Summary

These notes cover the concept of impresa (business) in Italian law. They discuss various aspects such as its definition, different types of entrepreneurs, and the legal framework surrounding business activities. The notes also highlight the connection between work and business.

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**18° LEZIONE** Capitolo dell'**IMPRESA**. Dell'impresa abbiamo parlato molto sotto il profilo dell'attività: come si muovono le imprese e che cosa fanno; però di fatto non abbiamo mai ragionato su che cosa è un'impresa, come è disciplinata e quali sono le conseguenze dell'attività d'impresa. Le no...

**18° LEZIONE** Capitolo dell'**IMPRESA**. Dell'impresa abbiamo parlato molto sotto il profilo dell'attività: come si muovono le imprese e che cosa fanno; però di fatto non abbiamo mai ragionato su che cosa è un'impresa, come è disciplinata e quali sono le conseguenze dell'attività d'impresa. Le norme più significative stanno nel penultimo libro del Codice civile: libro quinto. Questo è intitolato libro del lavoro e c'è una strettissima connessione nella testa del legislatore tra il lavoro e l'impresa: l'impresa è vista come una macchina sociale che vive attraverso i lavoratori. Questo è un aspetto importante, qualcuno potrebbe dire filosofico, ma è una questione di ricostruzione del quadro complessivo dell'attività d'impresa. L'impresa genera lavoro, genera profitto, genera posti di lavoro, genera valore aggiunto, esiste per l'imprenditore, esiste per i lavoratori, è una comunità, è un fatto individuale; queste domande sono generali ma hanno delle implicazioni molto forti. Quando si parla di responsabilità sociale d'impresa tutte queste tematiche mettono capo alla finalità dell'organizzazione. Il legislatore del 1942 pensa al lavoro e nella disciplina del lavoro inserisce quello che prima del 1942 stava nel Codice del commercio che era un codice separato (in alcuni Paes è ancora così) che trattava dell'attività dell'impresa. Negli articoli che riguardano l'attività d'impresa questa non è definita, ma c'è scritto chi è l'imprenditore e vengono definite diverse categorie di imprenditori. Bisogna mettere a punto una certa terminologia: impresa è una cosa, azienda è un'altra cosa e società è un'altra cosa; sono collegate ma sono concetti distinti. Cominciamo dall'[attività d'impresa]. Le definizioni funzionano da selettore di norme giuridiche, cioè il fatto che un'attività umana venga qualificata come attività d'impresa comporta delle conseguenze, cioè l'attivazione di un ambito disciplinare a quella determinata attività. Il titolo secondo di questo libro è chiamato del lavoro e dell'impresa e definisce l'imprenditore (Art. 2082): è imprenditore chi esercita professionalmente un\'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Non è richiamata in questa definizione la nozione di profitto, ma l'imprenditore svolge un'attività economica (non profittevole), di significato economico. Ciò che conta per il legislatore nella definizione dell'imprenditore e della sua attività (perché con questa definizione si capisce che l'attività d'impresa è l'attività dell'imprenditore, cioè questa attività economica e organizzata che è funzionale alla produzione e allo scambio di beni e servizi) non è che ci sia un profitto, ma è necessario che l'attività sia improntata all'economicità: un'attività economica è un'attività che si regge sul conto economico, su una funzione di costo e una funzione di ricavo. Al legislatore non interessa se l'impresa fa profitto, ma interessa che l'impresa dal punto di vista economico sia sostenibile, cioè che il conto economico dica che i ricavi sono almeno pari ai costi. Questo significa che l'imprenditore non è tenuto a fare profitto per essere imprenditore, se lo fa meglio per lui, ma la nozione di profitto non è essenziale allo svolgimento dell'attività d'impresa. Anche se attività economica probabilmente implica che forse il profitto lo deve fare perché se chiude in perdita vuol dire che ci deve rimettere i soldi: il fatto che l'attività debba essere economica sta dicendo che l'imprenditore può non fare profitto ma non deve perdere, perché se perde c'è il principio di responsabilità per cui ci rimette dei soldi. Attività economica per l'ente pubblico vuol dire che si può anche perdere se si sta perseguendo delle finalità sociali, però se si perde i costi di esercizio sono coperti da colui per il quale sei autorizzato a compiere attività economica: lo Stato. Questa logica non si applica all'impresa, all'imprenditore privato, il significato di attività economica è che non paga nessun altro al posto tuo, sei tenuto a svolgere l'attività economica tenendo conto che non c'è nessuna conseguenza se non fai profitto ma ci sono delle conseguenze se perdi (se la tua attività non è di tipo economico). E poi attività di tipo economico vuol dire anche attività che è intrinsecamente un'attività per il mercato perché il Codice dice che è un'attività organizzata ma è un'attività organizzata con una funzione: tutta l'organizzazione serve alla creazione di valore aggiunto. Quello che è importante, oltre al concetto di attività economica, è un avverbio che usa il Codice: l'attività economica è esercitata professionalmente dall'imprenditore; professionalmente vuol dire un'attività che non è occasionale, ma è un'attività organizzata e intenzionale, un'attività dalla quale l'imprenditore ricava di che vivere anche se non fa profitto, che presuppone un qualche livello di abilità nella produzione di beni o servizi, che non richiede necessariamente continuità (l'attività stagionale è un'attività professionale che non si fa continuativamente). Questi avverbi e aggettivi insieme ci aiutano a distinguere l'attività d'impresa da attività che pur essendo professionali non sono attività d'impresa. Ad esempio, il libero professionista, chi svolge professioni regolamentate ovvero che presuppongono l'iscrizione ad un albo professionale non sono attività d'impresa, ma sono attività libero professionali che sono attività economiche ma che hanno un livello di complessità e quindi di organizzazione inferiore. L'attività del libero professionista non presuppone un'attività organizzata, non è un organizzatore il libero professionista; l'attività è svolta con le sue capacità intellettuali e professionali, non con i mezzi della produzione. Quando il Codice dice che l'imprenditore è colui che svolge un'attività economica organizzata, organizzata vuol dire che ci sono mezzi della produzione (primo tra tutti i dipendenti) a cui deve imprimere una direzione, ovvero che si devono produrre e scambiare beni o servizi. Il libero professionista fa un'attività economica ma la fa con le sue energie intellettuali anche se ha un minimo di organizzazione. Poi il legislatore dice che tutte le attività economiche che vengono svolte con o senza queste caratteristiche vengono assoggettate alle stesse norme dell'impresa quando vengono svolte con la forma delle società commerciali. Quando l'attività imprenditoriale è un'attività che assume una certa importanza, rischiosità e profilo di costo, in questi casi il legislatore dice che si può usare una forma che è la forma societaria. Tutte le attività economiche, indipendentemente da come le qualifichiamo, quando vengono fatte sotto forma societaria allora sono imprenditoriali perché la forma societaria denota un certo profilo organizzativo che non lascia dubbio sul fatto che si stia svolgendo un'attività economica organizzata in un certo modo. Il legislatore dice che in alcuni casi riconosce che certe attività si possano fare in forma organizzata con una società che oggi nel nostro sistema si chiama S.T.P. (società tra professionisti) che può avere una qualsiasi forma di società di capitali ma ha la caratteristica che la maggior parte del capitale sociale deve essere in mano a dei professionisti iscritti negli albi professionali: il legislatore riconosce che quando l'attività economica assume un certo rilievo, quando si è più di uno, quando si fa attività un po' rischiosa l'attività possa essere fatta sotto forma societaria organizzata. La conseguenza è la responsabilità limitata o un certo controllo della responsabilità patrimoniale: quando il legislatore dice che l'imprenditore è colui che svolge professionalmente un'attività economica organizzata sta dicendo che se lo fa con il suo patrimonio è soggetto all'Art. 2740 (i debiti che assume sono suoi debiti non dell'attività, perché l'attività e chi la svolge non sono la stessa cosa). Quando si crea una società di fatto è la società che diventa imprenditore e l'imprenditore è socio della società: c'è uno sdoppiamento tra l'attività e l'imprenditore; mentre nel caso dell'impresa esercitata personalmente c'è una sovrapposizione. Quando il Codice definisce l'imprenditore come colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata sta dicendo che ciascuno di noi come entità psicofisica è contemporaneamente tante cose: ciascuno di noi ha una capacità giuridica generale che viene dalla nascita, ha capacità di agire connessa con il compimento del diciottesimo anno e poi all'interno della capacità giuridica generale noi abbiamo tante diverse capacità; ma siamo sempre la stessa entità. Il problema dell'attività d'impresa è che quando io come persona fisica svolgo un'attività d'impresa con queste caratteristiche non riesco a separare il mio patrimonio e ad assoggettarlo a conseguenze diverse in funzione delle attività che svolgo. Lo svolgimento in forma individuale dell'attività d'impresa o anche in forma associata ma non societaria è un'attività rischiosa, perché è un'attività che espone il mio/nostro patrimonio/i ai creditori dell'attività d'impresa. Il legislatore dice che in questa forma rudimentale l'attività d'impresa che si svolge espone tutto il patrimonio alla responsabilità, non solo un pezzo. Quindi, la prima distinzione è tra l'imprenditore e il libero professionista (il lavoratore autonomo). Poi il legislatore si preoccupa di un'altra distinzione: i piccoli imprenditori. E all'Art. 2083 dice: sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo (agricoltori), gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un\'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. Quindi, il piccolo imprenditore è l'agricoltore che lavora nei campi (se l'attività agricola viene svolta sotto forma societaria allora diventa un'attività commerciale), gli artigiani e residuamene tutti quelli che svolgono questa attività economica professionale e organizzata con il lavoro prevalentemente proprio o della famiglia. Questa seconda caratteristica è quella del libero professionista, ma il libero professionista svolge l'attività con il lavoro prevalentemente proprio non della famiglia ed è un'attività di tipo economico intellettuale, quindi non è nemmeno un piccolo imprenditore ma è un lavoratore autonomo. Quindi, abbiamo l'impresa, la piccola impresa con il piccolo imprenditore, poi c'è il lavoratore autonomo e dentro questa categoria ci sono i liberi professionisti, poi c'è l'imprenditore agricolo e poi c'è l'imprenditore commerciale. Tutti ricadono sotto la stessa definizione che presuppone un'attività professionale, un'attività organizzata e un'attività di creazione di valore aggiunto. Come si diventa imprenditore? Si diventa imprenditori a titolo originario: la qualità di imprenditore non si trasmette in nessun modo. Il figlio dell'imprenditore che muore diventa erede ma non imprenditore perché l'esercizio dell'attività d'impresa presuppone l'assunzione a titolo originario di quell'attività: devo mettermi a fare attività imprenditoriale, se la fa qualcuno al posto mio non sono imprenditore. L'attività non è trasmissibile a meno che il soggetto non decida di avviarla da solo. Questo ha delle implicazioni importanti: se l'attività d'impresa è un'attività complessa è un'attività che presuppone la capacità di intendere e di volere, quindi diventa imprenditore chi si mette a farlo avendo la capacità di intendere e di volere. L'inizio dell'attività d'impresa non può essere autorizzato in caso di incapacità speciali, ma il Codice dice che tutti i soggetti che versano in uno stato di incapacità speciale possono essere autorizzati alla continuazione dell'attività d'impresa. Seconda cosa: questa è un'attività costituzionalmente garantita. La nostra Costituzione contiene un articolo piuttosto importante che è l'Art. 41 dove i costituenti ricordano che: l'iniziativa economica privata è libera (viviamo in un'economia sociale di mercato per cui l'iniziativa privata è libera cioè chiunque può svolgere l'attività economica), ma questa non può svolgersi in contrasto con l\'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all\'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l\'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali. La Costituzione garantisce l'iniziativa economica privata e pubblica ma questa attività può essere regolata per fini sociali cioè quando c'è da tutelare un interesse superiore generale. Questa è la ragione per cui molte attività imprenditoriali sono regolate: alcune in maniera trasversale (tutela del lavoratore) e altre lo sono in maniera specifica. Quindi, queste norme della Costituzione hanno fatto sì che ci sia per ogni attività imprenditoriale una disciplina di tipo settoriale. Quando si passa la soglia tra un'attività che non è d'impresa e un'attività d'impresa non scatta nessun campanello, a un certo punto l'attività economica diventa così importante che di fatto diventa imprenditoriale. La signora prima invitava le sue amiche a bere il tè, raccontava loro del folletto e qualcuna poi lo comprava e lo faceva una volta al mese, poi inizia a farlo una volta a settimana e ora lo fa tutti i giorni: questa non è più un'attività occasionale, ma probabilmente è diventata un'attività economica. C'è un momento quindi in cui l'attività economica diventa qualcosa d'altro e quando pian piano si integrano gli elementi dell'organizzazione allora l'attività diventa attività d'impresa. Il legislatore se ne preoccupa così tanto perché l'attività d'impresa è un'attività rischiosa per chi la compie (l'imprenditore lo sa molto bene), ma anche per coloro verso i quali l'attività viene svolta. Se ho firmato un ordinativo per il folletto e ho dato un anticipo ma il folletto non arriva chi è che risponde per questa attività e a che titolo risponde? La signora che ha venduto il folletto e non lo ha consegnato risponde a titolo d'impresa o a titolo privato? Il tema è la tutela dei terzi, della responsabilità che può avere delle propagazioni significative. Il legislatore dice che per lui l'attività d'impresa è un'attività che presuppone un minimo di accorgimento a tutela dell'imprenditore stesso, ma anche del pubblico perché è un'attività che si fa verso gli altri (privati o imprese). Quindi, il legislatore dice quali sono le conseguenze dello svolgimento dell'attività d'impresa e alcuni paletti che costituiscono lo statuto dell'imprenditore, cioè un complesso di regole minime che però si appiccicano a colui che inizia ad esercitare attività d'impresa. Le regole minime sono: - la pubblicità, nel senso di rendere pubblica l'attività, far sapere ai terzi che quella è un'attività d'impresa. L'Art. 2188 parla di registro delle imprese e dice: è istituito il registro delle imprese per le iscrizioni previste dalla legge; il registro è tenuto dall\'ufficio del registro delle imprese sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale; il registro è pubblico. Questo è il registro delle imprese che è tenuto da noi dalle camere di commercio. Il Codice dice che chi svolge attività d'impresa commerciale è tenuto a comunicare al registro delle imprese tutta una serie di informazioni. Il registro delle imprese è un po' l'anagrafe delle imprese ed è obbligatoria l'iscrizione, nel senso che il legislatore dice che se tu stai svolgendo un'attività che si qualifica come imprenditoriale lo devi andare a dire al registro delle imprese e chi ha a che fare con te deve poter consultare il registro delle imprese per capire se tu sei un imprenditore. Ci deve essere scritto che attività fai, dove sta il domicilio dell'attività d'impresa e devono essere iscritte a registro delle imprese tutta una serie di vicende importanti. La preoccupazione della pubblicità per l'impresa commerciale è far sapere ai terzi tutta una serie di fatti rilevanti che non sarebbero conoscibili in altro modo. Ci sono delle sanzioni per chi non comunica. Il legislatore dice che esiste il registro delle imprese presso le camere di commercio e poi il registro delle imprese è fatto di sezioni. E poi negli anni recenti (2012/2015) il legislatore ha introdotto la sezione speciale per le startup innovative, quindi ha ulteriormente articolato il registro. Nel registro delle imprese c'è anche scritto se l'imprenditore è incapace, ma non c'è scritta la consistenza patrimoniale del soggetto che ho davanti e qua subentra il secondo vincolo. - obbligo di tenuta delle scritture contabili il legislatore dice che esistono libri obbligatori e scritture facoltative e all'Art. 2214 dice: l\'imprenditore che esercita un\'attività commerciale (quindi l'imprenditore commerciale ha l'obbligo di pubblicità e delle scritture contabili) deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari (questi sono i due libri contabili obbligatori per qualunque attività d'impresa commerciale); deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell\'impresa e conservare (ancora oggi) ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite; le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori (questa è la prima eccezione). Il libro giornale è il libro nel quale giorno per giorno l'imprenditore è tenuto ad annotare le operazioni economiche che fa, sono quelli che costituiscono i mastrini. Il libro dell'inventario registra man mano che li ho acquistati i cespiti strumentali all'esercizio dell'attività d'impresa. Il legislatore vuole che si facciano tutte queste scritture contabili perché alla fine dell'anno servono a fare il bilancio e il bilancio è una di quelle cose che poi devono essere comunicate al registro delle imprese. Chi consulta il registro delle imprese oltre a sapere chi sono, dove sto, da quanto tempo esercito l'attività d'impresa, ha la possibilità di scaricarsi il bilancio dell'ultimo esercizio e quindi ha un'immagine più o meno aggiornata della consistenza dell'impresa perché dal conto economico che riassume le transazioni riportate nel libro giornale e dallo stato patrimoniale che riposta le informazioni del libro dell'inventario più o meno sa quanto l'anno precedente ho fatturato, come è composto il valore della produzione, sa quali costi ho avuto e soprattutto sa se sto chiudendo in pari, in perdita o sto avendo dei profitti. Le scritture contabili devono essere tenute in un certo modo, fanno fede nei rapporti tra gli imprenditori e sono talmente importanti che nel Codice ci sono dei reati per chi le falsifica o chi non fa nel modo corretto il bilancio perché vuol dire che sta andando a creare verso il mercato un'immagine non vera che compromette la fiducia. Quindi, tutti i soggetti che fanno attività d'impresa devono fare le scritture contabili, mentre ai piccoli imprenditori non è richiesto di tenere le scritture contabili (questi soggetti sono dispensati dalla tenuta di queste scritture obbligatorie); in realtà le fanno anche loro ma per ragioni fiscali, non è il Codice civile che gliele impone di fare. - la disciplina del fallimento le prime due caratteristiche in realtà riguardano l'attività ordinaria che si svolge in maniera fisiologica. Quando le cose vanno male (statisticamente vanno male in pochi casi) le conseguenze possono essere dannose per la molteplicità dei rapporti che l'attività d'impresa comporta e perché noi sappiamo che alcune imprese sono più rischiose di altre. Questo elemento di rischio comporta la necessità di individuare regole diverse per la crisi dell'imprenditore rispetto a quella della persona fisica. Per tutti si applica l'Art. 2740 (noi rispondiamo con il nostro patrimonio presente e futuro), ma il problema è come rispondiamo: quando il privato ha difficoltà economiche paga i debiti in funzione delle scadenze, quindi il debitore può sostanzialmente scegliere chi pagare e come pagarlo; quando l'attività d'impresa va in crisi il legislatore si preoccupa di far scattare tutta una serie di misure a tutela dell'imprenditore stesso ma anche a tutela dei terzi. Ed è qua che subentra la disciplina che noi oggi chiamiamo la disciplina della crisi d'impresa. Il legislatore dice che c'è un momento in cui deve far intervenire certe procedure anche molto gravi a tutela dell'imprenditore e dei suoi creditori (i primi sono i lavoratori). Le regole che si applicano alla crisi d'impresa dettate dal legislatore sono quelle definite nel Codice della crisi d'impresa, un insieme di norme che si applicano all'impresa quando subentra un momento di crisi. Il Codice dice che il momento di crisi subentra quando risulta che l'impresa non è in grado di far fronte alle obbligazioni, cioè quando andando a vedere le scritture contabili risulta che la cassa finisce, i debiti sono più grandi dei crediti, le vendite vanno giù. Il legislatore dice che quel momento di crisi fa scattare progressivamente tutta una serie di misure. In passato, prima del 2019, noi conoscevamo all'interno delle procedure concorsuali sostanzialmente tre tipologie di procedure: il fallimento, il concordato preventivo e l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi; queste tre procedure presuppongono quello che nella legge viene chiamato lo stato di insolvenza, ovvero oggettiva incapacità dell'impresa di far fronte ai debiti con i propri mezzi. Questo è uno stato di crisi che in precedenza presupponeva tutta una serie di allarmi e poi l'attivazione di una procedura giudiziale di carattere pubblicistico: la procedura di fallimento. Il creditore che non è soddisfatto, che ha chiesto i soldi e non è stato pagato, può andare in tribunale e chiedere il fallimento. L'istanza di fallimento è una domanda che il creditore rivolge al giudice di accertamento dello stato di insolvenza e da questo momento in poi scattano tutta una serie di garanzie molto molto pesanti perché presuppongono lo spossessamento dell'impresa da parte dell'imprenditore. La procedura giudiziale di fallimento di concordato preventivo presuppone che l'imprenditore non possa più fare quello che vuole. La sentenza di fallimento va pubblicata, quindi tutti quanti sanno attraverso la consultazione del registro delle imprese che quell'imprenditore è stato dichiarato fallito. Fallito non vuol dire che l'impresa chiude il giorno dopo, però l'imprenditore non può più gestire l'imprese e viene quindi nominato il curatore fallimentare, un soggetto che prende le redini dell'impresa e cura questa fase critica. Da quando si apre il fallimento con la sentenza di fallimento i debiti non possono più essere pagati come vuole l'imprenditore secondo la scadenza perché scatta una garanzia che noi chiamiamo la par con dicio creditorum: tutti i creditori di fronte al fallimento hanno gli stessi diritti in linea di principio. Questo significa che al criterio della scadenza e a qualsiasi altro criterio subentra il criterio della proporzionalità: tutti quanti i creditori sono uguali di fronte al patrimonio del fallito e quindi tutti e quanti avete diritto nella stessa misura in proporzione del credito. Attraverso la par con dicio creditorum si deve fare in modo che in proporzione ciascuno abbia la possibilità di