, autore della Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana del 1808, in cui propose un ritorno all’ideale di bellezza dei modelli trecenteschi ancora più rigido di quello della Crusca. Cesari compose anche un vocabolario, la Crusca veronese, compilato in coerenza con le sue teorie. Nonostante l’inattualità delle sue idee, Cesari ebbe numerosi imitatori. Tra gli oppositori abbiamo invece i classicisti come Vincenzo Monti, che proponeva una lingua comune e aperta anche a elementi non toscani. Il purismo ebbe conseguenze anche dal punto di vista grammaticale. L’opera più fortunata furono le Regole elementari della lingua italiana del napoletano Basilio Puoti, basate sulla lingua toscana trecentesca. L’opera è divisa in due parti: nella prima si discutono le dieci parti del discorso N, Ar, Pn, V, Pt, Av, Pp, C, I, R; la seconda fornisce approfondimenti su eccezioni e particolarità, non incluse nella prima per non confondere le menti dei giovinetti, e si dedica spazio anche alla sintassi, all’ortogra a e alla pronuncia. I rinvii alle fonti sono citati solo alla ne per non appesantire la trattazione, che presta molta attenzione all’aspetto didattico. Le Regole vennero infatti più volte stampate e utilizzate nelle scuole per tutto l’Ottocento e oltre. Nonostante il carattere puristico della lingua, il Puoti non ignorò il nuovo corso seguito dalla grammatica nelle scuole, e accanto all’impianto normativo troviamo infatti una grammatica completa e chiara. Anche se prima dell’Unità nessuna grammatica poté competere con le Regole del Puoti, vi furono comunque altre realizzazioni. Questo periodo fu decisivo per lo sviluppo della grammatica al livello elementare. Giovanni Gherardini realizzo una sintetica Introduzione alla grammatica italiana per uso della classe seconda delle scuole elementari, elogiata anche da Marazzini per la struttura semplice e chiara. Opere come questa servirono da modello ad altri autori che si impegnarono a realizzare manuali scolastici, prestando molta attenzione agli espedienti didattici. Il Gherardini, oltre vent’anni dopo, compose anche un’Appendice alle grammatiche italiane con delle osservazioni relative all’ortogra a e alla sintassi. Conobbe un buon successo la Grammatica della lingua italiana di Francesco Ambrosoli, uno dei pochi testi che riuscì a non soccombere al confronto con la grammatica del Puoti. È un’opera che risente dell’in usso sia della grammatica tradizionale che di quella ragionata, con un atteggiamento normativo meno rigido del Puoti. Verso la metà del secolo abbiamo la Grammatica nuovissima della lingua italiana di Leopoldo Rodinò, scritta per uso del liceo arcivescovile e dei seminari di Napoli, che si presenta come un’edizione corretta e ampliata dell’opera del Puoti, di

Use Quizgecko on...
Browser
Browser