La Fame e L'Abbondanza: Un'analisi del cibo come cultura - PDF

Summary

Questo libro analizza la storia del cibo dalle sue origini fino all'epoca contemporanea, concentrandosi sulle influenze della cultura e dei fattori sociali, come il ruolo dei barbari e dei romani, sulle nostre scelte alimentari.

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LA FAME E L'ABBONDANZA – Massimo Montanari A. Fondamenti per un linguaggio comune 1a. Il tempo della fame La crisi europea ebbe inizio nel III secolo, si inasprì nel IV e nel V ed, in certe regioni come l'Italia, toccò il suo apice nel VI. La scarsità alimentare spinse a ricercare soluzioni di ri...

LA FAME E L'ABBONDANZA – Massimo Montanari A. Fondamenti per un linguaggio comune 1a. Il tempo della fame La crisi europea ebbe inizio nel III secolo, si inasprì nel IV e nel V ed, in certe regioni come l'Italia, toccò il suo apice nel VI. La scarsità alimentare spinse a ricercare soluzioni di ripiego, come erbe e radici inusitate, pani "di fantasia", carni di ogni specie; però, l'uomo europeo del V-VI secolo, non fu solo un accanito divoratore di erbe e radici selvatiche o, magari, all'occorrenza, un feroce cannibale, ma anche un normale consumatore di cibo. Siccome poi aveva paura che quel cibo gli venisse a mancare, si ingegnò per differenziare il più possibile il ventaglio di risorse a cui attingere. Le risorse non mancavano, ma occorreva che i superstiti si organizzassero per sfruttarle. C'erano molte zone incolte, che avevano ormai guadagnato terreno sui coltivi e su cui si aprirono grandi possibilità di sfruttamento, solo che si fossero inventati modi pratici per farlo e che si fosse superato il pregiudizio culturale escludente il saltus, ossia l'incolto, dal novero delle attività produttive. A tutto ciò si affiancò l'affermazione di un nuovo modello produttivo e culturale, decisivo per la formazione di un linguaggio alimentare, che riuscì ad avvicinare opzioni fino ad ora contrapposte ed in conflitto reciproco. 2. Barbari e romani La cultura romana, come quella greca, non aveva mostrato grande apprezzamento per la natura incolta, che era vista come l'antitesi della civiltà, nozione collegata a quella di città, ossia di ordine artificiale creato dall'uomo per differenziarsi e separarsi dalla natura; dal punto di vista produttivo quella cultura aveva ritagliato attorno alla città uno spazio destinato all'agricoltura (ager per i latini), ben distinto dal saltus, connotato per loro in senso negativo. Dunque agricoltura ed arboricoltura erano il perno dell'economia e della cultura dei greci e dei romani, con punti di forza il grano, la vite e l'ulivo. Accanto a questi svolgevano un ruolo centrale l'orticoltura e la pastorizia ovina; la pesca assumeva qualche importanza solo nelle regioni costiere. Da questo si può dedurre che la loro alimentazione fosse a forte carattere vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull'olio, sulle verdure, il tutto integrato da un pò di carne e dal formaggio. Del tutto diversi erano i modi di produzione ed i valori culturali dei barbari, ossia di quelle popolazioni celtiche e germaniche che avevano sviluppato una forte predilezione per la caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l'allevamento brado nei boschi erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. Per cui era la carne il valore alimentare di primo grano, non il pane e tanto meno la polenta; essi non bevevano il vino, ma il latte di giumenta ed i liquidi acidi che se ne derivavano, oppure il sidro tratto dalla ferentazione dei frutti selvatici, oppure la birra. Non usavano l'olio per ungere e per cuocere, ma il burro ed il lardo. Una grande distanza separava il mondo dei romani da quello dei barbari: i valori, le ideologie, le realtà produttive; sembrava impossibile colmare questa lontananza, ma ci fu un avvicinamento grazie ad un duplice processo di integrazione che prese avvio fra V e VI secolo e maturò nei successivi. Detto ciò, occorre precisare però che la pratica dell'agricoltura non era l'unico elemento di per sè sufficiente a collocare un popolo nell'ambito della "civiltà", ma occorreva intervenire attivamente nella fabbricazione del cibo, costruirlo artificialmente, inventarlo, senza limitarci a prendere ciò che la natura ci offre. 3a. La carne dei forti Il primo strumento di integrazione fu, molto semplicemente, il potere. L'affermarsi politico e sociale delle tribù germaniche, diventate un pò ovunque il ceto dirigente della nuova Europa, diffuse in modo più ampio la loro cultura ed i loro atteggiamenti mentali, e con essi una maniera nuova di intendere il rapporto con la natura selvatica e gli spazi incolti, avvertiti non più come una presenza ingombrante e come un limite alle attività prouttive, ma piuttosto come spazi da usare. Questo sarebbe stato inconcepibile qualche secolo prima, quando si riteneva, ad esempio, che un bosco di querce dasse frutti, miele e anche carne, per cui era deleterio da estirpare. Perchè ciò accada ci vuole dunque un salto culturale, precisamente quello che si verificò nella società europea occidentale quando si diffusero i modelli produttivi e mentali tipici del mondo barbarico. Parallelamente la carne divenne il valore alimentare per eccellenza; non stupisce allora l'attenzione per le carni di maiale, arrostite, lessate, al forno o in umido; le carni crude si consiglia evitarle, siccome il cibo ben cotto è più facilmente digeribile. Nei ceti dominanti la carne appare come simbolo di potere, come strumento per costruire energia fisica, vigore, capacità di combattere, mentre astenersi dalla carne è un vero segno di umiliazione, di emarginazione dalla società dei forti, mettendo così in forte discussione la supremazia del pane. 4a. Il pane (e il vino) di Dio Nel IV secolo la religione cristiana si affermò come culto ufficiale dell'impero e, fin da allora, si delineò come testimone ed erede della cultura greca e latina, oltre che dell'ebraica. Nato e cresciuto in un ambito di civiltà prettamente mediterraneo, il cristianesimo aveva subito assunto come simboli alimentari e come strumenti del proprio culto il pane ed il vino, prodotti costituiìenti la base materiale ed ideologica di quella civiltà; anche l'olio divenne simbolo sacro insieme ai primi due; queste scelte implicarono senza dubbio la rottura con la tradizione ebraica, che escludeva dall'ambito sacrificale sia il pane che il vino. 5a. L'abbuffata e il digiuno Anche l'atteggiamento complessivo nei confronti del cibo si era modificato molto: per la cultura greca e romana l'ideale supremo era quello della misura, ossia accostarsi al cibo con piacere ma senza voracità, offrirlo generosamente ma senza ostentazione. Al contrario, la tradizione culturale celtica e germanica, propone il grande mangiatore come personaggio positivo, che proprio mangiando e bevendo molto esprimesse una superiorità prettamente animalesca sui propri simili; soprattutto nelle regioni a forte impronta barbarica, l'immagine del guerriero valoroso è anche quella di un uomo capace di ingurgitare quantità enormi di cibo e di bevande. Per quanto riguarda gli ambienti ecclesiastici, quelli del Nord Europa si mostrano particolarmente sensibili al problema del mangiare molto, tanto da prevedere razioni normali di consumo che la curia romana non esita definire ciclope, mentre quelli dell'area mediterranea si contraddistinguono per un maggiore senso dell'equilibrio, della discrezione individuale; in ogni caso, la prima regola fondamentale riguardante la dieta monastica, è il rifiuto della carne. Quanto al mondo dei contadini e della povertà, a differenza dei nobili essi non potevano permettersi di mangiare molto, limitandosi così a sognare grandi abbuffate di cibo, consumate escludivamente in giorni particolari 6a. Terra et silva L'incrocio sistematico delle attività agricole con le pratiche di sfruttamento dell'incolto è il carattere distintivo dell'economia europea del VI secolo, fino almento al X. Questo binomio era frequente nelle carte di quel tempo, a significare la compresenza capillare di spazi coltivati ed incolti, affiancati, mescolati, compenetrati gli uni negli altri, in un mosaico di forme ambientali a cui corrisponde un insieme vario e composto di attività produttive. Di conseguenza, il sistema alimentare era molto articolato e diversificato, in cui i prodotti di origine vegetale erano affiancati a quelli di origine animale, a tutti i livelli sociali. Il cibo si cercava di reperirlo in loco, e la pesca si configurava come economia di palude più che di mare: un'altra importante differenza con l'economia romana. 7a. Il colore del pane La cerealicoltura romana aveva puntato su frumento come prodotto di pregio destinato al mercato urbano; dopo la crisi del III secolo le cose progressivamente cambiarono e, a detrimento del mercato, crebbe il ruolo dell'autoconsumo; al frumento, che richiedeva attenzioni laboriose e produceva poco, si cominciarono a preferire grani di qualità inferiore ma di più tenace resistenza e di resa più sicura (segale, orzo, avena, farro, spelta, miglio, sorgo). La segale era ritenuta decisamente cattiva, ma conobbe una straordinaria fortuna in tutto il continente europeo e, assieme ad essa, venivano seminati molti altri cereali, per questo si parlava di policoltura, un altro espediente per ridurre i pericoli delle avversità climatiche, differenziando i tempi di crescita delle piante. Anche il frumento era coltivato, ma in piccole quantità, e destinato per lo più alle classi alte. La contrapposizione tra segale e frumento si compendia in un dato carattere cromatico: il pane di frumento è bianco ed è destinato ai signori, configurandosi così come prodotto di lusso, mentre il pane di segale è nero ed è destinato a contadini e servi. Non meno significativa era la contrapposizione tra pane fresco e pane raffermo, il primo privilegio per i grandi monaseri e per le corti signorili, pane lievitato di più o di meno. Dopo tutto questo discorso occorre dire però che nella maggior parte dei casi il pane mancava o era scarso: la preponderanza dei cereali inferiori nel sistema di produzione dava semmai alle polente, alle zuppe, alle minestre un ruolo centrale nell'alimentazione dei più. Anche il consumo di carne era socialmente differenziato, nel senso che solo pochi potevano permetterni di mangiare carni fresche; i contadini, per esempio, preoccupati di garantirsi delle scorte, contavano molto sulla carne conservata. 8a. Usare la natura Bisogna imparare a sfruttare la natura spontanea, conoscendola a pieno per riuscire a distinguere ciò che è commestibile da ciò che invece è dannoso per l'uomo; l'uso delle risorse naturale, infatti, non è una cosa che si improvvisa, ma richiede un duro apprendistato, un processo di apprendimento legato alla conoscenza del territorio ed alle informazioni dei suoi abitanti. L'addomesticamento del paesaggio, delle piante, degli animali, non esclude realtà intermedie, sfumate, ambivalenti; molte piante esistono sia allo stato selvtico che addomesticate, come era anche per gli animali e nel campo della pesca. Nel frattempo la popolazione aveva ripreso a crescere, dopo secoli di recessione e di stasi, forse perchè si era instaurato un ciclo alimentare favorevole; in ogni caso la crescita, se da un lato si appoggiava al sistema produttivo che faticosamente si era venuto a delineare, dall'altro rischiava di innescare un meccanismo distruttivo di quel medesimo sistema. Infatti l'accresciuta domanda di cibo si poteva soddisfare solo allargando gli spazi coltivati ed amplificando il suolo dell'agricoltura rispetto alle altre forme di utilizzo del territorio. B. La svolta 1b. Una scelta coatta Nell'anno 883, un inventario di un monastero, registra la presenza di 32 nuovi poderi nuovi concessi in affitto, impiantati in una zona boschiva, che i monaci solo di recente si sono decisi a mettere in coltura; solo per necessità ci si è spinti ad abbattere alberi, a dilatare lo spazio coltivato. Tra il settore produttivo agrario e quello silvio-pastorale, non si era instaurata una vera e propria integrazione, infatti agricoltura ed allevamento coesistevano ovunque, ma gli animali da lavoro erano pochi ed il concime si disperdeva nei boschi, per cui la produttività dei campi restava bassa, rendendo necessario l'impiego di ampie superfici per la semina, mentre si riducevano quelle per il prato. Finchè la pressione demografica non si fece sentire il sistema aveva funzionato, ma fu necessario continuare ad allargare le superfici coltivate e distruggere l'incolto; l'erosione del bosco non fu soltanto il risultato di questa agrarizzazione dell'economia, ma esso stesso venne messo a coltura, addomesticato. Insomma, l'avvio dell'espansione agraria, coincide con un periodo di accreciute difficoltà alimentari, insormontabili con i precedenti equilibri produttivi. 2b. Le ragioni del potere Da questo momento l'economia europea assume un carattere maggiormente agricolo, ma ciò non sarebbe bastato ad introdurre sostanziali modifiche nel regime alimentare dei più, se al fenomeno non si fosse sovrapposta un decisiva modificazione di ordine sociale. Man mano che l'aumento demografico e la riduzione degli incolti facevano aumentare la concorrenza per lo sfruttamento di questi ultimi, le tensioni sociali crescevano e, con esse, la definizione dei privilegi legati all'esercizio del potere: in modo più o meno rigido, più o meno esclusivo, l'uso delle risorse boschive fu riservato ai ceti sociali più forti, a scapito dei più deboli. La limitazione e l'abolizione dei diritti d'uso sugli spazi incolti ebbe rilevante importanza nella storia della alimentazione, infatti ne derivò una divaricazione del regime alimentare: i ceti inferiori avevano un'alimentazione basata prevalentemente sui cibi di origine vegetale, mentre il consumo di carne cominciò a diventare un privilegio e fu avvertito sempre più chiaramente come uno status-symbol. 3b. Dacci oggi il nostro pane.. Soprattutto a partire dall'XI secolo, il pane assume un ruolo decisivo nell'alimentazione dei ceti popolari; tutto il resto comincia ad essere avvertito come un'integrazione accessoria, come un semplice contorno che accompagna il pane (da qui la diffusione del temine companatico). L'assuefazione del pane, la radicata consuetudine a preparare e consumare quel tipo di alimento, spingono a fabbricarlo ad ogni costo, utilizzando ogni sorta di ingredienti. In gni caso è evidente che col passare dei secoli la possibilità di risolvere la crisi alimentare ricorrendo a risorse alternative ai cereali si fa sempre più remota e, un pò alla volta, ci si dovette rassegnare all'idea che senza agricoltura è difficile sopravvivere, giudicando allora la mancanza di pane intollerabile. 4b. La gola della città La città era il perno attorno a cui ruotava l'intera vita economica, oltre che politica, dello Stato; il luogo in cui convergevano derrate agricole es ogni sorta di risorse alimentari, convogliate in gran parte sul mercato cittadino, oltre che nei magazzini dei maggiori proprietari. Disgregatosi poi, in Occidente almeno, il tessuto politico e sociale dell'impero, le campagne europee avevano lungamente vissuto con altri, diversi punti di riferimento: comunità di villaggio, corti signorili, abbazie e chiese rurali. Forse anche per questo, il venir meno di un apparato statale opprimente, la società contadina aveva potuto riorganizzarsi su nuove basi, elaborando forme diverse di economia e di sussistenza, prevalentemente destinate all'autoconsumo. La crescita agraria si accompagnò al rifiorire dei mercati, soprattutto su base locale, e fu accompagnata da un intervento legislativo coprente tutte le fasi del processo produttivo, a cui fecero eco i contratti agrari, privatamente stipulati dai proprietari terrieri con i contadini dei dintorni. Il contadino iniziò così ad essere visto con occhi nuovi, non più un oggetto di dominio, ma uno strumento di lavoro per produrre di più, guadagnare di più. 5b. Mangiare olto, mangiare bene Non senza tensioni, contraddizioni e contrasti, la società europea sembra aver raggiunto nella prima metà del XIII secolo una situazione di diffuso benessere: la crescita economica, pur con i costi che ogni crescita comporta in termini di emarginazione e di sperequazione sociale, non ha mancato di produrre effetti benefici sull'assetto complessivo delle città e delle campagne, portando ad una diminuizione delle carestie, soprattutto nelle città. I ricchi, come sempre, sposteranno più in alto la soglia della distinzione sociale; in un mondo dove l'abbondanza è più diffusa mangiare molto, come era costume delle classi dominanti europee, non bastava più. Rimane, certo, un importante tratto distintivo della nobiltà, ma occorreva anche mangiare bene, cercando allora di introdurre una ritualità conviviale fondata anche sull'eleganza e non più solo sulla forza. 6b. Gastronomia e fame Agli inizi del Duecento, la requisioria di papa Innocenzo III contro le vanità mondane non aveva risparmiato il peccato di gola e le nuove ghiottonerie che l'insana passione degli uomini era riuscita ad inventare. Non bastano più il vino, la birra, il sidro, i prodotti naturali della terra e degli animali. In effetti non si trattava do una novità in senso stretto; l'uso abbondante delle spezie era una pratica diffusa da tempo nella cultura europea. Intanto bisogna sgombrare il campo da una falsa opinione, cioè che il largo uso di spezie fosse determinato dalla necessità di coprire, mascherare, camuffare il gusto di vivande troppo spesso mal conservate se non, addirittura, avariate. In primo luogo i ricchi consumavano carne freschissima, così come il pesce e, per la conservazione, ci si serviva della salagione, dell'essicazione o dell'affumicatura, non delle spezie che, sotto parere anche medico, favorivano la digestione dei cibi grazie al loro calore. Fra i caratteri distintivi della nuuova cucina europea sono certamente da annoverare le torte,soprattutto quelle ripiene in cui poteva entrarvi di tutto, dal pane alle uova, alla carne ed, addirittura, al pesce. C. A ciascuno il suo 1c. Il ritorno della fame All'incirca a iniziare dal 1270, la crescita economica europea segna una grave battuta d'arresto. L'espansione agraria rallenta ed i terreni a coltura si restringono, ma non è il segno di un raggiunto equilibrio alimentare, al contrario, la situazione va facendosi più drammatica che mai, siccome al crescere della popolazione non si riesce più a rispondere in modo adeguato. Lo spazio coltivabile si è eccessivamente dilatato, l'arretramento dei campi nasce dalla constatazione che un limite invalicabile è stato raggiunto, procedere oltre sarebbe lavorare per nulla. La produzione agricola sta cadendo, portando, agli inizi del Trecento, ad una serie di carestie, con conseguenti tensioni tra cittadini e contadini. I ripetuti stress alimentari a cui la popolazione era sottoposta provocarono uno stato di diffusa malnutrizione e di debolezza fisiologica, preparando il terreno all'epidemia della peste che devastò il continente. 2c. Un'Europa carnivora? Dopo la tragedia della peste la situazione, effettivamente, migliorò; il consumo di carne, già divenuta status symbol, continuò ad attestarsi e ad aumentare, anche per i ceti inferiori della società. Tutto questo significò un impulso notevole al commercio di carne, sia di breve che di lungo raggio; i mercati cittadini ne furono riforniti con inconsueta facilità e continuità, ed i prezzi ribassarono, mentre la crisi demografica sollecitava il rialzo dei salari reali: ciò rese accessibili i consumi carnei ad una fascia maggiore di consumatori. Nelle regioni mediterranee il ruolo alimentare della carne non era altrettanto decisivo. Il contrasto città-campagna rimane comunque un nodo fondamentale nella distribuzione sociale del cibo; soprattutto al mercato urbano sono destinati i bovini che l'espazione del pascolo e lo svilupo delle aziende zootecniche consentono di produrre in quantità maggiore che in passato. 3c. Mangiare di magro A questa società di carnivori la normativa ecclesiastica imponeva di astenersi dalla carne per circa 150 giorni all'anno, come forma di rinuncia diffusa da molti secoli in ambito culturale cristiano: agli inizi l'avevano praticata soprattutto eremiti e monaci, poi il modello si era allargato ala società interna, confortato e consolidato dalle prescrizioni delle autorità ecclesiastiche, che riguardavano alcuni giorni della settimana e certi giorni o periodi dello anno. I motivi di questa scelta sono piuttosto complessi, alcuni sono di ordine strettamente penitenziale, altri sono legati alla persistenza di una certa immagine pagana del consumo di carne, altri ancora alla convinzione che il consumo i carne favorisse l'eccesso di sessualità o a tradizioni di pacifismo vegetariano ereditate dalla filosofia greca ed ellenistica. Di qui la necessità di cibi alternativi, come i legumi, il formaggio, le uova, il pesce, divenuto per eccellenza il simbolo dei giorni di magro. Il consumo di pesce rimase tuttavia segnato da un insieme di connotazioni culturali che gli impedirono di conquistare simpatie veramente popolari: quello conservato richiamava nozioni di povertà economica e subalternità sociale, mentre quello fresco richiamava ricchezza, ma una ricchezza scarsamente invidiabile, siccome il pesce non riempie. 4c. Una questione di qualità Fra XIV ed XVI secolo l'ideologia dei ceti dominanti si mostra particolarmente attenta a definire gli stili di vita propri dei diversi gruppi sociali: i modi di mangiare, di vestire, di abitare vengono crupolosamente codificati. L'intento non è di tipo descrittivo, muovendosi, più probabilmente, sul piano della prescrizione. In questo senso furono esemplari le cosiddette "lggi suntuarie", volte a controllare i comportamenti ed i consumi privati onde impedire eccessi di ostentazione e di sperpero, per garantire e conservare gli assetti istituzionali, evitaer che certi gruppi consortili o professionali salissero a troppo prestigio incrinando gli equilibri esistenti. Ma ciò che soprattutto interessa è differenziare la classe dominante dagli altri gruppi sociali; infati, l'assunto preliminare è che si deve mangiare secondo la qualità della persona, intendendo l'insieme delle caratteristiche fisiologiche e delle consuetudini di vita proprie di ciascun individuo, mentre prima il rapporto fra regime alimentare e stato sociale aveva avuto un carattere soprattutto quantitativo. Per quanto rigurada i cibi, sia animali che vegetali, il valore gli era attribuito secondo il concetto di alto e basso: esso cresceva salendo e diminuiva calando; si riteneva dunque, in campo vegetale, che i bulbi e le radici occupassero i posti più bassi della piramide qualitativa, poi venivano le erbe, gli arbusti ed, infine, gli alberi, i ci frutti svettavano nel cielo assieme ai rami ed alle fronde. La maggiore qualità di questi ultimi, oltre essere data dalla loro maggiore vicinanza al cielo, era data anche dal concetto scientifico secondo cui la digestione del cibo da parte delle piante, vale a dire l'assimilazione dei principi nutritivi, avvenisse con tanta maggiore compiutezza quanto più la pianta si spingeva verso l'alto, consentendo di perfezionarne il processo. 5c. La tavola da guardare Nella società europea dei secoli XIV-XVI la nozione di potere non è più quella di un mezzo millennio prima, quando si guardavano la forza fisica e la capacità di combattere come principali attributi del comando, quanto l'abilità amministrativa e diplomatica. Analogamente è cambiato il modo di esprimere il potere attraverso il cibo,nel senso che non si guarda più la capacità individuale di mangiare, ma quella di organizzare attorno a sè un apparato di cucina e di tavola ampiamente orchestrato, di far sedere attorno a sè le persone giuste, ad ammirare la quantità di cibo preziosamente elaborato che il proprio denaro e la fantasia dei cuochi e dei cerimonieri hanno saputo concentrare sulla tavola. Un carattere sempre più marcatamente ostentatorio diventa il segno distintivo della mensa dei potenti; la tavola non è più il luogo di coesione socile attorno al capo, ma piuttosto della separazione e l'esclusione: pochi ammessi a parteciparvi, mentre i più restano a guardare. 6c. L'abbondanza dei poveri L'antidoto più efficace della paura della fame è il sogno, il sogno della tranquillità e del benessere alimentare, o piuttosto della abbondanza, dell'abbuffata. La fame è un'esperienza sconosciuta ai ceti privilegiati, ma non la paura della fame, la preoccupazione di un approvvigionamento alimentare che sia all'altezza delle proprie aspettative. Viceversa, il mondo della fame è anche un mondo all'abbondanza e dell'ostentazione: anche la società contadina conosce momenti di sperpero del cibo, in occazione delle grandi festività e delle principali ricorrenze della vita. D. L'europa e il mondo 1d.Un bel paese di là dal mare L'ansia di scoperte e di nuove conoscenze che caratterizza il lungo periodo dei viaggi oltre Oceano, sembra coinvolgere anche la fantasia popolare. L'utopia cuccagnesca ed i sogni di abbondanza vengono proiettati nelle terre al di là del mare, che si immaginano ricche di ogni ben di Dio, riserve infinite di cibo. Anche le fantasie, però, hanno dei limiti, dettati dalla cultura in cui nascono: una cultura in cui ogni cosa ha il suo posto, il suo ruolo preciso, definito in rapporto a tutti gli altri; la cucina ed il regime alimentare non sono un assemblaggio casuale di elementi, ma un sistema globale e coerente. 2d. Nuovi protagonisti Nel XVI secolo la popolazione aumentò notevolmente in molti paesi d'Europa e le strutture di produzione risentirono di questa cosa, le risorse alimentari cominciarono a scarseggiare. Rispetto al Quattrocento gli anni di insufficienza produttiva sono assai più numerosi e le rese cerealicole rimangono molto basse; la soluzione è dunque quella tradizionale, ossia di allargare lo spazio coltivano, attuare bonifiche, dissodamenti. In tutto ciò, il mais, solo di rado fu coltivato al posto degli altri cereali e gli orti erano esenti da canone: il contadino poteva piantarvici ciò che desiderava. 3d. Il pane e la carne Con il passare degli anni il pane divenne sempre più indispensabile per la sussistenza quotidiana; il mercato continua ad offrire ai cittadini prodotti sempre piè differenziati di quanto possano permettersi i contadini, ma la razione giornaliera di pane è sempre al centro delle loro attenzioni, pur variando di quantità e di qualità secondo gli usi alimentari del luogo, le possibilità d'acquisto, l'andamento del raccolto ed il periodo dell'anno. Tale crescita non sorprende, data la contestuale discesa dei consumi carnei. I cereali, in ogni caso, assicuravano alla dieta popolare gran parte del fabbisogno energetco. 4d. Ferocia borghese Con l'aggravarsi della situazione alimentare e l'incombente minaccia della fame, le manifestazioni di rabbia e di insofferenza assumono forme più esasperate e violente, come i saccheggi dei forni ed i grandi conflitti per il cibo. Nei momenti di crisi, folle di contadini e di miserabili si accalcavano alle porte dei centri urbani, maggiormente protetti dalla politica governativa; la ferocia borghese continua ad insaprirsi sempre di più, tanto che i poveri cominciano ad essere imprigionati insieme ai pazzi ed ai delinquenti ed, in Inghilterra, entrano in vigore le poor laws, ossia le leggi dei poveri, che andavano energicamente contro di essi. 5d. Le due europe Da un lato abbiamo i popoli del Sud, sobri e frugali, affezionati ai prodotti della terraa ed ai cibi vegetali; dall'altro i popoli del Nord, voraci e carnivri. Probabilmente si tratta di stereotipi, di immagini scarsamente credibili se non associate a variabili di natura sociale. Nella zona settentrionale vi era l'abitudine di bere molto, conciliata con la bassa gradazione alcolica della birra. 6d. Mutazioni del gusto Sono i ceti alti a rilanciare una nuova cucina: gruppi sociali che non possiamo immaginare preoccupati di impiegare un prodotto perchè abbondante ed a buon mercato, quando sappiamo che è proprio il contrario a sollecitare i desideri di distinzione; anche il nuovo orientamento del gusto dovette contribuire per la sua parte a certe trasformazioni dell'agricoltura europea, come la tendenza a privilegiare gli animali da latte nelle pratiche zootecniche. Anche la cucina magra e speziata della vecchia Europa cambiò colto e si preferì addirittura ricorrere a prodotti indigeni ed in qualche modo contadini. La nuova cucina si distinse anche per altri aspetti, tra cui i sapori agro e dolce, tradizionalmente mescolati, cominciarono ad essere nettamente separati; il gusto dolce, in particolare, si evidenziò con un uso crescente dello zucchero come ingrediente di molte preparazioni. 7d. Vecchie e nuove droghe Il consumo di bevande alcoliche, vino o birra, raggiungeva in passato livelli estremamente alti. E' ovviamente impossibile determinare una media valida per tutte le epoche, le regioni, le classi sociali, il sesso, l'età, ma è difficile che i calcoli degli studiosi scendano al di sotto del litro giornaliero di vino pro capite. A spiegare questo stato di cose concorrono diversi fattori: il primo è semplicemente la sete, che possiamo immaginare assai più forte della nostra dato l'uso preferenziale che si faceva di cibi conservati con il sale. Il vino e la birra, inoltre, sono anche un alimento nel senso proprio del termine, poichè forniscono alla dieta quotidiana un complemento calorico di facile ed immediato utilizzo, tanto più importante quanto più povera e monotona è la dieta. Infine, non è da scordare l'aspetto ludico del consumo di vino o di birra, inteso come forma di evasione e, nel contempo, di aggregazione sociale. Altre droghe a quel tempo furono, oltre all'alcool, il caffè, il tè ed il cioccolato, tutti prodotti che, secondo parere medico, facevano bene; in particolare, il caffè, si affermò quasi come simbolo della cultura razionalista del tempo, della sia aspirazione alla lucidità, all'accuratezza, alla libertà di pensiero, mentre il cioccolato rimase colturalmente e socialmente meno significativo. E. Il secolo della fame 1e. La storia si ripete? Le vicende alimentari dell'Europa del Settecento sembrano ripercorrere cammini noti: espansione demografica, insufficienze produttive, sviluppo agricolo. All'aumentata richiesta di cibo si rispose, per cominciare, nel modo più semplice e tradizionale, ossia con l'espansione dei raccolti; si arriva così a parlare di una vera rivoluzione agricola, tale fu l'abbandono della pratica del maggese e l'impiego delle leguminose da foraggio in regolare rotazione con i cereali. Questo consentì da un lato di integrare le pratiche zootecniche nel sistema agrario, superando la tradizionale separazione fra attività pastorali ed attività agricole, dall'altro di accrescere sensibilmente i rendimenti del suolo, reso più fertile sia dalla presenza delle leguminose che dalla maggiore disponibilità di concime animale. Queste trasformazioni, sommate ad altre, segnarono l'avvio del capitalismo agrario che, in certe regioni europee, fu il primo passo verso l'affermarsi di un’economia industriale. All'ampliamento dei terreni coltivati ed al perfezionamento delle tecniche produttive si affiancò lo sviluppo di colture particolarmente robuste, sicure e redditizie; il riso torna in auge come alternativa ai cereali tradizionali ed il grano saraceno viene riscoperto, ma soprattutto il mais e la patata assumono un ruolo da protagonisti, sbarazzando il campo da molti antichi concorrenti. 2e. La contrastata ascesa del mais Abbiamo già rilevato la precocità della scoperta dell'introduzione del mais nelle campagne europee, avvenuta nei decenni immediatamente successivi alla sua scoperta sul continente americano, e come ciò si sia verificato in una dimensione prettamente ortiva, che per lungo tempo non coinvolse le colture di campo. Abbiamo anche rilevato la convenienza, per il contadino, di una situazione come questa, che escludeva il mais dagli obblighi di corresponsione al proprietario della terra: l'orto era una zona franca del podere, non soggetta a canone e separata dal resto dell'azienda come spettanza personale dela famiglia colonica. Dunque, le prime esperienze europee del mais, erano esperienze confinate, ma un nuovo cibo significa una nuova produzione, ed una nuova produzione significa un nuovo tipo di rapporti economici, quindi una lotta sociale intorno ai rapporti preesistenti; è quanto si verificò nelle campagne europee fra XVII e XVIII secolo. Dopo i primi esperimenti passati quasi inosservati, la coltivazione del mais cominciò ad allargarsi, divenendo, in certe zone, una realtà economica significativa già alla fine del Cinquecento, siccome i proprietari terrieri iniziarono ad avere l'interesse di renderlo una coltura a campo aperto. A questo punto l'entusiasmo dei contadini si raffreddò, per cui si aprì un contenzioso con i ruoli ribaltati: i proprietari terrieri incentivavano la coltura del mais, mentre i contadini la rifiutavano; di conseguenza si definirono due livello di consumo fra loro separati e non comunicanti. La popolazione contadina era sollecitata, e di fatto costretta, a consumare mais, mentre il frumento veniva venduto a prezzi altissimi sul mercato; questo meccanismo, alimentato da norme contrattuali e da vessatori sistemi di prestito, fu uno dei modi attraverso cui molti proprietari poterono intensificare il loro cumulo di redditi ed il capitalismo agrario potè svilupparsi. Infine ci fu un'epidemia di pellagra, per cui alcuni attribuirono la colpa al mais, altri alla monotona alimentazione raggiunta dai contadini. 3e. La patata, fra agronomia e politica Anche la patata si diffonde come cibo di carestia, dietro la spinta della fame e per impulso dei proprietari terrieri, secondo meccanismi in gran parte analoghi a quelli visti per il mais. Si aggiunge in questo caso la convenienza di una coltura che, sviluppandosi sotto terra, è maggiormente al riparo dalle devastazioni belliche, questa sorta di carestie artificiali che non mancavano di abbattersi periodicamente sulle popolazioni rurali: la patata non era mai esposta alle rovine della guerra. Decisivo era comunque il ruolo dei rapporti di produzione; anche in questo caso, come per il mais, si innesca un processo di divaricazione sociale dei consumi, che vede contrapposta la patata ai cibi di qualità riversati sul mercato; si decise di coltivarne solo quella quantità che sarebbe bastata ad alimentare per un breve spazio di tempo coloro che in ogni caso non erano consumatori di pane, per cui i contadini iniziarono ad opporvi resistenza, siccome intuivano dietro questo disegno un ulteriore impoverimento del loro regime alimentare. Con il nuovo prodotto furono senza alcun dubbio possibili tantissime raffinate elaborazioni gastronomiche, per cui la patata andò precocemente ad occupare uno spazio culturale socialmente eterogeneo e diversificato, cosa che non accadde al mais, rimasto confinato nel versante povero dell'alimentazione. 4e. Mangiamaccheroni Un altro cibo da riempimento su cui si concentrarono le attenzioni dei ceti popolari tra XVIII e XIX secolo fu la pasta, che in un'area dell'Europa geograficamente e culturalmente più circoscritta cominciò ad assolvere le stesse funzioni che altrove venivano assicurate dal mais o dalla patata. Anzitutto occorre diversificare la pasta fresca dalla pasta secca, poichè la prima è un uso alimentare antico, diffuso presso molte popolazioni dell'area mediterranea e di altre regioni del mondo, mentre la pasta fresca ha un'origine molto più recente, inventata dagli arabi dopo aver escogitato la tecnica dell'essicazione. Resta poi da definire il ruolo e l'immagine stessa della pasta nella cultura alimentare del tempo, cosa alquanto difficile poichè i libri di cucina stentano a definirla come categoria a sè, confondendo i diversi tipi di pasta; da un lato questo prodotto potrebbe sembrare un cibo popolare, destinato ai marinai e a quanti necessitavano di derrate a lunga conservazione, ma dall'altro lato potrebbe essere un cibo di lusso, riservato a gruppi ristretti di consumatori. Forse la pasta secca era davvero un cibo popolare, mentre quella fresca uno di lusso e di ghiottonerie, a meno che non vengano usati, al posto del frumento, cereali inferiori. 5e. Alimentazione e popolazione Fra Settecento ed Ottocento, la crescita produttiva dell'agricoltura europea riuscì in qualche modo a sostenere la domanda alimentare di una popolazione che aumentava a vista d'occhio. L'aumento demografico non solo fu drammaticamente interrotto, ma continuò con crescente intensità: è possibile dedurre che fu proprio l'accresciuta disponibilità di cibo a portare all'exploit demografico? E che la crescita della popolazione fosse dovuta ad un generale miglioramento delle condizioni alimentari? La progressiva semplificazione della dieta alimentare, orientata in modo sempre più massiccio ed univoco sul consumo di pochi generi alimentari,comporto un suo reale impoverimento rispetto al passato: mais e patate servono a riempire i contadini, il frumento è quasi tutto convogliato sui sistemi agrari; lo stesso vale per la carne, che i nuovi sistemi agrari ed i progressi della scienza zootecnica consentono di produrre in maggiore quantità, ma per lungo tempo non furono in molti a poterne approfittare. La curva demografica e la curva alimentare sono dunque speculari una all'altra? Parrebbe proprio di sì, quindi è difficile spiegare in termini del migliorato regime alimentare i fenomenni di crescita demografica; questo non significa ovviamente che regime alimentare e struttura demografica siano realtà fra loro estranee, ma, come sostenne Livi Bacci, l'efficacia del rapporto cibo-popolazione va ristretta ai soli fenomeni di breve durata, cioè alle crisi di mortalità. 6e. La carne fa male Quanto alle privazioni alimentari, per cui si parla in primo luogo della carne, non manca chi si affretta a spiegarci che in fondo fanno bene alla salute. I contadini non possono mangiare carne? tanto meglio per loro, chi ha mai detto che bisogna mangiarne? Le controversie sull'uso della carne erano all'ordine del giorno: qualcuno ne era addirittura irritato perchè, basandosi sulla credenza cristiana, il cibo vegetale era visto come cibo di pace e di non-violenza, come scelta di vita naturale, semplice, frugale, come strumento di leggerezza corporea che consente alla mente di lavorare liberamente. L'appetito gagliardo e l'abbondanza di carne non sono più oggetto di unanime apprezzamento sociale. F. La rivoluzione 1f. Inversioni di tendenza Fino ai decenni centrali dell'Ottocento i cereali mantennero nel regime alimentare degli europei un ruolo assolutamente preponderante; la loro incidenza nei bilanci economici delle famiglie giunse a toccare il 90% e più della spesa alimentare. Il pane della maggioranza era quello scuro di sempre, soprattutto segale, spelta, grano saraceno, avena, orzo vi entravano nell'Europa centrosettentrionale, oltre al frumento che però veniva mescolato generalmente con i cereali inferiori. Una duplice inversione di tendenza, qualitativa e quantitativa, prese avvio attorno alla metà dell'Ottocento: sul piano qualitativo il pane bianco conquistò fasce più larghe di consumatori, poichè una migliorata congiuntura alimentare aprì nuovi spazio alla produzione ed al mercato del frumento; la novità di maggior rilievo fu tuttavia quella di ordine quantitativo, ossia i cereali che, per la prima volta dopo tanti secoli, videro ridimensionato il loro ruolo alimentare, mentre gli altri consumi cominciavano lentamente a crescere, a partire da quelli carnei. 2. La rivincita della carne Intorno alla metà dell'Ottocento, lo sviluppo elitario del movimento vegetariano, condusse ad una maggiore diffusione del cibo carneo ed a una maggiore ricchezza alimentare. Per funzionare, l'industria, aveva bisogno di consumatori e, dal momento in cui l'agricoltura cominciò a modificare il proprio staturo economico, trasformandosi da produttrice di cibo in fornitrice di materie prime all'industria alimentare, quest'ultima sollecitò l'allargamento zociale del mercato degli alimenti. Oltre al tè, che aveva già sostituito vino e birra negli usi quotidiani di molti, la classe operaia inglese si vide offrire zucchero, cacao ed una crescente varietà di prodotti, a prezzi via via più accessibili ed, infine, anche la carne. 3. Siamo tutti cittadini La rivoluzione alimentare procedette con lentezza ed interessò le regioni europee con modalità e con tempi assai diversi, per cui ci limiteremo ad osservare che anche nei paesi più precocemente industrializzati solo alla fine dell'Ottocento si cominciarono ad avvertire importanti modificazioni nel tenore di vita complessivo della popolazione, con il passaggio da un regime alimentare imperniato sui cereali a uno in cui le proteine ed i grassi sono forniti in misura cospicua da cibi animali. Primo punto: la delocalizzazione del sistema alimentare ha allentato i vincoli fra cibo e territorio ed ha sconfitto la fame millenaria degli europei, sottraendola all'incertezza delle stagioni; alla base di tutto ciò stanno la rivoluzione dei trasporti e lo sviluppo delle tecnologie di trasformazione e di conservazione del cibo. Al resto hanno pensato il potere e la ricchezza, ottimi strumenti di persuasione per orientare le scelte economiche di molte regioni del mondo in funzione delle esigenze dei paesi ricchi. Secondo punto: il processo di delocalizzazione, affievolendo il legame tra cibo e territorio, ha conferito al sistema ed ai modelli alimentari del mondo industrializzato ,un carattere di maggiore uniformità, sollecitato dagli interessi dei grandi produttori e delle lusinghe della pubblicità. Ciò ha per molti anni comportato una effettiva perdita di significato e di spessore culturale, ed ha aperto la via ad ogni sorta di sperimentazioni e di accostamenti gastronomici, inglobando tutti gli alimenti in un unico illumianto dossier. Terzo punto: il sistema alimentare europeo ha assunto un forte e crescente caratterizzazione urbana, non solo nel senso che la società industriale è una società ad alto tasso di urbanizzazione, ma soprattutto nel senso che i modelli urbani di alimentazione costituiscono ormai la norma e possono essere imitati da chiunque, ma si tratta pur sempre di valori urbani. 4. Un cibo per tutte le stagioni Uno dei miti più tenaci dell'odierno immaginario alimentare è quello della stagionalità del cibo, di un rapporto armonico fra uomo e natura, che sarebbe stato tipico della cultura tradizionale e che i sistemi moderni di approvvigionamento e di distribuzione avrebbero profondamente alterato. Senza dubbio, la prepotenza con cui l'industria alimentare ha fatto irruzione nei nostri ritmi di vita ha sconvolto gran parte delle antiche abitudini, generando, assieme a molti benefici, perplessità di natura igienico-sanitaria ed un notevole disorientamento culturale. In passato, l'appartenenza territoriale dei prodotti era un fattore scontato e per cosi' dire inevitabile,ma gli uomini hanno sempre desiderato superare i limiti col territorio. Inoltre, se la ricostruzione dei trasporti e l'organizzazione commerciale ci hanno fatto un pò dimenticare che il cibo è indissolubilmente legato alle vicende del clima e delle stagioni, non possiamo nasconderci che esattamente questo è stato per millenni il grande desiderio degli uomini, un importante obiettivo della loro organizzazione alimentare. Il modo povero con cui si cercò di sconfiggere le stagioni furono le tecniche di conservazione del cibo, ecco perchè l'uso di cibi freschi e deperibili era un lusso per pochi. E dunque problematico attribuire alla tradizione alimentare atteggiamenti di serena simbiosi con la natura e di entusiastico amore per la stagionalità dei cibi. 5. Il piacere, la salute, la bellezza Durante la storia alimentare ci fu un periodo di desiderio di grasso, nel duplice senso latino di mancanza e di voglia, da cui deriva un corrispondente estetico: essere grassi è bello, è segno di ricchezza e di benessere alimentare, sia in senso generale, quantitativo, sia in senso più specifico, qualitativo. Il valore della magrezza, collegato a rapidità, produttività, efficienza, sembra proporsi come nuovo modello estetico e culturale solo nel corso del Settecento, ad opera di quei gruppi sociali che si opponevano al vecchio ordine in nome di nuove ideologie e di nuove ipotesi politiche, poi anche nella prima metà del Novecento. Occorre infine considerare lo slittamento di significato della parola dieta: inventata dai greci per designare il regime quotidiano di alimentazione che ogni individuo deve costruire sulle proprie personali esigenze e caratteristiche, passata a designare la limitazione e la sottrazione di cibo; una nozione negativa anzichè positiva, una scelta che la società dei consumi sembra proporre non più per adesione ai valori morali e penitenziali di cui la cultura religiosa ha storicamente caricato simili comportamenti, ma per motivazioni prevalentemente estetiche, igieniche o utilitaristiche. Un eccesso è stato combattuto con un altro eccesso. IL CIBO COME CULTURA -MASSIMO MONTANARI A. PARTE PRIMA: COSTRUIRE IL PROPRIO CIBO 1A NATURA E CULTURA Dopo le prime società di cacciatori-raccoglitori, il crescere della popolazione e la necessità di procurarsi maggiore quantità di cibo diedero vita a società diverse, che si dedicavano all'agricoltura e alla pastorizia. Questo passaggio rappresentò un cambiamento decisivo fra uomini e territorio e nella cultura dell'uomo. I due mondi continuarono a lungo a costituire due modi di intendere il rapporto fra uomo e ambiente esterno, due poli opposti, con implicazioni materiali e simboliche. Per gli antichi l'agricoltura era il momento della rottura e dell'innovazione, il salto decisivo che costituisce l'uomo "civile" separato dalla Natura. La domesticazione delle piante consente all'uomo di farsi padrone del mondo naturale. Miti di fondazione: invenzione dell'agricoltura come gesto di violenza fatto alla Madre Terra, quindi da qui i rituali di fecondità, con lo scopo di espiare la colpa commessa. I popoli agricoltori avevano una tendenza alla crescita e alla conquista di nuovi spazi da mettere a coltura. La diffusione dell'agricoltura è probabilmente partita da un luogo e si è espansa, a partire dagli altipiani del vicino e medio oriente circa 10.000 anni fa. La mezzaluna fertile. Furono selezionate le più nutrienti e produttive tra le piante, e i cereali godettero di attenzioni privilegiate. Ogni area del mondo ebbe il suo cereale di elezione. Attorno a queste piante si organizzò l'intera vita della società. Da qui derivò l'invenzione della città, luogo dell'evoluzione civile. L'uomo è padrone di se e si separa dalla natura costruendosi un suo spazio in cui abitare, introducendo colture al di fuori delle aree di origine e trasformando in loro funzione il paesaggio. Il pane simboleggia l'uscita dallo stato bestiale e la conquista della civiltà. Mangiatori di pane è sinonimo di uomini. Identico ruolo simbolico rivesto vino e birra, elementi che non esistono in natura: l'uomo ha imparato a dominare i processi naturali, volgendoli a proprio beneficio. Ciò che chiamiamo cultura si colloca al punto di intersezione fra tradizione e innovazione. 2 A ANCHE LA NATURA E' CULTURA Opposizione fra sedentarietà e nomadismo. Pastorizia e caccia si avvicinano e si oppongono all'agricoltura. Nelle società agricole: miti di fertilità con protagonisti i cereali e il ciclo delle stagioni. Nelle società di cacciatori e di pastori: miti e riti propiziatori, con protagonisti gli animali. Mito della prodigiosa rigenerazione degli animali, o quello del grande maiale, bollito ogni giorno e mangiato e la sera era di nuovo intero, leggenda germanica. La contrapposizione fra natura e cultura è in gran parte fittizia. La Natura è un modello culturale consapevole, una scelta alternativa. Nel Medioevo il rapporto fra i due modelli alimentari inizia a cambiare. I barbari fecero irruzione nell'impero e se ne impadronirono, divenne "alla moda" il modello alimentare barbaro. Cacciare e pascolare nel bosco diventarono il perno di una nuova economia. Allo stesso tempo la tradizione agricola romana si diffuse tra i barbari. Il cristianesimo fece suoi i simboli del pane, vino e olio. Quindi il Medioevo dette vita alla nuova cultura alimentare chiamata Europea: metteva sullo stesso piano il pane e la carne, l'agricoltura e la foresta. Quindi varietà dei generi e delle risorse che danno vita ad un ricco patrimonio alimentare, unico al mondo. 3a GIOCARE COL TEMPO Da sempre si aveva l'obiettivo di controllare, modificare e in qualche modo contrastare i tempi naturali, la stagionalità. Utopia di un mondo in cui le stagioni non esistono e il tempo è controllabile. Una sorta di Eden, paradiso. Infatti nella bibbia il paradiso non aveva stagioni, era eterna primavera. (Mito del paese della Cuccagna, luogo di abbondanza) Si tentò da sempre di adattare la scienza e la tecnica al servizio di questo progetto. Due linee operative: -prolungare il tempo: diversificazione delle specie. Differenziare le specie per farle produrre a lungo nel corso dell'anno. De la Quintinye studiò le pere e progettò un frutteto con oltre 500 qualità che producevano lungo l'arco di tutto l'anno. Anche i contadini hanno sempre seguito questa via: differenziare le risorse a loro disposizione. Molteplicità di cereali. Era anche una misura di prudenza per proteggersi da eventuali avversità climatiche. -fermare il tempo: tecniche di conservazione degli alimenti. Alimentazione contadina, cibi lungamente conservabili, cereali e legumi. Nei confronti dei cibi deperibili l'elaborazione di tecniche: -isolandoli dall'aria -essiccandoli -affumicandoli -salandoli: Carne pesce e verdure si sono fondamentalmente conservate sotto sale, quindi il salato si può pensare costituisca il gusto di una volta. di una cucina povera. - acidificandoli - sotto zucchero o miele Vediamo la contrapposizione fra gusto salato e gusto dolce: povero vs ricco. Fermentazione: espressione della capacità umana di volgere a suo beneficio un processo di per se dannoso. Nacquero il formaggio, i salumi, i crauti. Poi si usò anche il freddo: si avevano o ghiacciaie private o pubbliche in cui si tenevano la neve e il ghiaccio conservati per rinfrescare gli alimenti. Poi arrivò l'industria del freddo nell'800 e ci fu una svolta decisiva. Si uniscono il mondo della fame e la richiesta d'élite nel momento che questi prodotti di sussistenza vengono associati alla gastronomia: nati i prodotti tipici destinati al mercato. Legame fra fame e piacere. 4a GIOCARE CON LO SPAZIO Dominio dello spazio: procurarsi cibo da altri luoghi, sconfiggere i vincoli del territorio, allargare le correnti commerciali, viaggi intorno al mondo, rivoluzione dei trasporti, industrializzazione. Si risolve altrove i problemi dell'approvvigionamento alimentare. Si arriva ad avere un villaggio globale. Così si hanno prodotti freschi in tutto l'anno: sistema mondo come area di produzione e distribuzione. Questi sono bisogni e desideri antichi. Una volta i ricchi dicevano: sono sufficienti buoni destrieri e buona borsa per trovare altrove tutte le cose necessarie. Ora i supermercati e i tir hanno fatto crollare l'immagine di prestigio dei prodotti esotici, abbassandone il valore di mercato ed aumentandone la reperibilità. 5 A CONFLITTI Conflitti per il controllo delle risorse. -All'interno delle comunità -Fra comunità differenti B. PARTE SECONDA: L'INVENZIONE DELLA CUCINA 1b. FUOCO CUCINA CIVILTA' L'uomo seleziona il cibo in base a preferenze individuali e collettive legate a valori e significati diversi. La diversità tra uomo e animale è che solo l'uomo è capace di accendere e di usare il fuoco, quindi di fare cucina. Trasforma il prodotto Naturale in qualcosa di profondamente diverso. Quindi si arriva ad un cibo costruito. (Mito della conquista del fuoco) Crudo e cotto: contrapposizione fra Natura e Cultura. Prometeo consente all'uomo di farsi divino, carica simbolica dell'evento si riflette sull'immagine della cucina. Non è più possibile dirsi uomini senza cucinarsi il proprio cibo. Idea del cuoco come un artista non rispettoso delle qualità originarie dei prodotti. Ma la cucina non è solamente cuocere: cucina quindi può essere detta come un insieme di tecniche finalizzate alla preparazione degli alimenti. Le tecniche più complesse si sono elaborate per preparare i cibi di sussistenza più comuni: tortilla, cuscus. Con l'industrializzazione queste pratiche che erano prettamente femminili sono state affidate alle industrie e ai professionisti. Poi la professione esce dall'ambito domestico con l'introduzione del ristorante e la cucina cambia di sesso: mestiere esercitato in prevalenza da uomini. 2b. CUCINA SCRITTA E CUCINA ORALE Si può pensare che solo le società complesse, gerarchizzate e statalizzate sono state in grado di produrre una cucina professionale, distinta da quella domestica. Nei Paesi di lunga tradizione scritta si è sviluppato un genere di letteratura tecnica: il trattato culinario, che ha permesso di mantenere le ricette. La cucina scritta lascia tracce di se, mentre quella orale tende a sparire col tempo. La cucina scritta è destinata alle èlites e alla loro cucina. Si pensa che sulla cucina povera siamo destinati a tacere. Nei testi si percepisce un intreccio di cucina di èlites e cucina popolare. La cultura aristocratica non escludeva la convergenza quotidiana di queste due culture, di gusti e di abitudini. Era anzi indispensabile la costruzione delle barriere in modo da costruire simboli di differenza. Liber de coquina (XII-XIV sec): comincia dalle verdure e lo fa di proposito per indicare che erano il cibo dei poveri. Abbiamo due modi di adattare il prodotto umile alla cucina aristocratica: -nobilitazione: diventa un semplice ingrediente di vivande di pregio -arricchimento: viene arricchito con un ingrediente prezioso, tipo le spezie. Maestro Martino (XV sec): la base delle ricette è popolare. Cibi popolari per eccellenza sono le polente, le minestre di cereali inferiori, di legumi e di castagne. I ricettari a volte suggeriscono un prodotto della cultura popolare senza arricchimenti o accostamenti, come vivande per i malati. Bartolomeo Scappi 1570: le minestre sono arricchite con spezie, zucchero, carni pregiate, sempre riconducibili ad una cucina popolare. Il riferimento alla cucina popolare è esplicito a volte, preparazioni di pesce, prese dai pescatori. Quindi Non è vero che la cultura delle classi subalterne e l'oralità sono irrimediabilmente perdute. Entrambe sono state trasmesse dai testi scritti e dalla cultura dominante. La civiltà della scrittura può anche salvare qualcosa della tradizione orale. 3b. ANTICUCINA Il rifiuto della cucina, rifiuto della civiltà, del domestico. Predilezione del crudo e del selvatico, simboli non-culturali, fortemente intrisi anch'essi di cultura. Modello degli eremiti, che va a significare distanza dal mondo, si esclude l'uso del fuoco e le pratiche culinarie. Si propone quindi un genere diverso di Cultura. Il Selvatico: un immagine idilliaca di ritorno a quando l'uomo non doveva procurarsi il cibo con il lavoro, ancora ai tempo del paradiso. Il Crudo, mira ad abbandonare l'umanità peccatrice per recuperare la dimensione divina o avvicinarsi alla condizione animale. I luoghi dell'ascetismo erano il deserto o la foresta. