Manuale di Base di Linguistica e Grammatica PDF

Summary

This document provides a basic introduction to Italian linguistics and grammar, exploring concepts such as neologisms, language variations across space (diatopy), and dialects. It touches on primary and secondary dialects, examining the Italian linguistic landscape and how language evolves over time, including the influence of regional speech patterns.

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lOMoARcPSD|36924465 sacrifizio, uffizio, maraviglia, sanza, meo, nui, in Isvezia. Molte forme prima coesistenti con quelle che usiamo oggi hanno perso la lotta per la vita (arcaismi morfologici), come veggio ('vedo'), fo ('faccio'), ale ('ali), receputo ('ricevuto'), ridea (rideva'). Ci sono anche...

lOMoARcPSD|36924465 sacrifizio, uffizio, maraviglia, sanza, meo, nui, in Isvezia. Molte forme prima coesistenti con quelle che usiamo oggi hanno perso la lotta per la vita (arcaismi morfologici), come veggio ('vedo'), fo ('faccio'), ale ('ali), receputo ('ricevuto'), ridea (rideva'). Ci sono anche costruzioni sintattiche cadute in disuso (arcaismi sintattici). Per esempio, Dante, nel Convivio (I, 12, 11), scrive possa dire sé essere e fedele e leale, vale a dire 'possa dire di essere e fedele e leale', e usa quindi una formula che chi studia latino chiama «accusativo con l'infinito», frequente ai suoi tempi come costruzione dotta ma oggi scomparsa. E infine ci sono parole che ancora oggi sono perfettamente vitali, ma che presentano significati diversi da quelli che avevano nel passato. Si tratta degli arcaismi semantici, difficili da individuare proprio perché il lettore moderno può farsi trarre in inganno dal fatto che queste parole sono presenti nella lingua a lui familiare. Accanto a parole, forme, costruzioni, accezioni che invecchiano e muoiono ce ne sono però molte di più che nascono, consentendo alla lingua italiana di rimanere viva : si tratta dei neologismi. Il lessico è condizionato dalla tensione tra forze innovative e forze conservative, che producono un equilibrio instabile tra l'apparizione di nuove parole e i nuovi significati e l'invecchiamento di altre parole e di altri significati. Un neologismo si forma in due modi.  Il primo è la produzione di una vera e propria parola nuova (un neologismo lessicale) attraverso le regole di formazione delle parole come la prefissazione, la suffissazione, la composizione, il prestito, la formazione di unità polirematiche. Abbiamo così solo per citare qualche esempio di parole diffuse nel triennio 2019-21, Covid-19 (una sigla)ecc Ma il cambiamento linguistico non si esaurisce con la nascita di nuove parole.  Possono nascere anche nuovi significati di parole già esistenti (neologismi semantici). Mentre i neologismi lessicali sono facilmente riconoscibili, dato che da osservare e da catalogare. Anche in questo caso il lessico della pandemia scoppiata nel 2019-20 ci aiuta a fare molti esempi significativi: drive-in, prima solo 'cinema all'aperto a cui si accede in automobile', ora anche 'postazione mobile in cui è possibile eseguire, restando nella propria automobile, i tamponi o la vaccinazione… Tra quelli di solito meno resistenti ci sono i neologismi usati in funzione espressiva e stilistica da giornalisti in particolari contesti (neologismi stilistici), legati spesso all'attualità del momento e quindi deperibili. Tra quelli che abbiamo ricordato sopra, covidista e coronaparty sono di tipo stilistico: sono destinati a sicura estinzione, dopo essere stati usati una sola volta o per un breve arco temporale. In generale hanno più possibilità di successo stabile e duraturo i neologismi denominativi, quelli che servono a dare un nome nuovo a nuovi oggetti o nuove tecniche. 2. L’italiano varia attraverso lo spazio: la variazione diatopica La variazione linguistica nello spazio conosce una particolare declinazione, quella dei dialetti locali, senza dimenticare il fatto che anche l'italiano ne è fortemente influenzato (italiano regionale). L'Italia è stata, ed è ancora, il regno della variazione diatopica, vale a dire della variazione linguistica su base geografica. Torniamo alla contemporaneità. La presenza, nello stesso spazio linguistico, dell'italiano e dei dialetti ci porta a parlare, come vedremo meglio tra poco, di spazio italoromanzo e non semplicemente di italiano. Il concetto di Italoromania è stato elaborato in àmbito svizzero-tedesco, parallelamente a quello di Iberoromania per lo spazio linguistico comune spagnolo, portoghese e catalano, a quello di Galloromania per quello francese e occitanico e a quello di Dacoromania per quello rumeno. Si veda ora lo studio di Regis per una discussione sull'intera questione. La polarità più importante nella situazione italiana è quella tra italiano e dialetto, ma nel corso della trattazione vedremo che questa polarità si risolve piuttosto in una linea continua che presenta oggi una serie di dimensioni intermedie all'interno delle quali è difficile tracciare confini netti. 3. Dialetti primari e dialetti secondari L'enorme ricchezza dialettale dell'Italia ne fa un caso unico nel mondo, anche rispetto agli altri paesi romanzi. L'erosione, è chiaro, riguarda anche gli altri aspetti della lingua, dalla fonetica alla morfosintassi. Si badi che questo non è un giudizio linguistico (per i motivi che diremo tra poco, lingua e dialetto dal punto di vista genetico sono esattamente sullo stesso piano), ma di percezione. Facciamo un esempio: nei decenni scorsi è stato lungamente e duramente dibattuto lo statuto dei dialetti delle Dolomiti: sono una lingua, cioè la lingua ladina, o sono dei dialetti, i dialetti ladini? Dal punto di vista della percezione sono una lingua, tanto che i ladini sono protetti come minoranza linguistica dalla legge vigente, mentre dal punto di vista puramente linguistico sono semplici dialetti, in tutto e per tutto uguali a quelli circostanti, come quelli trentini occidentali. Grandi studiosi si sono trovati su fronti