Appunti di Comunicazione Aziendale PDF
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Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano (UCSC MI)
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Gli appunti trattano la comunicazione aziendale come disciplina scientifica, analizzando i processi di scambio di messaggi all'interno dell'azienda e con gli stakeholder. Vengono affrontati gli obiettivi aziendali, i tipi di rumore che influiscono sulla comunicazione, i pubblici destinatari e l'importanza di comprendere i trend di consumo per il successo di mercato. L'approccio è integrato, considerando teorie della comunicazione, dell'impresa, del marketing, e altre scienze sociali.
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La comunicazione aziendale come disciplina scientifica L’oggetto di studio della comunicazione aziendale è costituito dall’insieme dei processi di scambio di messaggi che si realizzano all’interno dell’azienda e tra questa e gli attori dei sistemi competitivo (concorrenti, fornitori, cliente, distri...
La comunicazione aziendale come disciplina scientifica L’oggetto di studio della comunicazione aziendale è costituito dall’insieme dei processi di scambio di messaggi che si realizzano all’interno dell’azienda e tra questa e gli attori dei sistemi competitivo (concorrenti, fornitori, cliente, distributori) e sociale (istituzioni locali, società), con lo scopo di contribuire al perseguimento degli obiettivi aziendali. Gli obiettivi aziendali che di solito sono perseguiti grazie alla comunicazione sono espressione della personalità al fine di incrementare la notorietà dell’identità. Bisogna far conoscere la propria identità, creare notorietà, far sapere che si esiste, far conoscere la propria esistenza, creare awareness. Un altro obiettivo aziendale è sviluppare un'immagine favorevole presso tutti i pubblici, dove ciò che conta è il giudizio che gli stakeholders si formano sull’azienda, sui suoi prodotti e su come opera. Avere un’immagine favorevole consente di cristallizzarla in un’opinione, una valutazione favorevole creatasi nel tempo. Si tratta di obiettivi intangibili. Questa immagine interessa all’azienda sia nella corporate, quindi in generale, che a livello di brand. La reputazione è un concetto più solido dell’immagine. Farsi conoscere ha la finalità di sviluppare un’immagine favorevole che con il tempo si trasformi in reputazione. Oltre a questi obiettivi, se si tratta di comunicazione commerciale, anche chiamata comunicazione di marketing, allora si aggiunge l’obiettivo di incrementare le vendite dei prodotti. Questo va a includere tutta una serie di aspetti, come la pubblicità, il direct marketing, l’email marketing, tutto il mondo dei giveaway, gli sponsor post, il mondo delle sales promotion. L’impianto teorico della comunicazione aziendale attinge da due grandi aree di ricerca: - La teoria della comunicazione, da cui trae le basi di riferimento circa i modelli di azione della comunicazione. Un esempio è il modello AIDA (attention interest design action) → la capacità di farsi guardare è alla base della monetizzazione dei post. Il post ha attirato l’attenzione di qualcuno che poi ha interagito in qualche modo. Il livello successivo è l’interest, l’interesse suscita desiderio, che è il moto di tutto. La marca deve farsi desiderare e per farlo utilizza la comunicazione. Il packaging, l’advertising, l’experience del punto vendita sono tutte forme di comunicazione. È la comunicazione che muove tutto l’elemento di desiderabilità. L’action potrebbe essere chiedere informazioni sul prodotto, comprare, quando si arriva a far comportare il consumatore è un’azione. - La teoria dell’impresa, in particolare l’economia e gestione aziendale e il marketing. Ogni forma di comunicazione ha dei costi e dei ricavi, degli obiettivi di business da raggiungere. Questo deriva dalla teoria d’impresa. A queste discipline di base si aggiungono ampi riferimenti ad altre scienze sociali come la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la semiotica… Non si può investire pensando di raggiungere i singoli individui, bisogna puntare su un gruppo di persone. L’interesse delle aziende è come creare desiderio, che nelle piattaforme è sempre collettivo, è un’energia di collettivo. La sociologia è una delle discipline incluse. Studia cosa porta le persone ad aggregarsi anche a livello social. Si studia come creare passione e interesse nelle piattaforme che crei movimento. La psicologia invece subentra in modo da comprendere le motivazioni degli acquisti. Spesso i gruppi nascono da ragioni di autostima o altri fattori che devono essere ben noti alle aziende al fine di capire come relazionarsi agli acquirenti. Il processo di comunicazione Il processo di comunicazione è il processo attraverso il quale una persona, un’azienda o un ente si pone in relazione con una o più persone, aziende o enti, avvalendosi di simboli verbali e non verbali. Ci sono tre tipi di rumori (una barriera che agisce e che rende un messaggio inefficace, interrompe, modifica o ostacola la comunicazione tra ricevente e mandante). Il primo è di tipo mnemonico: il messaggio non viene ricordato dal pubblico perché troppo complesso oppure perché c’è un altro elemento che distoglie l’attenzione dal prodotto. Il secondo tipo di rumore è quello tecnologico, c’è un investimento di comunicazione ma qualcosa di tecnologico non funziona e quindi il messaggio non viene recepito (per esempio, le pagine sfocate nella stampa, il collegamento satellitare che salta…). L’ultimo tipo di rumore è quello semantico: il messaggio non viene capito o viene mal interpretato o è soggetto a critica perché ritenuto non idoneo a vincolare un dato messaggio. In questo modo si formano i giudizi negativi. Questo tipo di rumore è spesso legato all’ironia. La comunicazione aziendale La comunicazione aziendale è l’insieme delle iniziative attraverso le quali l’azienda attiva un processo di comunicazione con uno o più stakeholder per proporre elementi della propria identità al fine di sviluppare un’immagine favorevole. Chi sono i pubblici destinatari della comunicazione? I consumatori, le banche, gli istituti finanziari, gli shareholders (azionisti, persone che hanno finanziato e hanno una parte di capitali dell’azienda), i dipendenti, gli investitori, i partners, i media, la stampa, gli influencers, le pubbliche autorità (enti locali, ministeri, comitati), i sindacati, i community groups, i protestors (no vax), le lobby, le charity. Il cliente è colui che acquista il prodotto. Il consumatore è chi acquista in generale in quella categoria di prodotti ma non necessariamente quello dell’azienda. Understanding consumer trends Si parla di trend perché i trend di consumo sono uno dei punti in comune tra coloro che si occupano di marketing e il mercato perché capire e anticipare le tendenze è assolutamente fondamentale per qualsiasi marca che vuole inserirsi in un mercato. I trend sono studiati dagli strategist e sono venduti alle aziende. Il brand è la risorsa più importante e redditizia a disposizione dell’azienda. Il brand deve essere in grado di anticipare ciò che piace. I trend servono esattamente per far sì che una marca riesca a stare al passo con i tempi e sia appetibile per il cliente. La parola trend deriva dal verbo to turn, che significa svoltare, girare. In sociologia, un trend è la predizione di qualcosa che succederà in un determinato modo, un simbolo di cambiamento, più in specifico, qualcosa che verrà accettata dalla persona media. Una sotto parte del concetto generale di trend sono i trend di consumo, ovvero un cambiamento, una svolta che riguarda lo stile di vita e il gusto che rimane nascosta per certi momenti ed è destinata a svilupparsi nei mesi o anni a venire. I trend di consumo sono importanti perché capire e anticipare le tendenze di consumo è fondamentale per ogni marca che voglia competere in un mercato. Un trend di consumo che riguarda prodotti e servizi che sono consumati dal cliente va a impattare sulla vita e sui regimi di gusto del cliente stesso. Il trend è un cambiamento che ha un effetto duraturo sullo stile di vita. Un trend normalmente deve apparire come una sorpresa, non deve essere già conosciuto dal marketer. Nella loro accezione originale, i trend sono qualcosa attorno alla quale i clienti stanno iniziando a radunarsi e che ha caratteristiche di accettabilità sociale e farà dunque tendenza in futuro per poi essere adottato dalla massa. Quando il trend dura solo il tempo di una stagione viene chiamato fad, un cambiamento effimero e momentaneo che ha una durata breve e che viene facilmente rimpiazzato e diventa obsoleto in poco tempo. I fad attraggono i trendsetters, durano meno di un anno e sono normalmente il risultato di innovazioni di prodotto di entità minore. I fad vengono fortemente sfruttati come investimenti di marketing molto veloci. I fad non sono meno importanti rispetto ai trend, ma hanno durata più breve, motivo per cui sono oggetto di grande investimento e raramente influenzano grandi gruppi. I megatrend si riferiscono a cambiamenti culturali, economici, politici o tecnologici che sono in procinto di succedere e che andranno ad impattare tutti o quasi tutti gli aspetti di una società per un lungo periodo di tempo. Un esempio è l’intelligenza artificiale, che sta impattando tutti i settori, la società, il modo di relazionarci con gli altri. La sostenibilità è un altro megatrend. All’interno di un megatrend si possono trovare n trend. Perché i trend sono importanti? Possiamo permetterci di parlare di trend perché siamo in una società evoluta, i consumatori sono più interessati allo stile e al gusto quando sono benestanti perché si trovano in cima alla gerarchia dei bisogni di Maslow, i bisogni alla base della piramide sono soddisfatti quindi si sale sempre di più. Quando tutti gli altri bisogni di base sono stati soddisfatti la persona si annoia, quindi si desidera, si cerca sempre la novità. Le persone che hanno accessibilità alle risorse finanziarie, economiche e culturali, quelle che sono al top della piramide dei bisogni, sentono una necessità di cambiamento. I trend di consumo si sviluppano come cambiamento di bisogni e desideri che si sviluppano nel momento in cui sono stati appagati tutti gli altri bisogni. Questo desiderio porta le persone a spendere, a volere e cercare una soddisfazione, cercare una risposta che li muova. Non desiderare porta alla depressione perché la vita in quel modo diventa piatta. I trend, quando si affermano, nel momento in cui agganciano le persone, sono anche una cura a stati di ansia e di apatia. Oggi le parole chiave sono well being, il piacere. Più siamo smaterializzati, sempre di fronte ad uno schermo, più cerchiamo fonti di piacere, autoespressione, di trasgressione, che ci aiutino a trovare l’unione con il nostro corpo. Ci sono nella nostra società due tipologie di figure molto importanti nei trend che solitamente non coincidono: gli innovatori (imprenditori, illuminati che hanno l’idea, pionieri…) e i trend setter, ovvero coloro che capiscono il valore dell’innovazione e hanno il potere di influenzare per adottare questa innovazione e farla adottare dagli altri. Tipiche categorie di innovatori sono le persone giovani, scienziati, designer, artisti, persone agiate (hanno accesso a circoli in cui l’innovazione circola di più, a certi livelli di innovatività si ha accesso solo con un determinato livelli di risorse finanziarie), persone della comunità LGBT, celebrità e altre sottocategorie di consumatori. In ogni modo, non tutti gli innovatori creano nuovi trend. In molti casi, quello che viene creato, non causerà un cambiamento drastico in stile e gusto che andrà a toccare grandi gruppi di persone, ma se queste innovazioni vengono adottate dai trendsetter, lo stile diventerà un trend. Mentre i creatori dei trend solitamente sono degli eroi ben conosciuti, i trendsetter normalmente non lo sono. Questa situazione però è cambiata