L'Italia nel Novecento (PDF)
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V. Gotor
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Questo documento fornisce una panoramica dei principali eventi politici e sociali dell'Italia nel XX secolo dalla sconfitta di Adua alla situazione successiva alla guerra, e all'avvento del fascismo. Vengono discussi temi quali l'imperialismo, le crisi politiche, la Grande Guerra e l'ascesa del fascismo e il loro impatto sulla storia italiana.
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L’ITALIA DEL NOVECENTO. DALLA SCONFITTA DI ADUA ALLA VITTORIA DI AMAZON, V. GOTOR Prologo. “Non più una pugna ma un macello.” La sconfitta di Adua e il fallimento della reazione Nel 1896 si consumò la disfatta di Adua che segnò la fine della politica imperialista di Francesco Crispi in Africa. Nei c...
L’ITALIA DEL NOVECENTO. DALLA SCONFITTA DI ADUA ALLA VITTORIA DI AMAZON, V. GOTOR Prologo. “Non più una pugna ma un macello.” La sconfitta di Adua e il fallimento della reazione Nel 1896 si consumò la disfatta di Adua che segnò la fine della politica imperialista di Francesco Crispi in Africa. Nei cinque anni successivi assunsero la carica di presidente del Consiglio Antonio Strabbia, Lugi Pelloux e Giuseppe Saracco dove i primi due riconfermarono l’orientamento autoritario di Crispi. Strabbia annunciò un programma di rinnovamento che nella politica interna stabilì l’elettività dei sindaci in tutti i comuni per diminuire il potere clientelare del ceto parlamentare e concesse l’amnistia ai responsabili dei moti del 1893/94; nella politica estera invece firmò il trattato di Abis Adda con cui chiuse la partita coloniale in Abissinia. Durante il suo governo Strabbia reprimette i moti per il carovita dovuti all’aumento del prezzo del pane che portarono diversi morti e feriti in tutta la penisola. Ma la strage più grave avvenne a Milano quando nel 1898 il generale Fiorenzo Bava Beccaris ordinò di sparare sulla folla causando diversi morti e feriti. Questo portò alle dimissioni di Strabbia e alla nomina del generale Luigi Pelloux che godeva di una reputazione liberale. Il nuovo governo annunciò un progetto di riforma fiscale a favore dei ceti più svantaggiati e un piano di ristabilimento dell’ordine e di pacificazione nazionale che avrebbe dovuto implicare il ritiro dello stato di assedio. Nel 1899 ci fu una proposta di legge che riguardava la pubblica sicurezza in cui le forze di opposizione di estrema sinistra attuarono per la prima volta un efficace ostruzionismo che il governo cercò di superare attraverso una forzatura procedurale. Nel frattempo Pelloux subì un'altra cocente sconfitta quando l’Italia si dovette piegare alla Gran Bretagna che si era opposta alla rivendicazione di una base commerciale a Pechino. Pelloux decise quindi di dimettersi ma ricevette da Umberto I un secondo incarico in cui il nuovo esecutivo si caratterizzò per un programma più spostato a destra. Nel giugno 1900 si tennero le elezioni anticipate che portarono a un’avanzata del fronte di centrosinistra segnando la fine di un ciclo politico che si era rivelato incapace di governare il processo di modernizzazione del paese. L’Italia nella grande guerra L’Europa in fiamme. L’Italia tra neutralisti e interventisti La grande guerra è stato uno dei conflitti più sanguinosi della storia. Essa pose fine ad un prolungato periodo di pace in Europa e provocò una serie di cambiamenti che influenzarono l’intero Novecento. Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria Ungheria. Fino a quel momento Antonio Salandra, il capo del governo aveva preferito mantenere una posizione di neutralità motivandola con il carattere difensivo della Triplice Alleanza. In realtà l’Italia assunse questa posizione perché voleva contrattare con entrambi i fronti le condizioni più vantaggiose per il proprio intervento. Prova di questo è il fatto che nell’aprile 1915 il governo aveva offerto il proprio appoggio agli Imperi Centrali in cambio del Trentino, di Gorizia, Gardisca e delle isole Dalmazia ma l’Austria- Ungheria rifiutò per cui l’Italia indirizzò le proprie attenzioni alla Triplice intesa stipulando il Patto di Londra che prevedeva la cessione all’Italia del Trentino, della Venezia Giulia, di Trieste, di Istria e della Dalmazia. Fino allo scoppio della guerra l’opinione pubblica si divise tra interventisti e neutralisti. Questi ultimi erano capeggiati da Giolitti che riteneva che se l’Italia non fosse entrata un guerra avrebbe potuto ottenere dei riconoscimenti territoriali. Tra gli interventisti abbiamo invece i nazionalisti capeggiati da Gabriele D’Annunzio che desideravano l’espansione dell’Italia in virtù di una volontà di potenza. Al suo interno si posizionarono anche gli ex socialisti riformisti i quali erano 1 persuasi che l’impero Austro Ungarico fosse destinato a sparire; i repubblicani persuasi dall’idea risorgimentale di nuove acquisizioni territoriali; i socialisti rivoluzionari, guidati da Benito Mussolini il quale in quell’occasione fu espulso dal PSI e fondò il Popolo d’Italia e infine i sindacalisti rivoluzionari che individuarono nella guerra l’opportunità di abbattere il vecchio ordine e formare una riforma sociale di massa. A metà maggio Giolitti ottenne il sostegno di 320 deputati e circa 100 senatori a favore del proseguimento delle trattative con l’Austria per cui Salandra presentò le sue dimissioni che furono rifiutate dal sovrano. Contemporaneamente una minoranza mobilitata appoggiata da una violenta campagna di stampa si rese protagonista di azioni intimidatorie e violente. Il Parlamento quindi messo alle corde votò a maggioranza la concessione di poteri straordinari all’esecutivo in caso di guerra. O surdato ‘nnamorato. Dalle offensive sull’Isonzo alla Disfatta di Caporetto Il primo conflitto Mondiale per gli italiani fu fin da subito una guerra di trincea. Tra il 1915 e il 1916 le truppe italiane comandate dal generale Luigi Cadorna assaltarono le fortificazioni austro ungariche lungo il fiume Isonzo riuscendo a conquistare poco terreno al prezzo di 25.000 caduti. Nel corso del 1916 le operazioni militari proseguirono su tutti i fronti con una inversione di strategia da parte degli Imperi Centrali che assunsero una posizione difensiva in Oriente. Sul fronte italiano si registrarono 12 sanguinose battaglie sull’Isonzo in cui era adottata la tattica della guerra d’usura e che portò nel 1916 alla presa di Gorizia. Tuttavia con le prime difficoltà militari iniziò ad esserci una certa insoddisfazione nell’opinione pubblica che determinò la crisi di governo di Salandra, il quale fu sostituito da Paolo Boselli. Nel 1917 due eventi mutarono le sorti della guerra: innanzitutto lo scoppio della Rivoluzione Russa che portò alla ritirata di quel paese dal conflitto; in secondo luogo l’intervento degli Stati Uniti affianco agli Alleati. Il 1917 fu drammatico per l’Italia infatti aumentarono gli episodi di autolesionismo dei soldati e di ammutinamenti. Nella popolazione civile invece i problemi economici e di approvvigionamento alimentare portarono a sommosse in piazza. Sul piano militare infine gli austriaci riuscirono a sfondare le linee a Caporetto infliggendo agli italiani una proverbiale sconfitta: i nemici penetrarono in Veneto facendo prigionieri e solo due settimane dopo l’esercito italiano riuscì ad arrestare l’avanzata austriaca. La disfatta di Caporetto portò alla nascita di un nuovo governo di solidarietà nazionale guidato da Vittorio Emanuele Orlando il quale nominò alla guida dell’esercito Armando Diaz affiancato da Pietro Badoglio. Diaz rinfrancò le truppe spossate allentando i morsi della disciplina e migliorando le condizioni di vita nelle trincee. Eravamo sulla soglia dell’esistenza. Scrittori e scritture di guerra Per comprendere la realtà della guerra vissuta dai ceti popolari è utile rileggere le lettere inviate dai soldati ai propri cari, ovvero una scrittura anonima e spontanea, sgrammaticata e dialettale che permette di cogliere l’evoluzione psicologica di quella massa proletaria, prevalentemente contadina. Il governo sottopose questa scrittura al controllo della censura per evitare che i sentimenti più negativi raggiungessero gli italiani rimasti a casa. Un’ulteriore testimonianza è quella dei diari dei soldati in cui era preponderante l’elemento militare, collegato alle condizioni di vita al fronte: il freddo, la fame, la sete, l’odio verso il nemico. Si tratta di una scrittura contadina e popolare ma non solo perché una schiera di soldati scrittori di estrazione piccolo e medio borghese partecipò alla guerra come ad esempio Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu e Ungaretti. Tra questi il critico Serra nel 1915 pubblicò Esame di coscienza di un letterato in cui si opponeva alla guerra. Ovviamente non tutti gli intellettuali mobilitati al fronte si occupò della letteratura di guerra ma anzi collaborò al Servizio P che si occupò del controllo e del disciplinamento della corrispondenza al fronte e dell’elaborazione di tecniche motivazionali a fini propagandistici. Nel corso del 1917 si fece sempre più strada il convincimento che si dovesse giungere alla pace e questo era dovuto a causa di diversi fattori: le conseguenze 2 commerciali della guerra, il ritardo con cui i soldati statunitensi raggiunsero le truppe europee, l’aumento delle tensioni sociali e la consapevolezza del costo umano del conflitto. Questa posizione fu ulteriormente avvalorata da papa Benedetto XV il quale scrisse una lettera ai capi dei popoli belligeranti in cui chiedeva la fine di quell’inutile strage. Autore importante in questo periodo fu Giuseppe Ungaretti il quale aveva maturato la consapevolezza di come la Grande Guerra avesse cambiato tutto a partire dal rapporto tra le generazioni. Si tratta di un argomento già affrontato dallo scrittore Remarque il quale in Niente di nuovo sul fronte occidentale dava voce alle inquietudini di una intera gioventù si apprestava a tornare a casa indossando gli abiti del reduce. Il Piave mormorava. Il trionfo di Vittorio Veneto e le conseguenze economiche della pace Soltanto nel corso del 1918 maturarono le condizioni per la fine del conflitto. Infatti in quell’anno l’esercito franco inglese riuscì a creare la linea nuova grazie anche agli statunitensi che erano sbarcati in Europa. Ad essa si aggiunse la febbre spagnola che in Italia tra il 1918 e il 1919 contagiò circa quattro milioni e mezzo di italiani. Sul fronte italiano gli austro ungarici erano sul punto di arrendersi per cui i vertici militari decisero di anticipare l’offensiva prevista per il 1919. Si ebbe così la seconda battaglia del Piave in cui gli italiani prevalsero contro l’esercito nemico nella decisiva battaglia di Vittorio Veneto il 24 ottobre. Il 18 gennaio 1919 si aprì la Conferenza di Pace di Parigi dove parteciparono ventisette paesi ad esclusione della Russia e delle potenze sconfitte. Il 10 settembre dello stesso anno venne firmato il trattato di Saint Germain in cui si decise il destino dell’impero Austro Ungarico: l’Italia ricevette il sud Tirolo, Trieste, l’Istria ma rimase sospesa la questione degli ex territori austriaci lungo l’Adriatico perché quando fu stipulato il patto di Londra non era prevista la costituzione di un Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che rivendicava quelle zone tra cui la Dalmazia e Istria. La pace di Versailles fu particolarmente dura nei confronti della Germania tanto da alimentare il rancore degli sconfitti. John Maynard Keynes, consigliere economico durante la Conferenza di Parigi si dimise per scrivere Le conseguenze economiche della Pace in cui pronosticò un esito catastrofico per il mondo intero se le ripartizioni imposte dai vincitori non fossero riviste in maniera più equa. L’economista alla fine ebbe ragione perché le condizioni imposte durante la Conferenza portarono a una instabilità economica che sarà la base del secondo conflitto mondiale. L’avvento del fascismo. Dalle origini al consolidamento del regime. La “vittoria mutilata” e l’impresa fiumana Nonostante la vittoria l’Italia non evitò le conseguenze della crisi economica. Le condizioni di vita molto dure del dopoguerra con le tensioni rimaste irrisolte: il ceto medio soffriva a causa dell’aumento dell’inflazione; i contadini pretendevano una riforma agraria che distribuisse loro le terre, gli operai chiedevano la partecipazione diretta alla gestione delle imprese sul modello dei soviet. Il deterioramento della situazione sociale agevolò l’affermazione del mito della “vittoria mutilata” alimentata anche dalla delusione di quanto ottenuto dal governo italiano durante la Conferenza di Pace e dall’effettiva disparità tra le nazioni vincitrici. Questa immagine si trasformò in un potente fattore di mobilitazione politica e militare: nel 1919 infatti il poeta- guerriero Gabriele D’Annunzio insieme a un gruppo di volontari legionari e militari ribelli occupò Fiume chiedendone l’annessione all’Italia. Fiume rimase occupata dalle milizie dannunziane per sedici mesi dando vita alla Reggenza italiana del Carnaro e per risolvere la questione si dovette aspettare il nuovo governo Giolitti che nel 1920 firmò il trattato di Rapallo in cui assegnò all’Italia Trieste, la Gorizia, Gradisca, l’Istria e Zara mentre il resto della Dalmazia rimase al nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Dopo il fallimento dell’impresa di Fiume, D’Annunzio si rinchiuse nella sua villa- museo del Vittoriale sul lago di Garda dove decise di occuparsi solamente di letteratura. 