opposti riguardo a questo argomento. Dal punto di vista genetico di cui si diceva, lingua e dialetto sono sullo stesso piano perché hanno le stesse origini: sono sviluppi diretti del latino che si parlava nella zona, malgrado fino a qualche decennio fa la tradizione scolastica facesse intendere erroneamente che si trattasse di deformazioni grottesche della lingua italiana (è una convinzione ancora oggi molto diffusa). Ne consegue che, se esistono lingua e dialetti (al plurale), una sola lingua è sovraordinata a molti dialetti. Abbiamo così introdotto una nozione non ancora entrata, o almeno pochissimo usata negli studi italiani sull'argomento, quella di lingua tetto: l'italiano è la lingua tetto del milanese, del torinese, del reatino, del napoletano, del siciliano e di migliaia di dialetti locali, come il francese è la lingua tetto del provenzale, del guascone e del lorenese e lo spagnolo del galiziano, dell'asturiano e del Navarro. Non basta. Ancora dal punto di vista genetico, esistono due tipi di dialetti:  i dialetti primari, che sono derivati direttamente dal latino tardo parlato al termine della sua parabola, ciascuno nelle migliaia di città o di borghi di cui l'Italia consta: il latino locale si è modificato impercettibilmente per centinaia di anni fino ad arrivare alla differenziazione che conosciamo, e che fa sì che il dialetto cambi leggermente non solo di regione in regione, ma anche in paesi che distano tra loro meno di un chilometro; Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465  i dialetti secondari, che sono derivati dall'incrocio della varietà nazionale con quelle locali preesistenti, come oggi in Francia (dove c'erano ma sono sostanzialmente piallati dalla lingua nazionale negli ultimi secoli) e in Spagna (dove sono scomparsi sin dal Medio Evo, salvo una fascia settentrionale di un centinaio di chilometri). 1. Nel primo caso i dialetti sono derivati direttamente dal latino attraverso un processo trasmesso di generazione in generazione in una catena continua in uno stesso luogo, nonostante le vicende storiche, spesso drammatiche, come le migrazioni, e nonostante la pressione delle varietà vicine e della lingua nazionale, nel frattempo in via di affermazione. 2. Nel secondo caso, i dialetti sono il risultato della sovrapposizione della lingua nazionale su quelli primari preesistenti: assomigliano quindi molto di più alla lingua di quanto non assomiglino quelli primari e sono perciò facilmente intercomprensibili. Anche l'Italia, patria mondiale dei dialetti primari, ha un importante dialetto secondario: è il romanesco di seconda fase, detto così per distinguerlo da quello della fase medievale. La differenziazione tra dialetti primari e dialetti secondari, da questo punto di vista, non solo è più efficace, ma inquadra la situazione linguistica italiana in un contesto generale, inserendola nei movimenti delle lingue romanze e aiutandoci a leggere il quadro linguistico che sarà da qui a poco, se non già adesso. I dialetti italiani si avviano ad essere dialetti secondari, cioè tanto profondamente influenzati dalla lingua nazionale da rappresentare forme di compromesso connotate localmente tra i dialetti primari originari e l'italiano. I dialetti non scompaiono, quindi, ma si trasformano in conformità con la mutata realtà sociale del paese. 3. I geosinonimi L'importanza dei mass media ha reso evidente un fenomeno rimasto sotterraneo per secoli, quello per cui ci sono parole che designano lo stesso oggetto o concetto in varie parti d'Italia. Queste parole si chiamano geosinonimi e cambiano a seconda della parte di penisola dalla quale proviene il parlante, in diretta conseguenza dell'interferenza tra codici linguistici diversi che comporta a secolare coesistenza tra i tanti dialetti locali e la lingua nazionale. Il chewing gum, o gomma da masticare, si chiama in almeno una decina di modi secondo le zone del paese. Ci sono quelli che lo chiamano cingomma, soprattutto nel centro-sud, ma anche in Toscana e in Sardegna: in questo caso è evidente la sovrapposizione con la parola gomma. Questo processo porta a rendere molto meno evidente che nel passato la distribuzione geografica della parola. 4. Le minoranze linguistiche: il bilinguismo e la diglossia Nel territorio politico italiano esistono varie minoranze, che chiameremo minoranze linguistiche storiche per distinguerle dalle nuove minoranze di ingresso più recente, che sono ancora troppo fluide perché se ne possa dare una descrizione geolinguistica anche minima. Queste minoranze storiche, protette dalla legislazione italiana e dette anche minoranze alloglotte, possono essere di lingua romanza e non romanza e sono distribuite in modo non uniforme sul territorio nazionale. Le minoranze alloglotte vanno distinte in isole linguistiche (greco, albanese, serbo-croato), in grave stato di crisi, e penisole linguistiche (i territori contigui con i paesi della lingua della minoranza, come la Valle d'Aosta, che confina direttamente con la Francia, e l'Alto Adige, che confina con l'Austria). Le penisole godono di ottima salute: oltre alla protezione garantita dallo stato nazionale, hanno infatti una grande facilità di interscambio culturale, politico, economico e linguistico con la realtà dall'altra parte del confine, con enormi ricadute pratiche. Le lingue minoritarie e i dialetti sono, rispetto alla lingua nazionale, in rapporto di diglossia: cioè una parte consistente della popolazione italiana usa funzionalmente, in base alla situazione comunicativa, sia la lingua sia il dialetto. Si parla un po' italiano e un po' dialetto in casa, o con un gruppo di amici, poi al lavoro si usa l'italiano, per poi tornare a parlare il dialetto con un collega durante la pausa e cambiare di nuovo in una situazione più informale. Uno scenario familiare a moltissime persone che trova paralleli in altre situazioni linguistiche anche molto lontane dall'Europa. La diglossia è quindi, semplificando, l'uso di due varietà linguistiche entrambe