recuperare un po' del suo credito. Quindi, il curatore censisce l'attivo patrimoniale e paga secondo la par con dicio creditorum. Se andiamo all'Art. 2741 (concorso dei creditori e cause di prelazione) si dice che: i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione. All'interno dei creditori sono tutti uguali, ma alcuni hanno cause legittime di prelazione che li rendono speciali rispetto agli altri: il loro credito non è solo un credito chirografario (credito senza garanzia), ma è un credito garantito; quindi, il curatore fallimentare forma lo stato attivo e passivo del fallimento, soddisfa i creditori che hanno cause di prelazione e poi sull'eventuale residuo si soddisfano i chirografari e se avanza qualche cosa i beni tornano all'imprenditore (è creditore di se stesso, ma è l'ultimo creditore in assoluto). Spossessare l'imprenditore vuol dire metterlo in condizione di non farsi ancora più male. Questo era vero per la procedura di fallimento, per il concordato preventivo (forma un po' più soft dove ci si mette d'accordo con i creditori prima) e poi c'era l'amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi (procedura che guardava a un altro tipo di impresa che è la grande impresa). Prima del 2019 la disciplina del fallimento era una disciplina orientata a fare sostanzialmente un funerale onorevole all'impresa perché di fatto quando un'impresa non è più in grado di soddisfare i debiti il curatore fallimentare ha solo il compito di limitare il danno e chiudere l'impresa in maniera tale che si producano le minori esternalità negative possibili (che non ci siano usurai, che non ci siano creditori insoddisfatti, che i lavoratori vengano pagati). Non c'è necessariamente un connotato negativo nel fallimento di un'impresa e qualche volta la crisi d'impresa non dipende dall'imprenditore, però ci sono delle situazioni di crisi che dipendono dall'imprenditore stesso e quindi all'interno della procedura concorsuale poi si aprivano dei sotto procedimenti penali: tutti reati che presupponevano che l'imprenditore avesse concorso a determinare o aggravare la crisi. La presenza di procedimenti anche penali come conseguenza del fallimento ha fatto sì che nel tempo il fallimento dell'imprenditore diventasse un vicenda negativa. Però se io svolgo un'attività particolarmente rischiosa ci sta che io fallisca (questo è tipico delle startup tecnologiche) e in questo caso c'è una disciplina più lieve per il fallimento introdotta nel 2012 dalla legge Passera. Il problema delle startup che non sono imprese innovative è che la dichiarazione di fallimento che dà inizio a questo procedimento può arrivare signitificamente tardi, magari si può fare qualcosa prima però quando parte la procedura del fallimento queste sono tutte studiate per arrivare alla chiusura dell'impresa. Ma non si può fare in modo che prese per tempo in realtà possano continuare ad esistere e magari essere risanate e ricominciare a produrre in attivo? Dal 2019 il legislatore ha introdotto nel nuovo codice sulla crisi d'impresa, oltre alle procedure tradizionali di fallimento, le procedure di gestione negoziale della crisi d'impresa: procedure particolari con le quali all'impresa in crisi viene data la possibilità di tentare il risanamento attraverso una fase sorvegliata in cui con certe garanzie i debiti dell'impresa sono sospesi. È una specie di concordato in continuità, la gestione negoziale della crisi è una fase in cui l'imprenditore che si rende conto di non riuscire a far fronte ai debiti per una crisi temporanea (la disciplina del fallimento non si preoccupava di capire se la crisi era temporanea o in definitiva) può attivare queste procedure soprattutto con la finalità di tutelare se stesso, tutte le categorie di creditori, ma soprattutto l'attività come tale cioè tutelare la continuità aziendale. Perché se c'è un'esternalità negativa del fallimento non è tanto che qualcuno resta insoddisfatto, ma è che tutto lo sforzo organizzativo sparisce nel nulla. Il legislatore dice con l'obiettivo di assicurare la continuità aziendale noi non inauguriamo subito il funerale con la sentenza di fallimento ma facciamo una sentenza che dà la benedizione a un piano di risanamento predisposto da un esperto scelto secondo certi criteri che deve prendere in mano l'azienda e stabilire se ci sono i presupposti per la continuità e fare un piano di risanamento. Il tribunale poi approva il piano e l'azienda entra nella fase di esercizio in continuità. È molto meglio questo del fallimento perché se si tenta di risanare l'azienda probabilmente si riescono a recuperare soldi, ci vorrà più tempo ma probabilmente si riuscirà a rientrare dell'intero credito. Questa fase finisce che o l'azienda si risana o va in fallimento, però abbiamo in tutti i modi tutelato la continuità aziendale. La disciplina sulla gestione negoziale dell'impresa dice che quando c'è una crisi temporanea e c'è un rischio di perdita della continuità aziendale si può applicare questa procedura; è chiaro che i sintomi della crisi che porta a una gestione di questo tipo devono essere sintomi avvertiti molto in anticipo rispetto alla crisi irreversibile. Quindi, il legislatore dice che si devono innalzare le soglie d'allerta, cioè l'allerta che fa scattare queste procedure deve essere un'allerta anticipata. La composizione negoziata della crisi (C.N.C.) fa molto bene ma bisogna accorgersi per tempo che c'è una situazione di crisi. Come si fa a percepire in maniera anticipata la crisi, tenuto conto che molte volte purtroppo gli imprenditori per tante ragioni la crisi la tengono nascosta? Qua bisogna andare a una norma del Codice che è stata modificata proprio quando è entrato in vigore il codice della crisi d'impresa ed è l'Art. 2086 (gestione dell'impresa): l\'imprenditore è il capo dell\'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. Questo ha un connotato neo istituzionalista, dal punto di vista dell'analisi economica del diritto l'imprenditore è il responsabile del make (è responsabile dell'organizzazione dei fattori della produzione ivi compresa la forza lavoro). E noi sappiamo che il potere che ha va di pari passo con la responsabilità, quindi ha il potere di organizzazione ma paga per le conseguenze. Il secondo comma dice: l\'imprenditore (non tanto quello individuale), che operi in forma societaria (cioè si adotta lo schema della società) o collettiva (più soggetti che svolgono tutti quanti la stessa attività imprenditoriale, quindi sono tutti imprenditori a titolo originario senza essere anche soci), ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell\'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell\'impresa e della perdita della continuità aziendale (perché se l'impresa si ferma è verosimile che non riparta più), nonché di attivarsi senza indugio per l\'adozione e l\'attuazione di uno degli strumenti previsti dall\'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale (si torna alla disciplina della composizione negoziale della crisi: durante la crisi bisogna comporre con la garanzia che la procedura è sovra intesa da un organo pubblico ma con i debitori e creditori che si parlano e cercano di capire quale è una cosa sostenibile). L'imprenditore è sempre il capo dell'impresa, però quando l'imprenditore svolge attività d'impresa non da solo siccome è verosimile che il volume di attività che si sta svolgendo è significativo, l'imprenditore ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell\'impresa: la natura e le dimensioni dell'impresa determinano un differente assetto amministrativo, organizzativo e contabile. Quindi, il legislatore sta dicendo che man mano che l'attività economica organizzata professionalmente cresce si deve adeguare la struttura alla funzione. Assetto organizzativo, amministrativo e contabile vuol dire che ci deve essere un organigramma, si deve capire chi riporta a chi, ci deve essere un sistema di rilevazione contabile dei costi e delle entrate, ci deve essere un sistema amministrativo adeguato che vuol dire che i compiti e i ruoli sono definiti. Si deve fare tutto questo per tante ragioni ma anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell\'impresa e della perdita della continuità aziendale: l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile ci consentono di capire se qualche cosa sta scricchiolando. Se l'attività economica è un'attività che comporta flussi in entrata e in uscita significativi tutti i giorni si deve avere un sistema gestionale che consente la rilevazione s base mensile, non si può aspettare la chiusura dell'esercizio per sapere come è andato perché è troppo tardi. Quindi, serve avere un assetto organizzativo, amministrativo e contabile che consenta di capire da subito se qualcosa non va. E l'assetto organizzativo deve essere adeguato perché se non c'è il CFO che fa le rilevazioni e non gli è stato detto che deve riportare al CEO che deve a sua volta riportare al consiglio di amministrazione, lui se ne può accorgere della crisi ma ci deve essere un assetto amministrativo adeguato. Quindi, assetto amministrativo adeguato vuol dire capacità di individuare la crisi e soprattutto qualcuno che suona adeguatamente la campanella. Ecco perché è importante la qualifica di imprenditore perché oltre agli obblighi di pubblicità, oltre agli obblighi di tenuta delle scritture contabili, c'è una soggezione alla particolare disciplina della crisi d'impresa che oggi è ancora più accentuata dal fatto che la crisi d'impresa deve esser avvertita preventivamente quando ancora si può fare qualche cosa per evitare la perdita della continuità aziendale. Quindi, chi fa l'imprenditore è esposto a una responsabilità aggiuntiva perché la norma dice che è il capo dell'impresa per cui ha il potere gerarchico, ma questo potere lo deve esercitare nel suo interesse e nell'interesse della continuità aziendale, pertanto, deve adeguare la complessità dell'organizzazione alla complessità dell'attività che deve svolgere. Le procedure concorsuali si applicano a tutti gli imprenditori ad esclusione dell'imprenditore agricolo. L'imprenditore agricolo nel nostro ordinamento è inteso come il capofamiglia, infatti il legislatore lo definisce e gli crea uno statuto particolare cioè lo considera un imprenditore importante ma esposto a dei rischi più grandi di quelli dell'imprenditore normale: è esposto ai rischi naturali legati al fatto che gestisce cicli biologici e qualche volta il successo come imprenditore non dipende soltanto dalle sue capacità e da quello che fa. Oggi certi imprenditori agricoli sono più sofisticati degli imprenditori commerciali. Nel 1942 il Codice definisce l'imprenditore agricolo come (Art. 2135): è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura (boscaiolo), allevamento di animali e attività connesse; per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. L'imprenditore agricolo si prende cura di una sola fase o di tutto il ciclo. Queste sono le attività agricole e poi c'è una quarta attività che sono le attività connesse. Queste sono un aspetto piuttosto delicato e il legislatore dice: si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall\'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l\'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell\'azienda normalmente impiegate nell\'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Quindi, il legislatore dice che l'attività dell'impresa agricola non è solo quella del coltivatore che produce il pomodoro e lo vende, non è solo quello che ha la vite e raccoglie l'uva e la vende ma se si decide che l'uva anziché venderla la trasformo io in vino questa è un'attività agricola per connessione perché è un'attività di trasformazione del prodotto agricolo che derivo dal fondo. Per connessione soggettiva perché la fa lo stesso imprenditore e per