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Rita Lucia Geraci
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Questo documento è un riassunto di macroeconomia, in particolare del capitolo 1, che analizza la crisi economica mondiale del 2008, partendo dal crollo del mercato azionario di Wall Street. Viene descritta la reazione delle economie avanzate e emergenti, con una particolare attenzione al ruolo della Federal Reserve e all'impatto della crisi sul sistema finanziario globale. L'autore evidenzia il declino della produzione e dell'occupazione.
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Riassunto Macroeconomia a cura di Rita Lucia Geraci Capitolo 1: Un viaggio intorno al mondo Nel 2008 l’economia mondiale è stata colpita da una disastrosa crisi economica, la peggiore dalla Grande Depressione del 1929. La Grande Depressione fu la più devastante...
Riassunto Macroeconomia a cura di Rita Lucia Geraci Capitolo 1: Un viaggio intorno al mondo Nel 2008 l’economia mondiale è stata colpita da una disastrosa crisi economica, la peggiore dalla Grande Depressione del 1929. La Grande Depressione fu la più devastante crisi economica del ventesimo secolo. Cominciò nel 1929 con il crollo della borsa di Wall Street e divenne una crisi economica che si estese anche in Europa. Durò molti anni e vide una drastica riduzione della produzione, crolli di borsa, fallimenti di banche e imprese e un forte aumento della disoccupazione. Il tasso di crescita della produzione mondiale, che si attesta solitamente al 4-5% annuo, fu addirittura negativo nel 2009. Da allora, il tasso di crescita è tornato positivo e l’economia mondiale si sta lentamente riprendendo. Tuttavia, la crisi ha lasciato numerose cicatrici. 1 LA CRISI Fig 1.1. Tassi di crescita della produzione per l’economia mondiale, per le economie avanzate e per quelle emergenti nel periodo 2000- 2015 Come si può notare dalla Fig 1.1, nel periodo che va dal 2000 al 2007 l’economia mondiale ha attraversato una fase di forte espansione. Economie avanzate formate dai 30 paesi più ricchi del mondo. Economie emergenti formate dai restanti 150 paesi del mondo. Nel 2007, tuttavia, iniziarono a comparire le prime avvisaglie di un imminente rallentamento dell’economia. Tutto ebbe inizio negli Stati Uniti dove i prezzi delle case, che erano raddoppiati dal 2000, cominciarono a diminuire. Gli economisti cominciarono a preoccuparsi. Tra questi, quelli ottimisti credevano che, sebbene prezzi delle case più bassi potessero condurre ad una contrazione del settore immobiliare e ad una minore spesa da parte dei consumatori, la Fed, ovvero la banca centrale degli Stati Uniti, sarebbe stata in grado di stimolare la domanda e scongiurare una recessione riducendo i tassi d’interesse. I pessimisti credevano invece che una riduzione dei tassi d’interesse non sarebbe stata sufficiente a stimolare la domanda e che gli Stati Uniti sarebbero potuti entrare in una transitoria fase di recessione. Molti dei mutui ipotecari che erano stati concessi durante il precedente periodo di espansione erano di scarsa qualità, cioè concessi a creditori di dubbia solvibilità. Molti di coloro che avevano preso a prestito avevano stipulato contratti di mutuo per importi troppo elevati e un numero sempre crescente di loro non era in grado di pagare le proprie rate mensili. Inoltre, con i prezzi delle case in calo, il valore dei mutui ipotecari era spesso maggiore di quello delle abitazioni che erano state acquistate con quegli stessi mutui, dando un incentivo a chi era debitore di diventare insolvente, cioè di non restituire quanto preso a prestito. Le banche che avevano emesso mutui ipotecari li avevano poi aggregati insieme e rimpacchettati in nuovi strumenti finanziari che avevano poi venduto ad altre banche e investitori, rendendo impossibile una loro corretta valutazione. Furono questa complessità e questa opacità che trasformarono una crisi del settore immobiliare in una crisi ©Rita Lucia Geraci finanziaria. Le banche, non sapendo valutare la qualità delle attività detenute nei rispettivi bilanci, iniziarono a non prestarsi più i soldi l’una con l’altra, per paura che la controparte potesse essere insolvente. Molte banche rischiarono il fallimento. Il 15 settembre 2008 una delle maggiori banche americane, Lehman Brothers, annunciò la bancarotta. La crisi finanziaria si trasformò velocemente in una gigantesca crisi economica. I prezzi delle azioni crollarono in tutto il mondo, come si può notare dalla fig 1.2. Fig 2.1 Prezzo delle azioni negli USA, nell’Eurozona e nelle economie emergenti, 2007- 2010 I consumatori americani, colpiti dal crollo immobiliare e da quello azionario, ridussero drasticamente i loro consumi. Le imprese, data la riduzione delle vendite e il futuro incerto, tagliarono gli investimenti. Cessò la costruzione di nuove abitazioni. Nonostante i significativi interventi sia della Fed, che tagliò i tassi d’interesse a zero, sia del governo americano, che diminuì le tasse e aumentò la spesa pubblica, la domanda diminuì, e a ruota la produzione. La crisi americana divenne presto una crisi mondiale e il contagio avvenne attraverso due canali. Il primo fu il commercio internazionale, poiché quando i consumatori e le imprese americani ridussero la spesa, parte di questa riduzione colpì le importazioni di beni stranieri. Il secondo canale fu il sistema finanziario globale. Le banche americane, in disperato bisogno di fondi, rimpatriarono quelli che detenevano in altri paesi, creando problemi per le banche di questi ultimi. Inoltre, non solo i governi di numerosi paesi europei avevano accumulato nei un elevato debito pubblico, ma si ritrovarono anche in disavanzo di bilancio a causa della crisi, poiché essa aveva ridotto le entrate e aumentato le uscite pubbliche. Gli investitori cominciarono a dubitare della loro solvibilità e iniziarono a richiedere tassi di interesse maggiori. Trovandosi a pagare tassi d’interesse elevati, i governi cominciarono a ridurre i propri disavanzi di bilancio, attraverso minor spesa pubblica e maggiori tasse. Questo portò ad un’ulteriore riduzione della domanda, e quindi della produzione. In Europa, il declino della produzione fu così drammatico che questa propagazione della crisi divenne una crisi a sé stante: la crisi dell’euro. La ripresa è però deludente ed eterogenea. In alcune delle economie avanzate, tra cui spiccano gli Stati Uniti, la disoccupazione è ritornata ai livelli pre-crisi. L’Eurozona, ovvero l’insieme di paesi europei che adottano l’euro, invece, è ancora in grossa difficoltà. 2 GLI STATI UNITI D’AMERICA Quando gli economisti vogliono comprendere lo stato di salute dell’economia di un paese, guardano tre variabili fondamentali: Tasso di crescita della produzione: il tasso a cui la produzione cambia nel tempo. Tasso di disoccupazione: la proporzione di lavoratori nell’economia che non sono occupati e stanno ©Rita Lucia Geraci cercando un lavoro. Tasso di inflazione: il tasso al quale il prezzo medio dei beni nell’economia cresce nel tempo. Percentuale 1990-2007 2008-2009 2010-2014 2015 Tasso di crescita 3,0 -1,5 2,2 2,5 della produzione Tasso di 5,4 7,5 8,0 5,4 disoccupazione Tasso di inflazione 2,3 1,4 1,6 0,7 Guardando i dati per il 2015, potete capire come mai gli economisti siano ottimisti in merito allo stato dell’economia statunitense oggigiorno. La crescita nel 2015 è prevista essere superiore al 2,5%, solo un poco sotto la media del periodo 1990-2007. La disoccupazione, che era aumentata durante la crisi e subito dopo, raggiungendo un picco del 10% nel 2010, sta diminuendo e, trovandosi a fine 2015 al 5,0%, è ritornata alla media del periodo 1990-2007. L’inflazione è più bassa della media 1990-2007. In breve, l’economia degli Stati Uniti sembra essere in una forma decente e sembra essersi lasciata alle spalle gran parte degli effetti negativi della crisi. Tuttavia, non tutto è come prima. Per assicurarsi che la domanda fosse sufficiente a sostenere una ripresa dell’economia, la Fed è stata costretta a mantenere tassi di interessi molto bassi. 2.1 BASSI TASSI D’INTERESSE E LO ZERO LOWER BOUND Quando la crisi scoppiò, la Fed cercò di limitare la diminuzione dei consumi riducendo il tasso di interesse che è in grado di controllare, il cosiddetto «federal funds rate». Come si può notare dalla Fig 1.4 il federal funds rate fu ridotto dal 5,2% del luglio 2007 a circa lo 0% nel dicembre 2008. La banca centrale americana si fermò allo zero perché che i tassi d’interesse non possono assumere valore negativo. Se lo facessero, nessuno vorrebbe detenere titoli obbligazionari poiché tutti vorrebbero possedere banconote. Questo limite nella capacità di una banca centrale di fissare tassi di interesse sotto lo zero è conosciuto come «zero lower bound», e la Fed lo raggiunse nel dicembre 2008. Questa drastica riduzione del tasso di interesse, che rese meno costoso per i consumatori riprendere a prestito e per le imprese investire, ha sicuramente limitato la caduta della domanda e il calo della produzione. Tuttavia non è stato sufficiente. Bassi tassi d’interesse potrebbero rappresentare un problema per due ragioni: la prima è che bassi tassi d’interesse riducono l’abilità della banca centrale di rispondere ad ulteriori shock negativi all’economia. Se il tasso di interesse è prossimo o ha raggiunto lo zero e nel frattempo la domanda si riduce ulteriormente, la banca centrale non può ridurre i tassi d’interesse per stimolare l’economia. La seconda ragione è che poiché i rendimenti dei titoli obbligazionari sono bassi, in quanto riflettono a loro volta bassi tassi d’interesse, gli investitori sono incentivati a investire in attività molto rischiose nel tentativo di ©Rita Lucia Geraci aumentare i propri rendimenti. Così, un’eccessiva accumulazione del rischio all’interno del sistema finanziario può dare origine ad altre crisi finanziarie. 