dominate come madrelingua, una in situazioni più formali (varietà alta, nel nostro caso l'italiano) e una in situazioni più informali (varietà bassa, nel nostro caso il dialetto). Ancora una notazione sull'alternanza dei due codici principali, italiano e dialetto, nel repertorio di chi parla: sono molto comuni forme miste in cui si passa da un sistema linguistico a un altro. Abbiamo così l'enunciazione mistilingue (o code mixing), il fenomeno per cui mescoliamo elementi dell'una e dell'altra varietà nella stessa frase, e la commutazione di codice (o code switching), il cambio da italiano a dialetto interfrasale, cioè tra due frasi [Alfonzetti 2011]. Infine, la diglossia va distinta dal bilinguismo, che è l'acquisizione di un'altra lingua come scelta individuale: a ciascuno di noi può capitare di imparare l'inglese o il francese, che poi applichiamo in determinate situazioni senza che questo implichi una scelta collettiva. CAPITOLO 8: LA LINGUA E LA VARIAZIONE SOCIALE 5. La variazione, la varietà, il cambiamento linguistico Come abbiamo già cominciato a vedere, le lingue, compresa quella italiana, non sono realtà monolitiche, ma variano secondo una serie di fattori. Al posto di un'unica realtà schematica, insomma, dobbiamo vedere un insieme di forme divergenti, ma tenute insieme da un'architettura di base che possiamo chiamare diasistema. Questa visione aperta ci garantisce di vedere l'aspetto dinamico della lingua, che ingloba norme in qualche caso anche molto divergenti. Molte variazioni dipendono dalla situazione comunicativa: il tipo di rapporto tra gli interlocutori, l'atmosfera in cui avviene il loro incontro, l'intenzione con cui si comunica, l'argomento della comunicazione, il grado di formalità, ecc. Quindi tutte le lingue, compreso l'italiano, sono mutevoli e si Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465 presentano in forme diverse nel comportamento dei parlanti. Questo carattere si chiama variazione linguistica ed è connaturato alle lingue, che sono realizzate in modi afferenti in relazione a una serie di parametri restando però se stesse. Quella di cui stiamo parlando è la variazione interlinguistica (quando usiamo I variazione senza altri aggettivi ci riferiamo a questa), cioè la differenziazione interna a una lingua; esistono anche una variazione del repertorio e una variazione interlinguistica, quella tra lingue diverse [ibidem]. Le prime due sono oggetto di una branca specifica delle scienze del linguaggio, la sociolinguistica. Una buona parte dei fenomeni di variazione constatabili in una lingua presenta una correlazione con fatti sociali. La lingua varia secondo i seguenti parametri: 1. il tempo (variazione diacronica): 2. lo spazio (variazione diatopica); 3. gli strati e i gruppi sociali (variazione diastratica); 4. le situazioni comunicative (variazione diafasica): 5. il mezzo usato (variazione diamesica). Il primo parametro è di natura storica, come ci dice la sua denominazione, mentre tutti gli altri riguardano la lingua in sincronia. Tre di essi (variazione diafasica, diastratica e diatopica) sono stati introdotti nel 1960 nella teoria linguistica da Coseriu [1981b); gli altri si sono aggiunti nella riflessione successiva e li tratteremo anche qui, per quanto non siano accettati da tutti gli studiosi. Questi parametri non sono staccati, ma correlati tra loro, a volte in una mescolanza inestricabile. Qualunque sia la dimensione della variazione, dobbiamo rapportarla a due concetti legati alla coscienza identitaria dei parlanti. I loro ruoli sociali e le loro relazioni si manifestano nella scelta delle varietà. Questa scelta si sviluppa tra due poli comunicativi opposti: la prossimità e la distanza. La varietà standard, che è formale e prevalentemente scritta, rappresenta il polo della distanza; le varietà più colloquiali e i dialetti il polo della prossimità e dell'intimità, perché presuppongono un dialogo informale, di solito tra persone che si conoscono. I cambiamenti linguistici sono di solito più lenti e graduali di quelli sociali e li seguono per vari motivi; tra questi c'è il principio di comprensibilità, poiché ogni nuovo stato di lingua deve essere compatibile con lo stato precedente per essere recepito dai parlanti, che altrimenti ne sarebbero destabilizzati; l’inter-comprensibilità tra il nuovo e il vecchio stato di lingua è invece la garanzia della loro coesistenza, anche tra più generazioni. Assieme all'esigenza di comprensibilità, tra le spinte universali abbiamo l'economia, un principio che impedisce, per esempio, alle parole di diventare troppo lunghe o blocca sul nascere la continua proliferazione di sinonimi che sarebbero tutti possibili, in teoria. 6. La lingua varia secondo gli strati e i gruppi sociali: la variazione diastratica La variazione diastratica implica il concetto sociale di prestigio e si sviluppa su una linea continua tra varietà di prestigio massimo e minimo. Essa contempla l'eterogeneità che caratterizza un punto preciso nello spazio, è collegata all'esistenza delle classi sociali e implica anche che alcune caratteristiche nel modo di parlare e di scrivere siano sviluppate secondo condizioni esterne alla lingua, dovute a fattori demografici (i giovani e gli anziani; il genere) o sociali (chi abita in città e chi in campagna; chi è più o meno istruito; chi svolge un lavoro piuttosto che un altro, ecc.). Partiamo dalla diastratìa sociale, perché il fatto che esista una correlazione tra stratificazione della società (intesa sulla base di tre parametri classici, reddito, occupazione, grado di istruzione) e variazione linguistica è osservato fin dall'antichità; esso è stato studiato in modo intenso a partire dal Novecento e fa anche parte del senso comune. In Italia, in particolare, nelle ricerche sociolinguistiche, è considerato con molta attenzione il parametro del grado di istruzione, anche in modo relativamente indipendente dai livelli di reddito: a nostro avviso, tra gli enormi meriti di un sistema sostanzialmente