connessione oggettiva perché riguarda i beni che derivano dal campo. Fino a che l'attività rimane una attività di valorizzazione, di trasformazione prevalentemente del proprio prodotto agricolo si parla di attività per connessione. Tutto quello che riesci a fare sul fondo per connessione diventa attività agricola. È importante la connessione perché il legislatore dice che l'imprenditore agricolo è uno che si spacca la schiena e non può trattarlo come gli imprenditori commerciali, ma lo deve trattare un po' meglio e alleviare da tutta una serie di oneri. Gli oneri dai quali lo si allevia: non si deve iscrivere al registro delle imprese e non lo si assoggetta alla disciplina del fallimento. Però se queste stesse attività vengono svolte in forma societaria sono attività d'impresa, se le attività agricole connesse diventano attività di valorizzazione di un prodotto che non è prevalentemente il prodotto che viene dal fondo non sono più attività agricole connesse ma sono attività d'impresa. Queste attività sono state nel tempo ulteriormente disciplinate per il fatto che nella distribuzione delle competenze tra Stato e regioni certe attività sono diventate, in base all'articolo 117 della Costituzione, di competenza della regione e quindi certe attività artigianali e agricole, essendo diventate di competenza della regione, sono anche soggette alle normative regionali e al riconoscimento dello status di imprenditore agricolo poi sono legati dei contributi proprio perché è un'attività rischiosa. L'imprenditore commerciale è l'ultima categoria che guardiamo. La distinzione tra impresa, piccola impresa e grande impresa è basata sull'elemento dimensionale, poi però conta anche la natura dell'attività. La natura dell'attività distingue l'imprenditore agricolo dall'imprenditore commerciale. L'imprenditore commerciale si becca tutto lo statuto dell'impresa: assoggettamento alla disciplina della pubblicità, alla disciplina della crisi d'impresa e all'obbligo di tenuta delle scritture contabili. L'Art. 2195 (imprenditori soggetti a registrazione) definisce l'imprenditore commerciale: sono soggetti all\'obbligo dell\'iscrizione, nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1\) un\'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2\) un\'attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3\) un\'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4\) un\'attività bancaria o assicurativa; 5\) altre attività ausiliarie delle precedenti. Il secondo comma dice: le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano. Infatti, per il piccolo imprenditore e per l'imprenditore agricolo ci sono delle eccezioni: non sono tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese, le scritture contabili non si applicano all'imprenditore agricolo e man mano l'impresa scala in complessità e in dimensione si applicano altre norme e subentra la disciplina settoriale. ![](media/image2.png)L'ultimo passaggio riguarda il momento in cui l'attività d'impresa non è più svolta dall'imprenditore in prima persona, quando l'attività d'impresa diventa complessa (quindi c'è un tema di gestione della complessità) e rischiosa (quindi c'è un tema di gestione del rischio) il diritto dell'impresa mostra all'imprenditore che è un diritto scalabile: è un diritto che mette a disposizione dell'imprenditore delle forme che in qualche modo seguono la complessità e la rischiosità dell'attività d'impresa. Questo è importante perché il legislatore asseconda l'imprenditore anche sulla base della norma nella Costituzione che dice che l'iniziativa economica privata è libera, però il legislatore fa di più perché mette a disposizione della complessità e del rischio strumenti per l'esercizio dell'attività d'impresa che sono adeguati a questa progressione di attività che si fa. È chiaro che il dritto dell'impresa consente forme via via più complicate ma che costano man mano sempre di più. Il legislatore dice che nella forma più semplice si aspetta che ci sia l'imprenditore individuale che è quello del Codice civile previsto dall'Art. 2082, quello che fa, organizza ed è il capo dell'impresa. Se l'attività è un po' più complicata si aspetta che ci sia l'imprenditore collettivo che sono più imprenditori che decidono di fare insieme l'attività; è un po' più costoso perché si devono coordinare, devono essere d'accordo. E poi il legislatore dice (Art. 2086) che si possono conservare anche queste forme semplici però all'interno dell'organizzazione che tu sia solo o che siate di più all'interno di questa organizzazione, voi dovete adeguare organizzativamente, contabilmente e amministrativamente l'impresa al fatto che sta crescendo, al fatto che la natura e le dimensioni stanno cambiando. Il legislatore dice che c'è un momento in cui per fare questa attività d'impresa servono due cose di fatto per gestire la complessità e il rischio: i soldi e qualcosa che metta in cortocircuito l'asperità dell'Art. 2740. Le due cose sono collegate perché avere più soldi significa aumentare il profilo di responsabilità e di rischio. Il legislatore dice che si mette a disposizione dell'imprenditore che vuole gestire queste due cose degli strumenti: le società di persone e le società di capitali. In questo quadrante in alto l'esercizio dell'attività d'impresa è un esercizio collettivo, cioè si utilizza una forma che si stacca progressivamente dalla figura dei singoli (si stacca non del tutto quando si tratta delle società di persone e completamente quando si tratta di società di capitali). Quindi, vi potete mettere insieme e rimanere imprenditori individuali oppure vi potete mettere insieme e fare sì che l'attività imprenditoriale sia gestita dalla società (nuovo ente che si crea e per il quale serve un contratto). La società è un contratto con comunione di scopo, cioè si mettono insieme per perseguire un'attività economica insieme. Il fatto che l'attività ora venga svolta attraverso la società in maniera associata fa sì che non si perda la nozione di impresa: la società è la modalità di esercizio e non l'attività stessa. Però queste modalità di esercizio hanno sia il vantaggio dal punto di vista della gestione della complessità che dal punto di vista della gestione del rischio. Perché dal punto di vista della gestione della complessità il fatto di avere una società fa sì che il modello organizzativo non me lo devo inventare ma è quella che mi mette a disposizione il legislatore; il legislatore mette a disposizione degli schemi tipici (vige il principio dell'atipicità ovvero che i tipi li stabilisce il legislatore) che poi vengono riempiti a seconda del bisogno e che sono caratterizzati dal fatto che sono progressivamente più articolati in funzione della maggiore complessità dell'attività che si deve svolgere. Il principio dell'autonomia privata consente di scegliere lo schema che si vuole e riempirlo come si vuole, qualche regola fissa la dà il legislatore e il resto ce lo metti tu. Questo schema si basa sulla scelta del legislatore di creare tre tipologie di società di persone (la società semplice, la società in nome collettivo e la società per accomandita semplice) e tre tipologie di società di capitali (società a responsabilità limitata, la società in accomandita per azioni e la società per azioni); principio dell'atipicità: queste e non più. Il legislatore dice quindi che questo consente di gestire la complessità, dal punto di vista della gestione del rischio crea una separazione tra società di persone e società di capitali: la differenza sta nella diversa misura del peso che ha il patrimonio dei soci rispetto al patrimonio della società. Nel caso della società di capitali c'è autonomia patrimoniale perfetta che significa che quello è un soggetto completamente staccato dai patrimoni dei soci: i soci hanno nel proprio patrimonio le quote o le azioni che rappresentano la misura della partecipazione alla società, ma il loro patrimonio e quello della società sono separati. Questo vuol dire che l'attività d'impresa è svolta solo ed esclusivamente dalla società in quanto tale e dei debiti della società risponde solo ed esclusivamente la società, non i soci. Questa separazione è paradossale al punto per cui io potrei avere il 99,9% della società e non essere imprenditore, ma semplicemente il proprietario del soggetto che svolge l'attività d'impresa. Nelle società di capitali ci può quindi essere il paradosso che la società è l'imprenditore, ma chi è proprietario dell'impresa non assume mai la qualità di imprenditore e di gestore dell'impresa. Quindi, questa forma organizzativa (con personalità giuridica, con autonomia patrimoniale perfetta, con perfetto distacco tra la figura del socio e dell'imprenditore) comporta anche a livello di complessità una caratteristica e cioè una divisione tra l'attività d'impresa svolta dalla società come tale, la proprietà che fa capo ai soci e la gestione che fa capo al management. La maggiore complessità dell'attività che deve essere svolta presuppone la massima divisione del lavoro e la massima divisione del lavoro dice che la società è diversa da chi la possiede ed è diversa da chi la amministra. Con questo si raggiunge il massimo della sofisticazione organizzativa che il legislatore mette a disposizione di chi vuole fare attività d'impresa. Il socio è un soggetto che ha investito nella società, quindi ha comprato un pezzo della società, per effetto della limitazione della responsabilità patrimoniale se la società va male lui perde al massimo la sua quota e se va bene partecipa all'utile non per forza proporzionalmente alla quota posseduta. Questa struttura è figlia della specializzazione del lavoro e all'interno di ciascuna categoria ci sono ulteriori specializzazioni. La forma intermedia tra le gestione dell'attività d'impresa a livello personale e le società di capitali che è la società di persone. In questo caso il legislatore ammette degli schemi un po' più complessi della gestione individuale e un po' meno complessi della gestione delle società di capitali e non c'è un perfetto distacco tra il socio e l'attività d'impresa per quanto riguarda la gestione del rischio e non è uno schermo che comporta una specializzazione così spinta per cui sempre e comunque chi è dentro l'organizzazione non è necessariamente proprietario e viceversa; in questo caso il legislatore si immagina che tutti o alcuni dei soci siano anche coinvolti nella gestione: nel caso della società semplice sono tutti coinvolti nella gestione, nel caso della società in nome collettivo sono coinvolti nella gestione quelli che ci mettono il nome e nel caso della società in accomandita semplice sono responsabili della gestione gli accomandatari. Il legislatore dice che si aspetta che se adottate una di queste forme è perché alcuni vogliono essere oltre che proprietari della società anche un po' coinvolti nella gestione, mentre se adottate la forma della società di capitali si vuole avere un certo livello di flessibilità. Il vero problema di queste forme di organizzazione è il problema principal-agent tra il proprietario e il gestore ed è il problema delle moderne società: quando il management fa qualcosa che non corrisponde necessariamente all'interesse del proprietario. Il legislatore dice che lui si immagina questa progressione e sta a noi scegliere da dove iniziare. Il diritto societario è scalabile e fa risparmiare i costi di transazione perché mette a disposizione schemi che costano diversamente in funzione dell'obiettivo che si vuole raggiungere. Qualsiasi attività state svolgendo nel momento in cui passate dalla gestione in forma individuale o collettiva alla gestione societaria lo statuto societario vi si applica in toto: registrazione, fallimento, tenuta dei registri contabili e in funzione della natura e dimensione si applica anche altra regolamentazione