3 L’EUROPA Nel 1957 sei paesi europei, tra cui l’Italia, decisero di formare un mercato comune europeo – uno spazio economico dove persone e beni potessero muoversi liberamente. Da allora, altri ventidue paesi vi hanno aderito, facendo salire a 28 il numero totale di stati membri. Gruppo noto come Unione Europea (26 nel 2017 con l’uscita della Danimarca e del Regno Unito). Nel 1999, la UE decise di compiere un passo ulteriore e cominciò il processo di sostituzione delle varie valute nazionali con una valuta comune, l’euro. Solo 11 paesi aderirono dall’inizio; da allora, però, altri 8 paesi si sono aggiunti, portando a 19 il numero di paesi UE che adottano oggigiorno l’euro. Il nome ufficiale di questo gruppo di paesi è Eurozona. Alcuni paesi UE al fine di mantenere la propria sovranità monetaria non hanno aderito al processo di unificazione monetaria. Il 1° gennaio1999, ciascuno degli iniziali 11 paesi fissò il valore della propria moneta in termini di euro. Nel nostro paese il cambio fu fissato a 1936,27 lire per ogni euro. Il passaggio definitivo all’euro avvenne nel 2002. Percentuale 1990-2007 2008-2009 2010-2014 2015 Tasso di crescita 2,1 -2,0 0,7 1,5 della popolazione Tasso di 9,4 8,6 11,1 11,1 disoccupazione Tasso di inflazione 2,1 1,5 1,0 1,1 La fase acuta della crisi del 2008-2009 è stata caratterizzata da un tasso di crescita negativo, seppur con differenze significative tra i vari paesi membri. Tuttavia, mentre gli Stati Uniti si sono ripresi, la crescita qui è rimasta anemica, prossima allo zero negli anni 2010-2014 (addirittura negativa in due di questi anni). Persino nel 2015 la crescita è prevista essere solo dell’1,5%, meno che negli Stati Uniti e meno della media pre-crisi. La disoccupazione, in aumento dal 2007, si è attestata nel 2015 ad un 11,1%, quasi il doppio che negli Stati Uniti. L’inflazione è bassa, al di sotto dell’obiettivo della Banca Centrale Europea (Bce). Diversamente dagli Stati Uniti, l’Eurozona, come pure il resto dell’Unione Europea, è entrata in una seconda fase di recessione. Dopo segnali di ripresa verso la fine del 2010, la crescita della produzione è tornata nuovamente negativa nel 2012 ed è rimasta tale per 6 trimestri. Il double-dip termine usato per descrivere una recessione seguita da una ripresa a cui segue un’altra recessione. La seconda recessione nell’Eurozona prende il nome di crisi dell’euro ed è associata alla crisi greca, che si è conclusa con un’insolvenza parziale del paese sul suo debito pubblico. Durante il 2011-2012, gli investitori cominciarono a considerare l’ipotesi di un disfacimento della moneta unica e di un ritorno alle precedenti valute nazionali. 3.1 E’ POSSIBILE RIDURRE LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA? ©Rita Lucia Geraci L’elevato tasso di disoccupazione nell’Eurozona, 11,1% nel 2015, nasconde grandi differenze tra paesi. Il modo in cui ridurre la disoccupazione va studiato in base alle caratteristiche di ciascun paese. Il tasso di disoccupazione in alcuni paesi europei come Italia e Spagna è da sempre più elevato che in Germania, Regno Unito. Questo suggerisce che ci sono altre ragioni dietro all’elevata disoccupazione, oltre alla crisi e al calo della domanda. Alcuni economisti ritengono che il problema sia che i vari paesi europei proteggono troppo i lavoratori. Al fine di evitare che questi perdano il lavoro, esistono leggi che rendono costoso per un’impresa diminuire il numero di lavoratori. Uno degli effetti è di scoraggiare l’impresa che vuole assumere nuovi lavoratori (poiché poi faticherà a liberarsene), aumentando così il livello di disoccupazione. Inoltre, per proteggere coloro che hanno perso il lavoro, i governi europei garantiscono generosi sussidi di disoccupazione. Tuttavia, questo riduce l’incentivo di coloro che sono disoccupati a procacciarsi un nuovo lavoro e questo, a sua volta, aumenta la disoccupazione. La soluzione, sostengono questi economisti, è di garantire meno protezione, di eliminare queste rigidità del mercato del lavoro e di adottare delle istituzioni del mercato del lavoro simili a quelle degli Stati Uniti. 4 LA CINA La Cina è sempre più considerata una delle maggiori aree economiche mondiali. La Cina attira tanta attenzione per due ragioni principali. Quando si compara il reddito pro capite in un paese ricco come gli Stati Uniti con quello di un paese relativamente povero come la Cina, bisogna fare attenzione. La ragione è che molti beni sono più a buon mercato nei paesi poveri. Per esempio, il prezzo di un pasto in un ristorante di fascia media nella città di New York è di circa 20 dollari; lo stesso pasto a Pechino costa circa 25 yuan, più o meno 4dollari. In altre parole, uno stesso stipendio (espresso in dollari) ha molto più potere d’acquisto a Pechino che a New York. Quando vogliamo comparare il tenore di vita tra paesi diversi, quindi, dobbiamo tenere in considerazione queste differenze. La seconda ragione è che la Cina è cresciuta molto rapidamente per più di tre decenni. Questo è mostrato nella tabella seguente. Percentuale 1990-2007 2008-2009 2010-2014 2015 Tasso di crescita 10,2 9,4 8,6 6,8 della produzione Tasso di 3,3 4,3 4,1 4,1 disoccupazione Tasso di inflazione 5,9 3,7 4,2 1,2 Dal 1990, la Cina è cresciuta ad un ritmo di circa il 10% per anno. Comparando questo valore con quelli per Stati Uniti ed Europa si comprende come l’importanza delle economie emergenti, con la Cina prima tra tutte, è aumentata così rapidamente. È difficile vedere gli effetti della crisi economica recente nei dati cinesi. La crescita è a malapena rallentata durante il 2008-2009, mentre la disoccupazione è appena aumentata. La ragione non è che la Cina è isolata dal resto del mondo e, a riprova di questo, l’export cinese è diminuito durante la crisi. Tuttavia, l’effetto negativo della crisi sulla domanda cinese è stato quasi totalmente controbilanciato da una massiccia espansione fiscale del governo cinese, portata avanti principalmente attraverso un aumento degli investimenti pubblici. Il risultato è stato una sostenuta crescita della domanda e, di conseguenza, della produzione. Qual è la fonte di questa crescita? Ci sono due fattori: il primo è l’elevato tasso di accumulazione di capitale. Il tasso d’investimento (il rapporto tra investimento e produzione) in Cina è del 48. Negli Stati Uniti è solo del 19%. Più capitale significa maggiore produttività e quindi maggior produzione. Il secondo fattore è il rapido progresso tecnologico. Una delle strategie adottate dal governo cinese è stata quella di incoraggiare le imprese straniere a localizzare la produzione in Cina. Poiché le imprese straniere sono tipicamente molto più produttive di quelle cinesi, questo ha aumentato la produttività e quindi la produzione. Un altro aspetto di questa strategia è stato quello di incoraggiare joint ven-tures tra imprese straniere e imprese cinesi. Permettendo alle imprese cinesi di lavorare e di apprendere dalle imprese straniere, la produttività delle prime è aumentata drasticamente. ©Rita Lucia Geraci 5 L’ITALIA La storia macroeconomica italiana del secondo dopoguerra può essere divisa in due fasi. La prima è di forte sviluppo economico, caratterizzata da una sostenuta crescita della produzione negli anni 50-60. Tale sviluppo è proseguito, seppur più moderatamente, negli anni 70-80. La seconda fase è di stagnazione e abbraccia il periodo che va dalla seconda metà degli anni 90 ad oggi. In altre parole, mentre l’attuale Eurozona ha continuato a crescere ad un tasso medio annuo del + 2,1% (dal 1990 al 2007), l’Italia ad un certo punto si è fermata. Il declino della nostra economia è visibile dall’evoluzione del reddito pro capite in termini reali a prezzi del 2010, riportato nella figura 1.10 come percentuale di quello francese. Non abbiamo scelto la Francia a caso: la popolazione e l’estensione geografica dei due paesi sono simili, come pure la struttura dell’economia, ed entrambi i paesi hanno adottato l’euro dalla sua origine. Eppure, la Francia (+ 20,8%) è cresciuta molto più dell’Italia (+ 0,9%) negli ultimi vent’anni. Gli economisti sono unanimi nel ricondurre il caso italiano ad un problema di stagnazione della produttività. Alcuni sostengono che l’inefficienza della burocrazia e della giustizia civile, unite ad un eccessivo livello della tassazione, impediscano alle imprese di crescere e svilupparsi. Altri sostengono che gli imprenditori italiani, a differenza dei francesi e tedeschi, non siano stati in grado di cogliere i benefici derivanti dall’adozione delle nuove tecnologie informatiche, da un lato per la ridotta dimensione delle imprese rispetto alla media europea (che rende più costosa l’adozione e più incerti i benefici), e dall’altro lato per la bassa alfabetizzazione informatica dei lavoratori adulti italiani. Infine nel tentativo di ridurre la disoccupazione, i governi italiani introdussero due riforme del mercato del lavoro. L’idea era quella di liberalizzare il lavoro temporaneo, al fine di incentivare le assunzioni da parte delle imprese. Da un lato, queste riforme contribuirono ad una riduzione del tasso di disoccupazione. Dall’altro, tuttavia, contribuirono a precarizzare il mercato del lavoro, soprattutto nelle fasce giovanili. Questo ha probabilmente ridotto la produttività. La mancanza di crescita economica non è soltanto una questione di miglioramento del tenore di vita. La crescita economica è necessaria per poter rimborsare l’enorme debito pubblico accumulato. Esso è il più alto d’Europa. Dato che il debito viene accumulato nel tempo e che rimborsarlo tutto in una volta è impossibile, deve essere continuamente rifinanziato dagli investitori, di cui una metà circa sono internazionali. Questi acquistano i titoli del debito pubblico quando sono convinti che il paese sia solvente, e una sostenuta e regolare crescita della produzione è necessaria per alimentare tale convinzione. Ecco perché una stagnazione dell’economia italiana preoccupa tutto il mondo: se gli investitori decidessero di non rifinanziare il nostro debito, il governo italiano fallirebbe, distruggendo l’economia nazionale. Date le sue dimensioni, inoltre, l’Italia trascinerebbe a fondo con sé l’intera unione monetaria europea. ©Rita Lucia Geraci CAPITOLO 2: Un viaggio attraverso il libro. 1 LA PRODUZIONE AGGREGATA Gli economisti che studiavano l’attività economica nel XIX secolo o al tempo della Grande Depressione non potevano contare su alcuna misura affidabile della produzione aggregata (in economia si usa la parola «aggregato» come sinonimo di totale). Fu solo alla fine della seconda guerra mondiale che molti paesi europei iniziarono a sviluppare un sistema di contabilità nazionale. 