pubblico come quello italiano c'è anche quello di avere consentito a moltissime persone di raggiungere i livelli più alti della scala di istruzione anche partendo da situazioni economiche che non avrebbero consentito, nei paesi anglosassoni, lo stesso avanzamento. La correlazione, insomma, tra un reddito alto e un grado di istruzione alto, in. Italia, funziona molto meno che altrove. Le varietà alte sono garantite dal prestigio sociale, dalla scuola, dalle grammatiche e dai vocabolari e si difendono con il sanzionamento dell'errore linguistico; quelle basse dal livello di inclusione e di esclusione nei gruppi sociali (le tifoserie, i gruppi giovanili, ecc.). Entrambe, quale che sia il prestigio, difendono il loro territorio. Il prestigio linguistico è quindi strettamente legato al prestigio dei gruppi sociali (che, come abbiamo detto, non è obbligatoriamente legato a parametri economici): c'è un legame stretto e reciproco tra gli utilizzatori di una varietà e la varietà stessa. Questo principio ammette, ovviamente, innumerevoli eccezioni individuali, ma siamo già nel campo della variazione diafasica. 7. Le variabili demografiche: età e genere Il genere condiziona la variazione linguistica secondo fattori e direzioni che richiedono ancora un notevole approfondimento. In attesa di sviluppi su questi aspetti, va detto subito che sesso e genere non sono affatto la stessa cosa, in questo contesto. Il primo si concentra sul dato biologico, il secondo (che è un calco dell'inglese gender: d'altra parte si tratta di studi che hanno preso impulso dalla riflessione americana) si concentra invece sui risvolti sociali e culturali della differenza di carattere sessuale Inoltre va sottolineato che discutere di differenze biologiche tra un linguaggio maschile e uno femminile rischia di essere un dibattito vecchio prima ancora di essere partito: l'articolazione della strutturazione sociale ci impone oggi di valutare realtà più complesse di così, in cui persino l'ingresso di un «terzo genere» rischia di essere una schematica semplificazione e in cui devono essere considerati attentamente problemi di designazione e anche di autopercezione. Per quanto riguarda l'italiano, i maggiori punti critici si concentrano in questi settori: il fatto che il maschile sia il genere non marcato, che quindi comprende sia gli individui di sesso maschile sia quelli di sesso femminile (nella frase I cittadini hanno scelto ci si riferisce sia ai cittadini sia alle cittadine, mentre in quella: Le cittadine hanno scelto il genere, quello femminile, è marcato); Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465 il punto precedente ci porta al problema grammaticale dell'accordo, che in italiano funziona tradizionalmente al maschile plurale quando ci sono individui di sesso sia maschile sia femminile (Erika e Giorgio sono andati al mare); c'è poi il problema, su cui si sono fatti moltissimi passi in avanti, delle professioni e delle cariche di cui prima esisteva solo il maschile (ministro/ministra). 8. L’italiano popolare o italiano dei semicolti Il cosiddetto italiano popolare o italiano dei semicolti. Per quel che abbiamo detto, l'italiano popolare è una varietà le cui caratteristiche emergono prevalentemente nello scritto, ma la dimensione «orale degli incolti quando parlano in italiano e non in dialetto» non può essere trascurata. Che cos'è, esattamente, l'italiano popolare? Hanno evidenziato come i tratti dell'italiano popolare siano sostanzialmente unitari rispetto alla geografia perché essi emergono nei testi di incolti di tutta Italia, senza troppe distinzioni: questa visione è condizionata dal fatto che è stato dato un peso molto grande allo scritto. Il dibattito teorico sulla collocazione dell'italiano popolare nel repertorio è piuttosto complesso e non lo ripercorriamo neanche per sommi capi; la sua conclusione può essere riassunta nel fatto che l'italiano popolare è sostanzialmente una varietà diastratica bassa dell'italiano regionale. Infine, nel lessico, abbiamo i malapropismi, cioè le parole storpiate per un fenomeno che altrove chiamiamo «etimologia popolare», vale a dire perché esse sono accostate a parole già note: glebe 'gleba' per influsso di plebe; decredato "degradato' per influsso di decreto; balzamata 'imbalsamata" per influsso di balsamo, ecc… Quanto alla produzione scolastica, in molti casi da essa traspare l'incapacità di dominare tutte le articolazioni della lingua italiana nei suoi usi scritti e parlati, un tessuto linguistico molto povero, una capacità di elaborazione concettuale piuttosto scarsa, anche in chi ha completato un paio di cicli di istruzione. Più in generale, si tratta di un fenomeno di crisi linguistica che storicamente, negli anni del cambiamento economico post-bellico, ha coinvolto molti ambienti ed è stato messo in relazione con il trauma sociale del passaggio di milioni di persone dalla campagna alla città, con l'abbandono del dialetto a cui non è corrisposta un'adeguata acquisizione della varietà nazionale; «si può parlare di sottosviluppo linguistico, come si parla di sottosviluppo economico» Tuttavia la persistenza di questa produzione di grande povertà si è manifestata ben più a lungo del tempo di riassorbimento dei traumi legati ai cambiamenti economico-sociali degli anni Cinquanta e Sessanta e non ha avuto certamente un argine nella scuola, in cui l'insegnamento della grammatica e le pratiche della lettura e della scrittura sembrano anzi essersi indebolite, piuttosto che rafforzate. 9. L’italiano delle generazioni: il linguaggio giovanile Nei decenni scorsi si è molto insistito sull'esistenza di una varietà particolare di italiano usata dai giovani. In generale, dovunque si formino gruppi chiusi (caserme, luoghi di lavoro particolari, gruppi di tifosi, e quindi anche luoghi di aggregazione giovanili) si creano le condizioni per una differenziazione linguistica. In particolare, quella generazionale sembra basarsi su tre funzioni: 1. la funzione identitaria, che segna l'appartenenza a un gruppo e tende a delimitare i confini verso l'esterno; 2. la funzione ludica, con cui si deformano pezzi di materiali linguistici «esterni» riportandoli nella varietà giovanile nella nuova forma; 3. la funzione di autoaffermazione sia all'interno del gruppo sia al suo esterno. 