L'Oggetto Industriale (PDF) - Semper (1803-1879)

Summary

This document explores the concept of the industrial object, focusing on the theory proposed by Gottfried Semper (1803-1879). It analyzes the relationship between form and function in industrial design, drawing examples from the Great Exhibition of 1851. The discussion highlights the importance of considering materials and functionality in the design process.

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L’oggetto industriale Semper (1803-1879): la forma dell’utile Il ritardo con il quale l’estetica classica si rapportò a queste nuove dimensioni divenne tangibile nella riflessione di Gottfried Semper dopo la sua visita alla Great Exhibition. La proposta di Semper fu anche un tipico ese...

L’oggetto industriale Semper (1803-1879): la forma dell’utile Il ritardo con il quale l’estetica classica si rapportò a queste nuove dimensioni divenne tangibile nella riflessione di Gottfried Semper dopo la sua visita alla Great Exhibition. La proposta di Semper fu anche un tipico esempio delle contraddizioni del pensiero di metà Ottocento, sospeso tra l’influente eredità spirituale dell’idealismo e la nascente cultura positivista. Semper disturbato dalla confusione stilistica dell’esposizione, abituato ai musei dell’800, molto ordinati stilisticamente, scrive nel 1852 nel saggio Scienza industria arte un giudizio severo, a tratti implacabile, ma anche propositivo e criticamente costruttivo. Se la visione di quegli oggetti espositi faceva pensare a un “guazzabuglio di forme o a un baloccamento infantile”, Semper vi intravide anche una direzione da percorrere, auspicava lo sviluppo di corsi di insegnamento d’arte applicata per emendare i divetti e gli anacronismi de lui osservati. Il problema strutturale che Semper osservò a Londra era una questione essenzialmente formale (problema della forma, anarchia estetica. Legge di coesione di un prodotto: forma). Vi era un’abbondanza ornamentale che si traduceva in una deriva estetica sia per l’arte sia par l’industria artistica (disegno industriale). Per Semper in un esempio del genere (water esposto alla G.E.) sussiste un mancato rispetto dei materiali, mancato rispetto dello scopo/uso/funzione, un pessimo decorativismo, la dimensione estetica non segue la funzione. (Nicola Squicciarino, La Great Exhibition del 1851) Semper mostra già come questo adattamento morfologico sia già di per sé estetico. Questa variazione sul tema dimostra che la forma fondamentale si esprime attraverso una modulazione dettata dai materiali e dalla funzione. Materiali e funzionalità, il loro bilanciamento è ciò che rende bello l’oggetto. Secondo Semper è ciò che rende bello un oggetto tecnico, il contrario di ciò che si era visto alla Great Exhibition L’esibizione della funzionalità nel rispetto dei materiali da vita al bello dell’oggetto industriale. Individuata la struttura formale dell’oggetto, per Semper diventa semplice determinare la questione prettamente estetica dell’oggetto moderno enunciando i suoi difetti più vistosi e reiterati. Semper rileva l’insistito escamotage di salutare l’oggetto con richiami plastici. L’estetico è quindi erroneamente identificato con un apparato decorativo altro rispetto all’oggetto stesso. Il decorativismo problematicizza l’oggetto industriale, va contestualizzato. La necessità di un’educazione all’oggetto. Laboratori, corsi, pubblicazioni dovevano concorrere a fornire una base per comprendere sempre più a fondo gli inediti orizzonti raggiunti dalla meccanizzazione. L’intento di Semper era quello di costruire un gusto collettivo non tramite l’applicazione di teorie, ma attraverso la verifica concreta del nesso tra estetica ed esistenza quotidiana. Semper propugnava non quindi un’estetica pura ma la sua modulazione storica e applicative: un’estetica pratica. L’estetica del mondo, volta alla produzione industriale dev’essere un’estetica pratica. Il designer per Semper deve educare esteticamente le masse. I fenomeni estetici riguardavano un’élite, un fenomeno rilevante estetico investe le masse che vanno educate. Concezione evoluzionistica dell’estetica, come evoluzione naturale. Come Semper aZerma programmaticamente, la teoria dello stile concepisce il bello in maniera unitaria. Lo stile non è altro che l’individuazione di quei principi