Manifesto della cinofilia sportiva-FIDASC PDF
Document Details
Uploaded by CharismaticPlanet
Felice Buglione
Tags
Summary
Questo documento, un manifesto della cinofilia sportiva, esplora la relazione uomo-cane, analizzando la storia della loro coevoluzione e il ruolo dello sport in questo rapporto. Il testo approfondisce le motivazioni psicologiche dietro il legame uomo-cane e le trasformazioni che si sono verificate nel corso dei millenni.
Full Transcript
2 Sommario Sommario...................................................................................................... 3 Prefazione...................................................................................................... 5 Introduzione....
2 Sommario Sommario...................................................................................................... 3 Prefazione...................................................................................................... 5 Introduzione................................................................................................... 7 Nessun altro come il cane.............................................................................. 9 Parliamo (quasi) la stessa lingua................................................................. 12 La mente che usa se stessa per capire il mondo......................................... 15 Distorsione antropomorfica.......................................................................... 18 Specia(lizza)zione........................................................................................ 23 Il cane funzionale......................................................................................... 27 Pura razza, puro sangue.............................................................................. 29 Mettiamo assieme il puzzle.......................................................................... 36 Una questione morale.................................................................................. 40 Lo sport senza il cane.................................................................................. 46 La funzione ritrovata.................................................................................... 50 La cinofilia sportiva...................................................................................... 53 Bibliografia................................................................................................... 59 3 4 Prefazione Un manifesto, per sua definizione storico-politica, è una dichiarazione pubblica che può essere espressa in varie forme come una lettera aperta, un articolo giornalistico o una vera e propria opera letteraria. Nel caso di questo eccellente lavoro di Francesco Brescia, che cura il settore non venatorio della cinofilia sportiva federale, ci troviamo di fronte ad una vera e propria immersione totale nel mondo (ancora) semisconosciuto del cane inteso come atleta a quattro zampe complementare all’atleta umano. Questo “manifesto federale” si propone, quindi, di ripercorrere, scavando nella psiche umana e animale e contemporaneamente investigando il comune percorso compiuto nel corso di migliaia di anni fino ad arrivare ai giorni nostri in cui, “Non è difficile vedere che un cane è in grado di considerare l’umano come un membro del suo branco e, viceversa, un umano considerare il cane come un vero e proprio membro del suo nucleo familiare”. In alcuni passaggi questo “manifesto” possiede un taglio accademico che, ad un lettore frettoloso e disattento, potrebbe apparire fin troppo rigoroso e talvolta “pesante” da leggere ma il suo scopo è quello di portare alla luce la genesi di questo connubio unico e magico fra uomo e cane, scandagliandone le motivazioni psicologiche più profonde. La Federazione, ha voluto, quindi ripercorrere la storia della coevoluzione uomo-can per capire quali sono gli elementi che hanno permesso la costruzione di un legame unico e, sulla base di questi, analizzare il ruolo sempre più moderno e diffuso del “cane atleta”. Questo lavoro non ambisce certo ad essere esaustivo e definitivo, rappresenta, però, un ulteriore passo per attraversare la frontiera di un mondo ancora inesplorato in cui si riesce a intravedere uno scenario sportivo che solo l’entusiasmo e la passione di una federazione come la Fidasc poteva prevedere ed iniziare a costruire nel migliore dei modi possibili, con la conquista di numerose medaglie e l’organizzazione di competizioni di alto e altissimo livello nazionale e internazionale. Una costruzione che è iniziata già quasi un ventennio fa con le prime gare cinofile riservate ai ragazzi – quasi un embrione di questa nuova cinofilia nella 5 quale i giovani sono spesso gli interpreti principali – e che è proseguita attraverso incontri nelle scuole, la costituzione dell’Accademia e una lunga serie di iniziative e vari convegni come quello dell’8 febbraio 2023 nel Salone d’Onore del Coni, dal titolo quanto mai emblematico “Lo status del cane-atleta e la tutela del suo benessere”. Da questo manifesto, quindi, e dalle altre iniziative di natura medico-scientifica programmate ed alcune delle quali già intraprese e inizia, un’altra fase – ancora più entusiasmante – di quella meravigliosa coesistenza fra uomo e cane che si è evoluta e perfezionata nel corso di millenni, anche se non sono mancate derive che è nostro compito frenare o limitare nei limiti del possibile, per il benessere del nostro amico e compagno di vita a quattro zampe. Il Presidente della FIDASC Felice Buglione 6 Introduzione Il cane è il primo animale che l’essere umano abbia domesticato. Questa relazione, che alcuni studi arrivano a datare addirittura a 36.000 anni fa (Galeta, et al. 2020), è l’inizio di una storia unica nel regno animale. Altri studi (A. F. Frantz 2016) evidenziano come il processo di domesticazione del lupo possa essere avvenuto separatamente in Europa e nel Sud-Est Asiatico, partendo da diverse popolazioni di lupi, quasi ad indicare una evidente e naturale predisposizione delle due specie ad interagire e collaborare. Guardando solo a queste date è difficile rendersi conto di quanto sia eccezionale l’inizio della collaborazione tra uomo e cane, in quanto si fa riferimento ad ordini di grandezza che non siamo abituati a maneggiare normalmente. È affascinante pensare che per decine di migliaia di anni il cane sia stato l’unico animale in grado di interagire con noi. Per dare qualche punto di riferimento che aiuti a capire chi fossero realmente quei primi esseri umani che hanno iniziato ad interagire con i lupi in modo più collaborativo, si può considerare che le più antiche pitture rupestri mai rinvenute risalgono più o meno a quel periodo (Brumm 2021). Questo significa che l’invenzione della scrittura era ancora molto lontana (circa 5000 anni fa), così come anche l’Età del Ferro. Quegli ominidi usavano strumenti rudimentali ricavati da rocce o ossa, erano cacciatori-raccoglitori nomadi e i primi insediamenti stabili umani sarebbero arrivati solo 20.000 anni dopo. Questo rapporto, così antico da plasmare entrambi i protagonisti, negli ultimi 150 anni sta affrontando la più repentina e profonda rivoluzione dalla domesticazione ad oggi. Il cambiamento è stato un tratto fondamentale dell’interazione uomo-lupo-cane che, nel corso dei millenni e secondo le aree geografiche, ha continuato sempre ad evolversi. Tutte le trasformazioni, fino ad un secolo e mezzo fa, avvenivano con scale temporali di ordine “biologico” e compatibili con l’evoluzione di una popolazione canina che, per quanto frutto di selezione artificiale, si è svolta in tempi di gran lunga superiori a quelli con cui sta evolvendo la società moderna post-industriale. In questo contesto, la cinofilia sportiva, ovvero la declinazione della relazione uomo-cane applicata allo sport, diventa un elemento centrale di questa 7 rivoluzione e si configura come l’unico strumento in grado di arginare la deriva antropocentrica che sta flagellando questo rapporto millenario. Questo documento si prefigge di ripercorrere la storia della coevoluzione uomo-cane, capire quali sono gli elementi che hanno permesso la costruzione di un legame unico e, sulla base di questi, analizzare il ruolo dello sport per portare alla luce i punti di forza e le criticità che maggiormente meritano l’attenzione degli operatori del mondo cinofilo. 8 Nessun altro come il cane 30.000 anni fa l’Homo sapiens non era ancora l’unica specie umana presente sulla terra perché tutta l’area europea e mediorientale era condivisa con l’Uomo di Neanderthal che avrebbe iniziato un processo di estinzione proprio in quel periodo. L’antropologa Pat Lee Shipman, docente di Antropologia alla Pennsylvania State University, considerata una dei maggiori esperti mondiali di reperti fossili, arriva persino ad ipotizzare che l’estinzione dei Neanderthal sia avvenuta per mano di Homo sapiens proprio anche grazie al vantaggio che i proto-cani fornivano a questi ultimi (Shipman 2015). Alcuni autori si spingono oltre nella ricerca dei vantaggi che la domesticazione del cane ha portato all’uomo e ritengono che questa collaborazione abbia avuto un ruolo chiave nello sviluppo cognitivo dell’Homo sapiens, in particolare relativamente allo sviluppo del linguaggio (Harari 2014). Altri ipotizzano addirittura una sorta di co-evoluzione che ha permesso a cani ed umani di stimolare a vicenda lo sviluppo di competenze sociali (Schleidt e Shalter 2003) e non solo (G.-d. Wang, et al. 2013). Naturalmente si tratta di ipotesi e, per quanto esse siano basate su indizi concreti, nessuna di queste è stata in grado di essere dirimente. Quello che è certo è che i lupi si sono evoluti in cani e gli uomini dell’età della pietra si sono evoluti in Homo sapiens sapiens contemporaneamente, condividendo lo stesso habitat e con un processo evolutivo genetico molto simile che ha prodotto in entrambi i soggetti lo sviluppo di competenze sociali di grado superiore. Già Charles Darwin (Darwin, La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico 1868) aveva notato una serie di tratti distintivi, condivisi da tutti gli animali domesticati, che li differenziavano dai loro antenati ancestrali. L’insieme di queste caratteristiche, che parevano emergere durante il processo di domesticazione, è stato successivamente confermato e ha preso il nome di Sindrome di Domesticazione. Tra questi tratti alcuni sono di carattere morfologico come la coda portata alta, spesso arricciata sulla schiena, i denti più piccoli, le orecchie flosce, la comparsa di colorazioni del manto che in natura non esisterebbero, e alterazioni cranio facciali. Altri tratti tipici di animali che sviluppano la Sindrome 9 di Domesticazione riguardano il carattere come, per esempio, una maggiore docilità, una ridotta diffidenza e la capacità di conservare caratteri infantili anche in età adulta (Belyaev 1964). Nel 1959 a Novosibirsk, in Siberia, il genetista russo Dmitry Konstantinovič Belyaev avviò un esperimento a lungo termine proprio con lo scopo di indagare la Sindrome di Domesticazione. L’esperimento prevedeva di prendere cento esemplari femmine e trenta maschi di volpe argentata provenienti da un allevamento di pellicce, tenerli in gabbie lontane dal laboratorio in modo da ridurre al minimo le interazioni con l’uomo e poterli attentamente monitorare e controllare. Quando gli sperimentatori interagivano con le volpi assegnavano loro un punteggio relativo alla docilità che ciascun soggetto mostrava, per poi far riprodurre solo i soggetti che ottenevano un punteggio più alto. Già dalla sedicesima generazione il dieci per cento delle volpi presentava naturalmente tratti di elevata docilità nei confronti dell’uomo. Nel giro di una trentina di generazioni l’allevamento contava una popolazione di un centinaio di volpi completamente domesticate, capaci di interagire con l’uomo con modalità simili a quelle di un cane. L’aspetto interessante di questo esperimento è che, selezionando i soggetti per la loro docilità, cambiava anche la morfologia delle volpi. In particolare, si riduceva la