1.1 PIL: PRODUZIONE E REDDITO La misura della produzione aggregata nella contabilità nazionale è chiamata prodotto interno lordo (Pil). Esistono tre modi equivalenti di definire il Pil in un’economia: dal lato della produzione, dal lato della produzione e dal lato del reddito. Supponiamo di avere un’economia con due sole imprese: L’impresa 1 produce acciaio, impiegando lavoratori e utilizzando macchinari. Vende acciaio per 100€ all’impresa 2 che lo usa per produrre automobili. L’impresa 1 paga i suoi lavoratori 80€ e ottiene un profitto di 20€; L’impresa 2 acquista acciaio e lo usa, insieme ai lavoratori e ai macchinari, per produrre automobili. I ricavi dalla vendita sono pari a 200€. 100€ servono a pagare l’acciaio, 70€ i lavoratori e 30€ rimangono all’impresa come profitto. Impresa 1 Impresa 2 Ricavi 100€ Ricavi 200€ Costi 80€ Costi 170€ Salari 80€ Salari 70€ Acquisto acciaio 100€ Profitti 20€ Profitti 30€ Il Pil è il valore dei beni finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo. L’acciaio è un bene intermedio: una volta considerata la produzione di auto, non dobbiamo tenere conto anche della produzione d’acciaio, altrimenti lo conteremo due volte perché il valore dell’acciaio è incluso in quello dell’automobile. Un bene intermedio è un bene usato nella produzione di un altro bene. Alcuni beni sono sia finali sia intermedi (es. patate) PIL = 200€ Il Pil è la somma del valore aggiunto nell’economia in un dato periodo di tempo. Il valore aggiunto (VA) nel processo produttivo è definito come il valore della sua produzione meno il valore dei beni intermedi usati nella produzione stessa. VA1 = 100€ VA2= 200€-100€ =100€ PIL=100€+100€=200€ Il Pil è la somma dei redditi dell’economia in dato periodo di tempo. Distinguiamo tra Reddito da lavoro (parte dei ricavi usata per pagare i salari) e Reddito da capitale (profitto impresa). Impresa 1 reddito lavoro= 80€; reddito capitale= 20€ Impresa 2 reddito lavoro=70€; reddito capitale= 30€ Lavoro= 150€ Capitale=50€ PIL=150€+50€=200€ ©Rita Lucia Geraci ! Il reddito da lavoro è quindi il 75% del Pil in questo esempio. Nei paesi avanzati, il reddito da lavoro aggregato è tipicamente tra il 60 e il 75% del Pil. ! Due lezioni da tenere a mente: 1- il Pil è la misura della produzione aggregata. Possiamo pensare al Pil sia dal lato della produzione aggregata sia dal lato del reddito aggregato; 2- Produzione aggregata e reddito aggregato sono SEMPRE uguali. 1.2 PIL NOMINALE E PIL REALE Il Pil nominale (Pil a valori o a prezzi correnti) è la somma delle quantità dei beni e servizi finali valutati al loro prezzo corrente. Questo significa che la crescita del Pil nominale dipende da due fattori: Crescita della produzione (in termini di quantità) nel tempo; Aumento dei prezzi dei beni nel tempo. Esempio: Nel 2015 il Pil dell’UE era di 13.400 miliardi di euro, rispetto ai 2.598 miliardi di euro del 1980.Tuttavia, la produzione aggregata dell’UE non è stata cinque volte più alta nel 2015 che nel 1980.Una grande parte dell’aumento riflette variazioni dei prezzi dei beni e servizi e non delle quantità prodotte. Questo ci porta a considerare la distinzione tra Pil nominale e Pil reale. Come mai gli economisti non si limitano a contare il numero di beni/servizi prodotti per calcolare il Pil? Questo sarebbe possibile se l’economia producesse un solo bene finale. Tuttavia, produce diversi beni/servizi per questo motivo non è possibile. L’operazione di moltiplicazione per i prezzi (correnti o costanti) rende possibile aggregare beni diversi tra loro esprimendoli in termini monetari. Al fine di eliminare l’effetto dell’aumento dei prezzi dalla nostra misura del Pil, si costruisce il Pil reale. Il Pil reale (Pil a prezzi costanti, Pil in termini di beni…) è la somma delle quantità di beni finali valutati a prezzi costati; permette di misurare la produzione e le sue variazioni nel tempo, escludendo l’effetto di prezzi crescenti. Anno base anno in cui il Pil reale coincide con quello nominale. È l’anno usato per costruire i prezzi e viene modificato periodicamente. Fig.2.1 Pil nominale e reale in Italia dal 1970. Nel periodo 1970- 2014 il Pil nominale italiano è cresciuto di un fattore pari a 44,22. Quello reale di uno pari a 2,14 La fig. 2.1 rappresenta l’evoluzione del Pil reale e nominale in Italia dal 1970. Per costruzione, nel 2010 le due misure sono uguali, poiché il 2010 è usato come anno base. Nel 2014 il Pil reale italiano è pari a 2,14 volte maggiore del suo valore nel 1970 – un aumento considerevole, ma di molto inferiore all’aumento di 44,22 volte del Pil nominale nello stesso periodo. La differenza tra i due risultati dipende dall’aumento dei prezzi registrato in quel periodo. ©Rita Lucia Geraci Nei prossimi capitoli, se non indicato diversamente: Pil indicherà il Pil reale e Yt indicherà il Pil reale nell’anno t; il Pil nominale e le variabili misurate a prezzi correnti verranno invece indicate con il simbolo dell’euro – per esempio, €Yt sarà il Pil nominale nell’anno t. 1.3 PIL: LIVELLO O TASSO DI CRESCITA? Il Pil reale misura la dimensione economica di un paese. Un paese con un Pil doppio rispetto a quello di un altro paese è economicamente due volte più grande di quest’ultimo. Pil reale pro capite ossia il Pil reale diviso per la popolazione del paese, misura il tenore di vita medio. Per valutare l’andamento di un’economia da un anno all’altro, gli economisti considerano il tasso di crescita del Pil reale, chiamato crescita del Pil. I periodi di crescita positiva del Pil sono chiamati espansioni, i periodi di crescita negativa del Pil sono detti recessioni (per convenzione quando si registrano almeno due trimestri consecutivi di crescita negativa). La crescita del Pil nell’anno t è costruita come: (𝑌𝑡 − 𝑌𝑡−1 ) ⋅ 100 𝑌𝑡−1 Dove Yt è il Pil reale al tempo t e Yt-1 è il Pil dell’anno precedente. 2 IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE In quanto misura della produzione aggregata, il Pil è chiaramente la variabile macroeconomica più importante. Ma altre due variabili, la disoccupazione e l’inflazione, rilevano aspetti altrettanto importanti dell’andamento di un’economia. L’occupato (N) è colui che ha un lavoro al momento dell’intervista (in Italia l’indagine viene chiamata Rilevazione sulle forze lavoro ed è condotta dall’ISTAT); è occupato colui che nella settimana prima dell’intervista ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito. Il disoccupato (U) è colui che non ha un lavoro, ma è in cerca di occupazione. Fuori dalle forze di lavoro sono coloro che non hanno un lavoro e NON sono in cerca di occupazione. Forze di lavoro (L) è la somma delle persone occupate e di quelle disoccupate: 𝐿 =𝑁+𝑈 I lavoratori scoraggiati sono coloro che, in presenza di elevata disoccupazione, smettono di cercare lavoro ed escono dalla forza lavoro. Il tasso di disoccupazione (u) è il rapporto tra il numero dei disoccupati e le forze di lavoro: 𝑈 𝑢= 𝐿 Il tasso di partecipazione è il rapporto tra la forza lavoro e il totale della popolazione in età lavorativa. Per essere classificati come disoccupati bisogna: non avere un impiego ed essere alla ricerca di un impiego. Fino a poco tempo fa il numero di persone registrate negli elenchi dei disoccupati era l’unica fonte disponibile di dati e solo i lavoratori registrati come disoccupati erano considerati tali. Questo sistema ha generato una misura poco affidabile della disoccupazione. Infatti, chi non aveva incentivo a registrarsi –per esempio, chi aveva esaurito i sussidi di disoccupazione –difficilmente andava a registrarsi nell’elenco dei disoccupati e così non veniva incluso nel calcolo della disoccupazione. I paesi con i sussidi di disoccupazione meno generosi rischiavano di avere un minore numero di disoccupati registrati e quindi un minor tasso ©Rita Lucia Geraci ufficiale di disoccupazione. Oggi il calcolo del tasso di disoccupazione si basa su indagini ad ampia scala sulle famiglie. In Europa è chiamata “Labour Force Survey” ed è basata su interviste a un campione di individui. In Italia, prende il nome di Rilevazione sulle forze di lavoro ed è condotta dall’ISTAT. Fig. 2.3 Disoccupazione in Italia, Europa e Stati Uniti dal 1981. Il tasso di disoccupazione è in media maggiore in Europa che negli Stati Uniti. Il picco di disoccupazione è stato toccato in entrambi i continenti durante le crisi economiche recenti. La fig. 2.3 mostra l’andamento della disoccupazione in Italia, Europa e Usa dal 1981. Vi è differenza nel livello medio del tasso di disoccupazione, maggiore in Italia e Europa che negli Usa più o meno lungo tutto il periodo. Questo suggerisce un diverso funzionamento del mercato del lavoro tra i due continenti. Inoltre, il tasso di disoccupazione in Italia varia dal 6,1 al 12,7%, negli Usa dal 4,0 al 9,7% e in Europa dal 7,1 al 10,9%. Negli ultimi decenni, la disoccupazione statunitense ha raggiunto il suo massimo con la crisi finanziaria recente, mentre in Europa e in Italia ha raggiunto il suo picco con la crisi dell’euro. Gli economisti si preoccupano della disoccupazione per due ragioni. La prima è legata ai suoi effetti diretti sul benessere delle persone disoccupate: nonostante i sussidi di disoccupazione oggi siano maggiori di quanto non fossero durante la Grande Depressione del 1929, spesso la disoccupazione è associata a forti disagi finanziari e psicologici. La seconda è legata al fatto che essa segnala che l’economia non utilizza in modo efficiente alcune delle sue risorse. Anche un tasso di disoccupazione molto basso può essere un problema perché un’economia con un tasso di disoccupazione troppo basso potrebbe sovra utilizzare le sue risorse umane e incorrere in carenze di forze di lavoro. 