speciale. L'ultimo aspetto è il rapporto tra le norme imperative che vengono adottate per gli schemi societari. Gli schemi societari sono dei modelli e il legislatore dice che le regole che definiscono i modelli non le si può cambiare; quindi, certi elementi di struttura che definiscono il tipo non si possono cambiare, mentre certi contenuti che per il legislatore sono inessenziali devono essere definiti dai soci. Questi elementi che possono essere definiti dai soci vengono definiti nello statuto, cioè nel documento di natura contrattuale che scrivete tra soci quando costituite la società: dentro lo statuto si possono mettere tutte le norme che si vuole ma con lo statuto non si possono cambiare le norme che definiscono il tipo. L'autonomia privata scrive dentro il modello, ma non sovrascrive le norme fissate dal legislatore. **19° LEZIONE** Tema dell'**AZIENDA**. Nella definizione di imprenditore questo è un soggetto che in maniera professionale organizza beni e servizi, mette insieme i fattori della produzione, con l'obiettivo di produrre e scambiare beni e servizi in chiave economica non necessariamente di profitto. Il soggetto è l'imprenditore e l'attività dell'imprenditore è l'attività dell'impresa. Noi abbiamo visto che la società è l'ente che consente di svolgere l'attività d'impresa in maniera collettiva e l'azienda è il complesso dei beni organizzati per lo svolgimento dell'attività d'impresa. Infatti, il nostro Codice civile all'Art. 2555 definisce l'azienda: l\'azienda è il complesso dei beni organizzati dall\'imprenditore per l\'esercizio dell\'impresa. È quindi quello che troviamo in parte fotografato nello stato patrimoniale del bilancio; è tutto quello che serve per l'esercizio dell'attività d'impresa che naturalmente cambia in funzione del tipo di attività d'impresa. L'azienda non esiste, dal punto di vista fattuale l'azienda non esiste; però il legislatore dice che quando i beni che si vedono sparsi si muovono in maniera funzionale al conseguimento di un obiettivo produttivo, allora questi beni, che pure restano individualmente staccati l'uno dall'altro, sono dei beni che entrano a far parte della definizione di azienda con delle conseguenze giuridiche perché l'imprenditore che li organizza gli imprime una destinazione. Dal punto di vista fattuale possiamo continuare a vederli come beni staccati, ma nell'economia complessiva dell'azienda questi beni stanno tutti insieme perché insieme concorrono all'obiettivo produttivo che l'imprenditore ha in testa. L'azienda è un'universitas iuris: tanti beni che non ci azzeccano nulla l'uno con l'altro ma che hanno una destinazione unitaria, non per caratteristiche intrinseche del bene, ma per finalizzazione dell'imprenditore che li mette insieme e li utilizza in maniera concertata per la realizzazione dell'attività produttiva. I beni non sono tutti di proprietà dell'imprenditore, nella nozione non si parla di beni di proprietà dell'imprenditore di beni organizzati perché l'imprenditore non ha il diritto di proprietà su tutti i beni che compongono l'azienda: acquisisce i beni nelle varie forme giuridiche in cui è possibile e, indipendentemente dalla vicenda individuale, per il fatto che sono stati acquistati per quella finalità entrano a far parte dell'azienda, perimetrano l'azienda. La domanda che ci dobbiamo porre e che è una domanda importante anche dal punto di vista contabile è: sui singoli beni come tali non è detto che l'imprenditore abbia sempre un diritto di proprietà, ma l'azienda come tale è di proprietà dell'imprenditore? Si può dire che l'impresa possiede l'azienda? Sicuramente attraverso le forme con cui l'imprenditore acquista i beni aziendali c'è una forma di controllo sui singoli beni e sui beni insieme (azienda), ma non è una forma di proprietà: non possiamo tecnicamente dire che l'azienda è di proprietà dell'impresa come tale (i singoli beni sì, ma l'azienda no). Non lo possiamo dire perché concettualmente i beni che formano l'azienda sono cose ma il problema è che l'azienda non è solo quello che vediamo perché c'è anche una componente immateriale. Il fatto che i beni aziendali siano stati organizzati esattamente in un certo modo secondo l'idea dell'imprenditore che è il capo dell'organizzazione e che organizza l'azienda in un certo modo sottende una virtù. C'è una virtù nel fatto di organizzare una certa azienda in un certo modo e questa virtù si traduce in un qualcosa in più che l'azienda (i beni organizzati in un certo modo) realizza: la capacità reddituale. I beni organizzati in un determinato modo fanno sì che l'imprenditore riesca a produrre in maniera efficiente con costi bassi, con margini alti. La caratteristica più evidente di questa capacità organizzativa che si riflette nell'efficienza è la clientela. Il grande valore immateriale che non vediamo è il risvolto reddituale di quell'organizzazione che dipende anche dalla capacità di attrarre la clientela. Il valore più grande che l'imprenditore è in grado di realizzare è la clientela che attrae. Ma la clientela è di proprietà dell'imprenditore perché è una conseguenza dell'azienda ben organizzata? No, perché non c'è niente di più volatile del cliente, però la clientela è un valore. Il valore aziendale è il marchio, la qualità dei fornitori, la confezione; ci sono tutta una serie di elementi che concorrono ad attrarre la clientela e a trattenerla che vuol dire indurre atti ripetuti di acquisto. L'espressione di questa capacità organizzativa dell'imprenditore si riflette in una grandezza che noi chiamiamo avviamento e che in qualche misura coincide con la clientela (un ristorante avviato è un ristorante che ha una certa clientela). La ragione per cui il legislatore del 1942 si preoccupa dell'azienda è proprio questo: dobbiamo riconoscere che la virtù dell'imprenditore sta nel fatto di creare un'azienda di successo, un'azienda che ha un certo suo di avviamento. E lo si deve proteggere non da se stesso perché l'imprenditore bravo farà in modo che il valore aziendale cresca e quello che non è bravo deve accettare l'idea del fallimento, ma la ragione per la quale se ne occupa il legislatore del 1942 è legata al fatto che l'azienda è un bene dinamico, è un complesso che può circolare, e soprattutto poi c'è un tema che nel 1942 era ancora sfumato ma che poi diventerà via via più importante ed è il tema della concorrenza: il vero pericolo per l'avviamento è la concorrenza, non tanto come condizione strutturale del mercato (un mercato concorrenziale è un mercato che tutti vogliono perché c'è pluralità di offerta, i consumatori sono tutti informati e agiscono in maniera razionale, non ci sono barriere all'ingresso e quindi il mercato performa la migliore funzione allocativa delle risorse) ma il legislatore vuole proteggere l'azienda e l'imprenditore virtuoso contro la concorrenza sleale. Quindi, non vuole proteggerlo da una condizione astratta di mercato ma dai tantissimi comportamenti aggressivi che il legislatore ha in mente quando definisce l'azienda stessa ai fini giuridici. Vediamo quali cono le conseguenze del fatto che il legislatore introduce questa nozione unitaria di azienda. Prima di tutto un valore che deve essere tutelato deve avere un regime circolatorio e qua c'è una norma importante (Art. 2556) che dice che le imprese soggette a registrazione (quelle del 2195: le imprese commerciali, industriali, bancarie, assicurative\...) sono tenute a documentare attraverso il registro delle imprese tutte le vicende relative all'azienda. Art. 2556: per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell\'azienda devono essere provati per iscritto (non fatti per iscritto), salva l\'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni. Quindi, l'azienda esiste come unità organizzativa e si può trasferire come unità organizzativa ma bisogna ossequiare le forme previste per i singoli beni; si può fare un unico contratto ma per il principio dell'attrazione delle forme deve essere fatto nella forma prevista per i singoli beni che compongono l'azienda. Il secondo comma dice: i contratti di cui al primo comma, in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l\'iscrizione nel registro delle imprese, nel termine di trenta giorni, a cura del notaio rogante o autenticante. Quindi, non solo la vicenda deve essere documentata, ma deve essere documentata subito. Pertanto, il primo tema che si pone il legislatore è: [l'azienda può essere oggetto di vicende circolatorie]. Il trasferimento dell'azienda o la messa in disposizione dell'azienda non rende il compratore o il locatario di per sé un imprenditore, perché l'acquisto della qualità di imprenditore è un acquisto a titolo originario cioè si diventa imprenditori se si svolge professionalmente una certa attività. Un conto è l'attività e un conto sono i beni strumentali all'attività stessa. La questione che si pone il legislatore è: quando si trasferisce un'azienda si trasferiscono anche i rapporti giuridici che fanno parte dell'azienda. Per fare il trasferimento si deve fare l'inventario e paradossalmente valgono più le componenti immateriali di quelle materiali (la concessione per gestire la Brebemi vale di più di tutti i mezzi che servono per farla). Per trasferire i beni serve un contratto solo o tanti contratti? È chiaro che chi compra non vuole la dispersione soprattutto dell'avviamento e poi soprattutto più contratti significano più costi di transazione. Il legislatore fa uno sconto sui costi di transazione perché dà delle regole speciali rispetto al regime circolatorio che normalmente è previsto: - successione nei contratti i beni me li compro, ma i contratti legati a quei beni come circolano? Il legislatore dice che (questa è una regola dispositiva) se non è pattuito diversamente, l\'acquirente dell\'azienda subentra nei contratti stipulati per l\'esercizio dell\'azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il legislatore, quindi, dice che se compri un'azienda e questa è titolare di contratti, l'acquirente subentra automaticamente senza dover andare porta a porta a dire che è il nuovo acquirente. Quindi, c'è una successione automatica nei contratti. È una norma speciale perché per essere un contraente ceduto, perché il contratto non sia più con tizio ma con caio, deve essere d'accordo e qui il legislatore dice che il contraente ceduto quando qualcuno si compra l'azienda non deve esprimere nessun consenso; questo con due eccezioni chiaramente: il patto contrario (cioè le parti quando scrivono il contratto di trasferimento dell'azienda scrivono che questo contratto non passa, quindi è fatta salva la volontà contraria delle parti) e non c'è successione automatica nei contratti che abbiano carattere personale (quelli che riguardano la persona specifica del creditore e del debitore, del cedente e del ceduto). Quello che prima era un fornitore, un debitore, un cliente, un creditore dell'azienda proprietaria di tizio si trova automaticamente fornitore, debitore, cliente, creditore della stessa azienda che però è di proprietà di un altro soggetto senza poter dire se era d'accordo o no. Questo dà sicuramente un vantaggio alle parti perché riduce i costi di transazione ma crea un problema: l'azienda di cui sono fornitore viene comprata dal mio più acerrimo concorrente. In questo caso il legislatore dice: il terzo contraente (quello che si ritrova automaticamente nella relazione con il nuovo proprietario dell'azienda) può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell\'alienante. Il legislatore non chiede il permesso prima e sei ceduto con l'azienda, però entro tre mesi dalla cessione se esiste una giusta causa puoi sciogliere il contratto, cioè recedere. Il legislatore sulla base di questa previsione sta derogando alla regola sulla quale il contratto ha forza di legge tra le parti: se il contratto che ho con l'azienda viene ceduto insieme all'azienda e non è previsto un meccanismo di risoluzione (di scioglimento) io teoricamente sono vincolato a quel contratto. Ma qua il legislatore dice che se anche il contratto è un contratto blindato se sussiste una giusta causa entro tre mesi puoi recedere. La giusta causa non viene detta dal legislatore, ma ci sono tutta una serie di situazioni che non richiedono il consenso prima ma che presuppongono la possibilità di liberarsi da una relazione che sarebbe intollerabile. Qua c'è un tema piuttosto importante: il fatto che ci sia questo meccanismo di successione automatica nei contratti serve a preservare il valore aziendale (il valore di avviamento) perché quando si compra si compra esattamente quella configurazione di beni che il venditore ha impresso all'organizzazione; quindi, questa previsione che fa risparmiare costi di transazione in realtà dà un vantaggio positivo cioè la conservazione dell'organizzazione e pertanto del valore di avviamento, però c'è un rischio: che sussista la giusta causa e che qualcuno tra i soggetti che sono stati ceduti si sfili (magari proprio quel fornitore critico che mi dà quella materia prima a certe condizioni). Chi compra l'azienda attribuisce un valore al fatto che quella relazione ci sia, ma poi dopo aver saputo del trasferimento il soggetto si sfila risolvendo il contratto e quindi chi ha comprato subisce un decremento di valore, un pezzo di avviamento che se ne va. Ecco perché il legislatore dice che deve sussistere la giusta causa e poi "salvo il caso in cui ci sia il recesso la responsabilità dell'alienante", cioè l'alienante mi deve garantire che tutti quei contratti che sono ceduti automaticamente con il trasferimento dell'azienda restino appiccicati all'azienda anche nel periodo critico dei tre mesi dopo la cessione. Questo nella pratica comporta a livello di negoziazione delle complessità perché molte volte il compratore dell'azienda ha fatto due diligence per capire che cosa sta comprando e alla fine di questa c'è una lista, un inventario. La due diligence serve a perimetrare l'azienda e nella fase successiva serve a definire il valore dell'azienda. Però se dopo la cessione iniziano ad andarsene proprio quei soggetti critici il valore non è più lo stesso. Quindi, nella dinamica della negoziazione questa previsione di relativa instabilità dell'organizzazione si traduce in due cose: o nel fatto che si dà subito un pezzo di prezzo al contratto e il resto viene dato dopo un certo periodo di tempo quando si è verificato che non se ne va nessuno oppure si dà tutto il prezzo e poi lo si aggiusta se qualcuno se ne va. Quindi, le clausole di prezzo diventano un po' più complicate perché devono prevedere questo meccanismo di aggiustamento in un senso o nell'altro. Il compratore non è stupido e solitamente compra ma nel contratto mette una condizione risolutiva che dice che se entro i prossimi tre mesi i soggetti critici se ne vanno il contratto si risolve, cioè il venditore si riprende l'azienda e restituisce i soldi. Anche questo garantisce il fatto che il compratore non si ritrovi con un'azienda che non vale quello che pensava potesse valere. I processi di cessione di aziende e di società possono essere devastanti da questo punto di vista per il profilo aziendale. Nel processo di due diligence il compratore può notare che ci sono dei soggetti molto bravi e che conoscono tutto e quindi non compra l'azienda e non fa i meccanismi di aggiustamento del prezzo se questi non vengono con l'azienda. Quindi, nel processo di negoziazione è possibile che il compratore vada direttamente da questi soggetti e gli chieda di firmare dei contratti di lavoro direttamente con lui con all'interno una condizione sospensiva: i contratti sono firmati ma gli effetti non si producono fin tanto che l'azienda non è trasferita. Pertanto, se l'azienda si trasferisce automaticamente si avvera la condizione e loro diventano dipendenti del compratore e quindi non se ne possono andare se non alle condizioni stabilite dal contratto, ma se l'azienda non si trasferisce rimangono dipendenti. Questo meccanismo ribalta la prospettiva delle parti: non si compra l'azienda prima con la speranza che vengano i contratti dopo, ma si stanno comprando i contratti prima con la speranza che venga l'azienda dopo. Il compratore ha questo potere di riscrivere un po' la storia di questa vicenda. Se però, per una qualche ragione, la cessione dell'azienda non va a buon fine l'azienda è distrutta perché i soggetti sanno quanto valgono sul mercato, perché in mano hanno un contratto che non produce effetti ma che gli dice quanto valgono; quindi, se non si fa la cessione questi soggetti se ne vanno loro dall'azienda e il valore aziendale è distrutto. Quindi, questi processi di trasferimento di aziende possono essere devastanti per il valore aziendale rappresentato dall'avviamento perché si perdono dei pezzi per strada. È una situazione drammatica perché se il compratore non fa l'offerta ai soggetti non va avanti con l'acquisizione, se non si fa l'acquisizione il proprietario dell'azienda non prende tutti i soldi promessi; se l'operazione non va a buon fine un pezzo dell'avviamento è perso. Il legislatore dice che non ci può fare nulla più che prevedere l'automatismo nel passaggio di certi contratti, il resto è dispositivo ovvero fa parte della negoziazione e dell'abilità delle parti di organizzare l'operazione. - La successione di contratti vuol dire: salvo patto contrario e salvo i contratti a titolo personale, c'è automatismo quindi nessuna necessità di autorizzazione ex ante da parte del contraente ceduto ma possibilità di recesso nei tre mesi successivi alla cessione in presenza di giusta causa. E le stesse norme si applicano quando è stato ceduto l'usufruttuario o l'affittuario - cessione dei lavoratori non si parla di tutta la forza lavoro, ma di quei pochi dirigenti che hanno in mano l'indirizzario con i clienti, i rapporti con le banche e i fornitori. Per tutta la forza lavoro il Codice civile e poi la legislazione speciale prevede delle condizioni diverse contenute all'Art. 2112 (mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d\'azienda): in caso di trasferimento d\'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Questa è una previsione a tutela del lavoratore: il trasferimento dell'azienda non pregiudica la posizione del lavoratore, il lavoratore si ritrova ceduto insieme all'azienda ma conserva tutti quanti i diritti. Al secondo comma dice: il cedente ed il cessionario (chi compra e chi vende) sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Quindi, se c'erano degli arretrati, la liquidazione, il trattamento di fine rapporto, quelle somme adesso per effetto della cessione sono dovute solidalmente dal cedente e dal cessionario: il lavoratore si ritrova potenzialmente ad avere due creditori per cui se non paga uno paga quell'altro. Nel trasferimento, pertanto, la posizione del lavoratore è garantita e se il cedente vuole essere liberato si può fare la liberazione del cedente ma bisogna che il lavoratore dica che è d'accordo però questa liberatoria deve essere fatta di fronte al giudice del lavoro con l'assistenza dei sindacati perché il lavoratore non deve soggiacere a nessun tipo di ricatto. Al terzo comma dice: il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza (quindi non può risolvere i contratti di lavoro due minuti dopo aver comprato l'azienda), salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all\'impresa del cessionario; l\'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello. C'è poi un limite dimensionale: quando l'azienda che viene trasferita è di grandi dimensioni c'è un'altra norma speciale che è il procedimento di consultazione aziendale, cioè i lavoratori devono essere consultati e le rappresentanze sindacali devono dare il loro parere al trasferimento. Questo perché non è detto che il trasferimento rappresenti una vicenda migliorativa per il lavoratore o per i lavoratori. Quindi, il legislatore dice che quando ci sono in gioco tanti posti di lavoro nel processo di negoziazione subentra anche la rappresentanza sindacale - restano da considerare i debiti e i crediti perché il compratore vorrebbe comprarsi i crediti ma non i debiti, mentre l'azienda vorrebbe cedere i debiti ma non i crediti. La cessione dei crediti relativi all\'azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell\'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Qua c'è quindi un'altra regola: il debitore ceduto si trova ad avere un altro creditore (il nuovo proprietario dell'azienda) senza dover esprimere il consenso. La regola in generale è che si può cedere la propria posizione contrattuale ma l'altra parte deve consentire alla cessione perché si ritrova ad avere un contraente che non è quello con il quale aveva espresso il consenso. Il legislatore dice che qua per esigenze di risparmio dei costi di transazione il debitore dell'azienda è ceduto insieme all'azienda stessa. Il legislatore dice: non serve che autorizzi la cessione (non deve esprimere il consenso) e non serve che la cessione gli sia notificata; il debitore dell'azienda deve sapere che c'è un nuovo creditore (il nuovo proprietario dell'azienda) per il fatto che l'atto di cessione è iscritto nel registro delle imprese. La pubblicità della vicenda traslativa attraverso l'iscrizione nel registro delle imprese fa sì che il debitore ceduto debba pagare al nuovo creditore. Cosa succede se autenticamente il debitore è in buona fede, cioè ha controllato fino al giorno prima il registro e non c'era scritto nulla e il giorno dopo ha fatto il bonifico e pagato il debito? Il Codice dice che il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al venditore o all'alienante; quindi, se paga a quel signore che era il suo creditore e che non era stato tempestivo a trascrivere nel registro delle imprese è liberato, cioè non ha più il debito nei confronti dell'azienda, sarà il creditore che ha ricevuto il credito a doverlo trasferire al nuovo compratore dell'azienda. Per quanto riguarda i debiti la regola vuole che se si sta trasferendo un'azienda e questa è indebitata vengono trasferiti anche i debiti. L'alienante, quello che vende, dovrebbe quindi essere liberato dai debiti ma il problema è che i creditori non sanno se il nuovo proprietario dell'azienda è solvibile come il precedente. Il legislatore, quindi, qua deve correggere la regola e dice: l\'alienante non è liberato dai debiti, inerenti all\'esercizio dell\'azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Qua a tutela dei creditori il Codice dice nella cessione dell'azienda che il cedente rimane obbligato insieme al cessionario ovviamente: si crea una forma di debito solidale tra venditore e compratore e se il venditore vuole essere liberato, cioè che i debiti siano effettivamente trasferiti con l'azienda al nuovo proprietario, i creditori devono essere d'accordo. Il Codice dice anche: nel trasferimento di un\'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l\'acquirente dell\'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Ma come fa l'acquirente a sapere che esistono questi debiti? Dalle scritture contabili perché l'impresa commerciale è tenuta all'obbligo delle scritture contabili ovvero che tutte le operazioni devono essere tracciate e l'acquirente diventa debitore dei debiti dell'azienda se questi debiti in qualche modo risultano dalle scritture contabili. Qua la norma sta dicendo che il venditore dell'azienda ha l'onere della corretta tenuta delle scritture contabili perché se vuole essere liberato devono acconsentire i creditori, ma i creditori acconsentono se c'è almeno un altro debitore, questo debitore è quello che si è comprato l'azienda e questo è debitore se conosce i debiti; quindi, deve tenere bene le scritture contabili perché quello che non risulta da quelle non ti libera Ultimo punto sul trasferimento d'azienda. Abbiamo visto che tutte queste norme, regole ed eccezioni sul trasferimento servono a facilitare lo scambio, ma nel facilitare lo scambio non devono compromettere il valore aziendale, il valore dell'avviamento. Una delle cose più antipatiche nel trasferimento d'azienda è il fatto che chi compra è un imprenditore non per il fatto stesso di comprare però se compra l'azienda è perché o la vuole rivendere (quindi come mestiere fa l'imprenditore che compra e vende aziende) o sta comprando l'azienda proprio perché vuole fare quel mestiere. Cosa succede se quello che vende l'azienda dopo due minuti rifà la stessa impresa? Questa è una prima situazione di effettivo rischio di concorrenza che porta a una dissipazione del valore di avviamento e al tempo stesso c'è un controvalore da prendere in considerazione: quello che ha venduto l'azienda potrebbe voler fare un'altra attività imprenditoriale. Quindi, da una parte si deve tutelare il compratore in quanto acquirente dell'azienda rispetto a delle condotte che potrebbero dissipare il valore aziendale ma dall'altro lato c'è il venditore che vorrebbe poter esercitare un'altra attività imprenditoriale e il diritto di iniziativa economica privata è costituzionalmente garantito. Qua come si bilanciano gli interessi? Da una parte c'è l'interesse del compratore dell'azienda ad essere schermato da una concorrenza che è certamente effettiva e dall'altra il venditore dell'azienda che vuole fare ancora l'imprenditore nel settore che conosce; il legislatore detta delle norme per bilanciare questi due interessi. Mettendosi nell'ottica dell'imprenditore che deve sborsare denaro per comprarsi un'azienda e si ritrova come concorrente esattamente quello a cui ha appena dato un sacco di soldi. Infatti, uno degli effetti normali (nel senso che c'è ma potrebbe esser tolto) del trasferimento delle aziende è il divieto di concorrenza (Art. 2557); lo prevede la legge, è un divieto dispositivo che le parti possono in qualche modo modificare e persino togliere, ma se non dicono nulla si applica questa norma che prevede che: chi aliena l\'azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall\'iniziare una nuova impresa che per l\'oggetto, l\'ubicazione o altre circostanze (il nome, i simboli) sia idonea a sviare la clientela dell\'azienda ceduta. Qua per la prima volta il legislatore si preoccupa dello sviamento della clientela perché questo distrugge il valore aziendale. E allora il legislatore dice che chi vende, se non è diversamente stabilito, per cinque anni è tenuto a un obbligo di non concorrenza che però deve essere circostanziato perché pesa sull'alienante e quindi dice che l'alienante non può fare concorrenza non per sempre ma al massimo per cinque anni che in alcuni settori sono un'era geologica. Quindi dal punto di vista delle coordinate temporali si parla di cinque anni; l'oggetto è che non può essere fatta un'azienda uguale o simile e l'ubicazione non può essere vicina. Dal punto di vista temporale e spaziale l'alienante può essere un concorrente temibile. Questo è un divieto imposto dalla legge, quindi la violazione del divieto comporta il risarcimento del danno che è il danno emergente e il lucro cessante. Quando il legislatore dice che ci sono varie circostanze per le quali si può fare concorrenza perché per esempio l'oggetto non è sempre geometricamente definibile e su questo si negozia perché l'alienante vorrebbe sempre restringere l'oggetto il più possibile. È chiaro che su queste cose si litiga e le altre circostanze rilevanti non sono tanto l'utilizzo del marchio, ma sono le risorse umane. Tutti i comportamenti che il legislatore non riesce a definire devono essere specificati dalle parti per delineare il perimetro della non concorrenza. Il secondo comma dice: il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal comma precedente è valido (il legislatore dice che le parti hanno dei gradi di libertà rispetto a queste coordinate e possono inasprire o attenuare la non concorrenza), purché non impedisca ogni attività professionale dell\'alienante (cioè purché l'alienante non debba proprio diventare un dipendente o andare a chiedere l'elemosina); esso non può eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento. Il terzo comma dice: se nel patto è indicata una durata maggiore o la durata non è stabilita, il divieto di concorrenza vale per il periodo di cinque anni dal trasferimento. C'è, quindi, un tetto psicologico che il legislatore individua nel quinquennio: se non si dice nulla o si dice più di cinque il limite è sempre cinque. Il quarto comma dice: nel caso di usufrutto o di affitto dell'azienda (quindi non si vende l'azienda ma la si affitta o la si dà in usufrutto a qualcuno) il divieto di concorrenza disposto dal primo comma vale nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell\'usufrutto o dell\'affitto. Quindi, ci possono essere casi in cui il diritto di non concorrenza può essere più lungo di cinque anni quando l'azienda non è stata venduta ma è stata data in usufrutto, per esempio, per sette anni; in questo caso il legislatore dice che, se le parti non si sono messe d'accordo diversamente, fin tanto che dura l'usufrutto dura anche il divieto di non concorrenza. L'ultimo comma dice: le disposizioni di questo articolo si applicano alle aziende agricole solo per le attività ad esse connesse, quando rispetto a queste sia possibile uno sviamento di clientela. Le attività connesse prese isolatamente sono attività commerciali che diventano agricole quando c'è la connessione soggettiva e oggettiva (l'attività di trasformazione riguarda prodotti che vengono prevalentemente dal fondo e sono fatte dallo stesso imprenditore), quindi in questo caso quando si cede l'azienda agricola il cedente è tenuto alla non concorrenza limitatamente alle attività connesse. Una notazione ulteriore che non traspare da queste norme è che ciò che può compromettere il valore di avviamento sono certi comportamenti di concorrenza e il legislatore qua utilizza l'espediente del divieto: se una attività è dannosa riguardo a questa specifica situazione la vieta. Il divieto di concorrenza è una cosa che si ritrova diverse volte nel Codice e frequentemente nella prassi non solo e non tanto nei rapporti tra imprenditori ma anche tra rapporti tra imprenditori e lavoratori. Questo perché non è infrequente che il dipendente dell'azienda lasci l'azienda per creare una sua azienda. La prospettiva che il dipendente se ne vada è comunque dal punto di vista del datore di lavoro una perdita anche perché sono sempre i migliori che se ne vanno e i migliori che se ne vanno si portano dietro un pezzo di conoscenza (che può diventare fonte di vantaggio competitivo per i concorrenti). La conoscenza può essere randomica oppure congiunturale, se ne vanno sapendo che l'azienda si fonderà o avvierà una procedura di ristrutturazione, queste sono conoscenze che si hanno e che occasionalmente possono dare del vantaggio al dipendente. Ci sono tanti modi di avvantaggiarsi dell'informazione aziendale, tanto è vero questo che alcune informazioni aziendali non si possono utilizzare, indipendentemente da dove si va a lavorare; la disciplina dell'insider trading è una disciplina di rilievo penalistico se certe figure professionali all'interno delle aziende traggono vantaggio da informazioni di cui siano venute a conoscenza in ragione del loro servizio. Questo è un reato. Dentro alle aziende ci sono molte informazioni (ci sono anche teorie che dicono che infondo un'azienda è informazione) che riguardano fornitori, prodotti, piano industriale, servizi, margini e dunque c'è una grandissima densità informativa dentro l'azienda: alcune informazioni sono informazioni che hanno valore effimero, vale a dire grande valore che dura poco, e alcune invece hanno grande valore e durano tanto e vari ambiti della legislazione di impresa tutelano queste informazioni (ad esempio il segreto industriale). Il legislatore sa che l'informazione è un valore aziendale, senza dubbio, e sa che c'è una forte dispersione di informazioni quando ci sono vicende circolatorie dei beni aziendali o delle risorse aziendali in generale. Il distacco del lavoratore, il suo trasferimento e la risoluzione del contratto di lavoro sono tutte vicende che comportano un rischio, non una certezza: un'alta probabilità di perdita dell'informazione. A parte l'informazione casuale che è legata a un fatto eccezionale, la maggiore probabilità di acquisto dell'informazione deriva dalla posizione che si ha nell'organigramma: più in alto si è maggiore è la probabilità che si venga a contatto con informazioni sensibili, sia di tipo congiunturale che di tipo strutturale (progetto di fusione, scorporo, piano di licenziamento). Tutte le vicende che coinvolgono il lavoratore e in particolare quello in pozione apicale comportano un rischio di perdita. Quindi, così come nelle vicende di circolazione dell'azienda nel complesso ci sono divieti di concorrenza (previsti dalla legge e che vengono circostanziati dalle imprese il più possibile nei contratti), anche nelle vicende circolatorie del lavoratore esistono i patti di non concorrenza. Questi soggiacciono allo stesso limite: si parla sempre di un quinquennio, si dice sempre che deve essere limitato a una certa zona per essere valido, deve riguardare l'attività del datore di lavoro e comunque deve essere tale da non impedire lo svolgimento dell'attività lavorativa da parte del lavoratore. Tanto è vero che nel caso del patto di non concorrenza dei dipendenti, il patto deve essere retribuito perché si sta chiedendo al lavoratore di sopportare un costo opportunità (es: non poter andare a lavorare dal concorrente). Tutti questi vincoli che rappresentano vincoli per gestire un rischio da parte dell'impresa creano per il lavoratore un costo opportunità e il legislatore dice che quindi il patto di non concorrenza per il lavoratore deve essere retribuito. Ciò però non basta perché il lavoratore che vuole avviare una sua impresa non diventa dipendente di qualcuno, quindi nel patto di non concorrenza bisogna specificare anche che non può fare attività di impresa sugli stessi mercati che fanno quelli che fa l'impresa stessa. Inoltre, quando scade il patto di non concorrenza e si può finalmente avviare l'attività di impresa si potrebbe pensare di chiamare gli ex colleghi e questo si può fare solo se questi non sono vincolati alla concorrenza. Per tale motivo il precedente lavoratore di lavoro quando scrive la clausola di non concorrenza introduce anche un divieto di sollecitazione: nello stesso periodo o addirittura in un periodo più lungo chi lascia l'azienda non può andare a sollecitare né direttamente né indirettamente o per interposta persona una certa categoria di soggetti cioè quegli stessi soggetti che se perduti comportano una perdita di valore per l'azienda (clienti, fornitori, dipendenti, consulenti). Il legislatore dà pochissime regole per la conservazione del valore di avviamento ma sono molte di più quelle che si possono inventare le parti. Ci sono degli studi in giro per il mondo che dicono che nonostante la pratica degli accordi di non concorrenza sia diffusissima (in tutti i settori ad alta tecnologia è diffusissima la pratica degli accordi di non concorrenza), dove questi accordi hanno un basso livello di enforcement, cioè dove in caso di lite vengono ritenuti invalidi, c'è una maggiore crescita economica di tipo imprenditoriale. Il successo imprenditoriale è maggiore in quelle zone in cui in caso di lite sull'accordo di riservatezza tra il datore di lavoro e il lavoratore i giudici danno ragione al lavoratore considerando il patto invalido: ci sono esternalità