3 Popolari, fascisti, comunisti. La nascita dei nuovi partiti Tra il 1919 e il 1921 vennero fondati tre nuovi partiti di massa che contribuirono alla corrosione del regime liberale. Il primo è il Partito popolare italiano (PPI) fondato da don Luigi Sturzo nel 1919 che prevedeva l’adozione del sistema elettorale proporzionale, l’allargamento del voto alle donne e la riforma agraria a favore dei contadini. Sempre nel 1919, l’ex socialista Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento a cui parteciparono più di duecento militanti composti prevalentemente da futuristi e sindacalisti rivoluzionari ma anche da superstiti dell’interventismo e da ex combattenti. Nel 1921 Mussolini spiegò sulle pagine de Il popolo d’Italia che l’obiettivo del fascismo era quello di guidare la nazione e che non si tratta di un partito ma di un movimento. I fasci di combattimento di contraddistinsero per una serie di atti di squadrismo diretti contro uomini e cose che assicurarono loro il sostegno e i finanziamenti delle classi possidenti. Si trattava di forze tenute insieme da un intransigente antisocialismo e antisovietismo alimentato da Mussolini nelle pagine de Il popolo d’Italia dove istigava i reduci di guerra all’uso della violenza. Sempre nel 1919 a Bologna si celebrò il congresso del Partito socialista dove la corrente massimalista guidata da Serrati il quale era persuaso dalla necessità di fare come i russi. In seno al partito socialista si formarono due gruppi, uno a Napoli guidato da Bordiga e uno a Torino guidato da Gramsci. Entrambi si proponevano di organizzare gli operai in consigli di fabbrica e di formare un nuovo blocco storico. I due gruppi guidarono la scissione con cui nel 1921 nacque il Partito comunista italiano che era in stretto collegamento con la Terza internazionale. Nel 1919 si celebrarono le prime elezioni con il sistema proporzionale in cui i Fasci italiani di combattimento non ottennero alcun seggio. Davanti a questo fallimento nessuno avrebbe immaginato che tre anni dopo Mussolini avrebbe conquistato il governo dell’Italia. Il biennio rosso Il governo eletto durante le elezioni entrò in crisi subito dopo il risultato elettorale per cui il sovrano conferì il potere a Giolitti. La formula del biennio rosso è stata a lungo utilizzata in Italia e in Europa per indicare gli anni tra il 1919 e il 1920 caratterizzati da un notevole protagonismo operaio e una serie di scioperi. Nelle zone più arretrate i braccianti continuarono l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti proponendo che fossero distribuite ai contadini poveri. Nell’estate del 1920 il conflitto si concentrò sulle fabbriche settentrionali: i primi scioperi si ebbero infatti a Torino, ma la situazione divenne incandescente a Milano dove a fine agosto gli operai occuparono con le armi gli stabilimenti. A settembre l’occupazione delle fabbriche si diffuse a macchia d’olio dal triangolo industriale a tutto il centro nord coprendo anche i settori chimico e tessile. In questa situazione Giolitti adottò una strategia attendista che però fu scambiata per inaccettabile arrendevolezza: da un lato gli industriali pagarono lo scotto di aver dovuto accogliere le rivendicazioni dei sindacalisti mentre in ampi settori della borghesia si diffuse un crescente sentimento di paura e di risentimento nei confronti di una rivoluzione soltanto sfiorata. Da parte loro i socialisti persero di credibilità essendo accusati di incarnare una forza sempre più astratta e parolaia incapace di trarre le dovute conseguenze dalla propria stessa propaganda. La fine dell’occupazione delle fabbriche rivelò che in Italia non sussiteva alcun pericolo rivoluzionario. Ciò nonostante i fascisti agitarono lo spettro dell’Idra socialista per giustificare le loro scorribande. Questo stereotipo si consolidò nel corso del Ventennio per motivare l’ascesa del fascismo come reazione legittimata alla sovversione socialista. La guerra civile e gli opposti estremismi tra rossi e neri. L’offensiva squadrista Gli scontri tra rossi e neri degenerarono in una guerra civile tra due minoranze mobilitate che portò auna esigenza di protezione. Per rispondere a questa esigenza Mussolini supervisionò la formazione di gruppi armati paramilitari che cominciarono ad agire nella Pianura Padana. Queste squadre 4 d’azione scatenarono una spietata guerriglia contro le organizzazioni dei socialisti e del movimento operaio. Tra l’autunno del 1920 e la primavera del 1921 esse si diffusero anche in Lombardia, Veneto, Marche, Toscana, Umbria e Lazio dove trovarono l’approvazione di fasce sempre più ampie della borghesia. La violenza degli squadristi a colpi di manganello e somministrazione forzata di olio di ricino rappresentò l’arma più efficace del fascismo nascente il quale voleva soffocare ogni prospettiva di cambiamento in senso democratico. Le autorità liberali non bloccarono mai i fascisti quando intervennero nelle manifestazioni aggredendo i partecipanti e provocando un elevato numero di morti. Un esempio è quello di San Giovanni in Rotondo dove nell’ottobre del 1920 dove si registrarono undici morti e ventinove feriti. A Bologna a novembre dello stesso anno la sinistra aveva vinto le elezioni amministrative per cui gli squadristi cercarono di occupare la sede del comune a cui seguì una feroce repressione. Dall’autunno del 1920 e per tutto l’anno successivo le squadre fasciste diedero vita a una sorta di biennio nero in cui la logica della conquista travalicò quella della sfida. Tre furono infatti gli episodi che funestarono il mese di marzo del 1921: innanzitutto dopo la morte di uno studente anarchico e di un carabiniere, le camicie nere uccisero il fondatore dei comunisti fiorentini per cui il giorno dopo per ritorsione i rossi uccisero un fascista figlio di un piccolo industriale. Il secondo fatto avvenne ad Empoli quando le Guardie rosse assaltarono un convoglio di marinari a Livorno provocando nove morti. Infine il 23 marzo 1921 scoppiò una bomba presso il Teatro Diana a Milano dove furono accusati alcuni esponenti di una frangia terroristica del movimento anarchico- individualista milanese. All’indomani dell’atto criminoso, il Corriere della sera addossò la responsabilità dell’accaduto al clima di opposti estremismi accusando l’aspra e sanguinosa lotta tra fascisti e socialisti. L’eutanasia del regime liberale I fascisti interpretarono meglio di altri la crisi del giolittismo offrendo a diversi settori della classe dirigente lo scalpo dei socialisti. Con le elezioni anticipate del 1921 sancirono l’alleanza nei cosiddetti blocchi nazionali dei fascisti con i liberali e i nazionalisti ottenendo in tutto 105 seggi. Nell’estate 1921 il nuovo governo promosse un patto di pacificazione tra fascisti e socialisti a cui partecipò anche Mussolini, anche se questo non significò la fine della violenza squadrista. A ciò due elementi contribuirono per peggiorare ultimamente il quadro: il 1° agosto 1922 ci fu lo sciopero generale promosso dai socialisti e il 1° ottobre dello stesso anno furono espulsi dal partito Turati, Saragat, Pertini, Matteotti. Mussolini colse al volo la situazione trattando con tutti e facendo credere ai suoi interlocutori di essere indispensabili per la riuscita del governo. La marcia su Roma. Autonomia di un colpo di Stato anomalo Mussolini prese il potere attraverso un piano su due livelli: sul lato istituzionale egli trattò con i liberali per ottenere l’ingresso dei fascisti in un governo di coalizione; dall’altro organizzò una marcia su Roma per esercitare una pressione di natura extraparlamentare sul sovrano. Le squadre fasciste infatti avevano pianificato di concentrarsi introno a Roma il 27 ottobre del 1922 per poi conquistare i centri nevralgici della capitale. Alla notizia Vittorio Emanuele III il giorno dopo decise di rifiutare lo stato d’assedio che il giorno prima il capo del governo gli aveva posto facendo precipitare la situazione. Sui motivi che indussero Vittorio Emanuele III a non firmare lo stato d’assedio si sono fatte diverse ipotesi ma sono tutti concordi ad attribuire una grave responsabilità al voltafaccia del re dovuta da una serie di motivazioni: una crisi di fiducia del personale, la volontà di evitare lo scoppio di una sanguinosa guerra fratricida oppure il timore per l’infedeltà di una parte dell’esercito tra cui Diaz. Vittorio Emanuele III incaricò quindi Salandra di formare un nuovo governo anche con i fascisti ma Mussolini rifiutò per cui il 30 ottobre il re gli diede l’incarico. Quella sera le squadre fasciste entrarono in città sfilando davanti al re. Mussolini formò un governo di coalizione con i liberali, i 5 nazionalisti e i cattolici popolari e successivamente affermò che le sue intenzioni al Parlamento nell’atto di fiducia con il cosiddetto “discorso del bivacco” dove ottenne 306 voti. Mussolini al governo e la nuova legge elettorale L’esame dei primi provvedimenti legislativi del governo Mussolini consente di analizzare il carattere autoritario dello stato che assunse via via le caratteristiche di un regime imperniato sulla figura del duce. Il 3 dicembre 1922 l’esecutivo promulgò una legge che diede per un anno pieni poteri all’esecutivo nell’ambito della pubblica amministrazione per ridurre le funzioni dello stato. In concreto egli avviò un processo di epurazione che avrebbe messo alla guida dei diversi settori della pubblica amministrazione elementi di provata fede fascista. Pochi giorni dopo questa legge consentì l’istituzione del Gran Consiglio del fascismo ovvero un organo ibrido di collegamento tra il partito, il governo e lo stato che avocò in se alcune funzioni prima appartenenti al Parlamento. Figura di spicco fu quella di Giovanni Gentile che promosse una riforma scolastica che elevò l’obbligo scolastico a 14 anni d’età, istituì l’esame di stato finale, parificò la scuola pubblica con quella professionale con quella confessionale, introdusse l’obbligo dell’insegnamento della religione cattolica sin dalle elementari, finanziò in modo agevolato le scuole cattoliche e stabilì la supremazia dell’insegnamento delle materie classiche e umanistiche a partire dalla filosofia. Papa Pio XI iniziò quindi a cedere sempre con maggiore attenzione Mussolini ed egli si adoperò affinché nel partito popolare si affermasse la corrente più clerico conservatrice anche se il congresso di Torino del 1923 deluse le sue aspettative in quanto prevalse la tesi di don Sturzo sull’incompatibilità tra la concezione popolare dello stato e il carattere totalitario dello stato. Mussolini quindi fece pressioni presso le più alte gerarchie vaticane e insieme alla espressa volontà di Pio XI questo portò all’abbandono dell’incarico di don Sturzo ad abbandonare l’incarico di segretario del Partito. Nel luglio 1923 Mussolini varò una nuova legge elettorale di tipo maggioritario che rappresentò la nascita del regime fascista. Si tratta della Legge Acerbo che introdusse due novità: istituì un collegio unico nazionale diviso in sedici circoscrizioni e attribuì alla lista vincitrice un cospicuo premio di maggioranza assegnando i 2/3 dei seggi al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Tutti con voi. Il delitto Matteotti e la nascita del regime. Nell’aprile 1924 si tennero nuove elezioni anticipate: la lista nazionale sostenuta dall’azione squadristica dei fascisti ottenne il 65% dei suffragi. Il 30 maggio dello stesso anno il segretario del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti denunciò in Parlamento le violenze e i brogli elettorali chiedendo l’annullamento delle elezioni. Per questo motivo nel giugno dello stesso anno un gruppo di squadristi guidati da Amerigo Dumini lo rapì a Roma e lo uccise. Nel delitto furono coinvolti anche il capo ufficio stampa della Presidenza del consiglio, Cesare Rossi, e il segretario amministrativo del Partito fascista, Giovanni Marinelli per cui è difficile credere che il capo del fascismo ne era all’oscuro. Il cadavere di Matteotti fu abbandonato in fretta e furia nella campagna romana e ritrovato diversi mesi più tardi suscitando indignazione in tutto il paese. Subito dopo il rapimento Matteotti il duce chiese e ottenne la fiducia in Senato. Tra coloro che votarono a favore ci fu Benedetto Croce il quale affermò che quel suo voto era prudente e patriottico e che era scaturito dal non veder vanificato il molto di buono che il fascismo aveva realizzato. Il 27 dicembre di quello stesso anno il Mondo pubblicò un memoriale di Cesare Rossi, che era stato allontanato dal Governo, il quale affermava che il duce aveva indirettamente promosso il delitto e altre azioni squadriste. Questo fece sembrare Mussolini con le spalle al muro e per questo motivo il 3 gennaio del 1925 egli in un discorso davanti al Parlamento si assunse la responsabilità politica, morale e storica di quanto era avvenuto. 6 Dalle leggi fascistissime al plebiscito del 1929 Tra il Novembre 1925 e l’ottobre del 1926 Mussolini subì quattro attentati: il primo avvenne nel novembre 1925 ad opera dell’ex deputato socialista Tito Zaniboni; il secondo nel 1926 ad opera di Violet Gibson, una donna irlandese malata di mente; il terzo da parte di un ananrchico che lanciò un ordigno contro l’auto di Mussolini; iol quarto attuato da un quindicenne che esplose un colpo di pistola all’indirizzo del capo del governo mancandolo e venne linciato sul posto dai fascisti e impiccato in effige. Questa serie di attentati fornì al regime il pretesto per introdurre un pacchetto di leggi speciali repressive che presero il nome di leggi fascistissime. La prima riguardava la figura del capo del governo a cui venne riconosciuto il potere di nominare e revocare i ministri, rispondendo della sua azione solo davanti al re; la seconda legge si occupò dei giornali e autorizzò la messa in liquidazione della vecchia e autorevole Federazione della Stampa italiana. Quindi tutta la stampa doveva essere quindi sottoposta al controllo dei prefetti per essere censurata nel caso in cuii avesse avuto dei contenuti antigovernativi e antinazionali. La terza legge proibì il diritto di sciopero dei lavoratori insieme alle serrate degli imprenditori e stabilì che soltanto i sindacati legalmente riconosciuti avrebbero potuto stipulare contratti collettivi. La quarta norma prescrisse lo scioglimento di tutte le forze politiche; il quinto provvedimento modificò il sistema delle autonomie locali: il podestà fu nominato dal re e direttamente subordinato ai prefetti prendendo posto del ruolo del sindaco. L’ultimo provvedimento restaurò la pena di morte (abolita nel 1889) per i reati come l’attentato alla vita del re e del capo del governo, la cospirazione contro l’indipendenza, l’unità nazionale e l’insurrezione. Stabilì anche confino contro gli antifascisti ovvero l’allontanamento obbligatorio in località lontane e isolate. Inoltre creò l’OVRA, una polizia politica segreta preposta al controllo della repressone degli avversari del regime. Nel marzo 1929 si svolsero le prime elzioni a carattere plebiscitario in cuio cittadini dovettero pronunciarsi su una lista unica di candidati fascisti compilata direttamente dal Gran consiglio. Un uomo come me al timone. Dal liberismo al protezionismo. Lo stato corporativo I primi anni del regime corrisposero a un periodo di ripresa economica internazionale che Mussolini seppe sfruttare applicando in modo ecclettico e disinvolto i dettami di una politica liberista. Tra il novembre 1922 e l’aprile del 1923 infatti il governo varò una serie di misure che costituirono il segnale di riconoscenza nei riguardi di quei settori che avevano consentito l’ascesa. Il mondo industriale guardò con favore all’affermazione di Mussolini tanto che garantì l’eliminazione degli scioperi, l’abolizione dei sindacati, la diminuzione delle imposte fiscali e l’abbandono del progetto di rendere pubblica la titolarità delle partecipazioni azionarie. Dal 1925 tuttavia ci furono una serie di difficoltà economiche a causa della ripresa dell’inflazione e della perdita di valore della lira sul mercato dei cambi. Per questo motivo nel 1926 Mussolini con un discorso tenuto a Pesaro rivalutò la lira e fissò il cambio con la sterlina a quota 90 (ovvero 90 lire per una sterlina), che si ottenne aumentando le imposte dirette sui consumi e riducendo i salari delle classi più svantaggiate e degli impiegati pubblici. Questo provvedimento produsse effetti positivi sebbene fu molto duro in quanto rallentò l’inflazione e incrementò l’afflusso di capitali stranieri tra cui gli USA che alla vigila della crisi di Wall street del 1929 decise di investire sull’Italia. Anche il mondo agrario approfittò dei provvedimenti fascisti. In questo settore il governo Mussolini realizzò due interventi: il primo era un piano straordinario di bonifiche integrali che prese il nome di Guerra delle acque. Essa dispiegò un ingente sforzo economico e umano, alimentato dall’immigrazione interna di migliaia di contadini provenienti dalle zone più povere dell’Emilia, del Friuli e del Veneto. Inoltre portò la nascita di nuovi centri urbani quali Maccarese, Littoria (l’odierna Latina), Sabaudia e Aprilia. Il secondo intervento riguardò la cosiddetta “battaglia del grano” che aveva l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza nella produzione del cereale, con un’estensione quantitativa e qualitativa della superficie coltivata e 7 un investimento tecnologico in macchinari, pesticidi e fertilizzanti usati su larga scala. Nel 1927 il Gran consiglio promulgò una carta del lavoro dove vennero stabiliti i principi cardine del corporativismo fascista. Si trattava di una dottrina politica, giuridica e sociale che mirava a superare la contrapposizione tra capitale e lavoro nell’ambito di ogni singola categoria professionale. Le corporazioni avrebbero consentito di scavalcare l’interclassismo cattolico, l’individualismo liberare e la lotta di classe socialista, ma in pratica significarono la soppressione di tutte le libertà sindacali. Solo nel 1934 si ebbe l’attuazione del nuovo ordinamento cooperativo che prevedeva la nascita di 22 corporazioni con l’obiettivo di definire una nuova e originale forma di rappresentanza organica sul piano politico e sociale destinata a sostituire la democrazia parlamentare. Nel corso degli anni ’30 dunque Mussolini offrì all’opinione pubblica internazionale un’immagine dello stato corporativo una terza via tra il capitalismo e il comunismo che sapesse superare i problemi di entrambi ma che sapesse anche cogliere il meglio di entrambi. Per questo motivo riscosse successo non solo nella Germania di Hitler ma anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Il papa alpinista. Il concordato e il rafforzamento della dittatura La conciliazione tra Stato Italiano e Santa sede fu un fattore decisivo per il consolidamento del fascismo. Nel febbraio del 1929 furono infatti stipulati i Patti Lateranensi ovvero tre documenti che regolano la questione romana sostituendo la legge Guarantigie del 1871. Con i Patti lateranensi venne stabilito: 1) L’Italia avrebbe riconosciuto città del Vaticano come uno Stato sovrano e indipendente di piena proprietà della Santa Sede 2) Una convenzione finanziaria con cui l’Italia versava un’indennità a parziale risarcimento della perdita dei domini dello Stato Pontificio 3) Il libero potere spirituale e di culto della chiesa 4) L’obbligo dell’insegnamento della religione cattolica 5) Il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio canonico Tre giorni dopo la firma del concordato Pio XI ricevette i professori e gli studenti della Università Cattolica di Milano e affermò che per risolvere la questione ci voleva un papa alpinista come lui ma dall’altro anche un uomo come Mussolini. Attraverso i patti Lateranensi come ha notato lo storico Renzo de Felice, Mussolini riuscì a rafforzare il carattere nazionale del regime a fanno delle posizioni intransigenti e in parte anche di quelle liberali al suo interno. Non a caso le proteste più dure avvennero dal filosofo Giovanni Gentile e dai suoi seguaci che videro svanire l’obiettivo di trasformare l’attualismo e la dottrina integralista dello Stato corporativo. Anche per questo motivo la stessa Santa Sede non esitò a individuare nell’attualismo gentiliano come proprio nemico tanto che mise all’indice le opere e le censurò. Una spia del perdurare di queste tensioni si ebbe nel 1931 quando venne alla luce un contrasto tra fascismo e Azione Cattolica. L’organizzazione infatti aveva visto eccezionalmente salvaguardata la sua autonomia con il concordato ottenendo di continuare a svolgere la propria attività ma in ambito esclusivamente religioso. Nel 1931 il fascismo iniziò a mal tollerare la presenza di antifascisti e di non fascisti all’interno dell’associazione per cui iniziò un aspra campagna di stampa e promosse una serie di assalti squadristici ai circoli dell’Azione cattolica. Papa Pio XI rispose con un’enciclica dal titolo Non abbiamo bisogno dove espresse l’inconciliabilità tra il totalitarismo fascista e il cattolicesimo. L’iniziativa del Papa costrinse Mussolini a trovare un accordo in base al quale l’Azione cattolica poté sopravvivere in ambito religioso e spirituale astenendosi da ogni attività culturale sportiva, ricreativa e politica. 8 Gli anni del consenso Se potessi avere mille lire al mese. Gli anni del consenso Nel corso degli anni ’20 l’Italia aumentò la sua dipendenza dal capitale finanziario statunitense e anche per questo motivo la crisi del 1929 fu molto dura. Il governo quindi reagì attraverso una politica di matrice dirigista e protezionistica che contemplasse un rafforzamento del ruolo dello stato. Nel 1933 Mussolini infatti fondò l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale) fondato da Alberto Benduce il quale acquistò il controllo azionario delle imprese e delle principali banche miste italiane allo scopo di rilanciare lo sviluppo industriale. Il sistema Benduce evitò di realizzare delle vere e proprie nazionalizzazioni ma preferì imboccare la strada degli interventi pubblici finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario delle singole imprese. In ambito sanitario il governò sovvenzionò o agevolò la costruzione di nuovi ospedali ma intervenne anche in modo selettivo e squilibrato a svantaggio del sud dove cinquemila comuni rimasero sguarniti di ogni struttura medica. Per riassorbire la crescente disoccupazione lo Stato intervenne nel settore di lavori pubblici come la creazione di strade, la bonifica e la creazione di nuove città (Carbonia, Fertilia e Mussolinia, San Cesareo e Guidonia). Tra il 1933 e il 1935 inoltre edificò la città universitaria di Roma, uno dei principali complessi architettonici dell’età fascista. Nel 1935 ci fu lo scoppio della guerra in Etiopia che costrinse la Società delle nazioni a stabilire delle sanzioni contro l’Italia che rimasero fino al luglio 1936 per cui il governo abbracciò un modello autarchico ovvero la totale autosufficienza del paese. Tuttavia la scelta dell’autarchia e le politiche economiche del paese non si rivelarono economicamente vantaggiose per il paese. Alcuni indicatori come il reddito pro capite e i beni di consumo durevole hanno rivelato come l’Italia non solo rimase un paese arretrato ma accentuò il divario rispetto agli altri stati europei portando a oltre un milione di disoccupati. Un segnale di questo è possibile coglierlo nella canzone Se potessi avere mille lire al mese del 1939 in cui un povero sempre in bolletta desiderava un modesto impiego senza pretese, una casettina carina e una mogliettina giovane e carina. Io sono il Pòppolo. Il culto del duce tra propaganda e censura Nelle dittature di massa il potere della narrazione del potere. Mussolini costituì per oltre un ventennio il principio e la fine della propaganda fascista, la principale macchina del consenso al regime che con il suo governo si identificava. Questo fu colto da Luigi Pirandello il quale spiegò che Mussolini aveva costruito di se stesso un personaggio, un poco a somiglianza propria e un po’ a somiglianza di ciò che gli italiani volevano che fosse. Come ha notato Giulio Bollati Mussolini superò la teatralità convenzionale di D’Annunzio per adottare tutti i mezzi di comunicazione di massa moderni, dalla radio al cinema, alla fotografia. Nel 1937 fu istituito infatti il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPoP) che ebbe il compito di far esaltare le virtù di Mussolini. Sarebbe però sbagliato ritenere che questo culto fosse solo il risultato della propaganda del regime. Esso derivò infatti anche da una spinta spontanea e dal basso che colpì molti osservatori stranieri stupiti dalla quantità di foto presenti in diversi negozi soprattutto a Roma. Dunque dentro il fascismo, il mussolinismo brillò di luce propria contribuendo in maniera rilevante al successo della dittatura come ci viene raccontato da Carlo Emilio Gadda in Eros e Priapo. L’adesione di massa degli italiani al regime è un dato ormai acquisito dalla storiografia ed è il frutto non solo della violenza e della paura ma anche della capacità di persuasione del duce e di una serie di istituzioni. Naturalmente all’interno di ciò che è stato definito con il termine consenso ci sono motivazioni diverse e differenti per cui è necessario interrogarsi sulla qualità del consenso. Come è stato fatto notare, gli italiani non furono tutti fascisti convinti e nemmeno tutti antifascisti costretti a mostrare entusiasmo per il regime. Per ottenere ciò fondamentale fu il controllo della comunicazione di massa, censurando giornali, libri, trasmissioni radio, spettacoli 9 cinematografici e teatrali, ma anche mediante il reindirizzamento della stampa quotidiana. La censura intervenne anche nel proteggere la vita privata del duce in particolare sull’esistenza di un figlio naturale di nome Benito Albino avuto dalla trentina Ida Dalser. Entrambi furono internati in un manicomio giudiziario per impedire di dare pubblicità allo scandalo. La censura più sottile fu una sorta di autocensura coatta preventiva in cui ogni autore divenne giudice dei limiti di se stesso. Al massimo quanto era consentito era fischiettato nelle canzoni di fronda ovvero una serie di motivetti di successo dove si alludevano a quelli che erano i vizi del regime come ad esempio Pippo non lo sa e Maramao perché sei morto, uscita il giorno dopo la morte di Costantino Ciano, padre di Galeazzo e consuocero di Mussolini. Nel corso del ventennio ebbero ampia diffusione anche le barzellette su Mussolini e sui gerarchi fascisti che rappresentarono una valvola di sfogo e in alcuni casi anche un dissenso politico. Con ogni probabilità il controllo dei mezzi di comunicazione di massa ebbe il risultato di affermare nel senso comune la falsa idea che il regime fascista fosse riuscito a cancellare la corruzione in Italia. In realtà studi recenti hanno ampliamente dimostrato la diffusione di affari illeciti e arricchimenti illegittimi da parte di gerarchi spregiudicati dediti a traffici e malversazioni di ogni genere. Giovinezza, primavera di bellezza. L’organizzazione del consenso La progressiva fascistizzazione dello stato avvenne grazie all’attività di una serie di organizzazioni che accompagnavano la vita dell’italiano medio dalla fanciullezza alla vecchiaia. Nel 1925 venne infatti istituita l’Opera nazionale dopolavoro (Ond) con l’obiettivo di organizzare il tempo libero dei lavoratori con iniziative ludiche e sportive. Nel 1925 nacque inoltre l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia e nel 1930 i Fasci giovanili di combattimento preposti all’educazione sportiva e militare dei giovani tra i 17 e i 21 anni. Nel 1926 il regime fondò l’Opera nazionale Balilla e i Gruppi di universitari fascisti i quali organizzarono i giovani universitari. Con queste iniziative il fascismo seppe rispondere a una effettiva domanda di socialità, protezione e assistenza che attraversava larghe fasce della popolazione italiana. Il partito nazionale fascista svolse la funzione di perno gerarchico e burocratico intorno al quale far ruotare queste organizzazioni. L’intenzione del regime si deduce anche dalla pervasività con cui si identificò il nuovo calendario con un tempo, dei riti e delle cerimonie scandite sulla misura del fascismo come ad esempio l’uso dei numeri romani, o la data del 28 ottobre resa festa nazionale per ricordare la marcia su Roma. Sempre sul piano simbolico si impose il culto della romanità come recupero della grandezza imperiale classica grazie all’azione del fascismo: nel 1925 venne infatti proibita la stretta di mano nelle pubbliche amministrazioni in quanto considerata poco igienica e sostituita con il saluto romano. Anche il vestiario subì un processo di disciplinamento e la camicia nera divenne la divisa ufficiale dello squadrismo e del Pnf. L’uso del color nero era in quanto esso richiamava la morte intesa come minaccia ma anche come ricerca di una bella morte ovvero l’estremo sacrificio con cui il militante fascista esaltava il proprio spirito guerriero. Il controllo riguardò anche la pulizia del linguaggio sempre più stringente con l’autarchia: l’italizzazione iniziò dai cognomi per poi estendersi ai vocaboli stranieri come ad esempio i sandwich divennero i tramezzini o Luis Amstrong divenne Luigi Braccioforte. Un ruolo importante nel successo del regime lo ebbe anche la radio e il cinema: in quegli anni nacque infatti l’Eiar e l’Istituto Luce che produceva cinegiornali proiettati in tutte le sale prima del film vero e proprio. In ambito cinematografico si avviarono anche iniziative di rilevo quali la Mostra del cinema a Venezia e il Centro sperimentale di Cinema a Roma. L’uso di strumenti di comunicazione moderni furono affiancati a mezzi di comunicazione più tradizionali come le scritte murali o i motti attribuiti a Mussolini, oltre che al ritorno in auge di antiche forme di teatro popolare come i Carri di Tespi che allestivano spettacolo itineranti in tutta la Penisola. 10 Il totalitarismo imperfetto. Istruzione, cultura e architettura Il progetto di fascistizzazione della società italiana si estese anche nella scuola in cui i giovani vennero educati al culto del duce. Nel 1929 infatti venne adottato il libro unico di Stato dove dominava la propaganda dei valori del fascismo con riferimenti apologetici all’azione del governo e alla presenza ossessiva di Mussolini: onore, Dio, patria, religione, ordine, razza, impero, virilità, famiglia, la donna come angelo del focolare. Nel 1929 i maestri elementari dovettero subire l’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo pena la decadenza del posto, esteso poi anche agli insegnanti delle scuole medie e ai docenti universitari. Nel 1934 il ministero dell’Istruzione impose un analogo giuramento per conseguire la libera docenza quindi all’inizio della carriera accademica e anche in questo caso rinunciarono in pochissimi. Il controllo del regime si fece sentire anche nel mondo della cultura con il progetto di definire una nuova civiltà fascista. Mussolini infatti riorganizzò la Società italiana degli autori e degli editori e promosse una serie di riviste legate al regime tra cui Gerarchia, Critica Fascista e Primato. Anche l’architettura del regime ebbe un ruolo molto importante in quanto mise in scena sorta di fascismo di pietra che doveva scolpire un manifesto imperituro della civiltà fascista diventare il simbolo di una rinnovata identità nazionale che aveva riscoperto il suo destino imperiale. L’insieme di queste iniziative mostrano come la dittatura espresse una volontà e un progetto totalitari ovvero un esperimento e un’esperienza di dominio politico integrale. Il regime si propose infatti di realizzare una rivoluzione antropologica che mirava alla creazione di un uomo nuovo abitatore di una civiltà originale fondata sulla militarizzazione e sulla sacralizzazione della politica e sulla organizzazione e la mobilitazione delle masse integrate e attraverso uno stato totalitario. Alcuni storici hanno comunque preferito definire il fascismo un totalitarismo imperfetto, una formula che cercava di allontanare il focus dell’attenzione dalla volontà e dai programmi del duce. Infatti il fascismo a differenza di altri regimi totalitari (es. il nazismo o lo stalinismo) non riuscì mai ad esercitare un controllo totale sulle masse come mostra ad esempio la Chiesa cattolica. Nati sotto il segno del camaleonte. Il ruolo del filosofo Gentile nella cultura fascista Giovanni Gentile conservò sempre la fiducia di Mussolini che si estese fino alla Repubblica di Salò. L’impresa di maggior rilievo del filosofo fu la fondazione nel 1925 dell’Istituto della Enciclopedia italiana che dal 1929 avviò la pubblicazione dell’omonima opera. Anche per questo motivo il filosofo assunse un ruolo di intermediario tra la cultura italiana e il fascismo rimanendo un punto di riferimento ideologico del regime anche se i dirigenti del Pnf non sempre lo videro di buon occhio. Si tratta di un progetto che fu abbracciato anche da Giovanni Bottai ministro dell’educazione nazionale e fondatore della rivista Primato. Egli offrì ospitalità a studiosi, artisti, poeti e giornalisti che saranno protagonisti del dopoguerra. Figura importante è quella di Carlo Dionisotti il quale nel libro Geografia e storia della letteratura italiana affermò che il filosofo dell’Italia fascista fu uno dei rappresentati maggiori e più tipici per vari motivi tra cui la capacità di organizzazione culturale. Gentile fu assassinato da un nucleo di partigiani comunisti nel 1944. Tra i sospettati dell’assassinio di Gentile ci fu Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo tra i maggiori collaboratori del filosofo alla Enciclopedia italiana, il quale nel 1938 aveva svolto il ruolo di guida a Hitler e Mussolini durante la visita da loro compiuta a Firenze e a Roma e negli stessi giorni aveva scritto nel proprio diario di sentirsi animato da un antifascismo generico. Il sogno e la scommessa della caduta di Mussolini quindi vagheggiò all’interno della sede dell’Enciclopedia italiana mentre si attendeva al lavoro di studio sotto l’ala di Gentile. Questa ampia gamma di atteggiamenti poté convivere in una sola personalità e furono rappresentativi di una generazione costretta alla dittatura, all’ambiguità, alla doppiezza e al tradimento. Di questa generazione, nata sotto il segno del camaleonte il filosofo Gentile rimase a lungo un faro ideologico in grado di illuminare non solo la cultura del regime ma anche il dissenso alla dittatura. 