10. L’italiano delle periferie In italiano è poco affrontato il cambiamento linguistico diafasico in relazione ai linguaggi delle periferie, che cominciano ad essere studiati intensamente in altre realtà europee , può darsi che non ci sia, o non ci sia ancora una realtà sociale tale da determinare situazioni del genere, ma è più probabile che questi aspetti siano finora emersi solo in relazione a realtà particolari, come quella del dialetto napoletano di Gomorra. 11. I gerghi Infine, i gerghi, che sono un ricordo del passato recente e non solo della diastratìa italiana concentrata soprattutto al nord; i primi gerghi sono documentati già nel tardo Medio Evo. I gruppi sociali che hanno fatto uso dei gerghi storici sono di solito ai margini del sistema: la malavita, il vagabondaggio (giostrai, giocolieri, mendicanti) e alcuni mestieri che comportano il girovagare (calderai, arrotini, spazzacamini, muratori, ecc.). Essi esprimono una vera e propria antilingua, nelle intenzioni segreta ai non iniziati; ed è una formazione parassitaria perché si appoggia su una lingua preesistente cambiandone alcuni aspetti, soprattutto lessicali e semantici. In realtà la segretezza è solo una parte della questione: tutti i gerghi sono stati decifrati da tempo. Molta più importanza ha la funzione di identificazione giocosa nel gruppo: chi usa il gergo si sente in qualche modo parte della comunità e protetto da essa. 12. La lingua varia secondo la situazione comunicativa: variazione diafasica La variazione diafasica o situazionale è quella legata alla situazione comunicativa. La variazione diafasica si realizza in tre aspetti fondamentali: 1. il campo, che è innanzitutto l'argomento di cui si parla o si scrive, e in secondo luogo la natura dell'attività che si svolge (una serata al bar, gli appunti di una lezione, il discorso pubblico, una telefonata, un esame all'università, una chat); 2. il tenore, che è il ruolo sociale e comunicativo in cui si dispone chi partecipa a un'interazione: ci si rivolge in modo diverso ai propri genitori, ai familiari, agli sconosciuti, a una persona che si percepisce come autorevole (i pronomi allocutivi); 3. il modo, che è il mezzo o canale fisico attraverso cui l'interazione si realizza. 13. La variazione stilistica o di registro Nella variazione diafasica dobbiamo considerare una dimensione molto importante, quella di registro o di stile. Essa e in sostanza il grado di formalità di un'interazione: tanto più alta quanto più rispettiamo determinate regole riconosciute di comportamento sociale e linguistico. Il grado di formalità è una linea continua che prevede ai due estremi il comportamento formale al massimo Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465 grado e informale e colloquiale al massimo grado: in mezzo c'è una scala infinita di registri comunicativi. Lo scritto, che per sua natura è programmabile, ha o dovrebbe avere un grado di formalità, controllo e accuratezza più alto; il moltiplicarsi di scritture che in modo benevolo possiamo definire come informali (tipica-mente, sui social media) ha messo però in discussione questa convinzione. Anche il parlato può avere infinite differenziazioni e infiniti livelli intermedi tra, per esempio, un discorso del presidente della Repubblica e il coro della curva di uno stadio. Formalità e informalità si distribuiscono in tutti i livelli della lingua, dalla pronuncia fino all'articolazione sintattica del discorso. Ci concentreremo sul lessico e sulla presenza, in italiano, di una serie di sinonimi che variano per livello di formalità. Esistono anche parole informali ormai quasi uscite dall'uso quotidiano, ma rimaste nel linguaggio giornalistico come parole espressionistiche per conferire una certa brillantezza agli articoli di cronaca: grana contro denaro, soffiata contro rivelazione, seminare contro far perdere le tracce; in tanti altri Casi di coppie di parola informale e formale la prima è stata ormai relegata ad arcaismo (procella o fortunale contro tempesta). 14. La variazione di sottocodice: i linguaggi specialistici o settoriali La variazione diafasica ha un grande sviluppo a partire dalle rivoluzioni politiche ed economiche dell'epoca moderna, specialmente dal secondo Ottocento in poi, e risente profondamente della specializzazione della società e della costituzione di gruppi sociali sempre più stratificati. L'aumento di complessità delle attività umane, con la nascita del settore secondario (l'industria) e lo sviluppo del terziario, ha solo ampliato, oggi a dismisura, la proliferazione dei linguaggi specialistici o settoriali. Veniamo così alla seconda dimensione fondamentale all'interno della diastratìa cioè la variazione di sottocodice, determinata dall'argomento. Si chiamano sottocodici perché si tratta di varietà della lingua connesse a âmbiti, campi e sfere di attività specifiche il cui lessico presenta corrispondenze tra significato e significante «aggiuntive all'interno del codice lingua ed estranee al suo tronco comune». Mentre la differenza di stile investe quasi tutti i livelli della lingua, quella di sottocodice investe soprattutto il lessico, la semantica e la dimensione testuale. Si tratta di un fatto di portata molto rilevante per via della specializzazione sempre maggiore della società nei saperi, nelle tecniche e negli aspetti della vita pubblica e privata. Le vie di formazione del lessico di un linguaggio settoriale sono due: 1. la coniazione ex novo (in alternativa il prestito da altre lingue) di parole (che in questo caso chiameremo termini) o unità polirematiche che la lingua comune non possiede e che esistono solo in un determinato settore: angiocolite per la medicina, positrone per la fisica, denaturazione per la chimica, fonema per la linguistica, concerto grosso per la musica, trequartista per il calcio; 2. l'uso di parole della lingua comune usate in un'accezione più specifica (rideterminazione semantica), cioè l'acquisizione di un nuovo significato proprio di un determinato settore: per fare esempi degli stessi campi semantici, risonanza per la medicina, momento per la fisica, addolcimento per la chimica, variazione per la linguistica, allegro per la musica, scivolata per il calcio. Questo secondo fenomeno porta spesso alla formazione di coppie di sinonimi in cui ci sono un elemento più comune e uno più specifico: quello che per un chimico è il cloruro di sodio per i parlanti comuni è il sale, quella che per il meteorologo è una precipitazione per gli altri è la pioggia, quello che per un medico è una cefalea per gli altri è un mal di testa, quella che per un botanico è una pianta decidua per gli altri perde le foglie, ecc… Infine, le caratteristiche interne dei linguaggi settoriali e professionali sorpassano largamente i confini nazionali. Le espressioni linguistiche sono ugualmente transnazionali, anche nella terminologia. I linguaggi settoriali sono delle tradizioni del discorso che valgono per differenti lingue, indipendentemente dalla loro origine. 15. La lingua varia attraverso il mezzo: la variazione diamesica La lingua può variare a seconda del canale e del mezzo adottato; si tratta della variazione diamesica. Ai tradizionali mezzi dello scritto e del parlato si è aggiunto, nel corso del Novecento, il trasmesso. All'interno di ciascuno di questi canali esiste un ampio ventaglio di possibilità. Il parlato è veicolato in prevalenza dal canale fonico-acustico e può essere prodotto dalla voce in presenza oppure, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica, del telefono e dei suoi sviluppi e degli strumenti di registrazione e di riproduzione del suono (registratori, lettori, ecc.); lo scritto è veicolato da una lunga serie di supporti più o meno stabili e duraturi, dalle tavolette di cera all'alba della storia fino al papiro, la pergamena e la carta, alle incisioni e alle scritte murali (le cosiddette scritture esposte) e naturalmente alla videoscrittura. dal punto di vista storico, la lingua parlata precede la sua fissazione per iscritto di alcune decine di migliaia di anni, probabilmente intorno ai 200.000 (l'arrivo del trasmesso è ancora più recente e avviene nell'ultimo secolo); dal punto di vista dell'acquisizione della lingua, come tutti sappiamo, da bambini si comincia prima a parlare e poi a scrivere (e questa seconda attività può anche non essere mai acquisita, come avveniva in moltissimi casi nell'Italia del passato); dal punto di vista della prassi, c'è una sproporzione enorme tra l'attività di parlare e quella di scrivere, e quasi tutta la nostra comunicazione e interazione con le persone avviene attraverso il parlato; dal punto di vista strettamente linguistico, il parlato è dotato di mezzi paralinguistici (tono, gestualità, volume, ecc.) di cui lo scritto è sprovvisto. Siamo già entrati, come si vede, nel campo delle differenze tra scritto e parlato, che è ora di esaminare nei dettagli. 16. Differenze tra scritto e parlato La serie di differenze fondamentali tra parlato e scritto prende in considerazione sia le modalità di trasmissione sia i principali tratti legati alla situazione. Innanzitutto, la durata. Il parlato è evanescente e cessa di esistere nel momento in cui viene detto, escludendo ovviamente il caso della registrazione, mentre lo scritto è duraturo: abbiamo infatti testi scritti risalenti a migliaia di anni fa, mentre non disponiamo di registrazioni anteriori al 9 aprile 1860. In secondo luogo, la correggibilità. Il parlato è immediato, e soprattutto non è correggibile. Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465 Si può sempre riformulare una frase «sbagliata» per il contenuto o per la forma, ma una volta che è detta è detta. Lo scritto invece può essere corretto in ogni modo: cancellando, sbarrando, riscrivendo. Anzi, nella scrittura con supporti elettronici possiamo anche non lasciare traccia del processo di elaborazione: le correzioni «non si vedono» e al ricevente arriva solo la versione che consideriamo definitiva. Dal punto precedente consegue che esiste una differenza di programmazione, nel senso che lo scritto è più programmato e strutturato. Normalmente c'è più tempo per scrivere e articolare una frase, mentre il parlato è più veloce per natura; spesso chi parla cerca di guadagnare tempo e non ha la possibilità di pensare a lungo su che cosa dire e sul modo in cui dirlo. Per giunta chi ascolta deve stare ai tempi di chi parla e non può aumentare o diminuire i tempi di emissione di una frase, mentre leggendo o scrivendo si può in qualche modo regolare la velocità di lettura e in parte anche quella di scrittura. La scrittura in rete ha rimesso largamente in discussione questo principio. Il parlato contiene in sé una serie di possibilità di variazione del tono della voce. Si può urlare, sussurrare, modulare in modo che il ricevente abbia le informazioni rafforzate. Per giunta, le parole possono essere accompagnate dalla gestualità e da interiezioni ed esclamazioni anche non articolate, che però a volte prendono il posto di un'intera frase e in ogni caso ci consentono di spiegare bene che cosa vogliamo dire. Questo nello scritto quasi non è possibile. C'è poi una differenza di contesto. In una conversazione faccia a faccia chi parla e chi ascolta vive la stessa situazione e vede/sente le stesse cose intorno: un vantaggio che chi scrive e chi legge, vivendo quindi situazioni diverse, normalmente non ha. Molto di quello che abbiamo detto vale anche per le conversazioni non in presenza, come quelle telefoniche, in cui si tende a mandare segnali discorsivi a chi parla se non altro per rassicurarlo sul fatto che si è in ascolto e che non è caduta la linea. Lo scritto esclude invece la possibilità di feedback immediati: si può reagire a un messaggio scritto, ma solo in un secondo momento. Insomma, il parlato ha forme comunicative necessariamente un po' più sbrigative, anche se più chiare. Tra parlato e scritto ci sono forme ibride; per esempio, il parlato può essere trascritto (per esempio, negli atti parlamentari), perdendo di solito una parte della spontaneità in favore di una maggiore programmazione. Paradossalmente, la frammentarietà e l'abbondanza di elementi ridondanti o, al contrario, lacunosi in una conversazione orale fanno sì che quanto più una trascrizione è fedele al testo orale di partenza tanto meno è comprensibile. 17. Il canale parlato È quasi diventato un obbligo premettere, prima di qualunque approfondimento, che l'italiano parlato ha differenze significative rispetto allo scritto, ma non una grammatica diversa. La deissi. In questa sede prenderemo in esame alcuni tratti specifici che riguardano il comportamento linguistico di chi parla, a cominciare da uno dei cardini del parlato, la deissi, vale a dire la collocazione di un essere animato o di un oggetto nello spazio e nel tempo. Il punto originario della deissi è infatti: io, qui, adesso. Di conseguenza, le categorie tradizionali della deissi sono: personale, spaziale, temporale». Naturalmente questi tre elementi possono cambiare. Abbiamo così la deissi personale, in cui sono coinvolti i pronomi personali, in primo luogo quelli degli interlocutori di un dialogo (io, tu, voi, meno frequentemente quelli di terza persona). In secondo luogo, abbiamo la deissi temporale (non necessariamente il presente, ma anche il passato e il futuro); infine abbiamo la deissi spaziale, che si riferisce alla posizione e al punto di ancoraggio nello spazio di un evento comunicativo (questo, quello; là, laggiù, ecc.). Il turno di conversazione. Nella prospettiva pragmatica (cioè nella prospettiva della linguistica che studia il parlato come forma dell'agire nel contesto comunicativo e sociale), una conversazione è un atto cooperativo tra i cui protagonisti il ruolo del parlante di turno e del suo interlocutore sono ugualmente importanti; entrambi finiscono per essere complementari, per esempio nelle coppie di domanda e risposta, nei saluti, nelle dinamiche di offerta e accettazione, in cui la parte del primo interlocutore influenza la parte del secondo. Nella conversazione i turni di parola si avvicendano. Lo fanno a volte ordinatamente, quando chi parla finisce il suo turno, poi comincia il turno dell'interlocutore (per es. in un consiglio, in cui addirittura si chiede di parlare alzando la mano). La maggior parte delle volte, però, il cambio non è ordinato: nella comunicazione reale abbondano le sovrapposizioni, le interruzioni, le situazioni in cui si interviene non appena si ritiene che l'interlocutore abbia finito quello che ha da dire, anticipandone le conclusioni o troncandole. Nella narrativa, nel cinema, nel fumetto e in altre situazioni che riproducono il parlato o il parlato- recitato abbondano i falsi cambi di turno, in cui l'intervento di chi ascolta è un semplice espediente tecnico per interrompere chi sta parlando e produce una spiegazione troppo lunga. Si tratta di una tecnica spesso usata nel corso delle interviste sui giornali: in esse spesso il giornalista inframmezza il discorso dell'intervistato con propri segnali come Cioè? E quindi?, Vada avanti, che probabilmente non ha mai effettivamente pronunciato nel corso del colloquio. I segnali discorsivi. Nella lingua parlata, ma anche nella narrativa e nelle scritture informali, abbiamo spesso la presenza di elementi linguistici (parole, frasi) che, a partire dal significato originario, assumono ulteriori funzioni nel discorso a seconda del contesto: sottolineano la strutturazione del testo, connettono elementi nella frase e tra le frasi, esplicitano la posizione dell'enunciato nella dimensione. Possono appartenere a varie categorie grammaticali: congiunzioni, avverbi… 18. Il canale scritto Lo scritto, che nella tradizione occidentale è organizzato nello spazio da sinistra a destra, presenta, qualunque sia il suo supporto (carta, pietra, schermo, ecc.) un piccolo spazio bianco tra una parola e l'altra. Il sistema di separazione tra le parole viene interiorizzato nel momento stesso dell'acquisizione della scrittura, che avviene in Italia alla fine della scuola dell'infanzia o all'inizio della primaria. Un testo scritto consta anche di sottodivisioni interne utili per una serie di motivi pratici facilmente intuibili: consente a chi scrive di raccogliere e di esporre meglio le idee e a chi legge di recepirle con maggiore chiarezza isolandone i nuclei informativi essenziali. Scaricato da lanna Ran ([email protected]) lOMoARcPSD|36924465 I confini tra gli enunciati sono marcati dai segni di punteggiatura forti (punto, punto e virgola, due punti), a cui si aggiungono quelli che riproducono con qualche approssimazione il tono interrogativo o esclamativo del parlato. I capoversi sono blocchi di testo di varia lunghezza, che raggruppano informazioni distinte da quelle dei capoversi precedenti e successivi, e sono ricompresi tra due a capo: sono pertanto riconoscibilissimi per motivi grafici. Il testo: il testo, nel suo senso strettamente linguistico, per essere tale deve possedere queste caratteristiche: 1. la coerenza tematica, logica e nel riferimento ai contenuti e alla realtà, e la coesione grammaticale, che devono esserci entrambe: la frase Oggi il bambino di quattro secoli si è fatto la barba è perfettamente corretta sul piano della grammatica e degli strumenti linguistici, ma non della coerenza e dell'interrelazione tra le parti informative della frase; 2. l'intenzionalità e l'accettabilità degli attori della comunicazione, che collaborano tra loro perché la comunicazione vada a buon fine attraverso la buona organizzazione visiva delle informazioni, la loro divisione in blocchi e in paragrafi; 3. l'informatività, cioè la capacità di trasmettere informazioni; 4. la