3 IL TASSO DI INFLAZIONE L’ inflazione rappresenta un aumento del livello generale dei prezzi. Il tasso di inflazione è il tasso a cui il livello dei prezzi aumenta nel tempo. La deflazione è una riduzione del livello dei prezzi; corrisponde a un tasso d’inflazione negativo. N.B Mentre le cause dell’inflazione sono spesso di origine monetaria, la deflazione è spesso riconducibile a forti carenze dal lato della domanda aggregata. I macroeconomisti di solito considerano due indicatori del livello dei prezzi o indici dei prezzi: il deflatore del Pil e l’indice dei prezzi al consumo (IPC). ! La deflazione è un fenomeno infrequente, ma può verificarsi. Gli Stati Uniti hanno vissuto un’intensa deflazione negli anni Trenta durante la Grande Depressione. Il Giappone ha alternato periodi di inflazione e deflazione dalla fine degli anni Novanta. Il deflatore del Pil. Abbiamo visto che un aumento del Pil nominale possa derivare da un aumento del Pil reale o da un aumento dei prezzi. Similmente, se il Pil nominale aumenta più velocemente del Pil reale, la differenza deve provenire necessariamente da un aumento dei prezzi. Questa considerazione motiva la definizione di ©Rita Lucia Geraci deflatore del Pil. Il deflatore del Pil nell’anno t, Pt, è definito come il rapporto tra Pil nominale e Pil reale nell’anno t: €𝑌𝑡 𝑃𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑡 𝑃𝑡 = = 𝑌𝑡 𝑃𝑖𝑙 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑡 Il deflatore del Pil è un numero indice: il suo livello è uguale a 1 per l’anno base (dato che Pil nominale=Pil reale). Il suo tasso di variazione, ha un’interpretazione economica precisa: esso dà il tasso al quale cresce il livello dei prezzi nel tempo – ossia, il tasso di inflazione che è uguale a: (𝑃𝑡 −𝑃𝑡−1 ) πt = 𝑃𝑡−1 Il Pil nominale è uguale al Pil reale moltiplicato per il deflatore del Pil. €𝑌𝑡 = 𝑃𝑡 ∗ 𝑌𝑡 Oppure, in termini di tassi divariazione: il tasso di crescita del Pil nominale è uguale al tasso di inflazione più il tasso di crescita del Pil reale. €𝑌𝑡̇ = 𝜋𝑡 + 𝑌𝑡̇ L’indice dei prezzi al consumo. Il delatore del Pil contiene informazioni in merito al prezzo medio della produzione, cioè dei beni finali prodotti nell’economia. Mentre l’indice dei prezzi al consumo misura il livello dei prezzi medi al consumo. Tuttavia, i consumatori sono interessati al prezzo medio dei beni che consumano. Questi due prezzi medi possono differire perché i beni prodotti nell’economia non coincidono necessariamente con i beni acquistati dai consumatori, per due ragioni. La prima è che alcuni dei beni non sono venduti ai consumatori, ma alle imprese (per esempio, gli utensili destinati alla produzione), oppure al governo o all’estero; la seconda è che alcuni beni acquistati dai consumatori non sono prodotti all’interno dell’economia, ma importati dall’estero. Per misurare il prezzo medio del consumo, il cosiddetto costo della vita, i macroeconomisti usano un altro indice, l’indice dei prezzi al consumo (Ipc). In Italia, l’Istat si occupa della costruzione di tale indice, che rilette le variazioni dei prezzi del paniere di beni tipicamente consumato dalle famiglie italiane. In Europa, invece, l’inflazione dei prezzi al consumo è misurata con l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Iapc). Il paniere di beni rappresentato dall’Iapc è aggiornato annualmente per includere nuovi beni diventati una parte integrante dei consumi delle famiglie e per eliminare quelli divenuti obsoleti. L’Iapc è un numero indice: il suo livello è scelto arbitrariamente uguale a 100 nell’anno base e dunque il suo livello non ha un significato particolare. Il suo tasso di variazione rappresenta il tasso di inflazione: (𝐼𝑃𝐶𝑡 − 𝐼𝑃𝐶𝑡−1 ) 𝐼𝑃𝐶𝑡−1 Esso ha un’interpretazione economica. Se l’IPC nel 2010 è pari a 100 (anno base) mentre nel 2015 sale a 107,99 significa che, rispetto al 2010, acquistare lo stesso paniere di beni costa nel 2015 circa l’8% in più. Gli economisti si preoccupano dell’inflazione per due motivi. Il primo è che durante le fasi inflattive, non tutti i prezzi e i salari aumentano proporzionalmente (“inflazione pura”). Ma quest’ultima, in realtà, non esiste. L’inflazione influenza pertanto la distribuzione del reddito. In molti paesi i pensionati ricevono dei pagamenti che non vengono indicizzati in base al livello dei prezzi, e quando l’inflazione è alta perdono potere d’acquisto rispetto ad altri gruppi sociali, per esempio rispetto ai lavoratori i cui salari vengono ©Rita Lucia Geraci invece adeguati alla crescita dei prezzi. Il secondo è che l’inflazione crea una serie di altre distorsioni. Le variazioni dei prezzi relativi generano un clima di maggiore incertezza, rendendo più difficile per le imprese prendere decisioni sul futuro, come quelle sugli investimenti produttivi. La tassazione interagisce con l’inflazione creando ulteriori distorsioni. Quando i vari scaglioni di reddito non tengono conto dell’inflazione, i contribuenti passano da una fascia contributiva a quella successiva semplicemente per effetto dell’aumento dei prezzi. 4 PRODUZIONE, DISOCCUPAZIONE E INFLAZIONE: LA LEGGE DI OKUN E LA CURVA DI PHILLIPS La crescita della produzione, il tasso di disoccupazione, il tasso di inflazione non sono indipendenti tra loro. La legge di Okun. Mette in relazione (negativa) la crescita della produzione e le variazioni del tasso di disoccupazioni. Quando il tasso di crescita è elevato la disoccupazione diminuisce perché sono necessari più lavoratori per produrre un numero maggiore di beni e servizi. La relazione tra crescita e disoccupazione fu osservata negli Stati Uniti da Okun e poi chiamata “Legge di Okun”. La fig. 2.5 mette in relazione la variazione nel tasso di disoccupazione (asse verticale) e la crescita della produzione (asse orizzontale) per gli USA dal 1960. La retta è inclinata verso il basso e interpreta la nuvola di punti abbastanza bene. C’è una stretta relazione tra le due variabili: una maggiore crescita della produzione è associata ad una diminuzione della disoccupazione. La pendenza della retta è –0,4. Questo implica che, un aumento del tasso di crescita dell’1% riduce la disoccupazione di cerca lo 0,4%. Questa è la ragione per cui la disoccupazione aumenta durante le recessioni e diminuisce durante le espansioni, e questo ha una semplice ma importante conseguenza: il miglior modo per ridurre la disoccupazione è mantenere un elevato tasso di crescita; La retta interseca l’asse orizzontale nel punto in cui la crescita della produzione è uguale a circa il 3%. Per mantenere la disoccupazione costante è richiesto un tasso di crescita di circa il 3%. Fig. 2.5 Variazione del tasso di disoccupazione e tasso di crescita della produzione negli Stati Uniti 1960-2014. Tasso di crescita della produzione più elevati sono associati a riduzioni nel tasso di disoccupazione. Tassi di crescita minori sono associati ad un aumento del tasso di disoccupazione. Riguardo l’Italia la fig. 2.6 ci suggerisce due importanti conclusioni. La retta di regressione ha pendenza negativa, come negli Stati Uniti, ma la relazione è molto più debole in Italia che negli Stati Uniti sotto due aspetti. Il primo è che la pendenza della retta per l’Italia è – 0,07. Il secondo aspetto è che la relazione per l’Italia non è solida come per gli Stati Uniti: ©Rita Lucia Geraci vi sono anni in cui ad un aumento della disoccupazione in Italia è associato un tasso di crescita della produzione positivo. Questo si allontana dalla legge di Okun che associa un aumento della disoccupazione ad una riduzione della produzione. Il funzionamento del mercato del lavoro è molto differente tra i due paesi. Questo fa sì che le imprese italiane, durante momenti di espansione, potrebbero decidere di far lavorare maggiormente i loro dipendenti, invece che assumerne altri e, durante fasi di recessione, far lavorare meno i dipendenti, senza però licenziarli. Fig. 2.6 Variazione del tasso di disoccupazione e tasso di crescita in Italia 1970-2014. La legge di Okun sembra trovare riscontro empirico anche in Italia, sebbene la relazione sia più debole che negli Stati Uniti. La curva di Phillips. Mette in relazione (negativa) il tasso di disoccupazione e l’inflazione. Quando la disoccupazione è ridotta, l’economia probabilmente si trova in una fase di “surriscaldamento” che spingerà l’inflazione ad aumentare. Gli economisti dicono che l’economia si sta “surriscaldando” quando cresce ad una velocità superiore a quello a cui farebbe se le risorse fossero utilizzate in maniera efficace, viceversa si sta “raffreddando”. La relazione tra disoccupazione e inflazione fu scoperta nel 1958 da Phillips, e chiamata curva di Phillips. La fig. 2.7 mette in relazione la variazione del tasso di inflazione (asse verticale) e il tasso di disoccupazione (asse orizzontale) per gli USA dal 1960. La retta di regressione è inclinata verso il basso, sebbene non interpreti la nuvola di punti bene come per la legge di Okun. Un’elevata disoccupazione conduce ad un calo dell’inflazione, mentre una ridotta disoccupazione porta ad un aumento dell’inflazione. Tuttavia, a volte, un’elevata disoccupazione è associata ad un aumento dell’inflazione; La retta interseca l’asse orizzontale nel punto in cui il tasso di disoccupazione è circa uguale al 6%. Quando la disoccupazione scende sotto il 6%, l’inflazione è aumentata. Questo suggerisce che l’economia si stava surriscaldando. Quando la disoccupazione è salita al disopra del 6%, l’inflazione è calata. Questo suggerisce che l’economia stava operando al di sotto del suo potenziale. ©Rita Lucia Geraci Fig. 2.7 Variazione del tasso di inflazione e del tasso di disoccupazione degli Stati Uniti 1960-2014. Un ridotto tasso di disoccupazione è associato ad un aumento del tasso di inflazione. Un elevato tasso di disoccupazione è associato ad una riduzione del tasso di inflazione. Fig. 2.8 Variazioni del tasso di inflazione e del tasso di disoccupazione in Italia 1970-2014. Come negli Stati Uniti, i dati confermano l’esistenza della curva di Philips in Italia nel periodo 1970-2014. 5 BREVE, MEDIO E LUNGO PERIODO Il livello della produzione aggregata (Y) è determinato da: dalla domanda di beni (es: il mese scorso la produzione e la vendita di auto sono aumentate in seguito ad un aumento della fiducia dei consumatori); ciò che conta per la produzione aggregata è il lato dell’offerta, cioè quanto l’economia può effettivamente produrre. Ciò dipende a sua volta da quanto avanzata è la tecnologia disponibile in quella economia, da quanto capitale è utilizzato, dalla quantità e dalle capacità dei lavoratori impiegati; dipende da quanto le persone risparmiano. La capacità dei lavoratori dipende dalla qualità del suo sistema scolastico. Ossia le vere determinanti della produzione sono fattori come il sistema scolastico, il tasso di risparmio e la qualità del governo. Quindi: -Nel breve periodo, cioè nell’arco di qualche anno, la prima risposta è quella giusta. Le variazioni annuali della produzione sono dovute soprattutto a variazioni della domanda. Possono derivare da cambiamenti nella fiducia dei consumatori ecc.. -Nel medio periodo, cioè nell’arco di un decennio, la risposta giusta è la seconda. Determinato da fattori relativi all’offerta: lo stock di capitale, il livello della tecnologia, la dimensione della forza lavoro. ©Rita Lucia Geraci -Nel lungo periodo, cioè nell’arco di qualche decennio o più, la risposta giusta è la terza. Dobbiamo guardare a fattori quale il sistema di istruzione, il tasso di risparmio e il ruolo del governo. ©Rita Lucia Geraci CAPITOLO 3: IL MERCATO DEI BENI Quando gli economisti cercano di comprendere le fluttuazioni annuali dell’attività economica si concentrano sulle interazioni tra produzione, reddito e domanda. Vedremo che nel breve periodo variazioni della domanda (Z) determinano variazioni della produzione (Y). Le variazioni della produzione comportano variazioni del reddito che, a loro volta, determinano variazioni della domanda. 