con l’avvento degli influencer. Gli influencer sono gli attuali trend setter e sono diventati le nuove celebrità digitali grazie alle loro capacità superiori di networking e self-branding. Gli influencer sono quelle figure che vengono pagate dalle aziende per fare in modo di raggiungere una determinata target audience, l’influencer è un guru di trend. Queste nuove figure sono portatori di brand alla massa, portatori guru che sanno cosa funziona e la gente li segue. I trend setter hanno l’abilità di diffondere un’innovazione trasformandola in un trend grazie alla loro connettività con i loro colleghi. Secondo la teoria della diffusione dell’innovazione di Everett Rogers, del 1962, quando viene introdotta un’innovazione sul mercato, essa segue la forma di una curva gaussiana. Questo è l’andamento normale con cui un’innovazione nasce, cresce, raggiunge il picco e infine decresce. Gli innovatori sono coloro che introducono l’innovazione, poi ci sono gli early adopters che sono i primi ad adottare questa innovazione. In questa categoria ricadono anche i trend setter. Ci sono in seguito la early majority, la late majority e i laggards, ovvero quelli che rifiutano l’innovazione, che sono legati al passato, gli anti consumisti o coloro che non hanno le disponibilità economiche. I lead users sono stati definiti da Eric von Hippel, nel 1986, come consumatori di un prodotto o servizio che è ancora sconosciuto al pubblico in quanto li sperimentano mesi o anni prima che il bulk di quel mercato li incontri. Normalmente, i lead user sono consumatori che beneficiano enormemente se ottengono una soluzione a queste necessità. I lead user sono il target più attraente per il trendsetting e il trendspreading. Il concetto di lead user esiste da prima che esistessero gli influencer. Eric introduce il concetto di lead user, un altro modo per chiamare gli early adopters, persone particolarmente sensibili a fare qualcosa di nuovo e quindi si attivano per cercare dov’è la novità, sono persone che sentono prima questo bisogno di innovazione. Si tratta di un talento, è difficile saperlo fare. I lead user sono persone che conducono, era il termine che negli anni ‘80 si usava per descrivere quello che oggi sono gli influencer. Sono persone che conducono perché hanno il talento e la capacità di trovare innovazioni e renderle appetibili alla massa, che decide per aspirazionalità e imitazione di adottarle per sentirsi accettati. I lead users sono coloro che portano la early e la late majority ad adottare un trend. Scenario della comunicazione La comunicazione è cambiata. Non esiste più solo il modello lineare con una fonte attiva da un lato e un ricevente dall’altra senza nessun elemento di disturbo a parte i rumori. Viviamo in un mondo che è sempre in tumulto e il cui ritmo di innovazione e cambiamento sta diventando progressivamente più veloce e dirompente. Tradizionalmente, i brand sono stati costruiti cercando di focalizzarsi sulla continuità e sulla esposizione di massa sui media controllata da persone responsabili di prendere una decisione per il brand con l’obiettivo di perseguire contatti con i mercati target che potrebbero beneficiare i brand. Questo si è poi tradotto in un approccio di brand communication caratterizzato da uno scambio di messaggi dal singolo a molti e da un targeting, progettato secondo una logica di comunicazione unilaterale. Questo tipo di approccio comunicativo non funziona più. Oggi il mondo della comunicazione è frammentato e reticolare, è un network. La maggior parte della comunicazione si svolge online e anche se si effettua dal vivo transita comunque nel digitale. Se un influencer parla di un prodotto, la sua comunicazione è più efficace dell’azienda che parla bene di sé stessa. L’azienda è spesso meno autorevole e più esposta perché lo scenario digitale della comunicazione fa sì che ci siano molteplici fonti di messaggi. I consumatori oggi hanno molto scetticismo nei confronti delle comunicazioni autoreferenziali, le quali hanno quasi un effetto controproducente. Oggi la comunicazione non può essere unilaterale e destinata a essere uguale per tutti. Technoculture A livello concettuale, la nostra è una società in cui le tecnologie modellano qualsiasi tipo di esperienza vissuta dalle persone. Mette in evidenza la commistione attuale tra le tecnologie, le aggregazioni sociali e le esperienze culturali che avvengono con e attraverso le tecnologie e che impattano il modo in cui creiamo le nostre identità, come vediamo il mondo, come interagiamo e come socializziamo e anche in che modo consumiamo. Come possiamo capire cosa vogliono i consumatori? È sufficiente guardare i loro selfie, che è un classico modello di elemento techno culturale. Si tratta di un neologismo che non esisteva prima dell’avvento degli smartphone. Questa caratteristica ha rappresentato un cambiamento epocale perché selfie è diventato un termine da vocabolario perché è una pratica nuova; ha dentro di sé tutti gli elementi tipici della tecnocultura. È una pratica sociale perché si possono taggare altre persone per creare interazioni sociali; è un momento di costruzione di conversazione collettiva (questo fenomeno rientra nella FOMO); è una pratica fotografica, quindi un gesto estetico; è una pratica di costruzione della propria identità attraverso cui una persona, tipo un influencer, costruisce il suo personaggio/la sua buyer persona (il personaggio passa attraverso i selfie che vengono fatti, trucco e parrucco, sfondo, altri personaggi…); è uno scatto dove nella maggioranza dei casi gli influencer monetizzano, ha quindi un valore monetario perché la persona si riprende con un prodotto, il tutto contrattualizzato. L’autoscatto diviene quindi un oggetto di vendita. Tutto ciò che c’è in internet, incluso i selfie, può essere replicato, ma si tratta di un contenuto unico, nulla è ripetibile esattamente allo stesso modo. Quindi il selfie racchiude in sé le quattro pratiche precedentemente citate. Guardare i selfie dà quindi un altro spaccato sui consumi. Una grande tendenza del momento sono gli anti-haul: gli influencer usano uno spazio comunicativo per mostrare cosa non comprare. In questi video si vedono prodotti criticati messi poi a confronto con altri migliori. Questo genere di video vuole essere più “autentico”, quindi le persone che li fanno si mostrano normalmente struccate e più spontanee rispetto ai post su Instagram. Un altro elemento della technoculture è l’AI chatbox o il generative AI. Ogni fenomeno che noi oggi vediamo, anche se non è all’interno delle tecnologie, ha inevitabilmente una risonanza a livello digitale. Consumatori in evoluzione I consumatori di oggi non sono riceventi passivi del messaggio ma vogliono essere sempre più protagonisti. Sono desiderano sempre di più co creare e produrre personalmente contenuti significativi che si relazionino ai loro brand. I consumatori pretendono di essere ascoltati e coinvolti nella produzione di contenuti relativi al brand, sentono il profondo bisogno di essere protagonisti dello scambio con aziende e brand. Non devono essere visti come semplici target ma come collaboratori o partner nella generazione del valore per il brand attraverso il networking. Le marche devono mettere al centro il consumatore perché è ciò che quest’ultimo vuole: le marche si fanno pubblicità, ma il prodotto non può più essere al centro perché deve lasciare spazio all’utente; il prodotto si sposta sullo sfondo e quello che viene messo in scena è la problematica del consumatore. Le aziende puntano a soddisfare i bisogni dei propri consumatori per migliorare la loro capacità di competere in termini di qualità, distintività, innovazione e per riappropriarsi della fedeltà nei confronti del brand e difendere i propri profitti. Ai brand viene richiesto di mettersi nelle scarpe del consumatore per concedergli quel protagonismo che richiedono nelle loro interazioni con il brand. Avviene uno spostamento verso l’abbandono del metodo di comunicazione tradizionale controllato e basato sul mittente per adottare un modello comunicativo emergente che non sia definito e pianificato dall’azienda. Le aziende e i loro brand, i consumatori e gli stakeholders hanno in generale lo stesso status e possono tutti attivare, ostacolare, diffondere, condividere un processo dialogico di significato che può creare o distruggere il valore di un brand. Levi’s, ad esempio, abbandona le campagne con personaggi iconici per passare a campagne eteree cariche di valori. La Walt Disney è sempre stata portatrice di valori buoni e a favore delle minoranze ma questi valori sono spesso rifiutati da certi consumatori. Online si creano le partigianerie di persone che prendono le parti di qualcuno nei conflitti tra influencers per esempio. I media digitali sono costruiti in modo che seppur lontani, gli influencers vengano percepiti vicini e autentici da chi li guarda. Attualmente, vale di più la credibilità rispetto all’autorità. Mostrare cose di sé, incluse le fragilità e suscitare empatia è una cosa che devono fare anche le marche, devono risultare coerenti, non autoreferenziali. La sfida oggi quindi è quella della credibilità e non dell’autorevolezza. Quello che una volta era preparazione teorica ora si è tramutato in esperienza diretta. Il do it yourself dei consumatori sono diventati un esempio da seguire per le aziende. La comunicazione dell’azienda è sempre stata push, spingeva il prodotto verso il mercato con pubblicità semplici, ripetitive e che comunicavano vantaggio economico, oppure pull, ovvero una comunicazione fatta per tirare a sé il prodotto da parte del mercato, è il consumatore che lo tira a sé. Si rende il prodotto desiderabile creando intrattenimento o facendo leva sulle emozioni. Con i social media si è aggiunto a queste forme il do it yourself con cui le aziende chiedono al consumatore, con dei contest, di fare lui stesso le campagne, di dare idee di pubblicità o di prodotto. Si tratta di un modo economico e ingaggiante di coinvolgere il consumatore che è estremamente dotato. Questa modalità, tipica dei creator, è diventata essenziale. Il consumatore oggi vuole fare, produrre ed esprimersi ed è sempre più spesso capace. Brand identity, functions and positioning La marca è una risorsa aziendale. Nella sua definizione è già presente una parte che riguarda i desideri dell’azienda ma nel contempo è presente anche una grossa parte che riguarda il consumatore perché è quest’ultimo che la marca deve rappresentare, altrimenti si tratta solo di un prodotto. La marca comprende tutta la parte di desiderio che è presente nel prodotto, infatti i consumatori sentono sempre maggiormente di propria proprietà la marca. I consumatori si appropriano ogni giorno della marca anche semplicemente parlandone, facendo foto in cui si vedono i prodotti di un brand: in questo modo i consumatori fanno propria la marca, reclamano l’ownership della marca. Questo processo non è sbagliato. Un certo tipo di brand è sinonimo di una maggiore qualità di prodotto, c’è un valore simbolico che si è creato e che il logo è riuscito a costruirsi nel tempo. In molti casi, come nel settore del fashion, si è a conoscenza del fatto che i beni vengano prodotti in luoghi come la Cina, dove la manodopera e le materie prime hanno un costo inferiore. Non si può parlare di giusto o sbagliato, le cose hanno sempre funzionato così perché da quando nasce, la marca è un aggregatore ed è un gruppo di appartenenza, attraverso i simboli è possibile trovare persone simili (like mindness). Attraverso le marche ci si può relazionare con persone simili. Le marche sono delle risorse culturali perché hanno una cassa di risonanza. Dal punto di vista aziendale la marca è stata definita come un nome, una parola, un simbolo, un design o una combinazione di questi elementi, che hanno lo scopo di identificare il prodotto o servizio di un’azienda o un gruppo di aziende e di differenziarlo da quello dei competitor. La marca è il marker di appartenenza a un dato