estetici preposti a valutare l’attinenza tra l’ideazione e l’esecuzione, tra il progetto e l’applicazione. La dimensione estetica dell’oggetto si perde irrimediabilmente quando l’aspetto ornamentale è distinto meccanicamente da quello tecnico-formale. Tuttavia, il nesso forma-funzione non esaurisce ciò che Semper intende precisamente con il termine estetico. Il bello non è quindi una decorazione esterna aggiunta all’oggetto, né una proprietà dell’oggetto in sé. La bellezza quindi “non è tanto una qualità dell’opera stessa, quanto un eZetto che essa esercita, e nel quale confluiscono i più diversi elementi sia esterni che interni all’oggetto a cui attribuiamo il predicato di bello”. Il bello è la combinazione di tre fattori che configurano la bellezza formale: Simmetria; Proporzione; Direzione. Questi tre elementi sono riformulati in un quarto elemento: il contenuto. Il contenuto della bellezza formale non è altro che l’accentuazione di uno dei tre fattori formali del bello. Nel momento in cui uno dei tre elementi prevale si dà un contenuto estetico, ossia la bellezza. Quella di Semper fu un’estetica di passaggio che segnalava per la prima volta un doppio rifiuto: le tecniche artigianali non potevano fornire paradigmi, tanto meno estetici, alla produzione di massa, e le estetiche idealistiche misconoscevano la reale problematicità dell’oggetto. Con Semper l’attenzione estetologica si spostò all’immediatezza dell’oggetto comportando una rivalutazione necessaria dei materiali e delle tecniche produttive. Semper poteva concepire l’oggetto estetico non come un atto di invenzione, ma come la modulazione storica di una forma che si concretizzava in uno stile storicamente determinato. “Nell’anno 1851, quando venne costruito quell’immenso tetto scintillante, per esporre i miseri prodotti artistici, frutto della nostra sfarzosa moda in quello stesso anno, dicevo, i più grandi dipinti dei maestri veneziani marcivano a Venezia sotto la pioggia, per mancanza di un tetto che li proteggesse, e con le tele perforate dai proiettili di cannone”. Le riflessioni di Ruskin e Morris testimoniano l’inquietudine di un’epoca scissa tra valori estetici orami inattuali ed esigenze sociali, e culturali, nuove. Furono la tensione etico-metafisica di Ruskin e l’utopismo sociale di Morris a rendere possibile l’idea che ogni oggetto deve essere bello. Ruskin (1819 -1900): artigianato e utopia L’idea ruskiniana di fondo è che la bellezza sia qualcosa di necessario all’uomo, e in questo riflette una verità non solo estetica ma morale. L’arte pertanto è la tangibilità di questa visione sostanzialmente teologica dell’estetico che trascende in modo problematico l’umano. Il bello non è mai pienamente solo opera dell’uomo, ma illustra un disegno più vasto che coincide con l’opera di Dio. Ruskin introduce una doppia tipologia del bello. A una bellezza pura e formale (bellezza tipica) si aZianca una bellezza mondana ed espressiva (bellezza vitale). Concepire queste due accezioni come complementali e non contrapposte rappresentò per Ruskin la possibilità di individuale nell’arte un problema etico: la bellezza è pensata essenzialmente come una questione di emancipazione sociale. Il mondo gotico si configura come il simbolo autentico della purezza cristiana e in tale visione si inscriveva per Ruskin il valore decisivo dell’ornamento. Ruskin lega la questione estetico-architettonica a quella sociale toccando di fatto la questione della possibilità di un miglioramento delle condizioni qualitative del lavoro dell’operario. Nell’ornamento rivoluzionario l’operaio non è più uno schiavo, ma un soggetto che viene riconosciuto. Ruskin scorge nell’operaio liberato, nell’artigiano, la figura che muta l’essere umano da mezzo a fine: alla macchina si oppone la persona. Il gotico per Ruskin è la più alta manifestazione dello spirito cristiano che consiste proprio nell’imperfezione. Non ha senso produrre qualcosa di perfetto se lo si crea meccanicamente. Per Ruskin l’architettura gotica simboleggia nel cuore dell’Inghilterra ottocentesca il rifiuto del nuovo universo delle macchine. Anche Ruskin auspicò l’introduzione di scuole atte a produrre un serbatoio di talenti prodotti a servire “esteticamente” la propria comunità. Ruskin mirava a un’estetica che negasse l’obsolescenza come valore estetico