situazionalità, cioè la caratteristica di trovarsi in una situazione, in un contesto comunicativo specifico a cui si deve adeguare (è fuori luogo, per es., dire «ciao» a uno sconosciuto o «a presto» cominciando un discorso); 5. l'intertestualità, cioè il fatto che qualunque testo si inserisce necessariamente in una rete di conoscenze pregresse, di libri letti, di film visti, di notizie ascoltate, di saperi appresi per imitazione di un maestro, ecc.; 6. l'appropriatezza, cioè il fatto che un testo tiene conto preferibilmente della necessità di usare un linguaggio appropriato. - I testi narrativi assumono nello scritto la forma della prosa (romanzi, racconti, fiabe, ecc.) o della poesia (liriche, poemi, ecc.). - I testi descrittivi sono quelli che producono descrizioni oggettive, atemporali (nel senso che, non essendoci accadimenti, l'alternanza di tempi che contraddistingue altri testi ha poco senso), incentrate prevalentemente sulla dimensione spaziale (come quelle di una guida turistica, di un dépliant, di un identikit, ecc.). Pochissimi sono i testi descrittivi «puri»: è molto più frequente, come vedremo tra poco, che ci siano parti descrittive di altri testi, come la pausa in una narrazione. - I testi argomentativi hanno lo scopo di persuadere e di convincere il ricevente. Sono i più complessi e variegati: vanno dal discorso politico al teorema matematico, dall'arringa in tribunale alla tesi di laurea, dalla recensione al commento giornalistico. - I testi informativi «realizzano la funzione di trasmettere in modo oggettivo un sapere a un ricevente che si presuppone ne sia privo», prevalentemente in un ordine che va dal già conosciuto verso il nuovo in modo che questo possa essere interpretabile sulla base di fatti e di dati già noti a chi legge (o ascolta). - Infine, i testi regolativi, che contengono prescrizioni, norme, istruzioni per l'uso, regole comportamentali; insomma, tutto ciò che comporta un punto di vista imposto (a differenza di quello argomentativo, che tende a convincere e non a obbligare). Sono di tipo regolativo i testi normativi (leggi, decreti ministeriali, bandi di concorso, ecc.: Sommando e tenendo presente l'insieme di questi tre aspetti e guardando sia all'emittente (l'autore) sia al ricevente (il lettore), Sabatini giunge a una suddivisione dei testi in tre categorie fondamentali: 1. i testi molto vincolanti, come i trattati scientifici (specialmente delle scienze «dure» come la matematica o la fisica, fino alla linguistica), davanti ai quali un lettore ha pochissima libertà interpretativa. Essi presentano una lingua altamente codificata e spersonalizzata, un'argomentazione basata su evidenze scientifiche e una logica stringente. Alla stessa tipologia appartengono, o dovrebbero appartenere, i testi giuridici di natura prescrittiva, come le leggi e i decreti, la normativa, le comunicazioni degli enti pubblici (ma questa è già un'area di contatto con la prossima categoria); 2. i testi mediamente vincolanti, che presentano una lingua formale ma non così rigidamente codificata, le cui argomentazioni sono meno serrate e che tendono alla chiarezza essendo rivolti a un pubblico non specialistico (i testi espositivi e descrittivi, i libri di divulgazione storica, artistica o scientifica, i libri di storia, di politica, ecc.), lasciando margini di libertà interpretativa al lettore; 3.i testi poco vincolanti, che presentano una lingua molto variegata (i testi poetici e narrativi, il teatro, i fumetti, i testi pubblicitari, ecc.), che lasciano la più ampia libertà di interpretazione al lettore. 19. Il canale trasmesso Una vasta area di natura ibrida è raccolta in una terza dimensione, quella del parlato trasmesso. Naturalmente esiste anche uno scritto trasmesso, per esempio quello del telegiornale, in cui gli interventi di chi conduce sono scritti prima e letti da un gobbo dando l'impressione della massima naturalezza. Tra le differenze fondamentali tra scritto e parlato da una parte e trasmesso dall'altra, la principale consiste nel fatto che i mezzi di comunicazione di massa tradizionali, la radio e la televisione, non contemplano l'interazione con il ricevente: il flusso di informazioni è unilaterale e unidirezionale dall'emittente a chi ascolta, senza che quest'ultimo abbia la possibilità di partecipare. Il flusso unidirezionale è dunque la caratteristica unificante del parlato trasmesso, che però al suo interno conosce enormi differenze, tante per quanti sono i generi televisivi: l'informazione, lo sport, la divulgazione scientifica e storico-artistica, la narrativa (cinema, serie televisive, ecc.). Il Sandokan di Sollima è nella posizione insolita di essere nello stesso tempo un prodotto artistico interamente italiano e di essere doppiato, almeno per alcuni dei protagonisti principali; per una narrazione ambientata in Malesia qualunque forma di regionalità italiana sarebbe stata, naturalmente, fuori luogo. I prodotti narrativi italiani per la tv e il cinema presentano un panorama molto più mosso ma anche molto più problematico, che va dall'italiano senza particolari caratterizzazioni fino al dialetto, passando per il continuum dell'italiano regionale. I mezzi, come poi si è visto, possono tranquillamente affiancarsi, magari con scopi in parte diversi: la televisione e la radio hanno convissuto per lungo tempo e la loro attività complementare sembra che durerà a lungo. Il calcio in tv è peraltro uno degli ultimi segmenti legati alla diretta, mentre quelli narrativi, cinema e serie tv, sono sempre meno legati al mezzo televisivo in senso proprio; la radio invece è quasi per definizione un mezzo «in diretta», e probabilmente non è un caso che tutte le frasi iconiche più importanti del Novecento (fuori dal calcio, ricordiamo l'importanza di «un uomo solo al comando» con cui Mario Ferretti dipinge Fausto Coppi) siano venute da questo mezzo, e non dalla televisione. Scaricato da lanna Ran ([email protected])

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