modo di fare un design, uno stile che è associato all’azienda che lo firma. Inoltre, la marca è stata identificata come una serie di associazioni mentali del consumatore che aggiungono al valore percepito di un prodotto o servizio. Questo tipo di associazione deve essere unica (exclusivity), forte (saliency) e positiva (desiderabile). Le persone sono abituate e sono rassicurate nel vedere il logo di una certa azienda a firma di un determinato prodotto. Un recente studio portato avanti dall’agenzia DDB ha chiesto ai direttori di marketing che cosa considerano essere le caratteristiche di un brand forte. In ordine di importanza, le risposte sono le seguenti: - Brand awareness (65%) - La forza del posizionamento del brand, il concetto, la personalità e un’immagine precisa e distinta (39%) - La forza di riconoscimento da parte del consumatore, quindi logo, pubblicità e packaging (36%) - Autorità del brand con i consumatori, la stima del brand, lo status percepito dal brand e la fedeltà dei consumatori (24%). I benefici che il brand offre ai consumatori sono: - Identificazione→ essere chiaramente visti, essere in grado di identificare velocemente il prodotto ricercato. - Praticità→ essere in grado di risparmiare tempo ed energia grazie ad un re-acquisto identico e alla fedeltà. - Garanzia→ essere sicuri di trovare la stessa qualità a prescindere da dove o quando si acquista il prodotto o servizio. - Ottimizzazione→ essere sicuri di comprare il prodotto migliore nella sua categoria, il miglior performer per un particolare scopo - Badge→ avere la conferma della propria immagine di sé o dell’immagine che si presenta agli altri. - Continuità→ soddisfazione creata dalla relazione di familiarità e intimità con il brand che il consumatore continua a consumare da anni - Edonistico→ incantamento legato all’attrattività del brand, al suo logo, alla sua comunicazione e ai suoi premi di esperienza. - Etico→ soddisfazione legata al comportamento responsabile del brand nella sua relazione con la società (ecologia, occupazione, pubblicità che non porta a shock). Brand identity L’identità di marca è la prima dimensione del brand che viene studiata. Cos’è l’identità di marca? È un insieme di dimensioni precise che vanno a delineare gli attributi della personalità, della cultura, dello stile comunicativo con cui la marca vuole essere presente sul mercato. Quali sono queste dimensioni? La brand identity può essere rappresentata da un esagono di cui ogni punta rappresenta una dimensione secondo Kapferer: - Fisico→ un brand ha qualità fisiche. È fatto di una combinazioni di caratteristiche oggettive, che vengono subito in mente quando viene menzionato il brand, o caratteristiche emergenti. Il primo step dello sviluppo di un brand è quello di definire il suo aspetto fisico: cos’è concretamente? Cosa fa? Si tratta di tutti quegli elementi non solo fisici ma anche materiali e visivi che rappresenterebbero l’aspetto fisico della marca se venisse pensata come una persona. Un esempio sono il logo e il marchio. Il logo è il primo e più importante elemento identitario: nel logo ci sono i colori, il simbolismo. La differenza tra logo e marchio è che il logo è il nome del brand scritto con determinati caratteri dell’alfabeto istituzionale, il marchio è il simbolo grafico visivo che rappresenta l’azienda. Il marchio e il logo possono coincidere (Coca Cola ad esempio non ha una simbologia, quindi il suo marchio è il suo logo). In molti casi non c’è un elemento simbolico separato dal nome. In inglese non esiste la parola marchio, quindi in inglese il logo significa marchio. Il trademark è il marchio legale e registrato. I punti vendita monomarca hanno tutti le stesse caratteristiche comportamentali. - Personalità→ un brand ha una personalità. Comunicando, la costruisce gradualmente. Il modo in cui parla dei suoi prodotti e servizi mostra che tipo di persona sarebbe se fosse umano. La brand personality è descritta e misurata da quelle caratteristiche umane che sono rilevanti per il brand (per esempio l’uptodate per i computer). Come per una persona rappresenta le caratteristiche che esprimono il carattere di un brand. La marca viene sempre associata ad una persona. Per esempio se si pensa a Google le caratteristiche che vengono in mente sono ficcanaso, colorato, arrogante, confident, giovane, impaziente, aggressivo. Google è un tipo di azienda in cui le persone che entrano hanno un tipo di personalità molto aggressivo e dinamico, estremamente attratte dal successo, dalla prestazione, l’achievement. - Cultura→ per cultura si intende l’insieme dei valori che alimentano l’ispirazione del brand. È la risorsa del potere ispirazionale. Gli aspetti culturali si riferiscono ai principi base del brand. Per esempio la Apple è il prodotto della cultura californiana nel senso che questo stato simbolizzerà sempre la nuova frontiera di innovazione di ispirazione del brand. La cultura raggruppa i valori fondativi che orientano l’azienda ma anche i valori dei consumatori. Ad esempio si può avere come cultura il trend delle hypebeast, persone che hanno la mania di acquistare gli ultimi prodotti dei brand di streetwear. Più i brand sono in grado di identificare delle sottoculture e a rispondere alle loro esigenze e più il brand avrà successo nel tempo. La Vans, per esempio, è il brand degli hipster. - Relazione→ il brand è una relazione. I brand sono spesso alla base di transazioni, scambi e conversazioni tra le persone. Per esempio, Dior simbolizza un tipo di relazione sgargiante, che espone il desiderio di brillare come l’oro. - Reflection→ si tratta dello specchio della self-image, è come gli altri vedono il consumatore di un certo brand. Quando viene chiesta l’opinione riguardo a certe macchine, le persone rispondono immediatamente in termini del tipo di clientela del brand. Poiché la sua comunicazione e i suoi prodotti più sorprendenti vengono costruiti nel tempo, un brand tenderà sempre a costruire un riflesso o un’immagine del consumatore a cui sembra indirizzato. - Self-image→ è un elemento fondamentale e rappresenta l’immagine di sé che il consumatore di un certo brand ha, questo succede perché il consumatore è parte del brand. Funzioni del brand nel tempo La marca comincia ad esistere quando le aziende cominciano ad investire nella comunicazione di marca negli anni 60. Prima di questi anni non venivano fatti investimenti così forti per fare comunicazione di marca. Negli anni 60 c’è il boom economico quindi gli investimenti delle aziende nella marca risentono delle condizioni sociali del tempo: le persone hanno più tempo da spendere per scegliere un brand rispetto ad un altro. Si tratta di una decade di espansione e di ripresa, è un periodo in cui cominciano a fare capolino nei punti vendita diverse aziende che propongono lo stesso prodotto, quindi si inizia a sentire il bisogno di differenziarsi. In questi anni il brand ha una signal function. Negli anni 80 comincia ad avere una semantic function. Sono gli anni dei jingle, che hanno una funzione totale di memorizzazione perché il cantato rimane èiù impresso nella memoria del consumatore. Negli anni 80 si registra un grande boost economico, sono gli anni dell’american dream; è una grande decade che ha visto il successo dei brand americani. Sono anni in cui la gente sta bene, può sognare, le marche vengono connotate di un valore simbolico enorme e cominciano ad essere viste come un’estensione di sé. Le persone acquistano i prodotti come completamento della propria personalità e questo tipo di concetto è tuttora valido: le persone sono i prodotti che usano, teoria nata proprio in questi anni. Negli anni 90 invece c’è stata la reazione e inizia a diffondersi l'anticonsumismo e iniziano i movimenti no logo, contro il simbolismo della marca. Nascono i movimenti e le contro culture di consumo. Negli anni 80 la marca ha una funzione semantica, si dà una funzione all’acquisto, si entra a far parte di un gruppo sociale facendo un acquisto, la marca diventa un attributore di significato. Negli anni 90 invece avviene la crisi economica, nascono i discount, le regine dell’unbranded (non è possibile per nessun prodotto essere venduto senza un produttore, in questo caso il produttore c’è ma non viene reso noto, non è comunicato. Per questo motivo costano molto meno). Un altro elemento degli anni 90 sono le private label, la marca del supermercato. In questo periodo il brand assume una funzione pragmatica, si torna un po’ indietro, a livello di creatività sono un po’ anni morti. Brand positioning L’obiettivo del brand positioning è quello di identificare, e prendere possesso di una forte ragione d’acquisto che dia al brand un vantaggio reale o percepito. Il positioning è orientato alla competizione: specifica il modo migliore di attaccare la quota di mercato dei propri concorrenti. Può cambiare nel tempo proprio perché è relativo a qualcun altro, mentre la brand identity è più stabile. Si parla infatti di brand repositioning, che avviene ogni tot anni per rivedere la domanda proposta. Si tratta di un concept in cui l’azienda scrive perché il consumatore dovrebbe comprare un prodotto. Ci sono delle caratteristiche che devono essere messe in luce. A livello tecnico e simbolico il posizionamento è uno statement ma in prima istanza è un concetto che esprime la ragione d’acquisto. Nello statement il riferimento al target deve essere espresso in pochissime parole fortemente espressive. Il posizionamento si sceglie rispetto agli altri, motivo per cui è chiamato competitivo. L’elemento in rilievo nel posizionamento è la promessa di marca, ovvero il vantaggio che la marca offre al cliente. Questa ragione d’acquisto è sempre costruita per differenziare rispetto a quello che fanno i competitor. Arriva poi l’elemento che dà la reason to buy, la promessa di marca, che rappresenta il vantaggio che il brand offre al consumatore e che viene costruita dal brand manager e proposta alla clientela. Si tratta dell’insieme delle caratteristiche più appealing che vengono mostrate; le aziende devono mostrare che hanno studiato i bisogni del cliente e che hanno elaborato una proposta, possibilmente originale, che possa soddisfare quel dato bisogno. La promessa di marca può rimanere evasiva e può essere astratta. C’è poi la reason to believe, si spiega perché si deve credere Brand positioning Il brand positioning è essenzialmente il processo principale del marketing ed è costituito da 4 momenti: 1. Definizione del target→ si tratta della definizione del mercato obiettivo a cui ci si vuole rivolgere con la propria offerta. Non si tratta di un processo semplice perché dietro c’è una grande ricerca, questionari e tutto ciò che serve ad identificare il consumatore. C’è dietro la ricerca primaria e secondaria (focus group, questionari…), tutto ciò che serve ad identificare il target, soprattutto le variabili comportamentali, che sono diverse, per esempio come passano il tempo le persone, cosa guardano su internet, cosa guardano per prima quando entrano in un negozio… ed uniscono le variabili di feeling e lifestyle. Si possono vedere attraverso le osservazioni, che sono le ricerche più impegnative e costose. Anche in questo caso, va considerato che tramite interviste o sondaggi, i consumatori potrebbero mentire o rispondere in maniera casuale, motivo per cui è più efficace osservare direttamente i comportamenti. Più un prodotto si rivolge a tutti, meno è efficace il posizionamento. Si possono definire i propri consumatori, o possibili consumatori sulla base di chi sono e sul modo in cui pensano di sé stessi, cosa provano, come guardano alla vita e come si comportano individualmente, socialmente e nei confronti del brand. Per definire il target si può utilizzare una checklist: - Identificabilità→ è facilmente identificabile? Anche per quanto riguarda prodotti generici è necessaria una precisa identificabilità; - Dimensioni→ is it big enough? Le dimensioni del mercato devono essere sufficientemente grandi per avere successo; - Accessibilità→ è facilmente accessibile? È un aspetto fondamentale. Si deve capire come parlare al target, come raggiungerlo. Individuare i touchpoint comunicativi; - Responsiveness→ come risponderà ai programmi di marketing (sia quelli generali che quelli creati appositamente)? Bisogna chiedersi che tipo di risposta ci si aspetta dal target. Ci sono attività che promuovono la vendita immediata e altre che invece mirano alla trasmissione di valori e quindi puntano alla fedeltà del cliente e alle vendite dilazionate. 2. Identificazione dei competitor→ ci sono i competitor e i comparable. I competitor sono gli attori che operano nello stesso settore, quindi quei brand che offrono lo stesso prodotto e da cui bisogna differenziarsi. Normalmente in un mercato si scelgono i competitor con cui entrare in concorrenza diretta, che di norma sono 3/4. Per identificare i propri competitor bisogna innanzitutto guardare la quota di mercato, un indicatore numerico che indica la percentuale di vendita di un dato prodotto da parte di un’azienda rispetto ad un’altra. Nei mercati molto competitivi si può avere una quota di mercato del 15% ed essere comunque l’azienda leader. Si avrà sicuramente come competitor il leader di mercato, che è sempre un benchmark di riferimento, è uno standard da cui ci si deve quindi differenziare, non si può avere un posizionamento simile a quello del leader. Si vanno a vedere anche coloro che hanno una quota simile alla propria, di questi ultimi bisogna sapere tutto (come comunicano, chi hanno come testimonial, dove distribuiscono…) perché bisogna differenziarsi e anche quei player che hanno una quota più bassa ma che stanno crescendo a ritmo più sostenuto degli altri a livello di crescita. Questi player diventano automaticamente competitor e devono capire cosa fanno di differente in modo da non farsi sorpassare. I comparable invece non sono competitor, sono aziende molto importanti che operano in altri settori che possono essere vicini o lontani dal proprio ma che hanno qualche caratteristica simile al proprio brand (valori, target, ideologie, stile comunicativo). Pur appartenendo a settori diversi sono per i brand delle possibili fonti di ispirazione. I comparable sono fondamentali nel posizionamento perché sono quelli da cui si prendono le idee da portare nel proprio settore per differenziarsi. 3. Consumer insight→ un altro elemento che rappresenta il cuore della strategia di marketing. Il consumer insight è una breve espressione di quei bisogni latenti e non ancora soddisfatti o di un’opportunità più favorevole che i prodotti esistenti non coprono. Richiede sia capacità analitiche che creative. Si tratta dell’intuizione di quei bisogni e desideri latenti che stanno cominciando ad emergere e che nel futuro diventeranno gli early adopters. Il brand manager può identificare un consumatore tipo che dovrebbe acquistare il bene e a questa persona vengono attribuiti una serie di caratteristiche e dettagli precisi. I trend servono esattamente a questo, cavalcare l’onda prima che lo facciano gli altri. La consumer insight è l’intersezione tra gli interessi di un consumatore e le caratteristiche del brand. Il suo compito principale è quello di capire perché ai consumatori importi del brand. È recentemente diventato anche un lavoro, ora esiste il customer insights manager. Dopo aver identificato competitor e comparable avviene la definizione dell’insight. Il consumer insight fa fronte a quel bisogno latente che rappresenta una comprensione da parte della marca dei bisogni profondi che stanno cominciando ad emergere in un determinato contesto sociale e che di lì a poco traineranno il mercato. Un esempio è quello di Henkel Vernel: inizialmente le persone non vedevano il beneficio di utilizzare l’ammorbidente. Vernel, che è tuttora leader di mercato, decide di voler innovare il suo prodotto e ridurre le dimensioni della bottiglia e l’impatto ambientale e per farlo doveva identificare un insight sul consumatore che facesse da leva. La situazione del mercato è che nel 2011 l’uso di ammorbidenti era in calo, le persone avevano bisogno di conferme sul risultato finale e in più c’era un atteggiamento molto scettico nei confronti del prodotto, e quindi aveva un atteggiamento price sensitive, anche perché il risultato del lavaggio con o senza ammorbidente non dava troppe differenze e quindi consumatore doveva continuamente essere rassicurato. Nel momento in cui si gioca il posizionamento sul prezzo significa che il brand non ha altro da dire, quindi se arriva sul mercato qualcun altro che vende lo stesso prodotto a un prezzo più vantaggioso il brand perde in principio. Vernel però capisce che il suo consumatore è una donna che in altri ambiti ama prendersi cura di sé, quindi anche nella vita quotidiana l’esperienza ha comunque un valore di desiderabilità anche traslato su un ambito banale come quello dell’ammorbidente, ricerca dei piccoli piaceri che sono una modalità di auto espressività. In più è da anni che lo scent, il tema del profumo, è uno dei sensi maggiormente utilizzati nella strategia di marketing, perché il profumo è immediatamente collegato ai ricordi, quindi non c’è niente come esso che porti alla mente ricordi passati. Se questo viene traslato negli store, per scegliere l’ammorbidente le donne per prima cosa aprono le bottiglie per sentire il profumo, che è il primo driver di scelta. Il brand quindi decide di innovare con il concetto di aroma therapy, che ha portato anche ad una revisione dei pack, che sono passati da pack anti estetici a pack molto più aesthetically pleasing che attirano l’attenzione. Questo viene poi copiato da tutti gli altri brand. Il consumer insight viene dal brand e lo scrive in prima persona come se venisse dal consumatore. L’insight è un concept fondamentale sui bisogni del consumatore che viene poi passata agli uomini dell’agenzia che la usano per capire come rispondere a questo bisogno. I POP e POD illustrano in che modo il brand è insieme unico e simile ai brand con cui è in competizione e perché il consumatore dovrebbe comprarli e utilizzarli. I POD (point of difference) o reason to choose sono le caratteristiche che illustrano la reason to buy al consumatore, sono gli elementi che devono essere distintivi rispetto ai competitor e sono il motivo per cui il consumatore dovrebbe acquistare. È una dimensione del prodotto importante per i consumatori che permette al brand di distinguersi dai competitors. Se il posizionamento riflette una differenza che il prodotto non è in grado di consegnare o che non è importante per il gruppo target, il posizionamento non potrà avere successo. Possono essere di due tipi: - Attributivi→ di natura funzionale e comunicativa e sono differenze di tipo prestazionale. Il brand viene inserito in una storia che dice perché è importante acquistare il bene in relazione alle sue caratteristiche fisiche e di prestazione. Sono messaggi più tecnici e informativi e anche più imitabili, c’è meno creatività. - Image based→ di natura affettiva e esperienziale. In questo caso la differenziazione che dà la ragione d’acquisto è intangibile. Che cosa rende un prodotto unico? L’insieme dei valori legati all’intrattenimento, l’emozionalità… che sono creati ed evocano nella mente del consumatore un determinato brand. I POP, point of parity sono una particolare dimensione o attributo che un gruppo di consumatori considera essere abbastanza o che incontrano le loro aspettative, sono i cosiddetti must have irrinunciabili per poter competere. Sono quegli attributi senza i quali si ha uno svantaggio competitivo. Il loro valore competitivo non è averli ma il fatto che da un punto di vista competitivo possono essere utilizzati per neutralizzare i POD dei competitor. È un punto di parità competitiva che viene utilizzato quando un competitor introduce un’innovazione che è stata introdotta da un altro competitor per primo. Quindi nel momento in cui si copia una novità, si neutralizzano i POD perché a quel punto li possiede anche il brand. Cultural branding La marca è sempre di più un attore al pari del consumatore, che crede nelle stesse ideologie e si inserisce nel suo sistema valoriale. Il cultural branding è una strategia e un modo di fare marca che vede la marca come un attore culturale che si inserisce nel mondo ideologico/valoriale/esperienziale del consumatore. È importante nella contemporaneità perché ci troviamo in una società reticolare che è fatta da consumatori che si aggregano contemporaneamente intorno ai loro interessi. La contemporanea networked society, dove i consumatori sono sempre connessi e aggregati, sta enfatizzando la necessità per il cultural branding. Il cultural branding si riferisce alla capacità di un brand di stabilire un dialogo spontaneo con le comunità di consumatori che si aggregano attorno ad argomenti di potenziale interesse per l’azienda. Tutto ciò che riguarda il consumo, il branding e la navigazione che avviene nel mondo digitale è sempre aggregativo e di gruppo, basti pensare alle recensioni e ai commenti. È diventato strutturalmente scontato nel modo di approcciare le piattaforme digital prendere decisioni che sono formate da una pluralità di persone e non individuale, sia perché si vuole avere l’opinione altrui sia perché non ci si fida della pubblicità diretta del brand. La validazione sociale delle scelte individuali passa per la condivisione delle idee. Il cultural branding si riferisce alla capacità della marca in quanto attore culturale che crea valore e aderisce al sistema ideologico e valoriale del consumatore di stabilire un dialogo con le community di consumatori che si aggregano nel web intorno a temi che possono essere potenzialmente di interesse all’azienda, tutto deve avvenire nel modo più naturale possibile in modo che aggreghi persone con interessi comuni e che trovino interessante e divertente o intrattenente o esperienziale parlare di questioni che sono di interesse per la marca. Questo implica la capacità di assumere coerenza e rilevanza rispetto ai temi che aggreghino i consumatori. Questo approccio si manifesta in modo diverso a seconda del luogo in cui si applica. Il cultural branding nasce da uno studioso americano, antropologo del marketing che ora si è ritirato e fa consulenza di cultural branding. Douglas Holt inventa il termine nel 2004 quando inizia il suo primo manuale che parlava di marche come icone culturali perché parlava di come le aziende dovessero saper creare miti identitari, ovvero attraverso la comunicazione, per entrare nello stile di vita delle persone, è un’incarnazione simbolica (persona, modo di essere, personalità) che incarna in quel periodo una soluzione alla crisi generazionale che le persone stanno vivendo in quel momento. Il cultural branding è visto come un approccio strategico di fare branding dove la marca diventa un’icona culturale perché è in grado di creare miti culturali a persone che affrontano crisi generazionali e creano per loro dei mantra che fanno da faro nello sviluppo e nella crescita, tipicamente delle persone più giovani. Le persone si sentono riconosciute dal brand e anche rassicurate in qualche modo. Quando il team di marketing affronta questo aspetto deve capire che simboli culturali deve adottare per entrare nella vita delle persone in maniera sottile. Il cultural branding è un approccio strategico di branding che viene adottato quando un’azienda vuole ottenere rilevanza per la sua target audience attraverso un richiamo del loro stile di vita. Com’è performato oggi il cultural branding? Quali sono le sue declinazioni? Il real-time marketing può essere definito come una disciplina opportunistica, dove i marketer saltano su un evento corrente o una trending story per creare un pezzo di contenuto rilevante che leghi il brand all’evento. I brand saltano dentro spontaneamente, in modo apparentemente non pianificato, in un evento o una situazione che sta accadendo su cui hanno da dire qualcosa, proprio come se fossero un consumatore. Il branding reagisce a degli eventi correnti che se cavalcati nel modo giusto possono dare notiziabilità al brand. Le marche entrano in dialogo spontaneo con delle community di consumatori aggregati per fare conversazione. Di norma devono essere contenuti divertenti. Si deve avere la capacità creativa e di scrittura oltre che una rapidità perché di norma la pianificazione avviene da un giorno all’altro. Ci sono due aspetti chiave del real time marketing: - Il primo è che il brand risponde ad un evento culturale corrente e esprime la sua opinione, in modo da ottenere brand awareness e consideration. Si fa in primis perché la marca ottiene visibilità e favore; - In secondo luogo, l’uso di conversazioni in tempo reale per capire i bisogni del consumatore e raccogliere dati sui consumatori. Attraverso l’entrata in queste conversazioni, le marche raccolgono dati e informazioni utili per capire il loro mercato target. Non tutti i brand fanno real time marketing: ci vuole creatività ma nel concreto si tratta di scrivere post. Queste competenze sono sempre più ibride. Si va a capitalizzare in modo estemporaneo su qualcosa che avviene. Con questo modo di comunicare, l’azienda crea una valorialità condivisa data dal calarsi nella vita delle persone, dalla vicinanza che si crea nel parlare di temi comuni a tutti in modo ironico. Un esempio è quello che ha fatto De Cecco durante la pandemia per quanto riguarda le penne lisce. Un altro aspetto è quello che riguarda l’innovazione tecnologica. Il metaverso prima era la parola chiave e ora l’AI lo è diventato in maniera ancora più forte. Il metaverso ha sfondato particolarmente nel gaming, cambiandone i connotati, e nel mercato delle criptovalute e del prodotto digitale. È un’interpretazione futura di internet che prevede la commistione di diversi tipi di tecnologie di realtà aumentate. Sono delle realtà immersive sulle quali le aziende hanno tanto parlato e anche investito. Uno dei brand che lo ha fatto meglio è Gucci, che ha sfruttato molto bene il tutto a livello di PR, facendo diverse collaborazioni e offerte esperienziali che hanno molto attirato l’attenzione dei consumatori e fatto tanto parlare. Cultural branding Cultural branding significa saper aggregare i consumatori in gruppi interessati a quello che vuole comunicare l’azienda, aggregare persone simili e accomunate da interessi comuni. La marca non considera più il consumatore come singolo individuo ma tergetizza. Ci sono risvolti del cultural branding più seri, come il retro branding, il branding della nostalgia. Brand stabiliti da tempo evocano non solo epoche passate ma anche versioni passate dell’individuo. I nuovi brand usano il retro branding come strategia per connettere i loro consumatori a un’epoca d’oro passata percepita come più autentica, in armonia con la natura e in cui le persone vivevano in maniera lenta e senza ansia e inoltre come epoca in cui la qualità dei prodotti era migliore e non era compromessa. Qual è il suo valore culturale? Da parte di aziende che hanno una storia alle spalle di prodotti che hanno soddisfatto nel corso di decenni i bisogni dei consumatori sempre più attenti, quindi usano delle tecniche per rimandare al passato con nostalgia perché il passato è sempre idealizzato mentre il presente e il futuro sono rappresentati come distopici perché portano incertezza. Il passato viene normalmente idealizzato perché richiama non solo il passato del prodotto, dato che si pensa che tutto fosse più artigianale poiché c’era meno domanda e i tempi erano più lunghi, c’era più attenzione al dettaglio e alla qualità, più prodotti iconici, ma anche perché è legato alla giovinezza perché quando si va avanti con l'età normalmente se si guarda al passato si crea un sentimento di nostalgia perché subentrano i ricordi. Il retro branding è un approccio culturale attraverso cui la marca va a parlare alle sottoculture. Rappresenta un dialogo con la parte valoriale con le persone che guardano il significato del prodotto oltre all’estetica. Un’altra sfaccettatura del cultural branding è forse l’elemento più eclatante e importante, ed è quello legato al purpose e all’attivismo. Ci troviamo in un’epoca in cui i prodotti sono così tanti da rendere difficile per una marca differenziarsi semplicemente sulle caratteristiche del prodotto, quindi succede che le aziende oggi, per cercare di differenziarsi in un mondo sempre più competitivo, cercano di estendere ai prodotti il credo della corporate: è l’azienda nella sua interezza che si mette in gioco per connotare i propri prodotti in maniera sempre più unica e distintiva. Il posizionamento avviene dell’intera azienda che sta dietro a quel prodotto e non più solo di quel prodotto. Prima di comprare un certo articolo, i consumatori vogliono sapere da chi stanno comprando e oltre a questo, le aziende prima di tutto stabiliscono il purpose, la ragione ultima per cui un’azienda esiste ed è sempre valoriale, societario. Il purpose è diventato una forma di attivismo di marca. I consumatori hanno delle aspettative che vanno oltre la convenienza e la qualità, si aspettano infatti una rilevanza culturale, una condotta etica, comportamenti sostenibili, preoccupazione per questioni sociali e deve comunicare in modo sintonico con i propri valori. Tutti questi aspetti non hanno niente a che fare con il prezzo, solo con il purpose. Il consumatore ha un peso molto maggiore rispetto a prima perché si muove come collettivo. L’attivismo è una risposta delle marche a queste pressioni da parte della società. Implica da parte dell’azienda una presa di posizione su delle tematiche scomode che sono ambientali, sociali e politiche, le aziende sono chiamate a prendere posizione. Questo aspetto va proprio a considerare la marca come un player culturale, i brand diventano attori sociali, un ruolo che qualifica il loro comportamento e la loro sopravvivenza non solo come player competitivi, ma anche come agenti di miglioramento sociale e politico. Per esempio, la Disney è alla base della creazione di alcuni dei significati e delle icone più importanti della nostra infanzia. Accompagna lo sviluppo dei bambini portando avanti i valori della famiglia, quindi ha una rilevanza educativa enorme. È un brand ideologicamente connotato. Negli ultimi anni ha cavalcato l’onda della parità dei diritti sociali, in particolare della libertà di espressione personale come l’orientamento sessuale. La Disney va a rappresentare per un pubblico di bambini un concetto di famiglia diverso da quello tradizionale. Ha voluto schierarsi in prima linea sul giorno e sulla manifestazione del gay pride e così facendo si è inimicata gran parte della popolazione americana, ma di quella dell’Europa più conservatrice. Questa presa di posizione netta, che non ha nulla a che fare con il suo prodotto, l’ha portata ad affrontare argomenti molto divisivi, soprattutto perché si rivolge ad un pubblico di bambini. In seguito a questa presa di posizione sono nati degli hashtag per boicottare la Disney, che ha perso gran parte del suo pubblico. Questo è un chiaro caso di un brand che prende una posizione ideologica. Le aziende oggi sono quindi chiamate a fare attivismo, ma spesso sono massacrate perché non lo fanno in maniera credibile. PUBLIC RELATIONS Public relations management Le relazioni pubbliche all’interno della comunicazione sono una disciplina a sé stante. Quelli che sono i PR all’interno delle aziende fanno un’attività molto specifica e per essere PR non è necessario avere un background specifico. Viviamo in un’età di grandi cambiamenti, in cui l’aggiornamento a cui siamo sottoposti è quotidiano e costante. Le piattaforme, il modo di comunicare sono in continua evoluzione e chi desidera fare questo lavoro deve essere sempre aperto ai cambiamenti. Un grande cambiamento riguarda la fiducia dei consumatori, che è sempre più in una zona molto critica: un’azienda che vuole stringere un rapporto di fiducia col consumatore deve lavorarci ogni giorno perché i consumatori sono sempre più attenti. C’è anche un tema geopolitico, stanno cambiando gli equilibri. L’Europa è un paese che invecchia e che è sempre meno forte economicamente. La comunicazione viene pesantemente influenzata dagli aspetti sociologici. Tutto quello che avviene nella società ha un impatto sul tipo di messaggio che dà l’azienda. Cambia anche l’aspetto riguardante la tecnologia: la gente fruisce il contenuto sempre di più dal telefonino. La tecnologia fa da facilitatore, quindi chi comunica all’interno dell’azienda deve cogliere tutte le opportunità date dalla tecnologia. Il tema del potere si ricollega a quello della geopolitica. Chi ha potere oggi? I consumatori, perché bisogna considerare due aspetti fondamentali: prima di tutto siamo tutti connessi, quindi ci scambiamo una quantità di informazioni tale da rendere impossibile all’azienda di dire cose non vere su un prodotto o di mistificare la realtà, il consumatore ha molti più elementi per selezionare e valutare le aziende e pretendere anche cose da essa, e poi lo scopo non è più solo fare profitto. La comunicazione si deve adattare, i messaggi trasmessi dall’azienda devono essere in linea con ciò che è richiesto dalla società. Negli anni 70/80 la pubblicità era regina delle comunicazioni. Dopodiché i brand hanno cercato di coinvolgere i clienti con la consumer experience. Ad oggi, per l’azienda è molto più difficile targettizzare, le community sono sempre più polverizzate, sparpagliate. I centri media possono aiutare le aziende a trovare il target. La comunicazione è sempre più una strada a doppio senso, possiamo sempre esprimere la nostra opinione. Si parla di co creazione del brand, i consumatori possono restituire determinate caratteristiche di un brand. Quando si parla di equity di un brand si parla dei suoi valori. Il consumatore collabora ad attribuire determinate caratteristiche al brand dopo aver fatto esperienza del prodotto. Il consumatore è diventato attore, re e autore, è multitasking. Tutto sta a capire il brand e a chi si rivolge il prodotto. La comunicazione integrata è un processo di business guidato dall’audience; tale processo riguarda le strategie verso gli stakeholders, il contesto, i canali mediatici e i risultati dei programmi di comunicazione del brand. Si è passati dalla massa alle community. Le relazioni pubbliche, all’interno dell’attività intangibile, sono una disciplina a sé stante con delle regole precise. Per essere un PR non è necessario avere un background di un certo tipo, è una funzione molto trasversale. I quattro pilastri della comunicazione integrata sono: gli stakeholder (i pubblici, l’azienda infatti ha pubblici diversi, gli stakeholder sono coloro che portano interesse; l’azienda li deve segmentare e usare un linguaggio diverso in base al segmento a cui si rivolge), il contesto (bisogna sempre chiedersi in che contesto si opera perché quest’ultimo influenza tantissimo), i canali mediatici (tutti quei canali che il mondo dei media offre per raggiungere ogni singola persona) e i risultati (controlla se è stato efficace). Un altro pilastro fondamentale sono i dipendenti, le risorse umane: le aziende comunicano sempre di più utilizzando i dipendenti, che possono essere anche causa di crisi aziendali. Ad oggi si parla di employee engagement, ingaggiare i propri dipendenti e ci sono delle funzioni di HR in cui si fanno attività di questo genere. Quello che succede all’interno dell’azienda ha un impatto sul brand, sulla sua immagine e sulla reputazione. Ci sono diversi livelli della comunicazione integrata: 1. Prodotto 2. Brand 3. Posizionamento 4. Corporate C’è una differenza per quanto riguarda la comunicazione di prodotto e di brand. Quando si parla di comunicazione corporate ci si riferisce ad una comunicazione che riguarda l’azienda in quanto organizzazione. Il piano di comunicazione prevede: - Un target→ si intervista chi fa uso del prodotto e dei prodotti dei competitors. - Una SWOT analysis→ strength, weaknesses, opportunity and threats.si fa un’analisi riguardo ai vari aspetti, come l’efficacia del nome del prodotto. - Degli obiettivi→ benchmarking, che prevede di andare ad analizzare quello che hanno fatto i competitor e poi andare anche a fare un’analisi di un brand al di fuori del settore che però si rivolge allo stesso target, quindi non un competitor ma un collateral. - Delle strategie→ deve esserci una strategia overall, ci vanno inserite tutte le azioni che sono coerenti con il target selezionato. - Un budget→ una previsione del costo, che è l’analisi più difficile. Bisogna inserire i KPIs, i key performance indicators, per ognuna delle attività che viene svolta bisogna capire quale sarà il ritorno. - Una misurazione dei risultati. Le relazioni esterne e le altre discipline della comunicazione Ci sono diverse discipline della comunicazione: - Direct marketing→ si propone un’offerta e si chiede una risposta. Un esempio sono le chiamate dei call center e comprende tutto ciò che è comunicazione diretta. - Promozione→ propone una prova e poi ricompensa. Un esempio sono le promozioni 3x2, scontistiche, buoni sconto, tutto ciò che invoglia alla prova e che punta ad avvicinare il consumatore al prodotto. - Pubblicità→ propone un acquisto, un valore. Dà dei messaggi ma non fa provare nulla. - Sponsorizzazione→ propone una percezione positiva dell’immagine. Uno stesso brand avvolge il cliente in vari modi. Offre varie esperienze in varie modalità- - Relazioni esterne→ porta un consenso/approvazione tra gli influencers. Lavorano nell’ombra. Hanno una differenza rispetto a tutte le altre, ovvero che non sono a pagamento. Occupano spazio sul filtro gratuitamente. Comprendono tutto ciò che si ottiene gratuitamente quando si parla dell’azienda. Chi si occupa di relazioni esterne non ha dei budget e non paga i media. Il filtro è quello che c’è tra l’azienda e il consumatore, come lo schermo del telefono o la tv nel caso di uno spot televisivo. Quindi queste discipline si differenziano in chi paga per usare il filtro e chi occupa spazio sul filtro gratuitamente. Gli spazi utilizzati possono essere proprietari, a pagamento, condivisi o conquistati. Lo spazio proprietario per un’azienda è il sito web, il suo spazio di cui ha il controllo totale. Lo spazio condiviso potrebbe essere per esempio una pagina social, quando un’azienda crea la propria pagina social c’è un certo livello di interazione. Gli spazi a pagamento sono quelli sugli altri media, che non fanno altro che creare contenuti per poi offrire alle aziende un target che guarda solo quei contenuti. Si tratta di una grande bolla che immerge tutti ed è tutto a pagamento, nulla è gratuito, tutto lo spazio che viene occupato sul web viene pagato con i propri dati. Gli spazi conquistati sono quelli delle relazioni esterne (earned media), si conquistano perché a quel punto la relazione non è più commerciale, ma c’è un interesse reciproco anche da parte dei media. Anche l’influencer è diventato un filtro, uno spazio che viene pagato dalle aziende. Le relazioni esterne gestiscono le relazioni tra diversi soggetti indipendenti che partecipano alla vita dell’impresa. Ci sono 3 famiglie professionali: - Le relazioni istituzionali→ le lobby sono le aziende che si uniscono in associazioni e hanno un loro lobbista che porta i pensieri e le loro necessità presso le istituzioni. Il lobbista deve essere una persona che gode di una certa credibilità. - Relazioni con gli investitori→ gli investitori sono gli azionisti, le banche, i piccoli risparmiatori, tutti quelli che hanno investito e che possiedono le azioni. - Pubbliche relazioni→ quelli che si occupano di tutto il resto. Gli stakeholders aziendali Ci sono 10 gruppi di stakeholders aziendali: Le pubbliche relazioni sono nate per occuparsi dei rapporti con i giornalisti. Le pubbliche relazioni si dividono in traditional e digital pr. La comunità culturale, il pubblico interno, l’area commerciale, il mercato e la web community sono le aree di cui si occupano le pubbliche relazioni. Nelle aziende quotate in borsa ci deve essere un responsabile dei rapporti con gli investitori. La finanza condiziona molto la vita delle aziende che ogni 3 mesi devono presentare la trimestrale dove espongono l’andamento del periodo. C’è una forte necessità di trasparenza e comunicazione data dal fatto che prima il resoconto avveniva solamente a fine anno e creava delle situazioni scomode per gli investitori. Anche in questo caso i responsabili devono avere delle capacità di storytelling e non devono solo descrivere i numeri (investor relator). Questa figura ha il compito di portare al pubblico influente tutta una serie di progetti sulla base del risultato aziendale. Riporta al CFO. Le pubbliche relazioni gestiscono i rapporti con pubblici che non sono istituzionali o finanziari. L’azienda produce contenuti. Chi fa pubbliche relazioni vende la reputazione dell’azienda, non vende niente di tangibile. Il loro obiettivo è creare simpatia nei confronti dell’azienda. Si interfaccia con il pubblico, con i giornalisti, risponde alle domande… Si dividono in digital pr e traditional pr. C’è poi la parte di crisis management, composta da professionisti che sono specializzati nel cercare di promuovere una comunicazione, un'immagine che cerchino di limitare i danni. L’agenzia di PR e i profili degli account Le agenzie come entità non hanno una struttura particolarmente piramidale. - New biz→ ricerca di nuovi clienti. - Graphic→ contenuti grafici. - Finance and controlling→ controlla i conti - Strategy and innovation (planner, researcher) → uno strategy planner è colui che analizza tutta una serie di dati da fornire poi al team creativo. Questi team sono divisi in base a ciò che sanno fare meglio, ai prodotti, ai clienti (unit). - Consumer/lifestyle business unit→ è un tipo di comunicazione che si rivolge molto al consumatore, che ha dei temi legati alla vita di tutti i giorni; sono quei brand che parlano ad un pubblico vasto con beni di largo consumo, ad esempio un brand di make-up. All’interno dell’agenzia ci si specializza imparando un dato linguaggio e determinati stakeholder. Ci sono delle competenze specifiche per situazioni in cui l’azienda deve difendersi, in questo caso si fa una comunicazione in stato di crisi. Ci sono diversi livelli. Si entra come junior account executive. Questa figura ha dai 0 ai 2 anni di esperienza e svolge un’attività di supporto per le persone a cui si affianca. Si occupa del monitoraggio dei social, delle conversazioni, fa la rassegna stampa (un giornalista che ha delle capacità di leggere tutti i quotidiani e in particolare gli articoli più significativi, anche di giornali stranieri) e dà informazioni che riguardano i clienti. Esistono a questo proposito delle agenzie specializzate che mandano ritagli di articoli che sono inerenti al brand o a informazioni rilevanti. Il junior account executive può aiutare a scrivere un comunicato stampa, aiutare nell’organizzazione di un evento (per esempio trovando una location, contattando, facendo preventivi e sopralluoghi) e può controllare le pagine social ed eventualmente scrivere dei post. Nelle agenzie più serie e strutturate non ha contatto con i clienti almeno per il primo anno, nelle agenzie più piccole invece è più probabile che il junior venga messo a contatto. Il livello successivo è quello dell’account executive, che ha almeno 2-4 anni di esperienza e ha contatto con i clienti, è la prima figura che si interfaccia con il cliente. Di solito si parla con i pari livelli. Questa figura organizza interviste, uscite, incontri con i giornalisti, quindi ha una maggiore esposizione verso l’esterno. Nelle agenzie di pubblicità ha un ruolo di mezzo tra il cliente e il team creativo e fa un lavoro più operativo. Nelle PR c’è anche una parte di contenuto strategico. Dopo 3/5 anni si diventa senior account. Il senior account e l’account director sono simili. Il senior account è responsabile del cliente, decide le scelte, sovrintende il lavoro delle altre figure. Il business unit manager risponde al CEO e sono organizzati per tipologia di cliente. Sovrintende tutti i clienti perché è meno coinvolto nell’aspetto operativo. È anche responsabile del budget. Le agenzie di PR o pubblicità guadagnano grazie alla consulenza. Il CEO ha un obiettivo di budget, bisogna cercare di trovare delle strategie per portare a casa questo budget in un ambiente fortemente competitivo. Come fanno le agenzie per accaparrarsi questo flusso di denaro? Il mondo della comunicazione viaggia con i pitch, le agenzie normalmente chiamano le agenzie e fanno una gara, le aziende danno un brief e un arco di tempo, una scadenza. Normalmente si fa firmare un NDA (non disclosure agreement) per fare in modo che l’agenzia non possa rivelare e perché a volte possono esserci delle gare un po’ falsate perché si parla di fishing for ideas. Che caratteristiche deve avere un buon account executive? Innanzitutto deve essere una persona che ama creare relazioni. Gli viene chiesto di partecipare alla strategia. Deve essere inoltre un esperto con una competenza specifica. Nell’agenzia si crea una grande complicità, cosa che nell’azienda non accade, ci si sente molto più isolati, quindi deve essere un team player e un doer, cioè una persona che apre porte con tutti i pubblici. Deve essere un venditore ed essere proattivo, partecipa al budget che è stato assegnato alla unit con un occhio un po’ commerciale. Per questa figura non esiste una giornata tipo perché ogni giorno è diverso dal precedente, a parte le attività di monitoraggio, il resto è quasi sempre diverso. C’è poi un discorso etico relativo a informazioni false e pubblicità ingannevoli. Deve piacergli scrivere ed essere un ghost writer. Più ha relazioni più l’azienda è disposta a pagare. C’è poi l’aspetto più burocratico legato alla contabilità: ogni giorno va compilato un database con le ore di lavoro per singolo cliente e l’attività svolta. Le varie figure hanno un tariffario. Il guadagno di queste aziende deriva dalle consulenze. Il CEO attribuisce il budget di guadagno di riferimento tra i vari reparti dei business unit manager. Il mondo della comunicazione viaggia grazie alle gare. Le aziende chiamano le agenzie e creano una gara che si sostanzia con dei brief forniti dalle aziende e poi forniscono una data di scadenza. Di norma sono 5/6 agenzie che svolgono il colloquio con il potenziale cliente, nel corso di una o due giornate. Oltre alla creatività è sicuramente importante il costo. Spesso delle gare sono un po’ falsate perché delle aziende hanno delle agenzie consolidate e vogliono solo avere delle nuove idee da altre agenzie. Il settore della comunicazione Ci si trova in un ambito di settore B to B, business to business, ovvero servizi o prodotti che vanno dalle aziende alle aziende. Esistono tantissime agenzie, ma ce ne sono 4 più importanti. C’è una differenza tra le agenzie internazionali e le agenzie nazionali: quelle internazionali sono agenzie worldwide e hanno un ufficio in ogni paese, quelle nazionali sono fondate da dei creativi oppure da persone cresciute nelle agenzie che hanno deciso di aprirne una propria. Sono nate le big four: - WPP (inglese) - Omnicom group (americana) - Publicis group (francese) - IPG (americana) Sono tutte quotate in borsa e nessuna di queste è italiana. Gli integrated networks sono le agenzie di pubblicità. I data e insight sono le agenzie che si occupano dell’analisi dei dati. Il brand consulting sono agenzie che si occupano di rifare il logo o la corporate identity. La production sono agenzie che mettono a terra gli spot. Health and wealth sono le agenzie che conoscono le regole di medicinali e si occupano di divulgazione scientifica. I media sono i centri media, ovvero le agenzie che sono deputate all’acquisto degli spazi, il cosiddetto filtro. Ci sono persone che con degli algoritmi sanno dire al cliente in quali spazi investire in base al target. Tutti e quattro i gruppi hanno una presenza in Italia, la cui capitale della comunicazione è Milano. La FERPi è la federazione relazioni pubbliche italiane. Bisogna iscriversi a ICCO per avere il report annuale delle PR mondiali. PR e media digitali Un junior in agenzia si occupa di più clienti. Quando un cliente dà il proprio budget nella comunicazione, normalmente c’è un progetto che è più o meno annuale, quindi c’è un’attività da fare day by day e poi i momenti in cui ci sono lanci, eventi… normalmente, il junior, quando si reca in agenzia, se si occupa di stampa deve controllare tutti gli articoli pubblicati sul cliente, se si occupa di media, deve controllare tutti i post online. Reputation La corporate reputation non dipende solo dalla comunicazione dell’azienda ma anche da tutto quello che c’è intorno. Con l’evoluzione tecnologica e l’avvento del digital marketing, la costruzione della brand reputation è il risultato di un processo collettivo a cui prendono parte tutti gli stakeholders di un’azienda. Il lavoro di controllo della reputazione è molto complesso perché si deve intervenire dove viene detto qualcosa di negativo, ma non è sempre facile intercettare le informazioni. In un’epoca di conversazioni always on come quella che stiamo vivendo, la reputazione di un brand diventa elemento centrale nelle strategie di comunicazione aziendale. Ogni azienda deve monitorarla perché gli viene attribuita da quello che gli altri comunicano sul suo conto e deve gestirla perché può essere influenzata da tutto ciò che l’azienda comunica di sé. Quindi il junior è il guardiano della brand reputation. Ci sono diverse zone della comunicazione aziendale: Il compito è quello di monitorare la reputazione perché viene attribuita da ciò che gli altri scrivono e comunicarla ai piani più alti. Oggi chiunque può esprimere liberamente e in modo semplice un giudizio nei confronti di un marchio, di un suo prodotto o di un suo servizio. Ci sono diversi touchpoint digitali da monitorare: i siti di informazione, i blog, i forum e le community, i social media e le app e i siti di recensioni. Ci sono anche vari step da seguire: Alla fine dell’analisi si fa un report in cui si definisce il tema portante; può essere un report settimanale o mensile a seconda di quanto si parla dell’azienda. Per quanto riguarda la gestione della reputazione, ci sono 6 attività che vengono svolte dalle agenzie digital: - ADV→ va all’interno delle piattaforme, che fanno una profilazione molto più specifica rispetto, ad esempio, alla televisione. In questo ambito si sta registrando l’ascesa del native advertising, che è una forma di pubblicità contestuale, che consiste nell’inserimento di contenuti pubblicitari all’interno di contesti coerenti con questi ultimi e che cercano di essere omogenei visivamente al contesto in cui si inseriscono. Un primo esempio è il Facebook sponsored post. I formati di native advertising hanno la forma del contesto in cui sono inseriti, sono rilevanti per gli utenti, non interrompono il processo di fruizione dei contenuti e sono ottimizzati per tutti i dispositivi e le piattaforme. - Influencer marketing e digital PR→ azioni di marketing che hanno l’obiettivo di agire sulla reputazione e sull’awareness di un brand, stimolando e ampliando il numero e l’importanza delle conversazioni online relative all’azienda, ad un prodotto o ad un servizio. L’influencer marketing è stato un passaggio molto importante per avvicinare il brand alla clientela. Le campagne di digital PR prevedono spesso l’utilizzo di un hashtag dedicato, da utilizzare per contraddistinguere le conversazioni generate e facilitare il monitoraggio dei risultati generati e prevedono spesso il coinvolgimento, a pagamento, dei cosiddetti influencers, che possono essere persone comuni molto influenti per un determinato argomento o target (tweetstar, youtuber, instagrammer) o persone famose molto influenti per un determinato argomento o target. L’influencer marketing è un mercato in ascesa ma si tratta di uno scenario frammentato Negli ultimi anni si sta anche diffondendo il nuovo trend delle influencer digitali. Questo fenomeno è sempre più attuale e su instagram sta riscuotendo un successo smisurato. Un altro fenomeno è quello degli influencer in house, dipendenti aziendali che diventano influencer e raccontano i brand dall’interno; si tratta di un trend che unisce influencer marketing e comunicazione interna. Ci sono diversi criteri di scelta degli influencer. Innanzitutto deve avere una perfetta sovrapposizione con i valori del brand, brand fit e ci deve essere affinità tra audience e target, il massimo successo si ha quando c’è la massima sovrapposizione. C’è poi il TOV, tone of voice, l’influencer deve avere uno stile comunicativo simile a quello dell’azienda. Ci deve essere una buona insight e influence score, va capito quando l’influencer è bravo a influenzare la propria community. Bisogna inoltre avere una buona content strategy, credibilità e professionalità, fit con tipologia di progetto e un livello di esposizione del personaggio, bisogna avere uno story board per capire cosa far fare all’influencer, l’agenzia decide cosa deve fare proprio come se fosse una piccola sceneggiatura; ci sono anche contratti legali a riguardo che sanciscono l’influencer nel caso in cui faccia cose non previste o non lecite da contratto. Tutto questo processo richiede creatività e lavoro. Gli obiettivi dell’influencer marketing sono: Gli obiettivi di ingaggio influencer vanno al contrario rispetto alla grandezza della fan base. L’ingaggio di una celebrità va bene per creare conoscenza su un marchio ma difficilmente serve alla conversion. La celebrity dà le informazioni di base. L’obiettivo delle aziende però è la conversion, cioè quando si traduce il consiglio in un acquisto. La consideration è il momento in cui si valuta l’acquisto. I micro-influencer hanno un maggior tasso di acquisto perché sono più vicini. Non vanno presentati all’azienda influencer che sono già stati ingaggiati, ma soprattutto dai competitors. - SEO & SEM→ sono la search engine optimization e la search engine marketing. È il lavoro che c’è dietro le ricerche degli utenti. Sono agenzie specializzate che vengono pagate dalle aziende per finire nelle prime pagine dei motori di ricerca; queste agenzie si occupano dello studio degli algoritmi. Queste agenzie possono gestire la reputazione perché con un lavoro costante riescono a far scendere le ricerche nelle pagine in basso rispetto alle prime. Il PageRank è l’algoritmo che regola, per i motori di ricerca, l’ordine di visualizzazione delle pagine in relazione alle keywords ricercate e tiene conto, fra gli altri, di: - numero di link che rimandano ad un determinato contenuto; - qualità del contenuto; - numero di visite che il contenuto riceve; - popolarità della ricerca; Di conseguenza ogni notizia, sia positiva che negativa, rimane a disposizione nel tempo e i contenuti sono facilmente rintracciabili. - Content marketing→ fare content marketing significa fare prima contenuto e marketing del prodotto. La priorità non è più il prodotto, ma il marketing attorno ad esso. È tutto un approccio fatto di contenuti ad altissimo livello con budget straordinari. Si utilizzano contenuti premium per l’audience così da tenerla ingaggiata. Un esempio è il caso Red Bull: nel 2007 Red Bull ha creato una divisione aziendale totalmente dedita alla creazione di contenuti in linea con i valori del brand, la Red Bull Media House, diventata un modello da seguire a livello internazionale. Daa The Red Bulletin alla Red Bull Tv, l’azienda austriaca è una vera e propria media company focalizzata sui territori del brand: sport estremi, cultura sportiva, lifestyle ed è riuscita a diventare un punto di riferimento per le persone appassionate di questi temi. - Branded content→ si tratta di un’attività che si può immaginare per un piano di comunicazione. Invece di fare pubblicità classica, si pagano persone perlopiù ironiche così che promuovano il brand e ingaggino le persone. - Social media management→ il mondo dei social media è in continua evoluzione. Chat e chatbot come Whatsapp e Telegram sono piattaforme per chattare che stanno influenzando, e in parte sostituendo, i social media e la loro fruizione, soprattutto per i target più giovani. Il rischio oggi è la sovraesposizione degli utenti ai messaggi. In un newsfeed sempre più affollato, la missione dei brand è quella di entrare a far parte di quello che piace alle persone. Innanzitutto bisogna definire la reason why, un’analisi preliminare per mettere in chiaro obiettivi, modalità e contenuti. Non è semplice seguire una pagina social di un brand, questo perché è necessario mantenere il pubblico ingaggiato. Quindi deve creare un territorio e una narrativa. Le pagine social sono potenti ma richiedono cura e strategia. Va compreso quali piattaforme sono utili per l’azienda perché non tutte sono adatte a stare in tutti i social. In secondo luogo bisogna definire lo scenario studiando i principali del trend, le sfide strategiche nel settore di riferimento e l’attività dei competitor. Si fa un’analisi di benchmarking con cui si guardano gli altri sia per non copiarli che per farsi venire nuove idee. Bisogna poi studiare il target, capire dove si possono trovare i propri consumatori in rete. In seguito bisogna pianificare come un editore, organizzando i piani editoriali e i piani adv a supporto, lasciando spazio al real time e attività live. Bisogna fare una roadmap dove ogni settimana si indica il tipo di post e il contenuto dello stesso. In questo modo si riesce ad essere efficaci. Infine bisogna definire i KPI (key performance indicator), ovvero i risultati che si vogliono ottenere, per esempio se si investe in influencer si cerca di ottenere conversion. Queste sono attività digital che vengono svolte dalle aziende. Il real time marketing si basa su contenuti realizzati e pubblicati in concomitanza con eventi di cronaca e attualità. Un esempio è il celebre caso di Oreo che, durante il Super Bowl del 2013, approfittò del black out generale per creare un tweet che ottenne migliaia di retweet e l’attenzione della stampa. Il real time marketing inoltre si basa su contenuti realizzati e pubblicati in concomitanza con eventi di cronaca e attualità. Il social media team Il social media team è composto da: - Social media manager/strategist→ figura di grande esperienza, responsabile dell’intero processo di Social Media Marketing, dalla pianificazione fino alla misurazione e ottimizzazione; - Social media specialist→ figura di media esperienza, con buona conoscenza dei canali social; - Community manager→ gestisce la community con feedback e risposte alle richieste dei membri, occupandosi della reportistica. Per diventare social media manager è necessario avere formazione, esperienza e aggiornamento. Media relations Per le aziende le relazioni media sono un tool strategico che, trasformando un evento aziendale in una notizia, permette di accrescere, supportare , rafforzare la percezione e la visibilità dei prodotti, dei servizi e delle persone che rappresentano l’azienda. Sono la voce dell’azienda verso i media tradizionali (stampa, radio, tv) e quelli digitali (web, influencer, blogger…). Ogni azienda di grandi dimensioni ha un dipartimento che si occupa dei rapporti con i giornalisti. Dal lato delle aziende, l’ufficio stampa/press office è l’ufficio preposto alla gestione di questi rapporti. Per quanto riguarda i media, è un’ulteriore fonte di informazione diretta. Le relazioni media monitorano, selezionano e diffondono le notizie, si tratta di un’ulteriore fonte di informazione diretta. Come nasce un articolo? Il giornalista ha un’idea o gli viene preposta dall’azienda e si interfaccia con la persona preposta alla gestione di questi rapporti in azienda. La gestione di questi rapporti può essere anche delata alle agenzie. Ci sono tre tipologie di ufficio stampa. Il primo è quello strategico, che forma un piano di comunicazione annuale. Poi c’è il press office intermedio, che è un progetto di comunicazione specifico. Si fa un certo programma di massima ma nel concreto si deve poi essere flessibili. Spesso infatti ci si interfaccia a degli imprevisti che richiedono un intervento immediato, sia positivi che negativi. C’è infine un ufficio stampa tattico/di battuta che si occupa della gestione giornaliera. È maggiormente legato al mondo politico. Ogni giorno ci sono dei nuovi messaggi. Per le aziende è più difficile che ci sia questo tipo di ufficio perché non c’è un botta e risposta continuo a livello aziendale. Gli obiettivi dell’ufficio stampa sono dare ai media delle notizie per costruire e rafforzare l’immagine del prodotto/brand/azienda e raccogliere le percezioni esterne dai media. I suoi compiti sono quello di identificare i contenuti delle notizie, valutare l’interesse del target per la notizia, selezionare i media a cui proporre la notizia, attivare il ciclo di diffusione delle notizie nei media (contaminazione virtuosa) e monitorare i risultati. L’ufficio stampa corporate si occupa delle notizie relative all’azienda nel suo complesso e ai risultati raggiunti. Il suo obiettivo è quello di generare comprensione reciproca e un atteggiamento positivo tra l’azienda e i suoi stakeholder. L’obiettivo dell’ufficio stampa di prodotto è quello di mantenere vivo il rapporto con i consumatori e condurli all’acquisto. La notizia è una risorsa da sfruttare nel miglior modo possibile. La notizia è il primo annuncio di qualcosa accaduto di recente, qualcosa di cui le persone non erano a conoscenza e di cui vogliono sapere di più. La notizia in 6 punti: 1. L’unicità di un fatto, anche in relazione al target; 2. Le possibili conseguenze sulla vita quotidiana delle persone e l’interesse generale delle persone; 3. Vicinanza fisica o psicologica; 4. La possibilità di fare leva sulle emozioni; 5. Gli sviluppi attesi dalla notizia; 6. Esclusiva. Gli strumenti dell’ufficio stampa Di base, per tutti c’è una mailing list che è una lista di distribuzione. È un’operazione preliminare, di fondamentale importanza per la diffusione dei comunicati stampa o del press kit al target editoriale corretto. Se si deve mandare una notizia, si deve capire dove mandarla, bisogna avere un indirizzario. Le informazioni contenute in una mailing list sono diverse: innanzitutto ci sarà una testata (posti dove mandare la notizia), una periodicità (le riviste di norma chiudono circa 3 settimane prima e quindi le notizie vanno mandate con circa un mese di anticipo), il nome del giornalista, la carica, l’indirizzo, il cellulare e l’email. Più l’ufficio stampa è preparato e più le informazioni saranno dettagliate. Gli strumenti di scrittura dell’ufficio stampa possono essere ufficiali o ad esclusivo uso interno. Quelli ufficiali sono: - Comunicato stampa→ è un testo che contiene le principali informazioni utili a veicolare il messaggio aziendale, si struttura con un titolo che deve essere molto esplicativo e deve contenere solo le informazioni principali e non sembrare uno slogan. Nelle prime 4 righe deve contenere le informazioni principali e deve rispettare le 5 W (who, what, where, when, why) in modo da attirare l’attenzione. La combinazione delle 5W dipende dal mood del target e dall’effetto che si desidera generare. - Nota stampa→ solitamente è più breve di un comunicato stampa e si usa molto spesso nell’ufficio stampa di battuta perché ha un’intrinseca caratteristica di velocità di diffusione. Non è presente un titolo ma va diretta al contenuto. - Cartella stampa→ o press kit, è uno strumento che serve per approfondire le informazioni sull’azienda. È flessibile ed adattabile ai diversi eventi aziendali. Si tratta di una serie di informazioni aggiornate ad uso e consumo dei giornalisti. Approfondisce le informazioni sull’azienda. - Libro bianco→ riassunto di uno scenario su un tema specifico. - Studio scientifico→ contiene i risultati di una ricerca fatta da un’organizzazione pubblica o privata su uno specifico tema scientifico. - Ricerca statistica→ permette di approfondire un tema attraverso opinioni e commenti. Le aziende ingaggiano degli istituti di ricerca al fine di portare acqua al loro mulino. In questo modo si danno ai giornali più contenuti. Non è solo l’ufficio stampa a dire una data cosa ma c’è una fonte a supporto dell’informazione. Sono le aziende a pagare quindi di norma i risultati sono in linea con i valori aziendali. - Lettera a quotidiano Gli strumenti ad esclusivo uso interno sono: 1. Q&A→ contiene le domande che potrebbero essere generate da una notizia e le risposte approvate. 2. Position paper→ è un documento con la posizione ufficiale dell’azienda in relazione ad una notizia. Ogni azienda ne possiede uno. Si tratta della posizione dell’azienda in merito a un fatto, un evento o una notizia. È estremamente controllato nei termini e nel linguaggio. Le modalità di diffusione di una notizia Ci sono diversi modi per diffondere la notizia: 1. Comunicato stampa→ la diramazione avviene dopo che il comunicato stampa è stato approvato dall’azienda. La diffusione, che deve essere pianificata a seconda della mailing list più adatta, sarà seguita da un follow up. Di norma gli uffici stampa fanno delle telefonate ai giornalisti per sapere se hanno ricevuto la notizia, se la ritengono interessante, se la vogliono pubblicare… se si manda la notizia a tutti, lo spazio che si potrà occupare nei diversi media sarà piccolo in ognuno di essi. In un mercato, se si dà la notizia in esclusiva a un giornale o una rivista, lo spazio che verrà dato sarà molto più esteso. 2. Conferenza stampa→ è un incontro tra azienda e giornalisti, con un elevato livello di interazione, dove un panel di relatori, sia dell’azienda che esterni, tratta il tema della conferenza. È molto rischiosa e costosa, viene utilizzata sempre meno dalle aziende. Si tratta di un training alla sessione Q&A. 3. Briefing/viaggio stampa→ se la tematica da affrontare è più specifica, un briefing per la stampa o un viaggio stampa in una location speciale è più efficace di una conferenza stampa formale. Il briefing per la stampa spesso può avere il format dell’Open Day. Si tratta di un incontro più ristretto, non si vuole avere un grosso pubblico ma si vuole parlare con i giornalisti in modo informale. 4. Intervista→ quando si concede un'intervista si decide la testata, l’intervistato, la firma (il giornalista) e l’argomento. Anche questi sono argomenti di negoziazione. 5. Annuncio non ufficiale→ quando si trova scritto “fonti di mercato” o “fonti vicine all’azienda”, si tratta di una notizia non confermata dall’azienda. Di norma si tratta di una sorta di accordo tra l’azienda e il giornalista, che si fa quando l’azienda conferma la notizia al giornalista ma non vuole metterci la faccia. Questo permette di salvare la relazione con il giornalista. Il monitoraggio stampa può essere quantitativo o qualitativo. Crisis communication management Possono emergere delle situazioni di comunicazione sbagliata che creano dei danni. La reputazione è un valore difficile da costruire e facile da dissipare. La corporate reputation protegge il patrimonio di una società, svolge un ruolo sempre più importante per gli investitori e rafforza la fiducia dei consumatori nei prodotti e servizi di un’azienda. Quando si parla di reputazione si parla sempre di qualcosa di intangibile che però ha un valore economico, perché innanzitutto con una buona reputazione si possono attirare i talenti maggiori. Una reputazione ha un valore economico perché consente di conseguire maggiori vendite, maggiore fatturato e consente all’azienda di avere un premium price, tutti sono disposti a pagare di più. Questo comporta anche che ci siano dei consumatori più fedeli e si traduce anche in un minor costo del capitale. La reputazione ha una ricaduta molto positiva anche sul bilancio della società dato che a una maggiore reputazione corrispondono maggiori guadagni, profitti più alti. La reputazione va protetta e per farlo si possono utilizzare degli strumenti di crisis prevention. Alcuni fattori critici sono: - La globalizzazione - L’era della crisi economica permanente che non aiuta le aziende a crearsi una reputazione rafforzata perché le distoglie dalle loro attività di routine. - La società è maggiormente guidata da valori, competente e meno deferente - Incremento delle complessità di business e di regolamentazione - Impatto profondo dei social media, mai come negli ultimi anni tutto quello che è condiviso nelle piattaforme social crea delle situazioni di crisi. - Aumento della search and peer review. Crisis or issue? Esiste una differenza tra crisis e issue, si parla di issue management quando si sa prima che accadrà un evento non favorevole (come per esempio la gestione dei licenziamenti) quindi si può predisporre un piano per attutire il colpo. Quando l’azienda ha una issue, è lei che sta portando alla luce un problema, ma se si prepara bene riesce a proporre il problema ma cerca anche di proporre una soluzione. La crisi invece colpisce in maniera inaspettata, anche se in realtà ci si può preparare. Ci sono diverse tipologie di crisi: 1. Prodotti difettosi→ si fa un recall del prodotto, quando ci sono dei richiami per prodotti difettosi; 2. Informazioni false (come per esempio quelle che hanno colpito la Ferragni); 3. Data security→ data breach; 4. Condotta non etica; 5. Corruzione; 6. Evasione fiscale; 7. Inquinamento; 8. Disastri ambientali/incidenti; 9. Sfruttamento; 10. Discriminazione; 11. Mobbying; 12. Politiche di genere. Le caratteristiche distintive di una crisi: 1. Sorpresa→ coglie l’azienda di sorpresa. Questo non significa che l’azienda non può prepararsi, si è a conoscenza del fatto che ci sono delle probabilità che accada. L’azienda deve fare una mappatura dei rischi legati al proprio business. Questo è il compito dell’ufficio PR insieme ai legali, alla direzione generale, che devono stilare una lista di possibili rischi; 2. Informazioni insufficienti→ quando scoppia una crisi non ci sono informazioni. Questo mette sotto stress l’azienda che di conseguenza fa errori maggiori del dovuto; 3. Incalzare di eventi; 4. Perdita di controllo; 5. Mentalità da stato di assedio→ l’azienda si sente assediata perché ci sono amministratori delegati che dedicano del tempo a fare delle simulazioni di situazioni di crisi, altrimenti se tutto non è preparato si presentano queste situazioni; 6. Focalizzazione sul breve termine→ il consumatore è ben disposto nei confronti dell’azienda e spesso si dimentica. È fondamentale comprendere che le interazioni online comportano dei benefici, ma anche un’esposizione pubblica da cui non è possibile sottrarsi che rende le aziende più vulnerabili. Per questo motivo, una buona gestione dei social media è diventata un asset essenziale per avere successo e nello stesso tempo la principale minaccia di quel successo. In media, le aziende impiegano 21 ore prima di diffondere una comunicazione esterna significativa e più di 48 ore in un quinto dei casi di incidente e secondo una statistica, 5 aziende su 10 non hanno un piano di comunicazione in caso di crisi, solo la metà delle aziende ha il materiale per la comunicazione già pronto e solo 1 su 5 ha eseguito un esercizio di simulazione. ADVERTISING Lo strategic planner Ci sono 3 grandi attori nel processo pubblicitario: - Agenzie creative→ arriva a definire l’idea della campagna. Si arriva al punto di costruire degli storyboard con cui si racconta per immagini l’idea della campagna; - Agenzie media→ si occupa di comprare gli spazi in cui la campagna verrà veicolata. Contratta gli spazi su canali televisivi, sulle pagine di giornali e riviste, sulle radio; - Agenzie di produzione→ si occupa di realizzare e girare lo spot. L’art director e i copy della creativa vanno dall’agenzia di produzione con i suoi creativi per mettere in scena lo spot. Questi tre attori si aiutano e collaborano. Ci sono strategist in tutte e tre le agenzie ma fanno cose di