11 Mi domando se ci sciuperanno tutta la gioventù. Gli antifascismi al plurale. Il rapimento e l’omicidio Matteotti indussero alcuni politici e intellettuali a prendere le distanze dal fascismo. Tra il 1926 e il 1927 il clima per gli antifascisti divenne invivibile e per questo motivo essi furono costretti a fuggire. Tra questi vi furono Emilio Lussu, Gobetti, Bruno Buozzi, Pertini, Salvemini, Saragat, Turati, Don Sturzo e Palmiro Togliatti. Nel 1928 scoppiò una bomba alla Fiera campionaria di Milano poco prima del passaggio di Vittorio Emanuele III e questo fornì l’occasione per un ulteriore repressione dell’antifascismo militante. Il regime fascista processò e incarcerò quanti non riuscirono a trovare riparo all’estero. Tra questi il più famoso fu Antonio Gramsci che fu condannato a 20 anni di carcere con l’accusa anche di organizzazione di banda armata e che durante la sua detenzione scrisse i Quaderni dal carcere. Un altro personaggio illustre incarcerato fu De Gaspari che scontò 16 mesi di detenzione e in seguito fu costretto a ritirarsi a vita privata. Gli imputati accusati di antifascismo venivano processati in un apposito tribunale speciale che fu attivo fino al 1943. Poteva anche accadere di sommare la pena del carcere a quella del confino, come è accaduto ad Alterio Spinelli che fu arrestato all’età di 20 anni e che trascorse 10 anni di prigione e poi 6 di confino. Ben presto le località di confino si trasformarono in luoghi di resistenza e di solidarietà come ci raccontano le lettere scritte dai detenuti ai loro famigliari. Un esempio è quello di Vittorio Foa che fu arrestato nel 1925 all’età di 25 anni e ne trascorse oltre otto nelle carceri del regime. Faccetta nera. La conquista dell’Etiopia e la fondazione dell’Impero La politica estera del fascismo ebbe due fasi differenti. Nel corso degli anni 20 infatti Mussolini si adeguò al clima di distensione postbellico partecipando nel 1924 al Patto di Roma dove ottenne Fiume nel 1925 alla Conferenza di Locarno e nel 1927 riuscendo a stringere un patto con l’Albania che divenne un satellite dell’Italia. Per quanto riguarda la politica coloniale il regime si impegnò a consolidare i possedimenti in Eritrea e in parte della Somalia riuscendo poi ad ottenere il controllo della Tripolitania in Libia. Nell’aprile del 1935 Mussolini convocò a Stresa una conferenza dove ribadì la necessità di riaffermare gli accordi di Locarno, la tutela dell’indipendenza austriaca e il rispetto della Pace di Versailles che non prevedeva un riarmo tedesco. Inoltre egli sperava che la Francia e l’Inghilterra non si sarebbero opposte alla ripresa della politica espansionistica che aveva già in animo di attuare in Africa. Si attuò così la seconda fase della politica estera che promosse una svolta in senso imperialista. Nell’Ottobre 1935 infatti l’Italia aggredì l’Etiopia governata dal negus incurante che essa faceva parte della Società delle nazioni. Nel corso del conflitto gli italiani utilizzarono gas asfissianti contro le popolazioni civili senza considerare il protocollo di Ginevra firmato dall’Italia nel 1928 e negando a lungo l’uso di questa arma. A maggio del 1936 l’esercito regio guidato da Badoglio fece il suo ingresso ad Addis Abeba e quattro giorni dopo Mussolini potè dichiarare la nascita dell’Impero Fascista, mentre Vittorio Emanuele III prese anche il titolo di Imperatore di Etiopia. Alla guerra successe una guerriglia interna che le truppe italiane non riuscirono mai a soffocare completamente nonostante la durissima repressione. Nelle settimane successive alla vittoria in Etiopia il regime toccò il picco del consenso interno perché un’ondata di orgoglio nazionalista percorse gli italiani coinvolgendo gli ambienti militari, culturali e industriali. Indotto dal successo Mussolini rafforzò la sua politica imperialista e l’alleanza con la Germania nazista mediante il patto chiamato Asse-Roma Berlino che comportò l’uscita dell’Italia dalla società delle nazioni. Nel 1938 dopo la Conferenza di Monaco il governo fascista sostenne l’occupazione tedesca della regione ceca dei Sudeti e l’anno successivo l’esercito regio occupò il Regno d’Albania che divenne un protettorato italiano di cui Vittorio Emanuele III assunse il trono. 12 La pura razza italiana e le leggi contro gli ebrei. Verso la guerra Nel novembre del 1938 il governo fascista promulgò il decreto Provvedimenti per la difesa della Razza Italiana. Il razzismo fascista rivendicava orgogliosamente di essere un concetto puramente biologico escludendo quindi considerazioni di carattere storico, linguistico e religioso, in quanto si considerava di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica anche se egli professa una religione diversa da quella ebraica. Nel corso del dopoguerra si è voluto far credere che quanto sia accaduto sia un incidente di percorso ma non è così: esse furono il risultato di un desiderio di Mussolini di compiacere Hitler. Il decreto antisemita classificò di razza ebraica oltre 51 mila italiani che da un giorno all’altro persero i più elementari diritti di cittadinanza. Degradati nella loro dignità e perseguitati essi dovettero sopportare anche ingenti confische, furti, espoliazioni di beni che arricchirono i loro connazionali. Tra il 1938 e il 1941 tra i quattromila e i cinquemila ebrei si convertirono al cattolicesimo per sfuggire in parte alle conseguenze della legislazione fascista. Inoltre una martellante campagna di stampa accompagnò la diffusione delle leggi razziali in cui emerge la rivista La difesa della razza sostenuta dal Minculpop e finanziata dalle principali banche. Anche i principali quotidiani nazionali si accordarono sul nuovo clima attraverso delle pagine che furono le più vergognose della storia. Un esempio è il Corriere della sera che per circa 5 mesi lanciarono una forte campagna antisemita. Le leggi razziali poterono contare soprattutto dell’approvazione dei più giovani, degli intellettuali e del disinteresse della maggior parte della popolazione. Non mancarono comunque quanti vollero esprimere solidarietà ma il più delle volte avvenne all’interno della sfera privata. L’antisemitismo di stato quindi eresse un muro tra gli ebrei italiani e gli altri spaccando in due l’Italia come ci racconta Primo Levi nel romanzo Se questo è un uomo. In effetti i provvedimenti antiebraici furono il frutto di una lunga incubazione che rivitalizzò alcuni luoghi comuni presenti nell’800 presenti in maniera minoritaria nella cultura italiana. In secondo luogo le leggi antiebraiche scaturirono dall’ideologia della superiorità della razza e della civiltà europea che aveva accompagnato tutta l’avventura coloniale. Importante fu anche l’atteggiamento della chiesa cattolica che vedeva negli ebrei gli uccisori di Gesù Cristo e che negli ambienti più intransigenti e reazionari sfociò in un vero e proprio atteggiamento antisemita. Questo atteggiamento fonda le proprie radici nella prima età moderna quando gli ebrei erano stati costretti a risiedere nei ghetti e indossare segni contraddistintivi. Le leggi raziali infine rappresentano anche la logica e inevitabile conseguenza della mentalità antiegualitaria del fascismo dominata da una volontà di potenza che non poteva consentire alcuna forma di diversità etnica e religiosa al suo interno. Nel maggio del 1939 venne firmato il patto d’acciaio che suggellò l’asse tra Germania nazista e Italia fascista. L’Italia nella seconda guerra mondiale Vincere e vinceremo. L’Italia in guerra fra l’Africa e i Balcani La Seconda guerra mondiale coinvolse oltre 50 stati e fu combattuta per terra e per mare su 5 fronti, inoltre si distinse per l’eccezionale potenza degli armamenti utilizzati. Il primo settembre 1939 la Germania invase la Polonia senza una preventivata dichiarazione di guerra che rese inevitabile lo scoppio del conflitto come era stato segretamente deciso precedentemente da Hitler e Stalin nel patto Moltov-von Ribbentrop. Hitler infatti sperava di conseguire al tempo stesso sia la neutralità dell’Unione sovietica sia mano libera nei confronti di Francia e Inghilterra. Stalin allo stesso tempo era convinto dei ritardi dell’Armata rossa e della necessità di prendere tempo per un conflitto ormai inevitabile. Due giorni dopo l’invasione della Polonia, la Gran Bretagna e la Francia entrarono in conflitto contro la Germania mentre l’Italia dichiarò la sua non belligeranza, ovvero l’assunzione di una posizione di neutralità. In effetti Mussolini sin dal maggio del 1939 Mussolini aveva dichiarato a Hitler che l’Italia non sarebbe potuta entrare in guerra sia a causa della sua impreparazione militare 13 sia perché desiderava stabilizzare politicamente la situazione in Albania. Nella prima fase di guerra l’esercito nazista si rivelò inarrestabile e conquistò in rapida successione la Polonia, la Danimarca e la Norvegia. Nella primavera del 1940 Hitler penetrò a fondo nel territorio transalpino e nel giugno dello stesso anno occupò Parigi. Questo convinse Mussolini a modificare i propri piani strategici e anticipare l’entrata dell’Italia in guerra: il 10 giugno 1940 Mussolini infatti entro in guerra contro Francia e Inghilterra. Le truppe italiane si affettarono ad attaccare la Francia infliggendo ai transalpini quella che venne poi definita una “pugnalata alla schiena” visto che il paese era in procinto di capitolare. Mussolini contemporaneamente prospettò per l’Italia una guerra parallela al fianco della Germania con operazioni militari autonome che avrebbero dovuto avere come teatro i Balcani, il Mediterraneo e l’Africa. L’intento del duce era quello di fondare un nuovo Impero Romano composto da tre cerchi concentrici: il primo centrale composto da Italia, Slovenia, Dalmazia, isole Ionie della Grecia, Nizza e Corsica; il secondo formato da Grecia, Montenegro, Croazia, Albania e Serbia; e infine il terzo composto dalle colonie africane e da alcuni paesi che dovevano avere un rapporto privilegiato come ad esempio Roma, la Turchia, l’Egitto, lo Yemen e l’Iraq. Per fortificare questo piano espansionistico egli dunque stipulò nel settembre 1940 un patto tripartito con Giappone e Germania in cui i tre paesi si autolegittimarono come potenze guida dell’Europa centrosettentrionale e dell’area mediterranea dell’estremo oriente. La realtà concreta però rovinò i progetti di Mussolini in quanto il conflitto si rivelò più duro del previsto. In Africa orientale infatti l’esercito italiano nell’agosto del 1940 conquistò la Somalia ma nel dicembre dello stesso anno si ebbe la controffensiva inglese che attaccò la l’Etiopia e nel febbraio 1941 occupò l’Eritrea e la Somalia portando il duca d’Aosta Amedeo di Savoia alla resa e alla firma dell’Armistizio. Sul fronte settentrionale dell’Africa l’esercito regio invase l’Egitto per impadronirsi del canale di Suez. Gli inglesi tuttavia erano meglio equipaggiati per combattere nel deserto e recuperarono i territori perduto. Nel febbraio 1941 gli italiani inoltre occuparono la Libia orientale facendo oltre 100.000 prigionieri. Per quanto riguarda il fronte balcanico nell’ottobre del 1940 attaccò la Grecia senza preavvertire la Germania ma fu ricacciato in Albania e questo portò alle dimissioni di Badoglio. Nel frattempo continuava nel Mediterraneo la guerra navale della marina italiana contro gli inglesi al largo della Grecia dove prevalsero nettamente gli inglesi che possedevano i radar e la macchina di decifrazione Ultra che permetteva di conoscere in anticipo i piani degli italiani. Gli scenari quindi per l’Italia cominciarono a complicarsi. In meno di un anno il progetto fascista di una guerra parallela infatti si era rivelato una illusione per cui iniziarono a insinuarsi dubbi sulle sorti della guerra e sul regime. Senza vittoria non c’è sopravvivenza. La resistenza inglese, l’invasione della Russia, gli Stati Uniti in Guerra. Nel 1941 la Germania dominava l’Europa. L’unica potenza in grado di resistere era la Gran Bretagna che aveva come premier Wiston Churchill. Il secondo semestre del 1941 fu decisivo in quanto si aprirono due fronti: da un lato la Germania invase l’Unione Sovietica; dall’altro gli Stati Uniti dopo essere stati colpiti dall’aviazione nipponica nella base navale di Pearl Harbor entrarono in guerra contro il Giappone. I tedeschi aggredirono l’Unione sovietica in modo improvviso e feroce, con una guerra di annientamento al di fuori di ogni convenzione internazionale e rispetto del codice d’onore militare. Tuttavia le piogge autunnali e il gelo invernale rallentarono l’azione tedesca per cui la resistenza militare tedesca riuscì a difendere Mosca e a infliggere alla potenza tedesca la seconda battuta d’arresto. Nei primi mesi del 1942 le forze dell’Asse raggiunsero il massimo della loro espansione in quanto sul fronte orientale riuscirono ad assediare Stalingrado mentre su quello africano arrivarono a 100 km da Alessandria. Tuttavia proprio in quel momento le sorti della guerra cambiarono in quanto gli Alleati passarono sul piano militare a una offensiva con un’unica strategia bellica interdipendente elaborata su scala mondiale. Sul fronte africano le corazzate tedesche 14 avanzarono nel maggio del 1942 in Egitto dove gli inglesi, forti del fatto che le navi britanniche riuscivano a intercettare i rifornimenti via mare, passarono alla controffensiva. In ambito produttivo l’ingresso del potentissimo apparato economico statunitense immise nel teatro di guerra nuovi aerei, carri armati, navi da guerra e mitragliatrici. Sul piano diplomatico nel gennaio 1943 Franklin Delano Roosevelt, presidente degli USA, Churchill e i generali francesi De Gaulle e Giraud si incontrarono segretamente a Casablanca per pianificare la strategia bellica e decisero di aiutare ulteriormente l’Unione sovietica mediante rifornimenti e di attaccare la Germania dall’Italia, programmando uno sbarco degli Alleati in Sicilia. In Africa gli alleati riuscirono a spezzare le ultime resistenze soltanto nel maggio 1943 quando entrarono a Tunisi costringendo i nemici alla resa. Centomila gavette di ghiaccio. La ritirata in Russia Al seguito delle centosessanta divisioni tedesche che presero parte alla campagna di Russia troviamo i militari italiani. Nell’agosto 1942 le corazzate naziste guadarono il fiume Don e assediarono Stalingrado mentre era in corso una grave crisi alimentare. Dal novembre 1942 a Stalingrado si svolse una delle più sanguinose e grandi battaglie della storia che si protrasse fino al febbraio 1943 e che vide coinvolti oltre 220.000 soldati italiani male equipaggiati per resistere all’inverno russo. Soltanto 10.000 di loro riuscirono a tornare a casa mentre si dovettero registrare quasi 90.000 morti e dispersi come ci viene raccontato da una schiera di scrittori. Un esempio è quello di Mario Rigoni Stern, autore di Il sergente nella neve. L’opera si soffermava sulle drammatiche condizioni psicologiche e materiali in cui si svolto il ripiegamento delle armate italiane nel gennaio 1943. Un altro autore è l’ufficiale degli alpini Nuto Revelli il quale partecipò alla campagna di Russia dove rimase ferito. Egli scrisse Diario di un alpino in Russia, La guerra dei poveri e la Strada del Davai dove mise in luce sia la critica civile alle responsabilità dei più alti vertici militari e politici dell’Italia fascista, sia il dramma di una guerra vista con gli occhi dei suoi protagonisti più umili. Quando in Italia arrivarono le notizie del fronte Russo i consensi di Mussolini e del regime subirono una radicale caduta e si diffuse una sorta di spontaneo antifascismo. Questo portò a un mutamento delle sorti del conflitto nel giro di sei mesi: gli Alleati si trovarono infatti contemporaneamente all’attacco sul fronte orientale, pacifico e mediterraneo, mentre le potenze dell’Asse erano ormai costrette a resistere senza però rovesciare l’esito della guerra. Cornuto e come voleva vincere? Lo sbarco degli alleati in Sicilia I servizi segreti inglesi prepararono lo sbarco in Sicilia degli alleati grazie a una elaborata attività spionistica e di depistaggio: per nascondere l’effettivo luogo dell’azione militare l’intelligence britannica infatti abbandonò alla deriva delle coste spagnole un cadavere con indosso dei documenti con i finti piani di sbarco in Grecia e Sardegna e l’indicazione della Sicilia come falso obiettivo. Questo permise il 10 luglio 1943 lo sbarco degli Alleati in Sicilia che portò il fascismo ad avere le ore contate. Questo ci viene mostrato anche dall’attività di spionaggio dei britannici che organizzarono ad Alessandria d’Egitto dove venne controllata la posta spedita dall’Italia ai prigionieri di guerra e che consentì agli inglesi di raccogliere numerose e dettagliate notizie sulle condizioni di vita degli italiani sotto il regime. Da essi emerse come il consenso del regime dopo le disastrose campagne militari sul fronte africano, balcanico e russo era ridotto ai minimi termini. Prova è che nel marzo 1943 ci fu un’improvvisa ondata di scioperi per la pace e contro il carovita promossi in modo clandestino dai comunisti, dai socialisti e da altri gruppi antifascisti. Gli alleati anglo americani, dunque, guidati dal generale Dwight Eisenhower nel giro di un mese completarono l’occupazione della Sicilia infliggendo pesanti perdite alle forze dell’Asse aiutati anche dalla criminalità mafiosa locale. I principali esponenti di Cosa Nostra infatti avevano contatti diretti con i capofamiglia americani e furono contattati preventivamente da un’apposita squadra di servizi segreti con 15 l’obiettivo di suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli all’azione degli Alleati, anche se di questa attività mancano documenti certi. Interessante comunque è osservare come gli Alleati concessero un salvacondotto giudiziario a quanti in quegli anni decisivi avevano aiutato in modo palese o segreto la causa dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. L’operazione in Italia era comunque vista dagli Alleati come un tassello di una vasta strategia militare su scala mondiale che portò di conseguenza all’intensificazione dei bombardamenti: nel luglio del 1943 venne bombardata Roma, costringendo il Papa Pio XII a lasciare le mura vaticane pe recarsi nel popolare quartiere di San Lorenzo. Il 4 agosto fu bombardata Napoli, il 19 agosto Foggia e il 29 agosto Orte e numerose città italiane tra cui Reggio Calabria, Taranto, Rimini, Cagliari, La Spezia, Pisa, Grosseto, Pescara, Milano, Ancona. Uno degli episodi più tragici avvenne però a Milano dove nell’ottobre del 1944 gli alleati che avrebbero dovuto colpire gli stabilimenti della Breda a Sesto San Giovanni distruggendo una scuola elementare. Gli Alleati scelsero soprattutto obiettivi in prossimità di raffinerie petrolifere, snodi ferroviari, zone industriali e operaie con lo scopo di fiaccare il morale della popolazione. Saluto al Duce! Il colpo di Stato del 25 luglio e il tradimento dell’Inglese Grandi Tra il 24 e il 25 luglio del 1943 durante una seduta del Gran Consiglio, Dino Grandi, presidente della Camera e altri 18 gerarchi misero Mussolini in minoranza. Gran parte dei sottoscrittori non aveva l’intenzione di abbattere Mussolini ma di limitare i suoi poteri all’ambito politico lasciando la direzione militare al re. L’intervento dei vertici militari fu avallato da Vittorio Emanuele III determinò la caduta di Mussolini e fu il risultato di un colpo di stato preparato da giorni dal re. Tuttavia è difficile credere che Grandi, il quale fu per sette anni ambasciatore in Gran Bretagna non avesse agito in quei settori della monarchia e dell’esercito filo britannici che volevano liberarsi di Mussolini. Alle 4 del 25 luglio Grandi incontrò il ministro della Real Casa affinché il sovrano fosse informato dell’esito della riunione. Nel pomeriggio del 25 Mussolini si recò in udienza da Vittorio Emanuele III a Villa Savoia alle 17 convinto che le decisioni del Gran consiglio avessero valore consultivo ma ne uscì alle 17.30 in stato d’arresto. Il fascismo dunque cadde dopo oltre 20 anni di dittatura, da un colpo di stato all’altro. Finalmente quel porco lo abbiamo cacciato! Una notte italiana Quando si sparse la notizia della destituzione di Mussolini nelle principali città e nei piccoli centri si tennero riunioni, e cortei spontanei, inoltre vennero distrutte statue, stemmi ed effigi del regime e si formarono degli assembramenti davanti alle carceri per chiedere la liberazione dei prigionieri politici. In quelle ore di giubilo si verificarono anche scene grottesche come quella del direttore del Corriere della sera che affermò: “finalmente quel porco lo abbiamo cacciato” anche ese i giornalisti gli consigliarono prudentemente di squagliarsela. In molti si dovettero convincere che sarebbero bastati una scrollata di spalle per voltare finalmente pagina e uscire dal drammatico imbuto in cui erano finiti. Ora che il duce era caduto molti si chiedevano che fare, se mescolarsi alla folla festante o aspettare in silenzio. In fondo lo stesso zelo con cui loro erano stati fascistissimi si sarebbe potuto trasformare in una risorsa alla quale appellarsi per sperare di diventare l’esatto contrario. A volerla dire tutta, essi erano stati fascisti perché giovani, perché innamorati del duce, perché ci credevano, perché ci tenevano alle loro famiglie, perché volevano fare carriera e perché desideravano il bene dell’Italia. Chi ero io e tu chi eri? Cominciò così. L’8 settembre In quelle ore sospese per la maggior parte degli italiani la caduta di Mussolini non significò solo la fine della dittatura ma anche della guerra, ma non fu così. Pietro Badoglio infatti, nominato al posto di Mussolini si affrettò a dichiarare che la guerra sarebbe continuata al fianco dell’alleato tedesco. In 16 realtà il nuovo capo del governo imbastì prontamente delle trattative segrete con gli anglo americani per ottenere l’armistizio che fu pubblicizzato solo l’8 settembre. Questo portò a una drammatica crisi nazionale. La goccia che fece traboccare il vaso fu la decisione il 9 settembre 1943 del re, di Badoglio e di alcuni esponenti della casa reale di abbandonare Roma. La decisione di abbandonare Roma, seppure giudicata negativamente da numerosi storici serviva a mantenere la continuità dello stato in un momento in cui era prevedibile la reazione tedesca. I tedeschi infatti nei giorni successivi occuparono oltre 2/3 dell’Italia, i Balcani e la Grecia. In questa situazione l’esercito regio si dissolse in quanto cominciarono ad arrivare sul fronte notizie contraddittorie: da un lato lo Stato lasciò ai singoli comandanti la libertà di assumere verso i tedeschi l’atteggiamento più consono alla situazione, dall’altro precisò che non doveva essere presa iniziativa di atti ostili. Particolarmente drammatica fu la situazione di quei reparti operanti all’estero dove si registrarono alcuni episodi di resistenza militare contro i nazisti come nell’isola di Cefalonia dove un numero imprecisato di soldati si rifiutarono di deporre le armi e furono uccisi in combattimento o uccisi in massa dopo la cattura. Nel sentire comune quindi la data dell’8 settembre rimase sinonimo di catastrofe nazionale. Nel corso degli anni ’80 e ’90 gli studiosi Renzo de Felice e Ernesto Galli della Loggia sono intervenuti sull’ argomento in un dibattito che voleva ridiscutere criticamente il paradigma antifascista. Secondo De Felice la morte della patria sarebbe il risultato di due movimenti tellurici: da un lato la crisi e l’inabissamento dell’autorità dello Stato a causa della sconfitta in guerra e del comportamento dei vertici politici militari e istituzionali, dall’altro l’emissione di una intrinseca e tradizionale debolezza etico- civile e politica degli italiani che spinse tanti italiani a sperare nella sconfitta militare della propria patria come unica soluzione per liberarsi del fascismo. Per Galli della Loggia invece l’8 settembre ha rappresentato una spaccatura del paese che la guerra di liberazione non sarebbe riuscita a risanare se non in parte lasciando comunque in eredità una Repubblica senza patria. Negli stessi anni altri studiosi hanno maturato convincimenti diversi ritenendo che l’8 settembre in realtà costituito l’inizio della riscossa verso la libertà e la rinascita del paese. I problemi su questo dibattito furono affrontati anche da Walter Barberis il quale ha sostenuto che le origini della debolezza politico- statuale dell’Italia devono risalire a svariati secoli prima dell’Unità d’Italia. Contemporaneamente all’allontanamento del re da Roma, il 9 settembre 1943, avvennero due fatti importanti: sul piano politico i rappresentanti di tutte le forze antifasciste istituirono il Comitato di liberazione nazionale (Cln) composto dal partito comunista, dal partito socialista do unità proletaria, dalla Democrazia Cristiana, dal Partito democratico e dal Partito d’azione; sul piano militare il 9 settembre gli Alleati sbarcarono a Salerno riuscendo nel giro di una settimana a far arretrare i tedeschi. Il 1 ottobre gli Alleati entrarono a Napoli, già liberatasi grazie a una rivolta popolare durata 4 giornate. Il 13 ottobre Badoglio ruppe definitivamente gli indugi e dichiarò guerra alla Germania. In questo modo l’Italia ottenne dagli anglo americani l’ambiguo titolo di cobelligerante, ovvero non pienamente alleato ma neppure nemico e vide l’intensificarsi delle bombe nelle sue città. Dal Giorno più lungo al Gran sole di Hiroshima L’offensiva anglo statunitense nel luglio 1943 contro Italia e Russia e nel gennaio 1944 contro la Germania costituirono due azioni militari funzionanti che avevano l’obiettivo di stringere Hitler in una duplice morsa. All’alba del 6 giugno 1944 iniziò una delle più complesse operazioni militari della storia, lo Sbarco in Normandia, il D Day, chiamato anche il Giorno più lungo. Nei due mesi successivi gli alleati sconfissero la resistenza tedesca avanzando nel territorio francese e il 25 agosto del 1944 obbligarono i tedeschi alla resa. Dal 4 all’ 11 febbraio Churchill, Stalin e Roosevelt si riunirono a Jalta per discutere dei futuri assetti dell’Europa. Questo incontro fu molto importante perché si decise la divisione del Vecchio continente che influenzerà l’Europa sino al triennio 1989-1991. Sul fronte occidentale gli Alleati lanciarono l’assetto finale contro il nazismo nel febbraio 1945 e nel giro di due 17 mesi occuparono tutta la Germania ricongiungendosi a fine aprile di quell’anno con i militari sovietici. Dopo l’attacco finale dei sovietici su Berlino Hitler ordinò la resistenza a oltranza e il 30 aprile si suicidò con la neosposa Eva Braun. Il 2 maggio i sovietici entrarono a Berlino e il 7 maggio l’esercito tedesco firmò la capitolazione. L’8 maggio il neopresidente USA Harry Truman, Churchill e Stalin annunciarono la fine della guerra in Europa. Nel frattempo sul fronte del Pacifico il conflitto proseguiva. Per questo motivo i vertici militari statunitensi decisero di cambiare strategia: si decise di utilizzare la bomba atomica. Tra il 6 e il 9 agosto 1945 due ordigni rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki incenerendo complessivamente 120.000 giapponesi. L’8 agosto nel frattempo l’Unione sovietica aveva dichiarato guerra al Giappone invadendo la Manciuria e la Corea. Il Giappone, dunque stremato dai bombardamenti accettò la resa incondizionata il 15 agosto e firmò l’armistizio il 2 settembre del 1945. Quando l’Italia fu spezzata in due Il trono di cartapesta. Il neofascismo di Salò e la Repubblica sociale italiana Dopo la caduta del fascismo, Mussolini fu trasferito nelle Isole di Ponza e della Maddalena e poi a campo Imperatore nei pressi del Gran Sasso. Il 12 settembre 1943 un reparto di paracadutisti riuscì a liberare Mussolini che nei giorni successivi annunciò di voler formare un nuovo esercito per riprendere la guerra insieme ai nazisti, di fondare il Partito fascista repubblicano e di costituire la Repubblica sociale italiana (RSI) chiamata anche Repubblica di Salò dal il nome dalla cittadina sul lago di Garda e che estese il suo controllo su gran parte dell’Italia centrosettentrionale. La RSI si configurò come uno stato fantoccio sotto il dominio tedesco che aveva bisogno di mantenere il controllo diretto sull’Italia. Sul piano militare Mussolini riuscì ad arruolare circa 300.00 effettivi nell’esercito repubblicano ma la decisione introdurre la leva obbligatoria pena la fucilazione dei familiari aumentò il numero di coloro che si unirono alla Resistenza. Il ritorno sulla scena di Mussolini consentì il processo contro i gerarchi fascisti che lo avevano sfiduciato, tra cui Galeazzo Ciano, che aveva sposato la figlia del duce. Nella prima settimana del 1944 gli operai settentrionali si resero protagonisti di uno sciopero generale che rivelò come il consenso di Mussolini fosse ormai gravemente minato. Il capo del fascismo era consapevole dell’inevitabilità del suo declino come mostrano le lettere spedite da Mussolini alla sua amante Claretta Petacci in cui emerge uno stato di prostrazione ma anche di crisi politica. La via dei topi. La persecuzione degli ebrei italiani Gli ebrei italiani rimasti a vivere nelle zone occupate dai nazisti sperarono che dopo il 25 luglio 1943 le leggi raziali fossero abrogate. Ma non fu così: i vertici della RSI individuarono infatti in questo ambito il modo per dimostrare ai tedeschi la propria efficienza. Il 16 ottobre 1943, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania i nazisti catturarono nel ghetto di Roma 1023 cittadini italiani di origine ebraica e li deportarono ad Auschwitz. Questo fu solo uno dei tanti episodi di genocidio tra il 1943 e il 1945 che coinvolsero le città di Venezia, Brescia, Torino, Milano e Firenze. Rispetto agli ebrei il comportamento delle gerarchie vaticane fu oscillante tra l’estrema prudenza e l’eccesso di reticenza. Le gerarchie vaticane infatti e più in generale il clero cattolico assunsero un atteggiamento bifronte giacché in numerosi casi aiutarono gli ebrei a nascondersi nei conventi. Allo stesso tempo è stato accertato che con l’operazione Odessa aiutarono numerosi gerarchi nazisti a fuggire all’estero. Per esempio nell’agosto del 1944 Pio XII incaricò il vescovo Alois Hudal di organizzatore della cosiddetta via dei topi ovvero il sistema di fuga dall’Europa utilizzato dai nazisti, di visitare i campi di concentramento. Il 18 aprile 1944 Mussolini con un decreto istituì l’ispettorato generale per la razza posto alle dipendenze del duce col compito di rendere ancora più efficiente la 18 campagna razzista. Gli ebrei una volta catturati, erano indirizzati nel campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena e poi nel nord Europa. Un altro campo di concentramento era quello di Trieste che era dotato di forno crematorio e che era sotto il controllo diretto dei tedeschi. Non mancarono comunque episodi di solidarietà e di protezione da parte di anonimi italiani che scelsero la via dell’umanità e della difesa della vita. Un esempio è quello di Giorgio Perlasca, il quale pur avendo aderito al fascismo, durante una missione di lavoro a Budapest finse di essere il console generale spagnolo e salvò oltre cinquemila ebrei ungheresi. Una mattina mi son svegliato. La resistenza. Resistere in Italia La resistenza italiana iniziò dopo la caduta del fascismo e si protrasse per i venti mesi successivi. Alla fine del 1943 i partigiani erano poche decine di migliaia ma nell’estate 1944 divennero circa 80.000 per raggiungere circa 200.000 nella primavera del 1945. Al suo interno combatterono persone di ogni età, origine sociale, provenienza geografica e si registrò una forte presenza femminile. Nei primi mesi le bande organizzavano imboscate in montagna, nelle vallate, attraverso la tattica del mordi e fuggi. Nelle città invece erano presenti Gruppi di azione patriottica (GAP) organizzati dai comunisti, che realizzarono azioni di guerriglia urbana ed erano impegnati in operazioni di reclutamento, propaganda clandestina e sabotaggio. Secondo lo storico Claudio Pavone la Resistenza in Italia rappresentò un processo storico in cui si intrecciarono tre tipi di conflitto: una “guerra patriottica” di liberazione dall’occupazione nazista; una guerra civile che vide i partigiani combattere contro i fascisti aderenti alla Repubblica di Salò; una guerra di classe che auspicava la trasformazione della lotta contro i nazifascisti nell’occasione per realizzare una rivoluzione di tipo sovietico in Italia. Col trascorrere dei mesi emerse che i partigiani non avevano solo l’obiettivo di combattere i fascisti e di cacciare lo straniero in Italia ma anche quello politico di riorganizzare lo Stato e le istituzioni in una forma democratica più avanzata di quella liberale in vigore prima di Mussolini. Nella Resistenza i monarchici cercavano una occasione di riscatto per il re e per l’esercito motivati non solo dal loro antifascismo ma anche da sentimenti anticomunisti; i liberali agognavano la realizzazione di un ideale di libertà universale e la restaurazione dello stato prefascista; i repubblicani vedevano il completamento del risorgimento, ma ponevano come pregiudiziale il cambiamento della forma istituzionale dello stato; i socialisti lottavano per il compimento di un percorso di emancipazione tra i lavoratori che portasse all’instaurazione del socialismo; i comunisti aspiravano a “fare come in Russia” e quindi all’abolizione della proprietà privata; i partigiani cattolici infine puntavano alla valorizzazione di una società interclassista e solidale senza l’auspicio di particolari rivolgimenti sociali. In particolare questi ultimi dovettero superare il conflitto interiore tra la scelta di uccidere praticando la lotta armata e la volontà di ribadire principi cristiani giudicati traditi dal nazifascismo. Questi modelli di liberazione costituirono la fotografia di un rapporto dialettico tra i partigiani e le forze alleate, tra i resistenti e le istituzioni della monarchia, tra l’esigenza di affermare una nuova sovranità nazionale e i condizionamenti stranieri. Se si vuole comprendere la Resistenza italiana nella sua complessità bisogna allora adottare un modello interpretativo plurale che restituisca l’essenza unica di quell’evento. Accanto alla Resistenza armata e a quella militare infatti si sviluppò una terza forma di resistenza, ovvero quella di coloro che caduti nelle mani dei tedeschi si rifiutarono di collaborare e non vollero arruolarsi nell’esercito repubblichino. Per questo motivo essi furono deportati nei territori del Terzo Reich per rinchiuderli nei lager con lo status di Internati militari italiani (IMI) così da non riconoscere loro le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra e di poterli costringere a condizioni di vita degradanti. La lotro memoria è stata a lungo dimenticata sia per la scarsità delle fonti documentarie sia perché rappresentò il triste ricordo di una guerra perduta che non aveva potuto trasformarsi in un movimento di liberazione. Se la Resistenza armata si affermò come forma di lotta più importante comunque fu 19 possibile dalla presenza di una Resistenza civile meno appariscente ma più importante che col trascorrere del tempo divenne la protagonista di tante forme di opposizione quotidiana ai fascisti e ai nazisti. Le motivazioni di questa Resistenza non avevano solo ragioni di carattere politico e ideologico ma derivavano anche da sentimenti di pietà, solidarietà e umanità o anche da convincimenti d’ispirazione pacifista, religiosa e patriottica che rappresentavano l’eredità più preziosa del movimento partigiano. Un tanfo nauseabondo di carne bruciata. Le stragi naziste Per spezzare il legame logistico e ideale tra resistenza civile e armata i tedeschi e i fascisti di Salò dispiegarono una controguerriglia che prese la popolazione e che per la maggior parte delle volte costituirono delle rappresaglie in risposta ad atti di guerriglia compiuti dai partigiani. In totale si contarono circa 10.000 morti la metà dei quali donne, anziani e bambini a partire dall’eccidio di Boves che nel settembre del 1943, si verificò la prima strage nazista in Italia che contò 21 civili uccisi. A volte le stragi naziste servirono a reprimere le rivolte popolari ma spesso rappresentarono delle gratuite esplosioni di rancore e vendetta. Sotto questo profilo esemplare è il caso di Sant’Anna di Stazzema, sulle pendici delle Alpi Apuane che nell’agosto del 1944 fu raggiunta da un battaglione tedesco guidato da alcuni italiani che facevano da battistrada e cominciò la carneficina, soprattutto di donne, anziani e bambini. Un altro caso fu quello delle Fosse Ardeatine dove nel marzo 1944 fucilarono su esplicito ordine di Hitler 335 ostaggi civili come rappresaglia per un attacco compiuto dai partigiani gappisti di via Rasella. L’azione armata di via Rasella ha costituito nei decenni successivi un luogo comune della polemica di segno antifascista. Da più parti si è provata a stabilire una responsabilità diretta dei gappisti in relazione al successivo eccidio delle Fosse Ardeatine, adducendo come argomento che esso non sarebbe avvenuto se costoro non si fossero consegnati alle autorità. Infine abbiamo la carneficina di Acerra che causò la morte di 110 civili, la strage di Bellona in cui persero la vita 54 persone e l’eccidio di Caiazzo dove vennero assassinati 22 abitanti, avvenuti nell’ottobre del 1943. Su gran parte di questi episodi calò a lungo il silenzio e la rimozione sia a causa della Guerra fredda sia anche perché si volevano ristabilire buone relazioni diplomatiche con la Germania dell’ovest. Solo negli anni ’90 del Novecento con la scoperta dell’“armadio della vergogna” è stato possibile ricostruire quanto effettivamente era accaduto. Questo ha permesso di processare alcuni criminali nazisti tra cui Erich Priebke, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine. Combattere per la bandiera italiana con per lo “straccio” russo. Gli scontri tra i partigiani Nella resistenza non mancarono momenti di aspro conflitto. L’episodio più grave si verificò nel febbraio del 1941 in Friuli Venezia Giulia dove un gruppo di gappisti uccidesse diciassette membri della brigata Osoppo di orientamento cattolico, liberale e azionista sospettati di intelligenza con il nemico per contenere l’avanzata dell’esercito jugoslavo. Accadde anche che fossero partigiani di altro orientamento ideologico a eliminare quelli comunisti ma gli episodi più frequenti sono meno noti perché non spendibili lungo i consueti e frequentati criminali della polemica anticomunista e antifascista. Sempre ai confini della Penisola si registrarono i massacri delle foibe che furono il risultato di una conflittualità tra gli italiani e le popolazioni slave che si trascinava da tempo. Allo scopo di eliminare i nemici infatti i fascisti utilizzarono sin dal 1940 delle voragini naturali disseminate sull’altopiano del Carso denominate foibe. Diverse testimonianze affermano che essi erano soliti gettare gli oppositori sloveni e croati nel baratro dopo un colpo alla nuca. All’indomani della caduta del fascismo alcune migliaia di italiani furono vittime di una ondata di vendetta promossa dai resistenti jugoslavi legati al capo comunista Tito di origine croata. In alcune zone del Friuli le forze locali e i partigiani integrarono le azioni delle formazioni jugoslave per cui entrarono in conflitto con altri resistenti italiani impegnati a bloccare gli eccidi e a difendere il territorio nazionale dalle 20 mire espansionistiche di Tito. In quelle settimane il PCI adottò una duplice strategia: da un lato giustificò Tito e dall’altro sollevò il tema della difesa dell’italianità di Trieste. Durante la Resistenza avvennero anche episodi di vendetta e giustizia sommaria amministrata da improvvisati tribunali partigiani contro soggetti sospettati di delazione o accusati di collaborazionismo. Questi scontri si verificarono in una zona dove la presenza del fascismo agraria era stata particolarmente violenta e vessatoria sul piano sociale erano accaduti episodi di delazione e drammatici fatti di sangue. Ovviamente di fronte a fatti tanto drammatici ampie fasce della popolazione italiana preferirono aspettare lo sviluppo degli eventi senza schierarsi né con i fascisti nNené con i tedeschi né con i partigiani. L’intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non solo per la propria libertà ma anche per quella di coloro che erano contro di loro e di quanti preferirono non schierarsi. Per spiegare l’articolazione di un fenomeno così complesso bisogna considerare che molte bande partigiane si aggregarono in modo casuale in quanto i loro aderenti non avevano motivazioni ideologiche definite ma un carattere generazionale essendo giovani ribelli, nati ed educati sotto la dittatura. Molti sbandati si unirono ai partigiani perché non sapevano dove andare e cosa fare della loro vita, mossi da un generico ideale di rigenerazione del paese che coincideva col desiderio di cambiare la propria esistenza. Realizzare l’unità del popolo italiano. Togliatti e la svolta di Salerno Nel gennaio 1944 le truppe angloamericane sbarcarono ad Anzio con l’obiettivo di raggiungere Roma ma furono bloccati dai tedeschi dopo pochi chilometri. A febbraio la Sicilia, la Sardegna e le zone nel frattempo liberate del Mezzogiorno furono restituite alla giurisdizione del governo italiano andando a formare il Regno del sud affiancato da una commissione di controllo alleata che si occupò di aspetti del governo non solo militari ma anche di tipo civile che guardavano al prossimo futuro di una Italia nuova. Solo il 18 maggio 1944 gli Alleati riuscirono a sfondare la linea Gustav che passava per Cassino. Qui i soldati nordafricani inquadrati nel corpo di spedizione francese si resero protagonisti di migliaia di violenze sessuali su donne, uomini e bambini. Con la conquista della fortezza di Cassino i tedeschi furono costretti a ritirarsi lungo la cosiddetta linea gotica che attraversava l’appennino tosco emiliano. Nel gennaio 1944 in occasione del primo congresso, il Cln si espresse per l’abdicazione di Vittorio Emanuele III che aveva favorito l’ascesa del fascismo, firmato le leggi raziali e assecondato l’azione di Mussolini. Si tratta di posizioni radicali sostenute dai comunisti, dai socialisti, dagli azionisti che irrigidirono il governo Badoglio e gli altri partiti antifascisti e che fecero aumentare la diffidenza del re verso la Resistenza. In questo contesto fece la sua comparsa il segretario del PCI, Togliatti che nel marzo del 1944 sbarcò a Napoli dopo 20 anni di esilio. Egli tracciò un programma politico del tutto alternativo: era necessario rinviare la questione istituzionale monarchia/repubblica dopo la fine della guerra e nel frattempo lavorare all’unità di tutte le forze antifasciste dando la priorità alla lotta di liberazione dal nazifascismo. Egli propose inoltre la formazione di un governo di unità nazionale espressione di tutte le forze politiche antifasciste rappresentate nel Cln. La decisione di Togliatti era legata al progetto di fare del vecchio PCI clandestino un partito nuovo ovvero una moderna forza politica di massa con profonde e ramificate radici nella società. Il partito nuovo avrebbe dovuto adottare il progetto di una democrazia progressiva basata sulla partecipazione diffusa e sulla mobilitazione dei cittadini organizzati. Questo innovativo indirizzo politico prese il nome di svolta di Salerno dalla città dove si era trasferita la capitale del regno del Sud ed era contrastata dai socialisti, dagli azionisti e da settori del partito comunista. Togliatti inoltre progettò con Stalin la strategia grazie alla quale l’Unione sovietica avrebbe potuto indebolire la presenza inglese del mediterraneo e ottenere una propria influenza e ottenere una propria influenza in una terra di frontiera come l’Italia che era assegnata al blocco occidentale. L’iniziativa di Togliatti va letta dunque in un campo di equilibri geopolitici nazionali e internazionali ancora in formazione e finì per prevalere: 21 Vittorio Emanuele si impegnò infatti a nominare suo figlio Umberto luogotenente ovvero trasferirgli l’esercizio dell’autorità effettiva senza però la dignità di re. Il vento del Nord e la guerra di Liberazione In questa nuova fase si rimisero in moto anche altri aspetti di una normale vita democratica nel giugno 1944 si ricostruì, grazie a un accordo tra comunisti, socialisti e cattolici, la Confederazione generale italiana del lavoro (CGL). Inoltre le formazioni partigiane si diedero un comando militare unificato, il Corpo volontari della libertà (CVI) che fu riconosciuto dagli Alleati a dicembre. Il 4 giugno del 1944 gli Alleati liberarono Roma e Vittorio Emanuele III nominò suo figlio Umberto luogotenente senza però abdicare. Anche Badoglio lasciò la guida del governo e fu sostituito da Bonomi il quale formò un nuovo esecutivo sostenuto da tutti i partiti antifascisti. La nomina di Bonomi aveva un valore anche simbolico in quanto rispondeva all’esigenza di riprendere il filo del discorso democratico laddove il fascismo lo aveva spezzato con la violenza. Tuttavia nel dicembre del 1944 il governo di Bonomi cadde in quanto perse il sostegno dei socialisti e degli azionisti che volevano una profonda e radicale epurazione dei fascisti. Nel nuovo esecutivo, guidato da Bonomi, i socialisti e gli azionisti rimasero fuori per protestare contro il mancato rispetto della crisi. Nel frattempo gli Alleati continuarono a risalire la Penisola e nell’agosto del 1944 liberano Firenze. Nel corso dell’estate inoltre sorsero in alcune zone del nord Italia una ventina di repubbliche partigiane che diedero vita a esperienze di autogoverno. Successivamente alla viglia dell’inverno 1944 ci fu una battuta d’arresto militare e politico. Nel 1944 infatti il comandante delle forze Alleate Harold Alexander ordinò ai partigiani di rimanere sulla difensiva escludendo ulteriori attacchi fino alla primavera del 1945 e questo permise un’intensificazione dei rastrellamenti tedeschi che approfittarono del disimpiego angloamericano. Sul piano militare gli Alleati decisero di stabilizzare il fronte lungo l’appennino tosco emiliano per sincronizzare le operazioni attive nel Mediterraneo con quelle in corso di svolgimento nel nord del continente. I partigiani stremati dalla lotta, trascorsero il rigido inverno curando feriti, recuperando le forze, affilando le armi, discutendo del futuro di ognuno. Ci sarà ancora un’Italia con voi? Il 25 aprile e la morte di Mussolini Nell’aprile del 1945 gli Alleati cominciarono l’attacco definitivo che portarono al crollo dell’RSI e alla liberazione di tutta l’Italia del nord dall’occupazione tedesca. Tra il 19 e il 29 aprile furono liberate Bologna, Torino, Genova, Milano e il 25 aprile il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia emanò l’ordine di insurrezione generale. La stessa sera Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como ma fu catturato due giorni dopo dai partigiani e fucilato insieme a Claretta Petacci il 28 aprile. Il giorno dopo i corpi di Mussolini, della Petacci e di quindici gerarchi giustiziati furono portati a Piazzale Loreto dove per salvare i corpi dal linciaggio furono issati a testa in giù su un traliccio di un distributore di benzina come bestie al macello. Quello di Piazzale Loreto fu un fatto storico di primaria grandezza accompagnato da un rito di espiazione feroce nel suo simbolismo. Quella sera infatti quando gli italiani rientrarono a casa ebbero la sensazione di aver voltato pagina. La Repubblica dei partiti. Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo Sbarcare il lunario. La ricostruzione, il ruolo dei partiti di massa e la maggioranza silenziosa Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia era ridotta in macerie. Secondo una stima della Banca d’Italia i danni della guerra ammontavano all’8 percento del capitale esistente nel 1938 con punte di particolare sofferenza nel settore metallurgico. Tra le mille difficoltà gli italiani erano impegnati a sbarcare il lunario a causa di due problemi: l’inflazione e la disoccupazione. Nel 1946 i disoccupati avevano raggiunto i due milioni, inoltre la borsa nera aveva portato alle stelle il valore di 22 alcuni beni di consumo di prima necessità (es. burro, olio, latte). Dal punto di vista sociale oltre alla presenza di soldati morti, dispersi e mutilati si accompagnava il problema dei prigionieri di guerra che sarebbero tornati in Italia solo diversi anni la fine della guerra. Un altro elemento è quello della nascita di nuovi partiti di massa e forze sindacali. Tra i primi abbiamo la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e il Partito socialista che ebbero una doppia funzione: innanzitutto poterono accomunare in uno stesso spazio pubblico la contesa per il governo del paese; in secondo luogo selezionarono e formarono una nuova classe dirigente, ed educarono masse di militanti disabituate alla vita politica e alla dialettica democratica. Un ruolo importante lo ebbe anche la chiesa cattolica grazie all’editoriale Famiglia Cristiana che utilizzando un linguaggio semplice riuscì a penetrare soprattutto nelle realtà rurali del nord Italia. Nel 1948 Papa Pio XII schierò apertamente i preti nella battaglia politica del PCI e molte parrocchie italiane si trasformarono in luoghi di propaganda elettorale in favore della DC. I nuovi partiti definirono meglio la loro identità nel corso della ricostruzione. Per quanto riguarda la DC essa fu fondata nel 1942 grazie a figure quali Alcide De Gaspari, Andreotti, Fanfani e Aldo Moro. Era un partito dei cattolici ma non cattolico, antifascista e interclassista che si ispirava alla dottrina sociale della Chiesa. La DC si definiva un partito di centro che guardava a sinistra ma al suo interno convissero un’anima democratica e progressista e una tendenza più moderata. L’altro partito di massa era il Partito Comunista che si contraddistingueva per un bacino di militanza solido soprattutto presso la classe operaia e il ceto artigiano. Questo partito aveva messo le radici nella società italiana nel corso della lotta al fascismo e della Resistenza e aveva forti legami politici ed economici con l’Unione sovietica per cui fu accusato di doppiezza ovvero