1 LA COMPOSIZIONE DEL PIL Per capire che cosa determina la domanda di beni, ha senso scomporre la produzione aggregata (misurata attraverso il Pil) dal punto di vista dei vari beni prodotti e dal punto di vista dei diversi gruppi di acquirenti di tali beni. Cerchiamo di analizzare ogni componente nel dettaglio: 1- La prima componente del Pil è il consumo (C). Si tratta di beni e servizi acquistati dai consumatori ed è di gran lunga la componente più importante del Pil; 2- La seconda componente è l’investimento (I), talvolta chiamato investimento fisso per distinguerlo dalle scorte di magazzino. L’investimento è la somma dell’investimento non residenziale, cioè l’acquisto di nuovi impianti o macchinari da parte delle imprese, e dell’investimento residenziale, cioè l’acquisto di nuove case o appartamenti da parte degli individui. I due tipi di investimento, e le decisioni che li morivano, sono molto simili tra di loro: le imprese comprano impianti e o macchinari per produrre di più nel futuro, le persone comprano case o appartamenti per ottenere più servizi abitativi nel futuro. In entrambi i casi, la decisione di acquistare dipende dai servizi che questi daranno in futuro; 3- La terza componente del Pil è la spesa pubblica in beni e servizi (G). Si tratta di beni e servizi acquistati dallo Stato e dagli enti pubblici. La spesa pubblica per beni e servizi include sia la spesa per consumi, sia quella per investimenti pubblici. I servizi includono anche quelli forniti dagli impiegati pubblici, cioè il valore dei loro stipendi. La contabilità nazionale, assume che lo Stato acquisti i servizi dai suoi impiegati per poi fornirli gratuitamente al pubblico. Non include i trasferimenti (che si portano in diminuzione delle entrate fiscali), come l’assistenza sanitaria o le pensioni, né gli interessi sul debito pubblico; 4- La somma delle prime tre voci rappresenta la spesa in beni e servizi da parte dei residenti. Per ottenere la spesa totale in beni nazionali, dobbiamo escludere le importazioni (IM), cioè gli acquisti di beni e servizi dall’estero. Questo perché il consumo di beni stranieri viene conteggiato all’interno di C e G, ma non concorre alla formazione della produzione nazionale, proprio perché questi beni vengono prodotti all’estero. Infine, dobbiamo includere le esportazioni (X), cioè gli acquisti di beni e servizi nazionali da parte del resto del mondo. La differenza tra esportazioni e importazioni, (X–IM), è chiamata esportazioni nette (NX) o saldo commerciale. Se le esportazioni eccedono le importazioni, il paese registra un avanzo commerciale (cioè NX >0). Se, invece, le esportazioni sono inferiori alle importazioni, il paese presenta un disavanzo commerciale (cioè NX < 0); 5- Per ottenere il valore della produzione in un anno, dobbiamo compiere un ulteriore passo. In ogni dato anno, la produzione e le vendite non sono necessariamente uguali. Alcuni beni prodotti potrebbero non essere venduti e alcuni beni venduti in quell’anno potrebbero essere stati prodotti in anni precedenti. La differenza tra produzione e vendite – prende il nome di investimento in scorte. Se la produzione eccede le vendite, le scorte di magazzino aumentano: l’investimento in scorte è positivo. Viceversa, quando la produzione è inferiore alle vendite, le scorte si riducono: l’investimento in scorte è negativo. Quindi: 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒 = 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 − 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑖𝑡𝑒 ©Rita Lucia Geraci 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑖𝑡𝑒 + 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑖𝑡𝑒 = 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 − 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒 2 LA DOMANDA DI BENI Indichiamo la domanda totale di beni con Z. 𝑍 ≡ 𝐶 + 𝐼 + 𝐺 + 𝑋 − 𝐼𝑀 Questa equazione è un’identità. Essa definisce Z come la somma di consumo, investimento, spesa pubblica ed esportazioni al netto delle importazioni. Ricorda che l’investimento in scorte non fa parte della domanda. Per cercare di capire quali sono i fattori determinanti di Z, introduciamo alcune semplificazioni: Assumiamo che tutte le imprese producono uno stesso bene, che può essere usato indifferentemente dai consumatori come bene di consumo, dalle imprese come bene di investimento e dal governo come spesa pubblica. Analizzeremo così un solo mercato; Assumiamo che le imprese siano disposte a fornire qualsiasi quantità del bene a un dato prezzo, P (Ipotesi valida solo nel breve periodo che sarà abbandonata nel cap.7); Assumiamo che l’economia sia chiusa, cioè che non commerci con il resto del mondo: sia le esportazioni che le importazioni sono uguali a zero. 𝑍 ≡𝐶+𝐼+𝐺 2.1 CONSUMO (C) Le decisioni di consumo dipendono da molti fattori, primo fra tutti il reddito, o meglio il reddito disponibile (YD) – ossia, ciò che rimane del reddito percepito dopo aver ricevuto i trasferimenti dal governo e pagato le imposte. Quando il reddito disponibile aumenta, le persone comprano di più; quando il reddito diminuisce, esse riducono i loro consumi. Possiamo quindi scrivere: 𝐶 = 𝐶 (𝑌𝑑 ) Questo è un modo formale per affermare che il consumo C è una funzione del reddito disponibile YD. La funzione C(YD) è chiamata funzione del consumo. Il segno positivo sotto YD riflette il fatto che, quando il reddito disponibile aumenta anche il consumo aumenta. Il consumo non è necessariamente uguale al reddito disponibile: questo perché gli individui potrebbero risparmiare parte del reddito percepito. Gli economisti chiamano funzioni come questa equazioni di comportamento, per indicare il fatto che esse descrivono alcuni aspetti del comportamento degli agenti economici –in questo caso dei consumatori. È utile assumere che la relazione tra consumo e reddito disponibile sia data dalla semplice relazione: 𝐶 = 𝑐0 + 𝑐1 𝑌𝑑 È ragionevole assumere che la funzione del consumo sia una relazione lineare, caratterizzata da due parametri, c0 e c1. Il parametro c1 è chiamato propensione al consumo (o anche propensione marginale al consumo) Esso esprime l’effetto sul consumo di un euro aggiuntivo di reddito disponibile. Se c1 è 0,6, un euro ©Rita Lucia Geraci in più di reddito disponibile aumenta il consumo di 60 centesimi. Una restrizione che viene naturale imporre su c1 è che sia positivo: un aumento del reddito disponibile fa aumentare il consumo. Un’altra restrizione naturale è che c1 sia minore di 1: è probabile che gli individui vogliano consumare solo una parte del loro incremento di reddito e risparmiare il resto. Quindi avremo che 0 < c1 < 1 Il parametro c0 rappresenta il consumo desiderato in corrispondenza di un reddito disponibile nullo: se YD = 0 nell’equazione precedente allora C = c0. Se il reddito disponibile corrente fosse pari a zero, il consumo sarebbe comunque positivo: con o senza reddito, le persone dovranno pur mangiare attingendo ai loro risparmi o prendendo a prestito; Il parametro c0 ha anche un’interpretazione meno semplice e più frequente. Cambiamenti in c0 riflettono cambiamenti nelle preferenze di consumo per un dato livello di reddito disponibile. Un aumento in c0 rilette un desiderio di consumare maggiormente dato un certo reddito, mentre una diminuzione in c0 rilette un desiderio di consumare meno. Ci sono svariate ragioni per cui le preferenze di consumo delle persone possano cambiare. Per esempio, potrebbero trovare più o meno complicato prendere a prestito, oppure potrebbero diventare più ottimisti o più pessimisti sul futuro. La relazione tra consumo e reddito disponibile descritta dall’equazione precedente è riportata nella fig. 3.1. Poiché essa corrisponde a una relazione lineare, è rappresentata da una linea retta. La sua intercetta verticale è pari a c0, la pendenza a c1. Poiché c1 è minore di 1, essa è più piatta della retta a 45°. Il reddito disponibile è dato da: 𝑌𝑑 ≡ 𝑌 − 𝑇 Dove Y è il reddito e T rappresenta le imposte pagate meno i trasferimenti provenienti dal governo. Sostituendo e risolvendo per il consumo si ottiene: 𝐶 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) Questa equazione ci dice che il consumo (C) è una funzione del reddito Y e delle imposte T. Un reddito più alto fa aumentare il consumo, ma non in maniera unitaria. Imposte più elevate fanno diminuire il consumo, ma anche in questo caso non in modo unitario. Fig. 3.1 Consumo e reddito disponibile. Il consumo aumenta col reddito disponibile, ma meno che proporzionalmente. ©Rita Lucia Geraci 2.2 INVESTIMENTO (I) Nei modelli economici troviamo due tipi di variabili. Alcune dipendono da altre variabili del modello e sono pertanto spiegate all’interno del modello stesso, chiamate variabili endogene. È il caso del consumo nell’equazione precedente. Altre variabili invece non sono spiegate all’interno del modello, ma vengono prese come date, chiamate variabili esogene. Nel nostro caso l’investimento sarà preso come dato: 𝐼 = 𝐼̅ Una barretta sopra la variabile è una convenzione che ci ricorda che essa è esogena al modello. 2.3 SPESA PUBBLICA (G) La spesa pubblica, insieme alle imposte T e G, descrive la politica fiscale del governo – cioè le scelte relative alle entrate e le uscite del settore pubblico. Analogamente all’investimento, considereremo G e T come esogene, ma per ragioni diverse da quelle precedenti, che si basano su due considerazioni: innanzitutto, il governo non presenta un comportamento altrettanto regolare come quello di consumatori e imprese anche se buona parte delle sue decisioni è prevedibile; la seconda considerazione è la più importante. Uno dei compiti dei macroeconomisti è comprendere le implicazioni sull’economia di diversi livelli di spesa pubblica e di tassazione e di consigliare il governo circa le decisioni da prendere. 3 LA DETERMINAZIONE DELLA PRODUZIONE DI EQUILIBRIO. 