e che avesse come suo orientamento non la produzione ma la conservazione. L’argomentazione ruskiniana si lanciava in una netta condanna del lusso. Specularmente opposta all’estetica dell’artificio di Baudelaire, la concezione ruskiniana del lusso si trasformava in un male sociale. Il disegno di Ruskin con i suoi vasti ma vaghi propositi fu ripreso da William Morris. Morris (1834 – 1896): artigianato e utopia Ripensare all’arte all’interno dei nuovi scenari industriali presupponeva una ridefinizione stessa del concetto di soggetto sociale. In Morris, in una sovrapposizione non del tutto riuscita, l’eredità di Ruskin, del Romanticismo, del cattolicesimo inglese incontra Marx, configurando l’idea di integrazione dell’individuo, non più alienato, con la società. Questa integrazione si rende tangibile tramite il lavoro e il lavoro è per Morris una questione inevitabilmente sia estetica che etica. “Il mio concetto di “architettura” è nell’unione e nella collaborazione delle arti, in modo che ogni cosa sia subordinata alle altre e con esse in armonia”. L’architettura è la stessa via umana colta nella trasformazione del proprio ambiente, una concezione che coincide con la stessa nozione di civiltà. Solo nel “puro deserto” l’architettura non trova dimora, poiché la sua dimensione è prima politica. E unicamente nello spazio della polis si dà la condivisione della bellezza. Morris: “questo io lo chiamo “l’architettura”: la realizzazione anche dei prodotti più comuni d’uso quotidiano, come opere d’arte”. Morris intercetta quel movimento nel quale la fruizione elitaria dell’arte equivale alla sua morte. Come per Marx, anche per Morris la bellezza non trova che ostacoli nell’universo del capitalismo. Si traduce nell’esigenza di redenzione estetica tipica delle società di massa novecentesche: “come potremo dare al popolo che non ha tradizioni artistiche occhi per apprezzare i valori dell’arte?”. Morris trova la soluzione che possa coniugare in una sola attività la sua doppia visione di socialismo estetico e di estetica socializzata. Il lavoro manifatturiero “meccanico, triviale, pesante” deve diventare “umano, serio, piacevole”. All’industria risponde l’artigianato, il lavoro nel quale l’uomo riscopre una componente essenziale del suo fare: il piacere. Ed è questa riqualificazione dell’arte applicata: avere diritto al bello vuol dire avere diritto a una società migliore, più giusta. Un’autentica bellezza condivisa si dà in primo luogo nel quotidiano, negli oggetti d’uso, nei manufatti che definiscono una cultura. L’oggetto comune è brutto, posticcio, l’oggetto di lusso è irrisolto, pretenzioso. La logica capitalistica non ha prodotto una cultura dell’oggetto, non ha espresso un piacere capace di coltivare la bellezza come fine sociale e conseguentemente morale. La divisione del lavoro e la concorrenza commerciale hanno dato il “la” a un processo che Morris non esita a far coincidere con la morte dell’arte. Così gli oggetti moderni mostrano solo tracce di bellezza poiché sono il frutto di automatismi e non di libera creatività. Il brutto è quindi la testimonianza di un disagio della civiltà. La domanda di Morris – “perché nella società civilizzata la bellezza dell’artigianato degenera rispetto ai tempi del barbaro, superstizioso e agitato Medioevo?” – ha una risposta inequivocabile: la scomparsa dell’arte popolare. Non è solo la perdita dell’artigianato ma è soprattutto la trasformazione dell’essenza del lavoro. Rendere “artistici” gli oggetti d’uso: fu questa sostanzialmente l’idea che ispirò l’Arts and Craft Movement. Furono rievocate le corporazioni medievali e tale rievocazione fu mediata da un socialismo che oggi si potrebbe definire ingenuo. Per Morris l’artigianato non è solo la produzione di oggetti, ma di valori culturali. L’artigianato deve ritornare alla guida di una nuova cultura del progetto. L’osservazione della natura e della storia accompagnata da un’esercitazione costante del disegno compone per Morris “l’arte del progettare” che ha al suo centro solo un fine: “dare alle persone il piacere delle cose che devono necessariamente usare, questo è uno dei grandi compiti della decorazione; dare alle persone il piacere delle cose che devono necessariamente fare, questo è il suo compito”.

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