dimensione dei denti, la coda veniva posta più alta e arricciata sul dorso, la testa si allargava, le orecchie tendevano ad essere flosce e il manto si scuriva facendo comparire il nero che in natura era praticamente assente. Anche se di recente alcuni studiosi hanno portato alla luce alcune criticità di questo esperimento che ne ridimensionano la portata delle scoperte (Lord, et al. 2020), alcuni elementi interessanti possono tornare utili agli scopi di questo testo. La prima evidenza è la prova definitiva che il carattere ha tratti genetici, cosa non scontata al tempo, e che questi tratti, se sottoposti ad una forte pressione selettiva, possono cambiare anche in un arco temporale breve di alcune decine di anni. Un altro aspetto interessante è che i geni che sono alla base di una maggiore docilità sono gli stessi, o quanto meno sono strettamente collegati a quelli che determinano il cambiamento di tratti fenotipici creando, di fatto, un collegamento tra le attitudini caratteriali e la morfologia che il soggetto sviluppa nel corso della vita. Tornando al cane e confrontando i soggetti moderni con i loro predecessori primitivi, non è difficile scorgere come sia l’uomo che il cane siano “affetti” da 10 Sindrome di Domesticazione e come, in entrambi i casi, si siano sviluppati tratti simili. Questo fenomeno, come detto, non riguarda solo i cani e gli umani, ma tutti gli animali e anche le piante domesticate; nel caso dell’evoluzione del cane e dell’uomo però ci si spinge ancora oltre. Non è infatti casuale che il processo di domesticazione del lupo sia iniziato decine di migliaia di anni prima di quello di qualsiasi altro animale o vegetale. Alcuni studi recenti hanno stravolto credenze che attribuivano ai cani abilità di interazione con l’uomo non presenti nei loro antenati lupi e che, per decenni, sono state considerate effetti del processo di domesticazione. Studi pubblicati nel 2008 (Udell, Dorey e Wynne 2008) e nel 2011 (Range e Virányi 2011) hanno evidenziato, per esempio, come la capacità di leggere i segnali di puntamento degli umani (indicare con un dito) o seguire lo sguardo di un umano per capire la sua volontà di interagire con un oggetto, siano competenze sviluppate tanto nei cani domestici quanto nei lupi allevati dall’uomo. Questa nuova visione ha incrinato la convinzione che vedeva queste abilità come doti esclusive del cane che era stato in grado di sviluppare nel suo processo di domesticazione. Oggi è ormai assodato che gli antenati lupi di 30.000 anni fa fossero già predisposti ad una forte interazione con l’uomo fino al punto di riuscire a costruire un rapporto con l’uomo prima e meglio di qualsiasi altra specie. Queste abilità non sono esclusive del lupo e/o del cane. Anche altri animali, come mammiferi, uccelli e anche rettili, hanno dimostrato di avere capacità simili anche se meno pronunciate. Quello che rende, prima il lupo e poi il cane, diversi da qualsiasi altro animale sono un’organizzazione sociale molto simile a quella umana e un’elevata capacità di attenzione unita ad una superiore disposizione alla cooperazione. La domesticazione non ha fatto altro che potenziare queste caratteristiche aumentando la docilità, e la predisposizione a riconoscere gli umani come partner sociali al pari dei conspecifici (Range e Virányi 2014). 11 Parliamo (quasi) la stessa lingua Lupi e cani, quindi, condividono tutt’oggi competenze che possono essere facilmente considerate una naturale predisposizione ad inserirsi nella nicchia dell’essere umano: per esempio, la capacità di esibire comportamenti sociali complessi come la cooperazione per la caccia, l’accudimento dei cuccioli, forme di comunicazione espressive ed articolate, ecc… (Mech e Boitani 2003). Queste competenze sono state la base su cui il processo di domesticazione ha potuto sviluppare abilità di interazione con l’uomo a cui nessuna altra specie animale poteva ambire. La relazione uomo-cane ha modificato il comportamento di entrambi i soggetti in modo convergente, in una sorta di coevoluzione nella quale è impossibile stabilire con precisione quanto l’essere umano e i cani che conosciamo oggi siano frutto di questo rapporto (Topál, Miklósi, et al. 2009). Il complesso comportamentale del cane, inteso come l’insieme delle componenti che gli hanno permesso nei millenni un così profondo inserimento nel tessuto sociale umano, è costellato di parallelismi con il comportamento sociale dell’uomo. Un’altra particolarità è che questi comportamenti sono espressi in egual modo sia verso altri cani, sia verso l’essere umano. La coesione del gruppo sociale a cui un soggetto appartiene, e quindi il livello di aggressività che diventa basso verso l’interno del gruppo per mantenersi invece alto verso l’esterno, è un ottimo esempio di tratti che uomo e cane condividono all’interno di gruppi intraspecifici. Questa peculiarità caratteriale, ovvero la spiccata capacità di modulare l’aggressività verso i membri del proprio gruppo, è una caratteristica che cani ed umani condividono anche quando interagiscono tra di loro. Non è difficile vedere che un cane sia in grado di considerare l’umano come un membro del suo branco e, viceversa, un umano considerare il cane come un vero e proprio membro del suo nucleo familiare. Anche la capacità di sincronizzarsi emotivamente con gli altri membri del gruppo sociale nel quale un soggetto è inserito è un aspetto che cani e umani condividono (Vas, et al. 2005). In questo caso uomo e cane non solo condividono la capacità di leggere il comportamento dell’altro per intuirne lo 12 stato emozionale, ma entrambi sono anche in grado di ampliare queste competenze durante la reciproca interazione dimostrando una forma di apprendimento emotivo. Le abilità comunicative che legano uomini e cani, siano esse di natura verbale, paraverbale o metaverbale, non hanno equivalenti fra altre specie del regno animale. Tra queste competenze c’è una spiccata capacità dei cani a raccogliere indizi in merito all’intenzionalità di un umano attraverso l’analisi della gestualità o della direzione del volto (Gácsi, Miklósi e al 2003), manifestando quindi una maggiore propensione al contatto visivo (Kaminski, Schulz e Tomasello 2011). Alcuni studi comparano l’abilità dei cani di leggere la gestualità dell’umano con quella di un bambino di circa due anni di età (Lakatos, et al. 2009) e queste abilità sembrano essere presenti, seppur in forma embrionale, già nei cuccioli senza alcun particolare apprendimento (Gácsi, Kara, et al. 2009). Non si può parlare di compatibilità comunicativa fra uomo e cane senza affrontare la comunicazione verbale. Uno degli effetti più eclatanti della co- domesticazione del cane è proprio la maggiore capacità di interagire vocalmente rispetto agli antenati lupi. È come se, in qualche modo, il vivere a stretto contatto con gli esseri umani, la specie che più di qualsiasi altra utilizza la voce come strumento di comunicazione, avesse indotto i discendenti dei lupi a sviluppare una propensione alla comunicazione verbale tipica dell’uomo. Nel 2004 uno studio pubblicato sulla rivista Science (Kaminski, Call e Fischer 2004) destò molto scalpore perché evidenziò come un border collie di nome Rico fosse in grado non solo di distinguere il significato di duecento diverse parole ma, cosa ancor più sconvolgente, di formulare ipotesi sul significato di nuove parole mai sentite prima e, attraverso un apprendimento per esclusione, memorizzarne il significato a lungo termine. Per quanto questo risultato necessiti di ulteriori indagini, questa abilità sembra essere presente, in forma ridotta, anche in altri animali, principalmente qualche specie di pappagallo (Pepperberg e Wilcox 2000). Non solo sembra ormai assodata la capacità di apprendere nuove parole autonomamente grazie all’interazione con l’uomo, ma anche attraverso l’osservazione passiva di due umani che nominano un particolare oggetto che stanno manipolando (McKinley e Young 2003) (Pongracz 2014). L’alta propensione a prestare attenzione agli umani rende questa capacità particolarmente efficace nel cane al punto che oggi sono state sviluppate nuove forme di addestramento, basate 13 proprio sull’apprendimento sociale (Topál, Byrne, et al. 2006), che superano l’approccio fondato sul condizionamento classico ed operante. Questo insieme di abilità condivise da uomo e cane, frutto probabilmente di un’evoluzione basata sulla reciproca influenza, è alla base di un legame talmente forte da essere, per molti aspetti, equiparabile a quello tra esseri umani. L’interazione uomo-cane e la loro capacità di condividere informazioni, stati d’animo e intenzioni è naturale e innata. Per fare una similitudine, la capacità di un uomo ed un cane di interagire è simile a quella che esiste tra due umani che parlano lingue diverse, che appartengono a diversi contesti culturali, ma che condividono processi cognitivi simili. Nulla a che vedere con la difficoltà comunicativa che generalmente interviene fra individui di specie diverse. La presenza di un sistema comportamentale simile e intrinsecamente compatibile con quello umano, ma non altrettanto evoluto e strutturato, è una caratteristica che noi esseri umani incontriamo normalmente nei cuccioli della nostra specie e verso i quali siamo portati naturalmente a sviluppare sentimenti di accudimento (Stoeckel, et al. 2014). Anche questo aspetto, questa parziale sovrapposizione cognitiva con i cuccioli della nostra specie, è allo stesso tempo causa ed effetto del ruolo unico che il cane ricopre nel tessuto sociale del genere umano. Nei prossimi capitoli proveremo ad analizzare come questa peculiarità eccezionale del cane, che nel corso degli anni gli ha garantito un ruolo privilegiato accanto all’uomo rispetto a qualsiasi altro essere vivente, nel corso degli ultimi secoli stia diventando un punto di debolezza che rischia di pagare a caro prezzo. 14 La mente che usa se stessa per capire il mondo Una delle caratteristiche che accomuna tutte le forme di vita è la capacità di raccogliere informazioni sull’ambiente circostante ed elaborarle per creare un’immagine di quello che succede attorno. Questa immagine, che ha gradi di difficoltà diversi a seconda della complessità dell’organismo che la produce, viene integrata con l’immagine ottenuta dalle informazioni provenienti dall’interno dell’organismo stesso allo scopo di produrre azioni finalizzate a massimizzare il proprio benessere. Negli organismi unicellulari questa funzione viene svolta in modo estremamente elementare sotto forma di semplici reazioni chimiche all’interno della cellula, ma la selezione naturale ha incentivato, nel corso di miliardi di anni, la formazione di organismi via via più complessi rendendo necessario un organo deputato a svolgere questa funzione: il cervello. Negli animali, tra cui l’uomo, il cervello ha sviluppato capacità e strategie al fine di rendere questo processo di interpretazione dell’ambiente sempre più preciso e funzionale alla sopravvivenza e quindi alla trasmissione dei propri geni alle generazioni successive. Le emozioni, i sentimenti, le strutture logiche, ecc. non sono altro che sovrastrutture che il cervello è in grado di generare, sulla base dei dati ricevuti in input, al fine di ottenere output sempre più efficaci e adeguati. Il cervello funziona quindi come uno scienziato che raccoglie i dati dal mondo (interno ed esterno all’organismo), li elabora secondo i propri schemi e ipotesi che si è costruito nel tempo o che sono innati perché iscritti nel codice genetico, e genera un’ipotesi su quello che sta accadendo e sulle azioni da intraprendere. Una volta generate le ipotesi sul mondo esterno e dopo aver agito di conseguenza, verifica se il risultato prodotto è adeguato o se, al contrario, è necessario riformulare le ipotesi e modificare le strutture che hanno elaborato le informazioni sul mondo (Barsalou 2008) (Tenenbaum, Griffiths e Kemp 2006). L’atto di indagare ed interpretare l’ambiente circostante al fine di produrre comportamenti adeguati e funzionali al benessere dell’individuo costituisce un vantaggio evolutivo che la selezione naturale ha premiato incentivando lo sviluppo di capacità sempre più specializzate ed efficaci. Tra queste funzioni 15 vale la pena soffermarsi sulla capacità di produrre inferenze sugli altri agenti con cui condividiamo l’ambiente, ovvero la capacità di comprendere che gli altri hanno stati mentali differenti dal proprio, generare ipotesi sulle loro conoscenze, credenze, intenzioni, desideri, obiettivi e, più in generale, sugli stati emotivi degli esseri viventi con cui interagiamo. Questa capacità, oggi conosciuta come Teoria della Mente (in inglese Theory of Mind e abbreviata in “ToM”), è stata formalizzata nel 1978 da David Premack e Guy Woodruff (Premack e Woodruff 1978) dell’Università della Pennsylvania. Nonostante i due autori abbiano strutturato questa teoria partendo proprio dall’osservazione del comportamento sociale degli scimpanzè, ad oggi non è chiaro se queste competenze appartengano ad altri esseri viventi o solo agli esseri umani (Krupenye e Call 2019). L’aspetto interessante è che questa capacità di riconoscere negli altri stati mentali simili ai propri è senza dubbio una delle abilità che hanno permesso all’essere umano di sviluppare strutture sociali senza precedenti nel regno animale. La Teoria della Mente è una teoria perché di fatto altro non può essere che una congettura inferita attraverso l’introspezione, ovvero utilizzando i propri stati mentali, di cui il soggetto fa normalmente esperienza, per interpretare atteggiamenti e comportamenti simili a quelli sviluppati dal soggetto stesso, ma manifestati da un altro individuo. La ToM è mediamente un potentissimo strumento che consente di interpretare il comportamento di altri esseri umani che condividono il nostro ambiente, ma non è certamente privo di errori, spesso fuorvianti. In primo luogo, è un processo induttivo fortemente egocentrico perché basato sull’ipotesi che gli altri agenti siano in grado di sperimentare condizioni emotive uguali a quelle del soggetto che osserva, cosa che può essere ingannevole soprattutto se le inferenze riguardano soggetti non umani, appartenenti a specie diverse o addirittura non viventi (Nagel 1974). Inoltre, l’esperienza personale e la propria conoscenza di se stessi sono le informazioni maggiormente presenti nella nostra mente, sono le meglio organizzate e quelle con più grande ricchezza di dettagli. Questo rende tali informazioni così facilmente accessibili da diventare una base induttiva automatica, alla quale si ricorre inconsciamente perché richiede un bassissimo sforzo cognitivo. Sforzo che invece diventa molto maggiore se si vuole capire il funzionamento di un agente evitando qualsiasi riferimento a noi stessi (Epley, Keysar, et al. 2004) (Kahneman 2011). 16 Come accennato all’inizio di questo capitolo, non è ancora chiaro se il possedere una ToM sia una caratteristica che appartiene solo agli umani o se si è sviluppata parallelamente in altre specie, ad esempio alcuni primati (Hayashi, et al. 2020) o nei corvidi (Bugnyar, Reber e Buckner 2016). Su questo fronte i risultati più sorprendenti sembrano emergere proprio dal cane domestico nella relazione con l’essere umano. Recenti studi (Huber e Lonardo 2023) indicano il cane come la specie più promettente nella quale indagare la presenza di una ToM al di fuori del genere umano. Nei test, nei quali si chiede ai soggetti di risolvere un problema mediante l’adozione della prospettiva di uno sperimentatore umano, sembra che il cane sia in grado di costruire inferenze senza precedenti nelle altre specie animali. 17 Distorsione antropomorfica Usare i propri stati mentali e le proprie caratteristiche come guida quando si ragiona su altri esseri umani è egocentrismo. Usare i propri stati mentali e le proprie caratteristiche come guida quando si ragiona su agenti non umani è antropomorfismo (Epley, Waytz e Cacioppo 2007). Per antropomorfismo si intende la tendenza di un essere umano ad utilizzare caratteristiche, motivazioni, intenzioni o emozioni simili a quelle umane per interpretare il comportamento di agenti non umani come ad esempio animali, ma anche dispositivi tecnologici, fenomeni sociali o religiosi e oggetti reali o frutto dell’immaginazione (Barrett e Keil 1996). Alcuni benefici di questa propensione ad umanizzare gli agenti attorno a noi sono, per esempio, la maggiore capacità di costruire legami empatici con altri esseri viventi e no, di riuscire a fare previsioni sul loro comportamento e sulle loro intenzioni e, soprattutto, di fornire un quadro iniziale, facilmente accessibile, da cui partire per interpretare il mondo. Nei bambini, che sviluppano questa abilità a partire dai quattro anni circa, l’antropomorfismo è uno strumento essenziale per acquisire informazioni sul mondo non essendo ancora in possesso di sufficienti esperienze e competenze (Meltzoff 2006). Per capire il vantaggio che la capacità di usare noi stessi e i nostri stati mentali come struttura per comprendere il mondo che ci circonda è utile fare un paragone con la pareidolia, ovvero quella propensione subconscia di riconoscere forme familiari e strutture ordinate in immagini che sono in realtà disordinate. L’esempio classico di pareidolia consiste nel vedere una nuvola a forma di coniglio o una macchia sulla tovaglia che ci ricorda un uomo che corre. Per esempio, si immagini di guardare il cielo, osservare una nuvola per qualche secondo e poi cercare di disegnarla. Se la nuvola ci avesse ricordato una forma nota, per esempio un coniglio (anche se stilizzato o caricaturato), saremmo in grado di disegnarla sul foglio con una precisione maggiore rispetto ad un’altra nuvola con forma completamente irregolare che non siamo riusciti a ricondurre ad alcunché di già conosciuto. Ricondurre la forma osservata ad una già ben sedimentata nella nostra memoria e con la quale 18 abbiamo familiarità, ci permette di collegare le due cose ed usare la seconda per integrare quello che non sappiamo della prima. Lo stesso vantaggio è ciò che traiamo dalla nostra capacità di antropomorfizzare gli agenti con cui abbiamo a che fare, siano essi animali, oggetti meccanici o dispositivi elettronici. Il ricondurre le loro azioni a stati d’animo che noi conosciamo perché vissuti in prima persona ci offre la struttura che la nostra mente sa maneggiare con maggiore facilità e grazie alla quale è più facile fare previsioni sul comportamento futuro di quell’agente osservato. Con lo sviluppo e la formazione di competenze maggiori e più dettagliate relativamente agli agenti osservati, le persone acquisiscono anche la capacità di controllare e correggere la tendenza ad antropomorfizzarli, anche se questa rimane una base automatica e veloce (Kahneman 2011) a cui è possibile fare riferimento rapidamente e senza alcuno sforzo (Epley, Waytz e Cacioppo 2007). Ragionare sugli stati mentali degli agenti non umani richiede, quindi, uno sforzo cognitivo attivo ed intenzionale che permetta di correggere la simulazione, egocentrica e antropomorfizzante, che l’individuo produce naturalmente, verificandola ed integrandola con le competenze astratte che l’individuo stesso già possiede sul mondo e sull’agente a cui si rivolge l’osservazione. Come tutte le operazioni che richiedono uno sforzo, rispetto ad una modalità più automatica che permette di risolvere il compito senza troppa fatica, anche nel caso della propensione all’utilizzo dei modelli antropocentrici esistono condizioni che aumentano o diminuiscono la capacità di sostenere quello sforzo. Alcune di queste condizioni sono particolarmente interessanti quando si analizza la naturale tendenza dell’uomo ad antropomorfizzare il cane. In primo luogo, la disponibilità a rivalutare i propri pregiudizi antropocentrici automatici aumenta quanto più il comportamento dell’agente non umano con cui si interagisce rompe gli schemi ipotizzati. Quanto più l’oggetto dell’osservazione dimostra di disattendere le nostre aspettative umanizzanti, tanto più è probabile che emerga la necessità di una interrogazione più profonda e meno automatica delle proprie competenze necessarie a spiegare il fenomeno (Ames 2004). Alla luce di quanto scritto fin qui è chiaro che il cane è fra gli agenti non umani che più è in grado di sintonizzarsi con l’uomo, comprenderne gli stati emotivi 19 ed interagire con lui interpretandone intenzioni e obiettivi. Queste caratteristiche rendono difficile accorgersi, quando si parla del cane, se il nostro pensiero è vittima di un’eccessiva antropomorfizzazione. Proprio grazie alla lunga coevoluzione è difficile ottenere dalla realtà un riscontro negativo che solleciti ad abbandonare i nostri pregiudizi antropocentrici sul cane. Un altro aspetto che può ridurre la propensione a scivolare nel solco dell’automatismo antropocentrico è di carattere culturale. Il contesto sociale in cui un soggetto cresce e vive ha un impatto, non tanto sulla propensione in generale ad antropomorfizzare, quanto più su quali agenti maggiormente stimolano l’utilizzo di scorciatoie cognitive egocentriche. I membri di società rurali e non industrializzate sono meno propensi ad antropomorfizzare gli animali rispetto agli appartenenti a culture moderne e urbanizzate. Di contro, gli appartenenti a società tecnologicamente avanzate dimostrano una minore tendenza ad antropomorfizzare dispositivi meccanici o tecnologici (Epley, Waytz e Cacioppo 2007). In qualche modo, la maggiore esposizione all’agente non umano consente la creazione di competenze automatiche, simili a quelle che abbiamo di noi, sull’agente stesso. Queste competenze sono quindi facilmente disponibili al soggetto, al pari di quelle relative a se stesso, consentendo di ridurre lo sforzo necessario per formulare ipotesi senza ricorrere a meccanismi antropocentrici. Il vivere a contatto con un agente non umano, crescere in un contesto sociale che lo integra nella quotidianità, permette quindi di sviluppare delle competenze di base che riducono l’incertezza quando il soggetto interagisce con esso. La minore insicurezza, data dalla presenza di adeguati strumenti di comprensione, permette al soggetto una maggiore disponibilità ad interagire con l’agente non umano senza la necessità di ricondurlo a meccanismi umani. Questo spiega perché nelle culture occidentali, sempre meno a contatto con la natura, il cane stia subendo un processo di antropomorfizzazione che non ha precedenti nella storia di alcun animale domesticato. È interessante anche osservare come, in paesi che stanno attraversando ora una rivoluzione industriale, con un territorio ancora diviso in aree fortemente rurali ed aree altamente industrializzate, coesistano due visioni del cane completamente opposte a seconda del livello di industrializzazione. La componente culturale apre le porte al terzo aspetto in grado di aumentare o diminuire la capacità di riconoscere e regolare l’adozione di strutture di inferenza antropomorfizzanti. Come abbiamo visto, la familiarità culturale con un determinato agente non umano diminuisce il grado di antropomorfismo che 20 si utilizza per interpretarne il comportamento. Questo è vero anche nel caso di agenti non umani con cui non si ha familiarità culturale, ma per i quali si sono acquisite significative e profonde competenze teoriche e pratiche attraverso lo studio. Un ingegnere informatico è meno propenso, in caso di un malfunzionamento del computer, ad attribuire al dispositivo elettronico una sorta di volontà nel non eseguire l’operazione richiesta rispetto ad un utilizzatore alle prime armi. In altre parole, difficilmente un programmatore si riferirà al suo computer con frasi tipo “Questo maledetto ce l’ha con me, per questo non fa quello che gli ho chiesto!” oppure “Oggi questo aggeggio ha deciso di non funzionare!”. Allo stesso modo un primatologo esperto osserverà il comportamento degli scimpanzé allo zoo da un punto di vista diverso rispetto ad uno spettatore privo di competenze specifiche, il quale leggerà, con maggiore propensione, i comportamenti sotto una luce antropocentrica, magari scambiando un rituale di sottomissione con una manifestazione di affetto. Questo aspetto è particolarmente interessante perché sottolinea l’importanza della formazione ed evidenzia come questa rappresenti uno strumento chiave per ridurre il rischio di cadere, spesso senza potersene accorgere, nell’utilizzo di schemi mentali eccessivamente basati sulla proiezione di se stessi per interpretare il comportamento del cane. Infine, per comprendere meglio l’eccesso di antropomorfizzazione che, negli ultimi decenni, sta caratterizzando sempre di più la relazione uomo-cane, è necessario soffermarsi sulla mancanza di adeguate connessioni sociali come elemento che tende ad aumentare l’attribuzione di comportamenti umani a soggetti non umani. L’essere umano è un animale sociale, ha bisogno di sentirsi inserito in una solida e ampia rete di interazioni con altri individui. L’esistenza di un adeguato tessuto sociale, di interazioni soddisfacenti e concrete, è un bisogno primario di qualsiasi essere umano, la cui assenza prolungata può sfociare perfino in veri e propri problemi di salute (Baumeister e Leary 1995). L’assenza o la scarsità di connessioni sociali è un elemento chiave che spinge gli individui umani a cercare di colmare questa lacuna così come farebbero per la sete o per la fame. Questa ricerca di soddisfare le esigenze di connessioni sociali adeguate può incentivare la propensione ad attribuire tratti umani ad agenti non umani con i quali il soggetto ha familiarità. Nelle società moderne i due agenti che maggiormente diventano oggetto preferenziale di antropomorfizzazione nei soggetti particolarmente soli e isolati sono quelli di 21 natura religiosa (Birgegard e Granqvist 2004) – generando quindi una forte propensione a rafforzare le proprie credenze – e gli animali da compagnia (Siegel 1990). Il bisogno di stabilire e mantenere un senso di connessione sociale, qualora insoddisfatto, può trovare appagamento nell’individuazione di tratti umani in agenti non umani facilmente accessibili poiché il desiderio di socialità aumenta la tendenza a percepire e ricercare tratti simili all’uomo anche negli agenti non umani che sono maggiormente sotto il controllo del soggetto. Non a caso, in una cultura individualistica come quella occidentale, caratterizzata da una forte urbanizzazione, che promuove l’isolamento sociale soprattutto per alcune categorie e fasce sociali, il cane è visto, sempre di più, come un animale esclusivamente “da compagnia”. Per la sua forte capacità di sintonizzarsi con l’uomo e la conseguente facilità con cui può diventare oggetto di proiezioni antropomorfizzanti, il cane diventa una scorciatoia per soddisfare la necessità di relazioni sociali che, grazie alla dipendenza dal soggetto che se ne prende cura, è disponibile anche quando altri umani sembrano mancare (Serpell 2002). Nel passato, i bisogni dell’uomo hanno avuto un impatto enorme sulla popolazione canina dando vita a razze molto specializzate nell’assolvimento di un compito specifico. Nel prossimo capitolo si proverà ad indagare su come queste nuove esigenze stiano agendo sull’allevamento. 22 Specia(lizza)zione Il cane, quindi, è un ottimo bersaglio della nostra tendenza ad antropomorfizzare, ma il livello dell’intensità varia secondo diversi fattori. Quelli più interessanti per gli scopi di questo testo che sono emersi nel capitolo precedente sono: il grado di isolamento sociale, la capacità/volontà di rapportarsi al cane dopo un processo di formazione e il contesto sociale urbano moderno che rende più difficile crescere a contatto con il mondo animale impedendo che questo diventi familiare, riconoscibile. Un altro aspetto interessante sull’antropomorfizzazione del cane è che questo fenomeno non lo riguarda in tutti gli aspetti e in tutti i contesti. Si attribuiscono al cane alcuni tratti, comportamenti, emozioni, desideri di natura tipicamente umana, ma questi non stridono in alcun modo con altri comportamenti, normalmente rivolti ai cani, che nessun umano riserverebbe mai ad un altro essere umano. Difficilmente qualcuno tratterrebbe a sé un altro essere umano legandogli una corda al collo e tenendolo al guinzaglio, nessuno deciderebbe quali individui umani devono riprodursi e quali no al fine di ottenere una prole con caratteristiche che maggiormente ci aggradano, nessuno comprerebbe mai un neonato da un negozio che lo espone nel recinto in vetrina e nessuno nutrirebbe un altro essere umano con delle palline secche di cibo tritato che contengono tutto quello di cui esso ha bisogno. Eppure, tutti questi comportamenti sono assolutamente normali anche nei confronti di cani ai quali si attribuiscono con facilità comportamenti tipicamente umani, come la volontà di fare un dispetto o di dare un bacio. In ogni caso, fin dal suo inizio, il nostro rapporto con il cane è sempre stato legato all’assolvimento di uno o più compiti. Molto probabilmente, in principio, l’interazione tra i lupi e i nostri antenati era basata su una reciproca convenienza ma, con il passare del tempo e l’aumentare della vicinanza tra uomo e cane, questa relazione ha iniziato a sbilanciarsi (Shannon, et al. 2015). Il processo di domesticazione benché, come si è evidenziato nei primi capitoli, sembri essere avvenuto contestualmente tra uomo e cane, ha generato uno sbilanciamento tra i due protagonisti nel quale il cane ha avuto la peggio. La 23 rivoluzione neolitica che trasformò le prime società umane da cacciatori- raccoglitori nomadi ad agricoltori-allevatori stanziali ebbe un forte impatto anche sulla relazione tra uomo e proto-cani, soprattutto in funzione della caccia. Anche se il dibattito sulla datazione precisa è lontano dal raggiungere una opinione definitiva (Germonpré, et al. 2009) (Druzhkova, et al. 2013), è in questa transizione che si trovano le origini dell’odierno rapporto tra uomo e cane. Precedentemente la domesticazione, che ha trasformato i lupi in cani randagi che vivevano ai margini dei primi insediamenti stanziali, è stata una relazione più o meno paritaria dalla quale sia il cane sia l’uomo hanno tratto beneficio reciproco. Il salto di qualità, se così si può chiamare, avviene attorno alla transizione neolitica quando alcuni cani si trasformano: da specie con cui condividere l’ambiente per mutuo vantaggio, in una vera e propria innovazione tecnologica per il perfezionamento della caccia e la guardia. È qui la chiave di volta che determinerà la direzione della relazione uomo-cane nei millenni a venire fino al giorno d’oggi. Da qui in avanti, oltre ad essere il primo animale mai domesticato dall’uomo (Perri 2016), il cane diventerà sempre di più uno strumento funzionale all’assolvimento di un compito pratico. Questa evoluzione trasforma radicalmente la relazione perché è grazie a questa che l’uomo impara a poter agire sul cane al fine di aumentare il vantaggio che da esso può trarre. L’importanza di questo cambiamento non è evidente solo perché gli effetti sono arrivati fino a noi più di 10.000 anni dopo. Le indagini archeologiche, infatti, suggeriscono che qualcosa di più profondo è cambiato in quel periodo fra l’uomo ed il cane perché, con la specializzazione di quest’ultimo per l’assolvimento di scopi specifici, emergono anche i primi segni di antropomorfizzazione sotto forma di vere e proprie sepolture rituali (Perri 2016, Losey, et al. 2011). Il funerale e, più in generale, le sepolture rituali sono usanze che emergono con la strutturazione di società organizzate (Binford 1971). L’esigenza di ritualizzare la morte, sebbene con manifestazioni che variano da cultura a cultura, emerge in modo trasversale per assolvere a funzioni sociali che sono condivise in praticamente tutte le società umane. L’atto di seppellire il defunto, con un atto pubblico svolto assieme agli altri membri del gruppo sociale a cui si appartiene, permette di condividere, e 24 quindi rendere più sopportabile anche attraverso la teatralizzazione, il dolore per la scomparsa della persona amata. Ma non solo, quello è anche il momento in cui la comunità rende omaggio al suo membro scomparso con uno sfogo collettivo che ha il compito di mediare con l’ineluttabilità della morte. Una prima forma di antropomorfizzazione del cane la troviamo proprio nei ritrovamenti di sepolture rituali nelle quali esso è stato posto assieme al suo compagno umano. Il cane è il primo animale in onore del quale venga celebrato un vero e proprio rituale di sepoltura, così come riservato ai membri umani del proprio gruppo. Altri animali erano coinvolti nelle sepolture rituali, ma sempre come sacrifici fatti in onore del defunto. La comparsa di questa prima forma di antropomorfizzazione e, soprattutto, il fatto che coincida temporalmente con l’inizio di società stanziali (Janssens, et al. 2017) e con la specializzazione del rapporto uomo-cane finalizzata all’assolvimento di un compito specifico, è un’ulteriore conferma dell’ipotesi di co-domesticazione alla quale abbiamo accennato nei primi capitoli. È impossibile capire se una visione antropomorfizzata del cane, seppur in forma embrionale rispetto a quella di oggi, ha fornito gli strumenti cognitivi grazie ai quali è stato possibile sviluppare la relazione e rendere il cane maggiormente utile e collaborativo nella caccia o se, viceversa, la maggiore importanza sociale del cane come efficiente strumento di caccia abbia indotto l’uomo a riconoscergli uno status di vero e proprio membro della società. Molto probabilmente le due cose si sono autoalimentate vicendevolmente fino a costruire un rapporto che, da questo momento in poi, sarà indissolubile. Se prima essere umano e cane erano due specie che autonomamente si evolvevano e si adattavano l’una verso l’altra in modo quasi simmetrico e per un comune tornaconto, dopo questa rivoluzione l’equilibrio si sbilancia e l’uomo inizia ad esercitare una pressione evolutiva nei confronti del cane al fine di guidare la sua evoluzione verso la massimizzazione dell’efficacia nello svolgere compiti utili. Siamo nel pieno della rivoluzione neolitica, gli esseri umani sulla terra stanno imparando a domesticare le piante e altri animali e questo porterà allo sviluppo dell’agricoltura, dell’allevamento e delle varie tecnologie ad esse collegate. Di conseguenza a queste nuove abilità, l’organizzazione sociale cambierà permettendo di conquistare la sedentarietà e sviluppare la consapevolezza di poter plasmare, modificare e adattare l’ambiente circostante secondo le proprie esigenze. 25 Ora le forme di vita che popolano il mondo non sono più alla pari, ognuna in lotta per la conservazione della propria specie. Adesso una di esse sta imparando a controllare le altre secondo le proprie necessità. Le piante commestibili non devono più essere cercate, ma potranno nascere dove è più comodo ed in quantità maggiori, gli animali domesticabili non dovranno più essere cacciati perché vivranno in cattività a disposizione dell’uomo. Questa consapevolezza quasi divina si abbatte anche sul cane, ma con esiti completamente diversi da quelli che sono toccati ad altre specie domesticate per fini alimentari o meccanici. Al cane viene riconosciuto il ruolo di vero e proprio aiutante con il quale costruire una relazione di ordine superiore a qualsiasi altro animale domesticato ma, non di meno, può essere anch’esso modificato e plasmato come qualsiasi altro essere vivente affinché sia più utile alla sopravvivenza. Così l’uomo inizia ad esercitare una pressione evolutiva sui cani che fanno parte del proprio gruppo sociale incentivando e premiando i soggetti che maggiormente sono funzionali a fornire un aiuto concreto in diversi compiti. La selezione artificiale, benché basata sull’incentivare i soggetti maggiormente efficaci nello svolgere un lavoro specifico, non solo ha effetti sull’indole caratteriale degli animali coinvolti, ma, come abbiamo visto per le volpi di Belyaev, porta con sé anche trasformazioni morfologiche e funzionali (Belyaev 1964). Nascono così le razze, ovvero una diversificazione senza precedenti all’interno di animali appartenenti alla stessa specie. Una variabilità caratteriale e morfologica altissima inizia proprio da qui, dall’esigenza di rendere sempre migliore il nostro compagno di evoluzione. Nel prossimo capitolo si proverà ad affrontare il tema di come questa relazione si sia evoluta in tempi più recenti. 26 Il cane funzionale Anche se le ricerche ci permettono di formulare ipotesi precise su come il processo descritto finora sia avvenuto nel corso dei primi millenni, molti dettagli sono ancora oscuri e saranno oggetto di future investigazioni. Quel che è certo è che, ad un certo punto, il cane è diventato un vero e proprio membro dei nuclei sociali umani, affianca l’uomo nei suoi compiti e le sue mansioni sono una vera e propria pressione evolutiva al pari delle condizioni climatiche e ambientali. Un clima freddo incentiva i soggetti con un pelo più folto e denso perché questo offre maggiore isolamento termico utile a mantenere la temperatura corporea; allo stesso modo, l’essere un aiuto dell’uomo per seguire le prede cacciate fornisce un vantaggio ai soggetti con un olfatto più sviluppato. Approfondire il funzionamento dell’evoluzione delle specie attraverso la selezione, sia essa naturale o artificiale, è interessante e offre alcuni spunti che torneranno utili più avanti per capire gli ultimi sviluppi che ci hanno consegnato il cane così come lo conosciamo oggi. È noto che il patrimonio genetico di un individuo è la ricombinazione dell’informazione genetica dei genitori che, pur trattandosi di un processo biochimico, e quindi regolato da leggi definite e precise, non avviene in modo perfettamente uguale ogni volta. Il processo di ricombinazione del DNA dei genitori per formare quello del figlio è influenzato da diversi fattori, molti dei quali casuali o anche legati a particolari condizioni biochimiche presenti in quel momento. Questo rende il risultato finale sempre leggermente diverso ogni volta. Ogni discendente è quindi sempre leggermente diverso dai genitori e diverso dai propri fratelli e sorelle. Questo fenomeno è evidente e sotto gli occhi di tutti, non esistono due fratelli esattamente identici e nemmeno esiste un figlio che è esattamente uguale ad uno dei genitori. Inoltre, è importante considerare che solo alcune differenze si manifestano durante la crescita dell’individuo e diventano palesi ai nostri occhi. Oltre a queste, il DNA contiene molte altre varianti che non si manifestano in quell’individuo, ma che potranno essere riutilizzate, e quindi 27 diventare palesi, nelle generazioni successive (Biémont e Vieira 2006) (F. Palazzo e Gregory 2014). Questa, che apparentemente può sembrare una imperfezione nella duplicazione del DNA, è la forza alla base della vita sul nostro pianeta. È grazie a questi piccoli ma continui “errori” di copia che la vita, partendo da un primo organismo unicellulare 4,5 miliardi di anni fa, si è poi diramata formando i milioni di specie viventi che conosciamo oggi. Il fatto che i figli non siano copie esatte dei loro genitori e siano, invece, tutte ricombinazioni diverse in modo casuale, è il motore alla base dell’evoluzione delle specie. Ogni nuovo individuo è una versione casuale della ricombinazione dei genitori e porta con sé piccoli o grandi cambiamenti. Queste differenze possono essere più o meno funzionali alla vita in quel determinato ambiente e quindi possono fornire una maggiore o minore possibilità che quei geni vengano trasmessi alla generazione successiva (fitness). Per tornare al cane, dall’inizio della domesticazione in avanti, non è più solo l’ambiente a selezionare quali varianti sono più efficienti e quali meno. Altre qualità, propensioni e caratteristiche, che emergono casualmente nella ricombinazione del DNA, possono essere incentivate dall’uomo perché funzionali al compito che quello specifico cane deve svolgere assieme a lui. La funzione, il compito, il lavoro che il cane deve svolgere accanto all’uomo diventa una vera e propria forza selezionatrice: i soggetti che più sono efficienti nella mansione assegnata loro dall’uomo hanno maggiori probabilità di riprodursi, di passare i propri geni alla generazione successiva aumentando, quindi, anche la probabilità che quella particolare caratteristica si ripresenti con maggiore frequenza. Nel corso dei millenni, il ripetersi di questo processo, generazione dopo generazione, in diversi climi e parti del mondo, ha cominciato a scolpire la popolazione dei proto-cani, primi discendenti del lupo, dando inizio a quelle che oggi conosciamo come diverse razze. In realtà, ha funzionato così fino a circa un secolo e mezzo fa, quando una nuova visione del mondo ha imposto un’accelerazione improvvisa a questo rapporto. 28 Pura razza, puro sangue Il fatto che ogni individuo nasca con delle piccole modifiche rispetto al patrimonio genetico dei genitori e che l’ambiente (di cui l’uomo fa parte) selezioni le modifiche più efficaci fornendo maggiori probabilità di riprodursi ai soggetti che le posseggono, è alla base della Teoria della Selezione Naturale formulata dal Charles Darwin nel 1859 (Darwin 1859). La formulazione di nuove teorie, che spiegano il funzionamento di qualche fenomeno, non arriva mai dal nulla, ma emerge da un contesto culturale che ne costituisce la base di partenza. Anche in questo caso, la teoria di Darwin è un tassello di un percorso molto più ampio, iniziato un secolo e mezzo prima durante l’illuminismo, che promuove un nuovo modo di indagare la realtà e formalizza un approccio basato sulla raccolta di dati empirici dai quali partire per costruire una teoria che li possa spiegare. Cinquant’anni prima di Darwin una prima visione evoluzionistica della vita stava già prendendo forma con le teorie di Jean-Baptiste de Lamarck, il quale aveva ipotizzato, semplificando molto, che nel corso della vita ogni essere vivente subiva delle modificazioni dall’ambiente e che queste modificazioni fossero in grado di essere trasferite alla prole (Lamarck 1809). Quel che è certo è che a partire dal periodo Neolitico, durante il quale l’uomo ha iniziato la domesticazione e la selezione delle piante e degli animali, fino alla fine del 1700, nessuno aveva capito con precisione quale fosse il fenomeno sottostante. Pur non avendo una teoria scientifica in grado di spiegare questo fenomeno, l’esperienza empirica era chiara: i figli di un cane con un’abilità particolarmente spiccata a difendere il gregge, per esempio, avevano una maggiore probabilità di essere anch’essi particolarmente bravi a svolgere quel lavoro. Ma non solo, molto più banalmente, più un soggetto era utile ed efficiente nello svolgere il compito che gli veniva assegnato (cacciare, difendere il gregge, tenere lontani i roditori, ecc…) e meglio veniva nutrito o curato qualora ne avesse avuto bisogno. È anche ipotizzabile che più un soggetto era capace nelle sue mansioni e più aveva occasioni di entrare in contatto stretto e costante con l’uomo, riuscendo quindi a guadagnarsi un legame affettivo più forte e profondo. Queste dinamiche, anche se non sostenute da una teoria che rendesse la pratica 29 della selezione un atto consapevole, hanno avuto, con il passare delle generazioni, un vero e proprio effetto di selezione evolutiva al pari delle condizioni ambientali e climatiche. La formulazione della Teoria dell’evoluzione, benché spiegasse un fenomeno empiricamente già noto, fu la scintilla che innescò una vera e propria rivoluzione culturale in grado, non solo di travolgere l’ambito culturale della biologia e delle scienze naturali, ma capace di sconfinare e gettare le proprie influenze anche in altri campi delle scienze umane come l’economia, la sociologia e la filosofia. Inevitabilmente questa formalizzazione avrebbe avuto un impatto anche nel rapporto uomo-cane. Per capire quello che sta per succedere a questo punto della storia, è importante farsi un’idea del contesto nel quale ci troviamo. L’Inghilterra del 1859, luogo e anno in cui Darwin pubblicò la prima edizione del libro L’origine delle specie, è nel pieno dell’epoca vittoriana. L’Impero britannico, il più grande impero mai esistito, è praticamente al suo apice e controlla quasi cinquecento milioni di persone (oltre un terzo degli esseri umani presenti allora nel mondo). La prima rivoluzione industriale, con la diffusione delle macchine a vapore e dell’industria metallurgica pesante, era finita da pochi decenni e la comunità scientifica ed economica era già in fermento perché nuove tecnologie stavano per sbocciare. Di lì a poco l’utilizzo dell’elettricità e del petrolio come fonti di energia avrebbero dato un ulteriore impulso all’industrializzazione. Enormi masse di persone in questi anni stanno lasciando le campagne, abbandonando per sempre una vita a stretto contatto con la natura per accalcarsi ai margini dei piccoli centri urbani ed industriali che, nel giro di pochi decenni, diventeranno vere e proprie città anche per via di una popolazione che, grazie al maggiore benessere, cresce a ritmi vertiginosi raddoppiandosi in solo mezzo secolo. Questo contesto culturale intriso di sensazione di potenza, di brama di dominio sul mondo, affamato di energia e di forza lavoro, è il terreno su cui Darwin sgancia la sua bomba. In questa ubriacatura generale, la Teoria dell’Evoluzione, che spiega come gli esseri viventi si evolvano grazie a soggetti più adatti che hanno maggiore probabilità di riprodursi, è destinata a dare inizio a derive ideologiche alla ricerca della perfezione. Uno degli effetti più potenti che la Teoria dell’Evoluzione darwiniana ebbe al di fuori dell’ambito scientifico dipese da un movimento teorizzato e promosso da Francis Galton, psicologo e sociologo, nonché cugino di Darwin. Dieci anni 30 dopo le clamorose scoperte del cugino, Galton pubblicò il suo studio Hereditary Genius (Galton 1869) nel quale gettò le basi per quella che, dopo la morte di Darwin, prese il nome di Eugenetica ovvero la necessità di migliorare la qualità della specie umana promuovendo ed incentivando la riproduzione dei soggetti “maggiormente desiderabili” e riducendo, anche attraverso la sterilizzazione, la riproduzione dei “soggetti indesiderati”. La storia, a posteriori, definì le teorie eugenetiche una distorsione della Teoria dell’Evoluzione finalizzata a legittimare la supremazia del più forte sul più debole. Nemmeno la biologia fu benevola nei confronti di queste storture evidenziando che l’eugenetica altera la teoria di Darwin per provare a fornire una base scientifica ad un castello ideologico il cui unico scopo è giustificare l’esistenza di una élite genetica che doveva essere protetta da un ceto sociale basso in forte crescita a seguito dell’urbanizzazione e dello sviluppo industriale. Mentre da una parte la carità cristiana, la solidarietà e la richiesta di uno stato sociale in grado di proteggere i più deboli anche redistribuendo le risorse, stavano prendendo piede per sostenere una classe operaia sempre più numerosa, dall’altra l’aristocrazia britannica sfruttò le scoperte di Darwin per tentare di dare legittimità scientifica alla loro superiorità definendo questi valori una distorsione della selezione naturale che quindi avrebbe portato alla degenerazione della società. La dottrina eugenetica è, di fatto, l’inizio di un processo culturale forte e destinato ad espandersi passando dal considerare il grado sociale come discriminante ad usare i tratti etnici per individuare chi appartiene alla “buona stirpe” e gettando le fondamenta per quell’ideologia che poi raggiungerà il suo apice con il nazismo tedesco. Questa rivoluzione culturale non poté risparmiare il rapporto uomo-cane che ne uscirà profondamente cambiato. Una delle maggiori critiche mosse a Galton e ai sostenitori dell’eugenetica, fu quella di aggiungere alle teorie evoluzionistiche un finalismo che la selezione naturale non ha. Le piccole modifiche genetiche, che ogni individuo porta con sé rispetto alla generazione precedente, vengono promosse o disincentivate dall’ambiente senza che esista un obiettivo predeterminato da raggiungere. L’eugenetica, al contrario, si proponeva di definire a priori cosa fosse “migliore” e verso quale obiettivo si dovesse puntare attraverso una attiva promozione o bocciatura delle qualità genetiche di ciascun individuo. Non è difficile ritrovare questa distorsione anche nel moderno concetto di razza cinofila e, più in generale, nei principi su cui oggi si basa l’allevamento 31 dei cani. Come abbiamo visto più indietro, le razze dei cani esistevano ben prima della fine del 1800, ma la loro selezione e l’individuazione dei soggetti che ne facevano parte era completamente diversa da quelle adottate oggi. Per migliaia di anni, la riproduzione dei cani è stata condizionata dall’uomo sulla base della funzione a cui quei cani dovevano adempiere. L’obiettivo era sempre avere un cane utile, efficace, in grado di aiutare l’uomo nelle sue mansioni. Anche se, soprattutto negli ultimi secoli, l’aspetto estetico dei cani cominciò ad avere un peso via via crescente nella scelta degli individui da riprodurre, il criterio centrale era quello di avere un cane utile, ma senza una precisa definizione di quali geni dovessero essere coinvolti in questo processo. Questo è il contesto culturale nel quale nasce il primo Kennel Club della storia, fondato a Londra nel 1873 dall’aristocratico Sewallis Evelyn Shirley, allevatore di Fox Terrier, ventiquattro anni dopo la pubblicazione di Charles Darwin e solo quattro anni dopo il testo sull’eugenetica di Galton. Shirley riunì altri dodici allevatori con l’intento di standardizzare le esposizioni cinofile e le razze (Worboys, Strange e Pemberton 2018). Benché le competizioni fra cani siano una pratica antica, solo in quegli anni iniziava l’abitudine di organizzare delle vere proprie esposizioni amatoriali di cani, principalmente solo per alcune razze da caccia, nelle quali si metteva in mostra la bellezza dei propri soggetti. Shirley notò la mancanza di uniformità di giudizio fra le prime esposizioni cinofile e decise che era necessario standardizzare i criteri con cui i giudici assegnavano il punteggio ai cani presentati in gara. Per fare questo, assieme ai suoi colleghi, definì una descrizione dettagliata della morfologia di riferimento di ciascuna razza. Ma non solo, probabilmente influenzato dai principi eugenetici che circolavano negli ambienti dell’aristocrazia a cui apparteneva, si spinse ancora più avanti. Per la visione di Shirley era insufficiente definire con precisione la morfologia ed il carattere dei soggetti appartenenti ad una razza. Con il genuino intento di proteggere le razze, ritenne una buona idea l’istituzione di libri genealogici, ovvero registri all’interno dei quali venivano iscritti i soggetti che inizialmente si ritenevano rappresentare alla perfezione quella specifica razza. Solo i soggetti nati da entrambi i genitori appartenenti a quel registro avrebbero potuto a loro volta farne parte. Questa formalizzazione e standardizzazione dell’allevamento fu un’idea pregevole, dettata da una profonda passione per i cani e dalla necessità di tutelare secoli di allevamento di selezione, ma l’effetto che la sua applicazione 32 avrebbe avuto sarebbe stato un cambiamento mai visto prima nella storia del rapporto tra uomo e cane. Fino a quel momento, il concetto di razza indicava un insieme di soggetti che condividevano alcuni tratti morfologici e caratteriali. I confini della razza erano quindi estremamente sfumati, con soggetti che potevano differire anche molto tra loro ma avere in comune quei tratti tipici che li faceva appartenere a quel “tipo” di cane. Con l’istituzione dei libri genealogici quei confini sono diventati improvvisamente netti. Il limite, tra un cane di razza e no, non era più una gradazione basata sulle altrettanto sfumate doti caratteriali e morfologiche. In pieno stile eugenetico la razza ora era diventata un sinonimo di sangue puro e solo i soggetti puri erano autorizzati a riprodursi. Come le teorie eugenetiche rielaborano la Teoria dell’Evoluzione aggiungendo la pretesa di definire un finalismo, un obiettivo verso il quale questa deve tendere, allo stesso modo l’adozione di registri genealogici impone la definizione di uno standard che, anziché essere basato sulle doti funzionali istituisce un gruppo ristrettissimo di cani eletti come unici depositari della purezza della razza e quindi autorizzati a riprodursi. Anche la selezione operata da sempre sul cane, incentivando la riproduzione dei soggetti “più adatti” a svolgere una funzione, in qualche modo poneva una finalità all’evoluzione delle razze, ma lo faceva esattamente come lo fa l’ambiente nella selezione naturale, ovvero senza prediligere a priori un gene piuttosto che un altro. Anzi, maggiore è il numero di soggetti che si riproducono, maggiore è la variabilità genetica che verrà trasmessa di generazione in generazione e, di conseguenza, maggiore sarà la possibilità di ottenere modificazioni genetiche che rendono i soggetti più forti, sani e adatti a svolgere un lavoro. L’istituzione dei libri genealogici, con l’intento di tutelare i geni “migliori”, non ha tenuto in considerazione che, riducendo la variabilità dei geni che ad ogni generazione vengono ricombinati casualmente, riduce la possibilità che nuove varianti più efficaci e sane emergano. Per capire meglio questo passaggio si può immaginare di avere un mazzo di cinquantadue carte dal quale se ne pescano casualmente alcune. Se nella pescata si estraggono quaranta carte, è probabile che il mazzo delle carte scelte sia molto rappresentativo del mazzo originale, ovvero risulterebbero scelte più o meno lo stesso numero di carte per ciascun segno, si avrà un numero quasi uguale di carte pari e carte dispari e via così. Se invece dal mazzo originale si pescano solo quattro carte, il mazzetto che si ottiene non 33 rappresenterà minimamente il mazzo iniziale. All’estremo, si potrebbe aver pescato casualmente (così come è la ricombinazione genetica) quattro carte di cuori perdendo definitivamente la rappresentanza degli altri tre semi. Questo fenomeno, oggi noto come “collo di bottiglia genetico”, non solo riduce lo spettro di variazioni genetiche disponibili ma, soprattutto, aumenta la possibilità di derive che sono la causa di malattie genetiche e diminuisce la capacità del pool genetico di reagire a patogeni o variazioni ambientali. La capacità di svolgere al meglio un lavoro è un criterio di selezione che si basa sulla valutazione complessiva dell’efficienza dei soggetti senza pretendere di dettare restrizioni genetiche sulle quali non è possibile avere reale controllo dal momento che la ricombinazione avviene casualmente e le caratteristiche che ogni gene può esprimere variano secondo moltissimi fattori per i quali non è possibile fare alcuna previsione. Un’obiezione potrebbe essere che per risolvere questo problema è sufficiente che all’atto della costituzione del registro si includa tutta la popolazione appartenente a quella razza, ma in realtà questo cambierebbe pochissimo rispetto alle criticità di un registro chiuso. Per prima cosa è impossibile includere tutti i soggetti dal momento che prima non esisteva un limite definito per ritenere se un cane era appartenente alla razza o meno. Inoltre, i registri nascono proprio con la logica contraria, ovvero quella di incentivare solo la riproduzione di un numero ristretto di soggetti particolarmente allineati con lo standard definito a tavolino. Per questo motivo, oltre alla creazione dei registri, le esposizioni cinofile hanno proprio l’obiettivo di eleggere i cani più corrispondenti al prototipo e restringere ulteriormente il numero dei soggetti che si riproducono. Il sistema di incentivi per cui un ristrettissimo numero di maschi, vincitori di titoli, danno alla luce la maggior parte dei cuccioli di una determinata razza si chiama Popular Sire Effect (Leroy 2011). Dal punto di vista eugenetico dovrebbe essere la condizione migliore che permette di ottenere soggetti sempre più perfetti e sani, ma in realtà l’impoverimento genetico che ne deriva rende la costruzione del cane poggiata su fondamenta di sabbia dal momento che la maggior parte dei soggetti è strettamente imparentato. Questa criticità è nota da oltre un secolo (Haines 1915) e gli studi moderni sulla correlazione fra consanguineità e la diffusione di patologie ereditarie, ottenuti sia dall’analisi dei pedigree che direttamente sequenziando il DNA, non lasciano più dubbi (Summers, et al. 2010). Nel 2008 la questione arrivò 34 prepotentemente all’opinione pubblica grazie ad un documentario realizzato dalla BBC (Harrison 2008) che fece molto rumore portando alla luce il maltrattamento genetico che si cela dietro al moderno allevamento dei cani di razza. I Kennel Club nazionali e la Federazione Cinologica Internazionale da tempo hanno intrapreso azioni tese a contenere il problema come, per esempio, corsi di formazione dedicati agli allevatori sulle pratiche di allevamento, test genetici consigliati o obbligatori, strumenti di analisi della consanguineità come ausilio alla scelta dei soggetti da riprodurre, ecc… Queste iniziative, meritevoli negli obiettivi che si prefiggono, nei fatti sono un tentativo di fermare il vento con le mani. I test genetici, per esempio, indicano se un cane è portatore di un particolare disturbo ereditario e vengono imposti quando ormai quel disturbo si sta presentando con un’incidenza ritenuta elevata fra i soggetti di una razza. Non danno alcuna informazione relativamente a quanti altri disturbi si stanno incubando nei meandri di un codice genetico sempre più impoverito (McGreevy e Nicholas 1999). In Italia, l’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana nel 2023 ha vietato l’iscrizione ai registri dei soggetti nati dall’accoppiamento di un genitore con suo figlio o fra due fratelli pieni della stessa cucciolata (ENCI 2023). Se si intende promuovere un cambiamento in questo sistema, è necessario agire sulla cultura cinofila che genera la domanda di nuovi cuccioli, oltre che imporre una regolamentazione più stringente dall’alto. La struttura economica legata all’allevamento di cani rende indispensabile affiancare all’idea che il cane di razza sia un essere vivente di migliore qualità perché di alto lignaggio, strumenti che ripristinino la funzionalità come parametro utile per stabilire la qualità dell’allevamento. 35 Mettiamo assieme il puzzle L’evoluzione sociale della popolazione umana degli ultimi centocinquant’anni ha stravolto quarantamila anni di relazione uomo-cane. Improvvisamente e molto rapidamente le esigenze dell’uomo sono cambiate e i punti di forza, che nei millenni erano stati la base di questa collaborazione senza precedenti nel regno animale, sono diventati veri e propri pericoli dai quali, la specie Canis lupus familiaris, non è in grado di difendersi. Il matrimonio tra l’uomo ed il cane, per decine di migliaia di anni, si è basato su una reciproca collaborazione che forniva un vantaggio ad entrambi i partner. Se da una parte l’essere umano aveva trovato un valido collaboratore che poteva aiutarlo a svolgere mansioni vitali meglio di qualsiasi altro umano, dall’altra il cane aveva trovato un protettore che, in cambio della sua propensione a collaborare, gli offriva protezione, cura ed una maggiore facilità di accesso alle risorse primarie. Nell’ultimo secolo e mezzo questa relazione è mutata in modo asimmetrico e l’essere umano, approfittando della devozione del cane scolpita da millenni di coevoluzione, ha cambiato unilateralmente gli obiettivi ultimi su cui questa collaborazione si fondava. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la finalità, la funzione, la necessità su cui si fondava la relazione tra uomo e cane ha plasmato questa specie modellandone le caratteristiche caratteriali, le abilità sensoriali e la morfologia. Un cambiamento drastico degli obiettivi che l’uomo si pone di raggiungere con l’ausilio del cane non può non avere un effetto altrettanto radicale sul cane stesso. All’inizio gli obiettivi erano estremamente pratici, concreti, finalizzati a svolgere mansioni fisiche come la caccia, la guardia, ecc… Nel corso dei millenni queste funzioni pratiche si sono evolute nella tecnica con cui venivano perseguite, hanno generato cani sempre più performanti, adeguati a vivere all’interno delle società umane e hanno permesso anche lo sviluppo di un legame affettivo che andasse al di là del semplice utilitarismo. Il legame affettivo è stato senza dubbio un incentivo che, pur non prendendo il sopravvento sulla funzione pratica, ha permesso di rafforzare ulteriormente la relazione uomo-cane fino all’epoca in cui è iniziato lo stravolgimento. 36 La rivoluzione industriale, e il conseguente abbandono delle campagne da parte della maggior parte della popolazione che si è concentrata nei centri urbani cambiando per sempre il proprio stile di vita, ha ridotto progressivamente, ma rapidamente, la necessità di svolgere proprio quelle mansioni per le quali il cane era particolarmente utile. Vivere in città significa avere sempre meno necessità di procurarsi il cibo tramite la caccia, l’allevamento o la coltivazione dei campi, tutti compiti che vengono delegati ad un ristrettissimo numero di persone che ora può aumentare la produttività a dismisura grazie alle scoperte scientifiche e a macchinari che da soli riescono a svolgere il lavoro di centinaia di uomini. Conseguenza di questo cambiamento è una progressiva perdita di contatto con la natura e con gli animali in particolare, caratteristica che aumenta la propensione ad antropomorfizzarli. Parallelamente, la nuova vita urbana, industriale, moderna, fa nascere nuove esigenze negli esseri umani, come la necessità di contrastare un crescente isolamento sociale, che trova soddisfazione proprio in quei cani rimasti orfani di una funzione nella relazione con l’uomo. Oggi, la maggior parte dei cani che vive in relazione stretta con un essere umano, ha come unica funzione quella di essere amato e accudito anziché andare a caccia o difendere un gregge. La perdita di una funzione pratica ha incentivato l’adozione di un sistema di selezione dei cani per “lignaggio” con l’istituzione di registri dei soggetti considerati puri e privilegiando canoni estetici e funzionali a soddisfare, anziché l’esigenza di svolgere un lavoro, la propensione ad antropomorfizzare il cane al fine di renderlo sempre più adatto ad essere “amato”. La deriva morfologica, in particolare di alcune razze, alla ricerca sempre più estrema di tratti neotenici, ha prodotto soggetti le cui funzioni primarie sono compromesse ed è conseguenza della perdita di funzionalità pratica. Concretamente, non è cambiato il nostro approccio che prevede di modellare il cane affinché soddisfi le nostre esigenze, ma queste sono cambiate e, per la prima volta, hanno smesso di essere di natura pratica, concreta, per diventare la ricerca di un beneficio sociale e psicologico. Questo cambiamento ha effetti molto più profondi di quanto si possa pensare superficialmente. Se l’obiettivo della relazione è pratico e finalizzato allo svolgimento di un “lavoro”, qualsiasi esso sia, si ha bisogno di un cane che sia il più possibile sano, equilibrato e in grado di costruire una relazione forte con il suo compagno umano. 37 Al contrario, se l’obiettivo non è lo svolgimento di un lavoro, bensì la relazione di per sé, l’essere dipendente dall’uomo, il necessitare di cure, essere disinteressato al mondo esterno e rispecchiare i canoni della moda del momento, diventano caratteristiche premianti anziché difetti (Parker e Ostrander 2005). Se si apprezza il bulldog per la sua forza, determinazione e resistenza nell’affrontare un toro in un combattimento – sospendendo per un istante il giudizio morale su questa pratica ormai relegata alla storia – si farà in modo di avere un cane sempre più robusto, sano e mentalmente equilibrato. Se invece i motivi che spingono ad acquistare un bulldog riguardano il desiderio di avere un cane da amare e accudire, il suo muso schiacciato, gli occhi grandi e sporgenti che ricordano quelli di un cucciolo d’uomo, il suo ciondolare goffo ed impacciato, la sua respirazione affannosa al punto da rendere difficile anche una passeggiata nelle ore calde, diventano qualità premianti nella scelta del cucciolo. Per capire a che livello si può spingere l’effetto di questo nuovo ruolo che attribuiamo al cane, si consideri che è emersa di recente una correlazione fra la forma del muso e la conformazione della retina (McGreevy, Grassi e Harman 2003). Secondo quanto scoperto, i cani brachicefali, ovvero con il muso particolarmente schiacciato, hanno una diversa distribuzione delle cellule gangliari della retina che rende il loro campo visivo molto più ristretto e focalizzato centralmente. Questa variazione, apparentemente insignificante, rende questi cani molto più propensi a cercare un contatto visivo diretto con gli umani e fornisce loro uno sguardo molto più simile a quello con cui un umano guarda negli occhi un suo simile. Questo modo di guardare è uno degli elementi che ha contribuito alla diffusione di razze con queste caratteristiche morfologiche (Bognár, et al. 2021). Le decine di migliaia di anni di coevoluzione non solo hanno reso il cane totalmente indifeso davanti all’improvviso cambiamento di ruolo che l’uomo gli ha riservato, ma anche incapace di nascondere la sua natura collaborativa e desiderosa di interazioni con gli esseri umani. I cani vittima di questo antropocentrismo perverso continuano ad essere disponibili a costruire un legame forte con l’umano e, nascondendo qualsiasi effetto nocivo della relazione dietro a istintive manifestazioni di affetto e devozione, rendono ancora più difficile all’uomo accorgersi che qualcosa non sta funzionando. Sidney Cobb, un epidemiologo e psichiatra che negli anni 70 concentrò i suoi sforzi anche per cercare relazioni fra lo stress e l’insorgenza di malattie, definì il sostegno sociale come “un'informazione che porta il soggetto a credere di 38 essere curato e amato, stimato e membro di una rete di obblighi reciproci” (Cobb 1976), mettendo in evidenza come questo fosse in grado di proteggere le persone da molte patologie fisiche e psicologiche. Il cane è un potente fornitore di supporto sociale, sia direttamente sia indirettamente favorendo l’interazione con altre persone (Duvall Antonacopoulos e Pychyl 2015). Il forte legame affettivo che contraddistingue la relazione tra uomo e cane è sempre stato un fenomeno che emerge dalla collaborazione pratica per svolgere compiti concreti. Accantonare questo contatto con la realtà per privilegiare una relazione che si soddisfa in se stessa, che non trova altro riscontro se non quello di una gratificazione emotiva intrinseca, può sembrare un atto di amore che libera il cane da un utilitarismo cinico. Di fatto, si va incontro al rischio di rimuovere l’àncora che per millenni ha tutelato questa relazione dalla deriva antropocentrica che stiamo vivendo oggi, quell’àncora che ha sempre costretto l’essere umano a perseguire il benessere, psicologico, fisico, e quindi genetico, per avere un compagno efficiente e funzionale (Pedersen, et al. 2012). Questo cambiamento, potenziato da una diffusione sempre maggiore dei cani nelle famiglie occidentali, ci pone davanti una questione morale che non è più possibile ignorare se abbiamo a cuore la tutela di una specie con la quale abbiamo condiviso la nostra evoluzione. Tutti vogliamo perseguire il “benessere del cane”, ma definire cosa questo voglia dire concretamente, riducendo al minimo l’effetto che l’interesse personale ha su questa definizione, è un’operazione tutt’altro che semplice. Una volta fatta chiarezza sugli aspetti concreti del benessere è fondamentale trovare strumenti in grado di coniugare le necessità del cane con quelle che l’uomo cerca di soddisfare con esso. Questo passaggio è indispensabile affinché il bene di una specie possa concretizzarsi in una prassi che parta dal bene dei singoli individui. 39 Una questione morale Il concetto di “benessere animale” è un recipiente che tutti portano con sé, ma che ognuno riempie con quello che vuole. È molto difficile definire in modo chiaro ed univoco cosa sia “bene” o “male” per gli animali e quali azioni siano “morali” o “immorali” se praticate nei confronti di un animale. Queste valutazioni cambiano a seconda dei tempi, dei contesti culturali, della specie e anche della condizione in cui si trovano i singoli individui. Per toccare con mano questa difficoltà si può provare a dare un giudizio etico sul taglio della coda nei cani che, in alcune razze, veniva praticato applicando un elastico sulla coda stessa che nel giro di pochi giorni avrebbe comportato la caduta senza che il cucciolo se ne accorgesse. Oggi si ritiene moralmente incettabile mutilare la coda ad un cane, anche se questo viene fatto alla nascita e senza provocare dolore, al punto da vietare questa pratica se non in caso di estrema necessità medica. Questa usanza, che oggi viene percepita come una violazione dell’integrità dell’animale, per alcune razze da caccia nasce come un’attenzione al benessere dei cani perché li proteggeva da probabili, pericolose e dolorose ferite alla coda che si sarebbero potute verificare inavvertitamente durante la caccia. Tutt’ora non è così facile capire se tra questi due punti di vista contrapposti ce ne sia uno più giusto dell’altro. Un’obiezione contro questa pratica può essere che non si deve mutilare la coda anche perché probabilmente il cane non si ferirà mai: è quindi opportuno che lo si faccia solo nel caso in cui un soggetto si ferisca seriamente. Questo argomento suona sensato ad una prima analisi, ma i sostenitori di questa pratica asseriscono che mutilare la coda ad un cane adulto è un’operazione molto più delicata ed invasiva. Tagliare una coda ferita in modo grave ad un cane adulto non fa altro che aumentare il dolore che quel cane proverà inutilmente quando si sarebbe potuto evitare tagliandogliela appena nato senza provocargli alcuna sofferenza. Un altro argomento, diffuso fra chi ritiene immorale mutilare la coda di un cane, definisce questa pratica un atto egoista dell’essere umano che non dovrebbe portare il proprio cane in una situazione di pericolo, nella quale rischia di danneggiarsi la coda, tanto più se questo ha solo lo scopo di appagare una propria passione. Anche questo argomento ha una risposta 40 della controparte che, quanto meno, merita di essere presa in considerazione: andare a caccia è quello per cui quei cani si sono evoluti assieme all’uomo e solo così riescono ad essere pienamente appagati. Impedire ad un soggetto di cacciare significa privarlo del piacere più grande che possa provare, una forma di maltrattamento molto più grave rispetto al taglio della coda fatto alla nascita senza dolore. Questo esempio rende bene l’idea di come non sia facile individuare una regola sempre valida per capire, di volta in volta, cosa è “giusto” e cosa è “sbagliato” nei confronti del cane e anche chi, alla fine, riesce a schierarsi da una parte o dall’altra difficilmente rimane totalmente indifferente davanti alle argomentazioni dello schieramento opposto. Per provare a ragionare su questi temi alla ricerca almeno di qualche indizio o riflessione utile a giudicare i nostri comportamenti si può partire dalla definizione che il “Farm Animal Welfare Council” (FAWC), un’organizzazione governativa inglese che si occupa di benessere animale, ha dato nel 1992. Questa definizione è nota come “Le 5 libertà del benessere animale” che sono le seguenti: Libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione; Libertà dai disagi ambientali; Libertà dalle malattie e dalle ferite; Libertà di manifestare liberamente le caratteristiche comportamentali specie-specifiche; Libertà dalla paura e dallo stress. Ognuno di questi punti meriterebbe un approfondimento, ma per gli scopi di questo testo ci si concentrerà sul quarto punto: il diritto di ciascun cane di esprimere liberamente i tratti comportamentali specifici della sua razza. Guardando i primi proto-cani che spontaneamente si avvicinavano agli insediamenti umani e confrontandoli con le moderne razze cinofile, pare evidente che l’uomo non abbia avuto scrupoli a modificare e plasmare le caratteristiche comportamentali di questa specie. D’altra parte, è anche vero che questa azione non è avvenuta agendo sui singoli individui attraverso atti forzosi, perché il processo di selezione artificiale del cane ha effetto sul comportamento del cane attraverso cambiamenti del genoma e, quindi, prima che l’individuo nasca. Di fatto, non si sono alterati i comportamenti di animali esistenti, ma si è agito per creare un nuovo cane le cui caratteristiche 41 comportamentali fossero, di volta in volta, più adatte alle nostre esigenze (Palmer 2012). Questo punto di vista, che nasce dalla differenza che c’è nel significato della parola “benessere” se questa è riferita ad un singolo individuo o all’intera specie e alla sua evoluzione nel tempo, ci costringe a chiederci se, e con quali modalità, è giusto che l’essere umano agisca artificialmente su un processo di selezione naturale. L’idea di interferire con il processo di selezione naturale per plasmare una specie affinché sia utile alle nostre esigenze è percepita da molti come un delirio dell’uomo che gioca ad essere Dio pretendendo di conformare il mondo circostante alle proprie esigenze. L’utilizzo dell’aggettivo “artificiale” per differenziare l’azione volontaria dell’uomo sulla natura, e distinguere queste azioni dai fenomeni ritenuti “naturali”, è un chiaro segnale di questa visione. L’aggettivo “artificiale”, soprattutto nella cultura occidentale, ha sempre un’accezione negativa e si usa per indicare quei fenomeni che distorcono e rovinano, spinti dall’egoismo dell’uomo, i processi “naturali” che sono invece percepiti come sani e puri. Per evidenziare il sistema di valori alla base di questi due aggettivi è sufficiente immaginare di entrare in un supermercato per comprare un vasetto di marmellata e di trovarsi davanti alla scelta fra due prodotti: uno il cui vasetto riporta la scritta “Marmellata artificiale” e l’altro, identico, ma con la dicitura “Marmellata naturale”. Entrambi i prodotti sono identici perché lo stesso prodotto può essere definito sia “naturale” in quanto composto di frutta e preparato con il metodo che da sempre si usa per fare la marmellata, ma anche “artificiale” in quanto prodotto in un laboratorio utilizzando macchinari e tecnologie inventate dall’uomo. Istintivamente la vostra scelta ricadrà sulla “Marmellata naturale” e, probabilmente, solo il pensiero di assaggiare quella “artificiale” potrebbe addirittura spaventarvi. Riferirsi alla natura come punto di riferimento per valutare cosa sia “giusto” o “sbagliato” fare è un’argomentazione frequente quando si affrontano temi etici difficili da districare. La contrapposizione artificiale/naturale è un argomento che necessita di essere trattato con estrema cura e che spesso viene utilizzato impropriamente per sostenere le più disparate ideologie politiche, sociali, economiche, ecc… (Soper 1995). Come si è evidenziato nei capitoli precedenti, anche i sostenitori delle teorie eugenetiche hanno fatto uso di questa argomentazione rifacendosi alla Teoria di selezione naturale ed indicando i loro obiettivi come necessari al ripristino di qualcosa che avviene normalmente in natura e che la società stava distorcendo artificialmente. 42 L’obiezione più facile all’utilizzo della natura come riferimento per emettere giudizi morali, che già all’inizio dell’900 il filosofo inglese George Edward Moore ha definito Fallacia Naturalistica (Moore 1903), è che anche l’essere umano, con le sue competenze cognitive e la capacità di agire sul mondo per adattarlo alle sue esigenze, è il frutto di un processo di selezione naturale. In natura l’interazione fra ambiente e specie animali e tra le specie animali fra loro è un processo costante ed inevitabile, ritenere che l’uomo non appartenga a questo sistema e meriti un giudizio morale diverso è una visione viziata da antropocentrismo. I fiori delle piante che usano gli insetti per diffondere il proprio polline, e quindi aumentare la loro possibilità di riprodursi, si sono evoluti modificando forma, colore, profumo e sapore, spinti dalla pressione evolutiva esercitata da alcuni insetti che, con le loro preferenze sensoriali hanno favorito i fiori che maggiormente ritenevano attraenti. Allo stesso modo l’essere umano ha esercitato una pressione evolutiva sul lupo che si è modificato secondo gli aspetti che via via lo rendevano più attraente agli occhi dell’uomo. Oltre a questo, l’evidenza che il concetto di “naturale” non può essere utile in alcun modo per attribuire valutazioni morali, emerge anche considerando che la poliomielite o il colera sono fenomeni del tutto naturali, ma che difficilmente possiamo ritenere “buoni” o comunque da non cercare di debellare. Parimenti, gli occhiali da vista come devono essere considerati? E le cure contro il cancro? La gestione del cane ed il governo della relazione che l’uomo intrattiene con esso, nella consapevolezza che quest’ultima avrà un effetto diretto sulla qualità della vita dei cani che nasceranno in futuro, è un argomento difficile da affrontare se si pretende di avere la sicurezza di regole fisse che sono sempre valide per il conseguimento del “bene”. L’approccio naturalistico, che si basa sul ritenere sempre negativa l’influenza dell’uomo sulla selezione del cane perché inevitabilmente affetta da antropocentrismo, rischia di essere una comoda via di uscita che immagina di risolvere il problema non occupandosene più. Nella realtà non esiste un modo affinché l’essere umano smetta di avere una qualche influenza sul cane e, più in generale, ogni essere vivente ha un effetto sull’ambiente nel quale è inserito. Questi effetti provocano una modificazione dell’ambiente e delle altre forme di vita che, a loro volta, saranno stimoli per le evoluzioni di altri esseri viventi. Questo sistema, che apparentemente sembra fermo nelle specie viventi, è in realtà costituito da continui movimenti di adattamento reciproco. 43 Tale meccanismo è stato descritto per la prima volta dal biologo Leigh Van Valen nel 1973 (Van Valen 1973) che lo ha definito “L’Effetto della Regina Rossa” facendo riferimento all’omonimo personaggio del romanzo di Lewis Carroll “Alice attraverso lo specchio” che doveva correre continuamente per non andare in nessun posto. Non esiste un “ideale” di cane che rimane sempre immutato nel tempo e nello spazio che l’essere umano distorce a suo piacimento. Il cane è tale in relazione con l’uomo ed entrambi sono in continua evoluzione sulle spinte che emergono tra di loro e tra loro e l’ambiente circostante. È indispensabile, quindi, accettare questa responsabilità e agire con la consapevolezza che la natura ci ha fornito la capacità, dalla quale non possiamo esimerci, di avere un effetto forte sulle specie che popolano la terra assieme a noi, compreso il cane. La differenza fra un insetto impollinatore e noi è che l’insetto segue ciecamente il suo istinto di sopravvivenza senza essere in grado di capire quale è l’impatto che l’esistenza, sua e della sua specie, sta avendo sull’ambiente circostante. L’evoluzione naturale ci ha fornito la capacità di fare questa analisi, di osservare come il mondo si evolve e di modificare le nostre abitudini qualora gli effetti di queste ci danneggino direttamente o indirettamente. A partire dalla prima metà del XX secolo, l’invenzione della plastica ha rivoluzionato il nostro rapporto con gli oggetti che utilizziamo nella vita quotidiana. La sua facilità di lavorazione, la resistenza nel tempo e il bassissimo costo hanno reso possibile la popolarizzazione di oggetti che prima erano riservati a pochi perché costosi da realizzare. Inoltre, grazie alla plastica è stato possibile migliorare le condizioni di vita delle persone con oggetti più facili da igienizzare, utili per conservare alimenti. Grazie alla plastica è stato possibile ridurre il consumo di energia e ridurre l’inquinamento mediante processi produttivi di oggetti che, se fossero stati costruiti in metallo, avrebbero inquinato molto di più. Dopo mezzo secolo di utilizzo ci siamo accorti che questo materiale porta con sé anche delle criticità e richiedono, per questo, la necessità di un uso più consapevole affinché l’impatto negativo che l’utilizzo ha sul mondo sia ridotto o annullato. Gli ultimi vent’anni hanno visto la nascita di nuove plastiche sempre più adatte ad essere riutilizzate o, addirittura, biodegradabili perfette per gli oggetti usa e getta. Ma non solo, oltre all’evoluzione tecnologica del materiale grazie alla ricerca scientifica, la soluzione ai problemi causati da un uso scorretto di questo materiale sta arrivando anche dal cambiamento delle 44 abitudini delle persone, da una maggiore sensibilità e conoscenza delle conseguenze dei nostri gesti di ogni giorno. Per quanto l’inquinamento causato da decenni di uso irresponsabile della plastica sia ancora lontano dall’essere risolto, il cambiamento è iniziato. Negli ultimi quarant’anni la percentuale di riciclo/riutilizzo di materiali plastici ha continuato a crescere, ma soprattutto è iniziata una rivoluzione culturale che sta, sempre di più, influenzando le scelte dei consumatori. Un sistema di incentivi, economici e sociali, si sta strutturando sia per promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, sia per un uso sempre più consapevole di questo materiale. Nonostante oggi la popolazione mondiale si trovi a dover affrontare un importante problema di inquinamento ambientale a causa della plastica, è difficile ritenere che il mondo sarebbe stato migliore se questo materiale non fosse stato inventato o, per essere ancora più radicali, che è colpa di chi ha inventato e promosso l’uso della plastica se oggi esiste questo problema. Questo esempio è perfetto per descrivere la rivoluzione culturale che è necessario costruire nella relazione tra uomo e cane per far fronte alle criticità descritte in questo testo con la consapevolezza che i problemi non nascono dalla relazione in sé, ma dal modo in cui questa viene declinata, dalle esigenze che intendiamo risolvere attraverso il cane e dalla consapevolezza che esistono insidie che questa relazione può nascondere. Uno strumento utile a rimettere in equilibrio il rapporto uomo-cane è già comparso all’orizzonte del panorama cinofilo. Nei prossimi capitoli proveremo a capire se davvero può essere utile, quali sono le criticità a cui è necessario prestare attenzione e quali strategie sono indispensabili per incentivarne l’adozione. 45 Lo sport senza il cane Il cambiamento scatenato dall’industrializzazione avvenuta nel corso del XIX secolo e l’abbandono delle campagne e delle attività agricole hanno avuto un effetto dirompente sullo stile di vita di milioni di persone attraverso tutta Europa e negli Stati Uniti. Abbiamo visto come questa trasformazione abbia riguardato il rapporto che l’uomo ha intrattenuto con il cane per migliaia di anni, ma è limitativo pensare che questo sia l’unico effetto. Se proprio in quegli anni è iniziata gradualmente la perdita di una funzione pratica come obiettivo principale della relazione tra uomo e cane, qualcosa di molto simile ha riguardato l’essere umano di per sé. La vita in città, il lavoro nelle fabbriche e l’aumento di produttività grazie all’iper-specializzazione, hanno cambiato per sempre il rapporto che le persone avevano con il lavoro, lo sforzo fisico e, soprattutto, con il tempo libero. Per la prima volta larghe fasce di popolazione si trovano a disposizione una quota di tempo libero che ora può essere investita in attività ludiche o ricreative. Non è un caso che proprio nel corso del 1800 vedono la luce il cinema, la radio, il fumetto e la narrativa popolare. Tra queste novità c’è anche lo sport e l’agonismo che fino a quel momento erano attività riservate esclusivamente all’aristocrazia e principalmente incentrate sulla pratica ludica di attività di carattere militare a fini di allenamento. Lo sport, grazie al coinvolgimento del corpo e della mente delle persone in attività educative che promuovevano lo spirito di squadra ed il rispetto delle regole, fu percepito da subito come un ottimo antidoto per contrastare l’al