𝑍 ≡𝐶+𝐼+𝐺 Sostituendo C e I si ottiene: 𝑍 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 ̅ + 𝐺 La domanda di beni Z dipende dal reddito Y e dalle imposte T, dall’investimento I e dalla spesa pubblica G. Iniziamo assumendo che le imprese non abbiamo scorte di magazzino poiché altrimenti, se le imprese detengono delle scorte, la produzione non deve essere necessariamente uguale alla domanda. In questo caso l’equilibrio nel mercato dei beni richiede che la produzione sia uguale alla domanda. 𝑌=𝑍 Questa equazione è chiamata equazione di equilibrio. I modelli sono composti da tre tipi di equazioni: le identità, le equazioni di comportamento e le condizioni di equilibrio. L’equazione che definisce il reddito disponibile è un’identità, la funzione del consumo è un’equazione di comportamento e la condizione di uguaglianza tra produzione e domanda è una condizione di equilibrio. Sostituendo la domanda Z con la sua espressione otteniamo: 𝑌 = 𝑐0 + 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 ̅ + 𝐺 In equilibrio, la produzione, Y, è uguale alla domanda. A sua volta, la domanda dipende dal reddito, Y, che è uguale alla produzione. Reddito e produzione sono uguali (usiamo lo stesso simbolo Y per entrambi): sono due modi diversi di guardare al Pil – dal lato della produzione e dal lato del reddito. Una volta costruito il modello, possiamo risolverlo per vedere cosa determina il livello di produzione e come quest’ultimo cambia in seguito, per esempio, a una variazione della spesa pubblica. ©Rita Lucia Geraci I macroeconomisti utilizzano, di solito, tre strumenti: 1. l’algebra per assicurare la coerenza logica del modello; 2. i grafici per cogliere l’intuizione; 3. le parole per spiegare i risultati. 3.1 ATTRAVERSO L’ALGEBRA Riscriviamo l’equazione di equilibrio come: 𝑌 = 𝑐0 + 𝑐1 𝑌 − 𝑐1 𝑇 + 𝐼 ̅ + 𝐺 1 𝑌= (𝑐 + 𝐼 ̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇) 1 − 𝑐1 0 L’equazione descrive la produzione di equilibrio, ossia il livello di produzione che uguaglia la domanda. Il termine (c0 + Ī + G – c1T) rappresenta la componente della domanda di beni che non dipende dal livello di produzione. Per questo è chiamata spesa autonoma. ! “Autonoma” significa indipendente –in questo caso, indipendente dalla produzione. Non possiamo essere sicuri che la spesa autonoma sia positiva, ma è molto probabile che lo sia. I primi due addendi nella parentesi, c0 e Ī, sono positivi. E gli altri due, G – c1T? Supponiamo che il governo abbia un bilancio in pareggio, cioè che le imposte siano uguali alla spesa pubblica. Se T = G e se la propensione al consumo (c1) è minore di 1 (come abbiamo ipotizzato), allora (G – c1T) è positivo e quindi lo è anche la domanda autonoma. Consideriamo ora il primo fattore, 1/(1 – c1). Poiché la propensione al consumo (c1) è compresa tra 0 e 1, allora 1/(1 – c1) è un numero maggiore di 1. Questo numero, che moltiplica l’effetto della spesa autonoma, è chiamato moltiplicatore. Supponiamo i consumatori decidano di consumare di più. Più precisamente, assumiamo che c0 aumenti di 1 miliardo di euro. L’equazione ci dice che la produzione aumenterà in misura superiore a 1 miliardo di euro. Un incremento di c0 fa aumentare la domanda, che a sua volta genera un incremento della produzione. L’aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare. La crescita del reddito, a sua volta, fa aumentare ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della domanda e così via. 3.2 CON I GRAFICI Disegniamo la produzione in funzione del reddito. Nella fig. 3.2 misuriamo la produzione sull’asse verticale e il reddito sull’asse orizzontale. Esprimere la produzione in funzione del reddito è immediato: le due grandezze coincidono sempre. La relazione tra le due variabili viene, quindi, rappresentata dalla retta a 45° con pendenza uguale a 1. Il passo successivo consiste nel disegnare la domanda come funzione del reddito. La domanda dipende dalla spesa autonoma e dal reddito, attraverso il suo effetto sul consumo. La relazione tra domanda e reddito è rappresentata dalla linea ZZ. L’intercetta sull’asse verticale –il valore della domanda quando il reddito è uguale a zero –è pari alla spesa autonoma. La pendenza della retta è data dalla propensione al consumo c1. Quando il reddito aumenta di 1, la retta è inclinata positivamente, ma con una pendenza inferiore a 1. ©Rita Lucia Geraci In equilibrio, la produzione è uguale alla domanda. Quindi la produzione di equilibrio si trova nel punto di intersezione della retta a 45° con la curva di domanda, nel punto A. Alla sinistra di A, la domanda eccede la produzione; alla sua destra, la produzione eccede la domanda. Fig. 3.2 Equilibrio nel mercato dei beni. La produzione di equilibrio è determinata dalla condizione di uguaglianza tra produzione e domanda. Supponiamo che l’economia si trova inizialmente in equilibrio, rappresentato nel punto A nel grafico, con una produzione uguale a Y. Supponiamo che c0 aumenti di 1 miliardo di euro. Dopo l’aumento di c0, la relazione tra domanda e reddito e data da ZZ’, parallela a ZZ, ma più alta di 1 miliardo di euro. Il nuovo equilibrio A’. la produzione di equilibrio aumenta da Y a Y’. È chiaro che l’incremento della produzione, (Y’-Y) è maggiore dell’aumento iniziale di 1 miliardo di euro. Questo è l’effetto del moltiplicatore. Al livello iniziale di reddito, Y, la domanda ora è data dal punto B: la domanda è più grande di 1 miliardo di euro. Per soddisfare questo livello di domanda, le imprese aumentano la produzione di 1 miliardo di euro. L’aumento della produzione implica che il reddito aumenta di 1 miliardo di euro, cosicché l’economia si sposta nel punto C. L’aumento del reddito induce un ulteriore aumento della domanda, che muove l’economia nel punto D. In D la produzione aumenta, e così via fino ad A’, dove produzione e domanda sono di nuovo uguali. ©Rita Lucia Geraci Fig. 3.3 Gli effetti di un aumento della spesa autonoma sulla produzione. Un aumento della spesa autonoma ha un effetto più che proporzionale sulla produzione di equilibrio. È possibile spiegare il ragionamento in modo ancora più approfondito pensando al moltiplicatore in maniera diversa: Il primo aumento della domanda, indicato dalla distanza AB nella figura precedente, è uguale a 1 miliardo di euro; Questo primo aumento della domanda porta a un aumento e equivalente della produzione, cioè 1 miliardo di euro, anch’esso rappresentato dalla distanza AB; Questo primo aumento della produzione porta a un aumento di pari ammontare del reddito, indicato dalla distanza BC, anch’esso pari a 1 miliardo di euro; Il secondo aumento della domanda, rappresentato dalla distanza CD, è uguale a 1 miliardo di euro (il primo aumento di reddito) moltiplicato per la propensione marginale al consumo, c1 –cioè c1 miliardi di euro; Questo secondo aumento della domanda porta a un aumento di pari ammontare della produzione, anch’esso rappresentato dalla distanza CD, e quindi a un aumento di pari ammontare del reddito, indicato dalla distanza DE; Il terzo aumento della domanda è uguale a c1 miliardi di euro (il secondo aumento di reddito) moltiplicato per c1. Esso è uguale a c1 x c1 miliardi di euro = (c1)2 di euro e così via. Seguendo questa logica l’aumento totale della produzione dopo n+1 passaggi è uguale a 1 miliardo di euro moltiplicato per la somma: 1+c1+(c1)2+…+(c1)n Questa somma è chiamata serie geometrica. Quando c1 è inferiore a 1, all’aumentare di n la somma continua ad aumentare, ma si avvicina a un limite. Questo limite è 1/(1 – c1) , cosicché l’aumento finale della produzione è pari a 1/(1 – c1) miliardi di euro. L’espressione 1/(1 – c1) è il moltiplicatore derivato in un altro modo. Si tratta di un modo equivalente, ma più intuitivo, di considerare il moltiplicatore: l’aumento iniziale della domanda produce aumenti successivi della produzione, ciascuno dei quali fa aumentare il reddito, che a sua volta fa aumentare la domanda e così via. Il moltiplicatore è la somma di tutti questi aumenti successivi della produzione. 3.3 A PAROLE ©Rita Lucia Geraci La produzione dipende dalla domanda, che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione. Un incremento della domanda, come per esempio un aumento della spesa pubblica, fa aumentare la produzione e il reddito. L’aumento del reddito a sua volta fa aumentare la domanda e quindi la produzione, e così via. In altre parole, un cambiamento iniziale nella domanda dà il via ad un processo di aggiustamento di produzione e domanda attraverso il quale si giunge ad un nuovo livello di produzione di equilibrio. Il risultato è un aumento della produzione, superiore all’incremento iniziale della domanda di un fattore pari al moltiplicatore. La dimensione del moltiplicatore è collegata direttamente al valore della propensione al consumo: quanto più alta è la propensione al consumo, tanto maggiore è il moltiplicatore. FOCUS La bancarotta di Lehman, i timori di un’altra Grande Depressione e il cambiamento nella funzione di consumo. Perché i consumatori dovrebbero ridurre la loro spesa per consumi se il loro reddito disponibile rimane invariato? Ossia, i quali circostanze il termine C0 potrebbe diminuire, causando una riduzione della domanda, della produzione e così via? Il primo motivo a cui potremmo pensare è che, anche quando il reddito disponibile rimane invariato, i consumatori potrebbero preoccuparsi del futuro e iniziare a risparmiare di più. Questo è quello che è accaduto negli Stati Uniti nelle fasi iniziali della crisi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009. La fig. 1 riporta, dal primo trimestre 2008 all’ultimo 2009, l’andamento di tre variabili: il reddito disponibile, la spesa totale per consumi e il consumo di beni durevoli, cioè la parte del consumo che ricade su beni come le auto, i pc e così via. Per rendere più comprensibile la lettura, abbiamo normalizzato le variabili a 1 nel primo trimestre 2008. Due considerazioni emergono dalla figura: 1 nonostante la crisi abbia portato una riduzione del Pil, nel periodo in questione il reddito disponibile non si è ridotto di molto. È addirittura aumentato nel primo trimestre 2008. Il consumo, tuttavia, è rimasto immutato nel primo e nel secondo trimestre 2008, per poi ridursi dopo. Inoltre, il consumo si è ridotto del 3% nel 2009 rispetto al 2008, più di quanto non si sia ridotto il reddito disponibile. (la distanza tra la linea del reddito disponibile e quella del consumo è aumentata); 2 durante il terzo e il quarto trimestre 2008 il consumo di beni durevoli si è ridotto molto. Perché il consumo, soprattutto di beni durevoli, è diminuito significativamente alla fine del 2008 nonostante una variazione ridotta nel reddito disponibile? Principalmente, a causa della ricaduta psicologica della crisi finanziaria. Ricorderete che il 15 settembre 2008 Lehman Brothers annunciò la bancarotta e sembrò che anche molte altre banche avrebbero potuto subire la stessa sorte e che l’intero sistema finanziario sarebbe potuto collassare da un momento all’altro. Sebbene molte persone avessero ancora i loro posti di lavoro, gli eventi circostanti venivano interpretati come l’inizio di una nuova Grande Depressione. Quindi, preoccupati della possibilità di diventare disoccupati, con ogni probabilità ridurreste i vostri consumi prima ancora che il reddito disponibile effettivamente subisca dei cambiamenti. E, a causa dell’incertezza di ciò che accadrà, potreste anche decidere di posticipare gli acquisti non urgenti. Questa è stata esattamente la reazione dei consumatori americani alla fine del 2008: il consumo diminuì e il consumo dei beni durevoli crollò. 4 INVESTIMENTO = RISPARMIO: UN MODO ALTERNATIVO DI PENSARE ALL’EQUILIBRIO NEL MERCATO DEI BENI Un modo alternativo di considerare l’equilibrio è quello di pensarlo in termini di risparmio e investimento. Iniziamo dal risparmio aggregato, pari alla somma di risparmio privato e risparmio pubblico. ©Rita Lucia Geraci Il risparmio privato, cioè il risparmio (S) dei consumatori, è uguale alloro reddito disponibile al netto del consumo: 𝑆 = 𝑌𝑑 − 𝐶 Usando la definizione di reddito disponibile, possiamo riscrivere il risparmio come reddito meno imposte meno consumo: 𝑆 =𝑌−𝑇−𝐶 Il risparmio pubblico è uguale alle imposte (al netto dei trasferimenti) meno la spesa pubblica, T – G. Se le imposte eccedono la spesa pubblica, il governo ha un avanzo di bilancio, cioè il risparmio pubblico è positivo. Se le imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo di bilancio, cioè il risparmio pubblico è negativo. Torniamo ora all’equazione di equilibrio nel mercato dei beni che abbiamo derivato prima. La produzione deve essere uguale alla domanda, che a sua volta è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica: 𝑌 =𝐶+𝐼+𝐺 Sottraendo le imposte T da entrambi i lati e spostando il consumo sulla sinistra, otteniamo: 𝑌−𝑇−𝐶 =𝐼+𝐺−𝑇 Il lato sinistro di questa equazione è semplicemente uguale al risparmio (S), per cui possiamo scrivere: 𝑆 =𝐼+𝐺−𝑇 Oppure 𝐼 = 𝑆 + (𝑇 − 𝐺) Il lato sinistro rappresenta l’investimento, il lato destro rappresenta il risparmio aggregato (risparmio privato più risparmio pubblico). Affinché il mercato sia in equilibrio l’investimento deve essere uguale al risparmio – cioè alla somma di risparmio privato e risparmio pubblico. Questo modo di definire l’equilibrio spiega perché la condizione di equilibrio nel mercato dei beni è chiamata curva IS, che sta per «Investimento =Risparmio (Saving)»: quanto le imprese vogliono investire deve essere uguale a quanto i consumatori e il governo sono disposti a risparmiare. Riassumendo: esistono due modi equivalenti di esprimere la condizione di equilibrio nel mercato dei beni: produzione = domanda investimento = risparmio Notate innanzitutto che le decisioni di consumo e di risparmio rappresentano in realtà due facce della stessa medaglia: dato un reddito disponibile, una volta deciso il consumo, il risparmio è determinato per differenza e viceversa. Il risparmio privato è dato da: 𝑆 = 𝑌 − 𝑇 − 𝐶 = 𝑌 − 𝑇 − 𝑐0 − 𝑐1 (𝑌 − 𝑇) Riordinando i termini si ottiene: 𝑆 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇) Chiamiamo (1 – c1) la propensione marginale al risparmio. Essa ci dice quanta parte di un incremento unitario di reddito viene risparmiata. L’ipotesi che la propensione al consumo (c1) sia compresa tra 0 e 1 implica che la propensione al risparmio (1 – c1) sia anch’essa tra 0 e 1. Intuitivamente, questo significa che i ©Rita Lucia Geraci consumatori risparmieranno una parte del reddito disponibile e, evidentemente, non possono risparmiare più di quanto percepiscano come reddito. Il risparmio privato aumenta all’aumentare del reddito disponibile, ma meno che proporzionalmente. In equilibrio, l’investimento deve essere uguale al risparmio aggregato, dato dalla somma di risparmio privato e pubblico. Sostituendo otteniamo: 𝐼 = −𝑐0 + (1 − 𝑐1 )(𝑌 − 𝑇) + (𝑇 − 𝐺) 1 𝑌= (𝑐 + 𝐼 ̅ + 𝐺 − 𝑐1 𝑇) 1 − 𝑐1 0 FOCUS Il paradosso del risparmio. Fin da piccoli ci insegnano le virtù del risparmio. Supponiamo che, per un dato livello di reddito disponibile, i consumatori decidono di risparmiare di più. Ossia, supponiamo che i consumatori riducano c 0 aumentando in questo modo il risparmio. cosa succede alla produzione e al risparmio? L’ultima equazione indica che la produzione di equilibrio in questo modo diminuisce. Quando le persone risparmiano di più in corrispondenza del livello iniziale di reddito, esse riducono il consumo. Ma tale riduzione, a sua volta, riduce la domanda e la produzione. ©Rita Lucia Geraci CAPITOLO 4: I MERCATI FINANZIARI Premessa Finora lo stock di moneta, i tassi di interesse non hanno trovato posto nel modello di determinazione del reddito. Ci siamo cioè solo limitati a capire l’impatto di variazioni delle componenti autonome di spesa sul reddito d’equilibrio. Nella realtà questi fattori rivestono un ruolo importante nella determinazione del reddito. Abbiamo quindi bisogno di introdurre il mercato della moneta e delle attività finanziarie e comprenderne l’interazione con il mercato dei beni. Ipotizzeremo ci sia un mercato delle attività finanziarie che comprenda solo moneta e titoli. Immaginiamo che data la ricchezza W, un individuo debba prendere delle decisioni di portafoglio: quanto detenere in titoli e quanto in moneta? Ovviamente la somma delle domande di moneta e di titoli deve essere uguale alla ricchezza globale. In termini reali: la domanda reale di moneta (L) più la domanda reale di titoli (DB) deve essere pari alla ricchezza finanziaria reale: 𝐿 + 𝐷𝐵 = 𝑊𝑁/𝑃 La quantità di moneta e titoli complessivamente offerta è pari a: 𝑀/𝑃 + 𝑆𝐵 = 𝑊𝑁/𝑃 Mettendo insieme le due equazioni si ha che: (𝐿 − 𝑀/𝑃) + (𝐷𝐵 − 𝑆𝐵) = 0 Quindi, quando il mercato della moneta è in equilibrio lo è anche quello dei titoli; ogni accesso di domanda (offerta) su un mercato è compensato da un eccesso di offerta (domanda) sull’altro. In conclusione possiamo limitarci ad esaminare il solo mercato della moneta per comprendere cosa succede su quello dei titoli. Ruolo della moneta Triade tradizionale (pre-keynesiana): spiega la moneta dal punto di vista funzionale, quindi “Money is what money does”. Mezzo di scambio e di pagamento; riserva di valore e unità di conto. Triade keynesiana: spiega la moneta dal punto di vista motivazionale. Perché domandiamo moneta? Nella General Theory Keynes formula la teoria della domanda di moneta distinguendola in base alle motivazioni in transattive, precauzionali e speculative. Mezzo di scambio permette cioè di effettuare uno scambio tra due soggetti senza che vi sia la “doppia coincidenza di volontà” (ogni individuo ha il bene che l’altro desidera) come accade nel baratto diretto. In tal senso, la moneta consente di ridurre i costi di ricerca della controparte; Mezzo di pagamento in quanto tale, consente di estinguere ogni obbligazione dell’acquirente nei confronti del venditore. Per capirci, la cambiale è un mezzo di scambio (ma non estingue l’obbligazione) mentre la moneta legale è anche mezzo di pagamento; Riserva di valore la moneta incorpora potere d’acquisto che può essere trasferito dal presente al futuro. Alla luce di ciò, la caratteristica di riserva di valore è in qualche modo “funzionale” a quella di mezzo di scambio. La conservazione del suo valore nominale è garantita dal suo corso legale mentre il mantenimento del suo potere d’acquisto è un obiettivo di PM; Unità di conto la moneta è un unità di misura univoca del valore di beni eterogenei e ne rende possibile la loro confrontabilità. Il prezzo monetario di un bene è dato dal numero di unità del mezzo di pagamento cedute in cambio di una unità di quel bene. Il contributo innovativo di Keynes risiede nell’aver ampliato il ruolo della moneta: essa non viene domandata solo per fare acquisti (mezzo di scambio) ma viene anche domandata in quanto attività finanziaria come altre (azioni, obbligazioni) rispetto alle quali viene messa in un rapporto intertemporale. La teoria della “preferenza per la liquidità” in Keynes riguarda tutta la domanda di moneta che un individuo desidera tenere in portafoglio. Questa si articola in: ©Rita Lucia Geraci Una domanda di moneta a scopo transattivo (MT) al fine di regolare gli scambi e rappresenta una necessità e non una scelta. In linea con i neoclassici, dovrebbe essere commisurata al volume degli scambi PQ. Segue che MT è funzione del reddito nominale €Y; Una domanda di moneta a scopo speculativo (MS) che risponde ad una scelta: si preferisce tenere liquidità piuttosto che titoli. MS dipenderà dal rendimento atteso dei titoli; Una domanda di moneta a scopo precauzionale (MP) che risponde alla necessità di far fronte ad eventi imprevisti e che si può pensare dipendere da €Y. 1 LA DOMANDA DI MONETA La moneta può essere usata nelle transazioni, ma non paga interessi. Esistono due tipi di moneta: quella circolante, cioè la moneta metallica e cartacea, e i depositi di conto corrente, a fronte dei quali è possibile emettere assegni o utilizzare una carta di credito o una carta di debito. I titoli pagano un interesse positivo, i, ma non possono essere usati per le transazioni. Esistono molti tipi differenti di titoli, ciascuno associato ad uno specifico tasso d’interesse. Nella realtà esistono, inoltre, numerosi strumenti finanziari: azioni, titoli di stato, obbligazioni societarie, derivati sul petrolio e così via. Esiste un mercato per ognuno di questi e l’equilibrio in ciascuno di questi mercati influenza l’equilibrio negli altri. Il termine «mercati finanziari» corrisponde quindi all’insieme di questi singoli mercati. In ognuno di questi mercati domanda e offerta del particolare strumento finanziario interagiscono, determinando il prezzo e il tasso di interesse associato a tale strumento. La banca centrale non agisce su tutti i mercati finanziari, ma su quello dei titoli poiché le operazioni nel mercato dei titoli producono effetti a cascata su tutti gli altri mercati finanziari. Detenere tutta la ricchezza sotto forma di moneta è molto comodo: non dovrete mai telefonare al vostro intermediario, né pagare i costi di transazione. Ma significa anche non percepire alcun interesse sulla vostra ricchezza. D’altra parte, detenere tutta la ricchezza in titoli frutta interessi, ma costringe a rivolgersi all’intermediario di frequente. Quindi, è utile detenere sia moneta che titoli. Ma in quali proporzioni? La decisione dipende da due variabili fondamentali: Il livello delle transazioni. È abbastanza ragionevole che, in media, vogliate avere abbastanza moneta da non dover ricorrere troppo spesso al vostro intermediario. Supponendo che spendiate in media 3.000€ al mese, potreste voler tenere moneta in misura pari alla spesa di due mesi, 6.000€ e per il resto titoli, 50.000€ – 6.000€= 44.000€. Se, invece, pensate di spendere in media 4.000€ al mese, potreste tenere 8.000€ in moneta e 42.000€ in titoli. E così via. Il tasso di interesse offerto dai titoli. L’unica ragione per detenere parte della vostra ricchezza in titoli è che questi pagano un interesse. Maggiore è il tasso d’interesse pagato dai titoli e maggiore sarà la probabilità che decidiate di sopportare l’eventuale fatica e il costo associati alla compravendita di tali strumenti. La maggior parte delle persone non possiede titoli e pochi dispongono di un intermediario finanziario di fiducia. Ma, di fatto, molti individui detengono titoli indirettamente, attraverso i fondi comuni monetari. I fondi comuni monetari ricevono fondi da individui e da imprese e li usano per acquistare titoli, tipicamente titoli di stato. Essi pagano un tasso di interesse leggermente inferiore a quello percepito sui titoli – la differenza serve al gestore del fondo per coprire i costi amministrativi e per ottenere un margine di profitto. ©Rita Lucia Geraci FOCUS Attenzione alle trappole semantiche: denaro, moneta, reddito e ricchezza. La moneta è ciò che può essere usato per pagare le transazioni: è la somma di circolante (moneta metallica e cartacea) e depositi di conto corrente. Il reddito è ciò che guadagniamo –dal lavoro o sotto forma di interessi e di dividendi. Esso è un flusso –in altre parole è espresso per unità di tempo: reddito settimanale, mensile o annuo. Il risparmio è la parte di reddito disponibile (ossia del reddito al netto delle imposte) che non è consumata. È anch’esso un flusso. La vostra ricchezza finanziaria, o semplicemente ricchezza, è il valore di tutte le vostre attività finanziarie al netto delle vostre passività finanziarie. A differenza di reddito e risparmio, che sono variabili flusso, la ricchezza finanziaria è una variabile stock e fornisce il valore della ricchezza in un dato momento. Derivazione della domanda di moneta. Passiamo ora dalla nostra discussione ad un’equazione che descriva la domanda di moneta. Indichiamo l’ammontare di moneta che le persone vogliono tenere – la loro domanda di moneta –con Md (l’apice d sta per domanda). La domanda di moneta di un’economia nel suo insieme è la somma di tutte le domande di moneta individuali, provenienti da imprese e individui. Quindi, la domanda di moneta dipende dal livello totale delle transazioni nell’economia e dal tasso di interesse che pagano i titoli. La relazione tra domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse come: 𝑀𝑑 = €𝑌 ∗ 𝐿(𝑖) Questa equazione ci dice che la domanda di moneta Md è uguale al reddito nominale €Y moltiplicato per una funzione decrescente nel tasso di interesse i, indicata con L(i). Il segno meno sotto i in L(i) indica che il tasso di interesse ha un effetto negativo sulla domanda di moneta: un aumento del tasso di interesse riduce la domanda di moneta, poiché gli individui preferiscono detenere più ricchezza in titoli, che pagano ora un più elevato tasso d’interesse. L’equazione precedente dimostra che: la domanda di moneta aumenta proporzionalmente al reddito nominale. Se il reddito nominale raddoppia, da €Y a 2€Y, anche la domanda di moneta raddoppierà, da €YL(i) a 2€YL(i); la domanda di moneta dipende negativamente dal tasso di interesse. Un aumento del tasso di interesse riduce la domanda di moneta. La relazione tra domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse definita nella precedente equazione è rappresentata dalla fig. 4.1. Il tasso di interesse, i, è misurato sull’asse verticale. La moneta, M, è misurata sull’asse orizzontale. La relazione tra domanda di moneta e tasso di interesse, per un dato livello di reddito nominale, €Y, è rappresentata dalla curva Md. Essa è inclinata negativamente: minore è il tasso di interesse(i), maggiore sarà la quantità di moneta (M) che le persone vogliono detenere. Fissato un certo tasso di interesse, un aumento del reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta. In altre parole, un aumento del reddito nominale sposta la domanda di moneta verso destra, da Md a Md′. ©Rita Lucia Geraci Fig. 4.1 La domanda di moneta. Fissato il reddito nominale, la domanda di moneta è una funzione decrescente del tasso di interesse. Fissato il tasso di interesse, un aumento del reddito nominale fa spostare la domanda di moneta verso destra. La domanda di moneta in Keynes In Keynes, la relazione tra domanda di moneta, reddito nominale e tasso di interesse prevede una rigida separazione tra moneta “transattiva” e “speculativa” aggregate tramite operatore somma: ̅ = 𝑀𝑑 = 𝑀𝑇,𝑃 𝑀 𝑑 (𝑌) + 𝑀𝑠𝑑 (𝑖) Dove MS è l’offerta di moneta che in equilibrio è uguale alla domanda di moneta che a sua volta si compone di una domanda a scopo transattivo e precauzionale (MT,P) e di una domanda a scopo speculativo (MS). 2 LA DETERMINAZIONE DEL TASSO DI INTERESSE (I) Analizzeremo ora il lato dell’offerta e, in questo paragrafo, assumeremo che la sola moneta presente nell’economia assuma la forma di moneta circolante. ©Rita Lucia Geraci 2.1 DOMANDA DI MONETA, OFFERTA DI MONETA E TASSO DI INTERESSE DI EQUILIBRIO. Supponiamo che la banca centrale decida di offrire un ammontare di moneta uguale a M, cosicché: 𝑀𝑆 = 𝑀 L’equilibrio nei mercati finanziari richiede che l’offerta di moneta sia uguale alla domanda di moneta, cioè che Ms= Md. Condizione di equilibrio Offerta di moneta = domanda di moneta 𝑀 = €𝑌 ∗ 𝐿(𝑖) Questa equazione ci dice che il tasso di interesse i deve essere tale da indurre gli individui a tenere una quantità di moneta pari all’offerta di moneta, M, dato il loro reddito nominale €Y. Questa condizione di equilibrio è rappresentata dalla fig. 4.2. La moneta è misurata sull’asse orizzontale e il tasso di interesse sull’asse verticale. La domanda di moneta, Md, disegnata per un dato livello di reddito nominale, €Y, è inclinata negativamente: un tasso di interesse più elevato è associato ad una minore domanda di moneta. L’offerta di moneta è rappresentata dalla retta verticale MS: l’offerta di moneta è pari a M e non dipende dal tasso di interesse. L’equilibrio è nel punto A, con un tasso di interesse pari a i. Fig. 4.2 La determinazione del tasso di interesse. Il tasso di interesse di equilibrio è tale da eguagliare domanda (che è funzione del tasso di interesse) e offerta di moneta (che non è funzione del tasso di interesse). La fig. 4.3 mostra gli effetti di un aumento del reddito nominale sul tasso di interesse. Un incremento del reddito nominale da €Y a € Y’ fa aumentare il livello delle transazioni e quindi la domanda di moneta per ogni livello del tasso di interesse. La curva di domanda si sposta verso destra, da Md a Md’. L’equilibrio si sposta da A ad A’ e il tasso di interesse di equilibrio aumenta da i a i’. A parole: Un aumento del reddito nominale provoca un incremento del tasso di interesse. La ragione è chiara: in corrispondenza del tasso di interesse iniziale, la domanda di moneta eccede l’offerta di moneta. Per indurre gli individui a tenere una quantità inferiore di moneta, e ristabilire l’equilibrio, è necessario che il tasso di interesse aumenti. ©Rita Lucia Geraci Fig. 4.3 Gli effetti di un aumento del reddito nominale sul tasso di interesse. Un aumento del reddito nominale fa aumentare il tasso di interesse. La fig. 4.4 mostra gli effetti di un aumento dell’offerta di moneta sul tasso di interesse. L’equilibrio iniziale è nel punto A, con un tasso di interesse pari a i. Un aumento dell’offerta di moneta, da MS=M a MS’=M’, sposta verso destra la curva di offerta, da MS a MS’. L’equilibrio si sposta da A ad A’ e il tasso di interesse diminuisce da i a i’. A parole: Un aumento dell’offerta di moneta provoca una riduzione del tasso di interesse. La riduzione del tasso di interesse fa aumentare la domanda di moneta, in modo da eguagliare la nuova –maggiore – offerta di moneta. Fig. 4.4 Gli effetti di un aumento dell’offerta di moneta sul tasso di interesse. Un aumento dell’offerta di moneta riduce il tasso di interesse. 2.2 POLITICA MONETARIA E OPERAZIONI DI MERCATO APERTO. La banca centrale normalmente modifica l’offerta di moneta attraverso l’acquisto e la vendita di titoli nel mercato obbligazionario. Se desidera aumentare la quantità di moneta, compra titoli e li paga immettendo nuova moneta nel sistema. Se, invece, vuole diminuire la quantità di moneta, vende titoli e rimuove dalla circolazione la moneta che riceve in pagamento. Queste azioni sono chiamate operazioni di mercato aperto perché avvengono nel “mercato aperto” dei titoli. ©Rita Lucia Geraci Il bilancio della banca centrale. Per comprendere come funzionino le operazioni di mercato aperto, è utile partire dal bilancio della banca centrale, riportato nella fig. successiva. Le sue attività sono costituite dai titoli che tiene in portafoglio. Le passività sono costituite dallo stock di moneta presente nell’economia. Le operazioni di mercato aperto comportano variazioni di pari importo nell’attivo e nel passivo del bilancio della banca centrale. Se la banca centrale comprasse titoli per un milione di euro, l’ammontare di titoli detenuti nel suo bilancio sarebbe più alto per un importo pari a un milione di euro. Di altrettanto aumenterebbe la moneta in circolazione nell’economia. Questo perché la banca centrale comprerebbe dalle famiglie e dalle imprese titoli, pagandoli con nuova moneta che entrerebbe in circolo nell’economia. Tale operazione si chiama intervento espansivo di mercato aperto, in quanto la banca centrale aumenta (espande) l’offerta di moneta. Se invece la banca centrale vendesse titoli per un milione di euro, sia l’ammontare di titoli nel portafoglio della banca