positive di conoscenza, causate dal fatto che, quando il lavoratore se ne va dall'azienda porta con sé delle conoscenze e queste esternalità producono nuove imprese. Il fatto che gli accordi di riservatezza non siano considerati vincolati fa sì che queste esternalità funzionino come dei semi che generano una nuova attività d'impresa. Quello che a noi interessa però è ricordarci che è la legge che definisce i paletti in Italia su questi accordi e questi paletti sono precisi: quando l'accordo è vincolante per il lavoratore la validità è subordinata al fatto che ci sia un limite spaziale, temporale e che sia remunerato, altrimenti il giudice dà chiaramente ragione al lavoratore. Vediamo i comportamenti che il legislatore considera dannosi per l'azienda tant'è che la disciplina di tali comportamenti sta nello stesso titolo del Codice che si occupa di azienda e nel titolo successivo il legislatore si occupa della concorrenza e il tema è molto legato, nella logica del legislatore del 1942, alla materia della tutela dell'avviamento. Questo perché il legislatore sa che la concorrenza mentre da una parte è positiva come condizione di mercato, quando è svolta in un certo modo diventa deleteria. Diventa deleteria anche perché molti di questi comportamenti lesivi della concorrenza e dei rapporti onesti tra i commercianti distruggono il bene fiducia e compromettono il mercato dal profondo. Il legislatore del 1942 nel Codice civile non vuole regolare la concorrenza intesa come condizioni di mercato (contrapposta al monopolio e all'oligopolio), poiché tale valore non si possiede fino al 1990 quando l'Italia ha adottato la legge antitrust a tutela della condizioni di concorrenzialità del mercato, ma il legislatore del 1942 pensa alla concorrenza sleale. Pensa alla concorrenza sleale in rapporto all'azienda e alla conservazione del valore aziendale e dice all'Art. 2595 (limiti legali della concorrenza) che ancora c'è ma è abbastanza vecchio: la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell\'economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge. Questa è l'unica norma del 1942 che connette la concorrenza con l'interesse generale perché il resto riguarda i rapporti di concorrenza cioè quelli tra imprese. Il primo principio importante riguarda quindi i limiti contrattuali della concorrenza. Questo rapporto tra imprenditori o tra imprenditore e lavoratore può essere limitato contrattualmente, ma il legislatore dice: il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Il legislatore chiede la prova scritta per evitare che ci siano degli abusi. Poi dice: esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio. Questa è la stessa regola che vale per il trasferimento di aziende. Quindi, non è valida la clausola generale di non concorrenza: il patto ci può essere ma deve essere contenuto entro questi limiti. Il patto può essere tra imprenditori e quindi un patto B2B oppure un contratto tra il datore di lavoro e il lavoratore, ma anche un contratto autonomo o una clausola dentro un contratto più grande. Concorrenza sleale si va oltre al semplice rapporto tra impresa o impresa e datore di lavoro, qua si parla di un rapporto di concorrenza e chiunque sia in un rapporto di concorrenza o entri in un rapporto di concorrenza deve osservare delle regole di comportamento che sono quelle dell'onesta pratica commerciale. Chi non le rispetta compie un illecito, compie atti di concorrenza sleale, e l'atto illecito di concorrenza sleale è una fonte di obbligazione. Infatti, le obbligazioni possono nascere da atto illecito che nei rapporti tra imprenditori genera un obbligazione risarcitoria: chi produce il danno da concorrenza sleale deve pagarlo ed è responsabile. Come tutta la materia degli illeciti e dei contratti, qua vige il principio dell'atipicità cioè il legislatore non riesce a dare un nome a tutti i contratti e a tutti gli illeciti, tanto è vero che per i contratti dice che se ne possano fare anche altri purché si perseguano finalità compatibili con l'ordinamento giuridico e gli atti illeciti li definisce l'Art. 2043: qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Ci sono tanti casi e fattispecie e tra queste fattispecie ci sono anche gli atti di concorrenza sleale che a loro volta sono atipici, nel senso che la fantasia degli imprenditori non ha limiti su come ci si può fare del male reciprocamente. Ovviamente il fatto che non ci siano limiti non significa che alcune fattispecie non siano più ricorrenti di altre. Il principio della concorrenza sleale è definito all'Art. 2599: la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale (perché si va dal giudice) ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti. Quindi, il giudice ha molto potere, non solo mi può ordinare di cessare il comportamento sleale ma può addirittura con la sentenza ordinare di rimuovere gli effetti che ho prodotto con la concorrenza sleale. E poi c'è naturalmente il risarcimento del danno e il legislatore dice: se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l\'autore è tenuto al risarcimento dei danni. Solo che a differenza di tutti gli altri illeciti il legislatore dice: accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume. Dunque, il legislatore dice che non può pensare che nei rapporti tra imprenditori uno dei due danneggi l'altro senza saperlo. Magari non è doloso l'atto di concorrenza sleale ma non può pensare come imprenditore che quell'atto sia del tutto incapace di ledere l'azienda altrui. Se è accertato l'atto, la colpa si presume come a dire che deve essere chi ha compiuto l'atto a dimostrare di non essere stato in colpa (molto difficile). Vi è dunque un'inibitoria cioè il potere di vietare la continuazione degli atti e di riavvolgere il filo ed eliminare gli effetti degli atti di concorrenza, risarcimento del danno e poi dice: in tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Questo rimedio è fastidioso perché incide sulla reputazione perché tutti sanno che si è scorretti. Quindi, facendo leva sugli aspetti relazionali il legislatore spera che le imprese sapendo che se si macchiano di concorrenza sleale il giudice le può svergognare non incorrano in atti di questo tipi; però purtroppo succede. Gli atti di concorrenza sleale sono atipici ma non significa che non ricorrono dei comportamenti più frequenti di altri statisticamente. L'Art.2598 dice: ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto (che vuol dire che è chiaro che se voglio fare concorrenza sleale a un mio concorrente la prima cosa che utilizzo è il suo marchio), compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1\) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l\'attività di un concorrente; la prima fattispecie che ricorre frequentemente è la [concorrenza sleale per confusione] (o per imitazione servile) ovvero si imita il prodotto creando confusione nel consumatore alterando le dinamiche concorrenziali normali in base alle quali il consumatore che è perfettamente informato sceglie razionalmente e premia il prodotto migliore. Se si crea confusione il consumatore non premia il prodotto migliore ma premia il prodotto che imita servilmente (cioè è una copia precisa) così che il concorrente non vende il prodotto e i consumatori comprano le mie. Quindi, il legislatore dice che se si sta creando confusione perché si utilizza i nomi e i segni distintivi del concorrente oppure perché si imita servilmente i prodotti o comunque si crea confusione quella è una fattispecie di concorrenza sleale. La concorrenza è bene ma bisogna evitare la [concorrenza parassitaria] cioè il concorrente che non ci mette del suo; infatti, il problema non è l'imitazione perché tutti si imitano, il problema è l'imitazione servile cioè quello che in tutto e per tutto cerca di creare confusione creando un prodotto che confonde il consumatore e magari lui in logica competitiva è più efficiente di me e quindi il suo prodotto che al limite si confonde con il mio gli costa di meno perché risparmia e risparmiando diventa maggiormente competitivo perché è sleale. 2\) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull\'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell\'impresa di un concorrente; [concorrenza sleale per denigrazione] ovvero offendere pesantemente il concorrente e i suoi prodotti in modo che i consumatori vengano da me non perché il mio prodotto sia migliore ma perché ho detto che quello del mio concorrente fa schifo (indipendentemente dal fatto che sia vero). E poi c'è la [concorrenza sleale per appropriazione] di pregi ovvero attribuire al prodotto pregi che non possiede perché sono i pregi del prodotto del concorrente. 3\) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l\'altrui azienda. [clausola di chiusura]: sono stati dati degli esempi e tutti gli atti lesivi dell'altrui azienda che non sono conformi ai principi della correttezza professionale sono atti di concorrenza sleale. Quali sono? Qui soccorre la giurisprudenza perché in questa materia vi è tantissima casistica di atti di concorrenza sleale e per esempio vi è anche la sottrazione dei pregi, il boicottaggio, lo storno di dipendenti (il lavoratore è libero di muoversi perché può sempre recedere dal contratto con preavviso, ma il problema è cosa fa l'altra azienda per far sì che lui si liberi del contratto di lavoro. L'atto unilaterale del lavoratore è perfettamente lecito e anzi garantito dalle norme del contratto di lavoro che consentono il recesso unilaterale ma quando questo è un effetto indotto di un'attività volontaria, persistente e mirata di un altro datore di lavoro questo può essere un atto di concorrenza sleale ed espone l'azienda al risarcimento), lo sviamento di clientela, l'appropriazione dei segreti, ci sono tanti comportamenti che di volta in volta sono stati ritenuti scorretti professionalmente che i giudici hanno sanzionato come concorrenza sleale. Nel 1942, non che queste norme non siano più rilevanti anzi lo sono moltissimo, ma nel 1942 il legislatore vedeva soltanto ad un tipo di concorrenza che era la concorrenza sleale, che in realtà aveva un origine nobile perché era stata disciplinata già nella Convenzione Internazionale dell'Unione di Parigi nel 1883. Era quindi una nozione, quella della conformità ai corretti costumi commerciali, una nozione che veniva dal diritto internazionale pattizio ovvero dalla collaborazione tra i vari Stati che si erano resi conto che come conseguenza della seconda rivoluzione industriale, quando le imprese iniziavano a confrontarsi con concorrenti nazionali e degli altri Paesi, servivano un minimo di regole. Il questo minimo di regole si imperniava sull'idea che ci fosse un concetto condiviso di correttezza professionale e che la concorrenza leale fosse sostanzialmente coerenza con questi valori di correttezza professionale. La concorrenza è disciplinata nel 1942 sostanzialmente come un limite esterno all'attività d'impresa, ma non esterno riferito a tutto il mercato ma alle relazioni che l'impresa ha con coloro che sono in diretta concorrenza con l'impresa stessa. C'è quindi un rapporto di concorrenza che è determinato nei fatti e che si deve mantenere nei limiti della correttezza, se eccede la correttezza c'è un pregiudizio che non riguarda il mercato come tale ma che riguarda il concorrente che subisce il pregiudizio. Noi sappiamo che il pregiudizio riverbera sull'avviamento e la concorrenza sleale rovina l'avviamento che è sempre dell'impresa e dell'imprenditore. Nello statuto dell'impresa, e quindi nel quadro regolatorio che riguarda l'attività d'impresa, del 1942, non c'è l'idea di concorrenza intesa come condizione generale del mercato che beneficia tutti ma soprattutto il consumatore. Quando noi diciamo che la concorrenza è

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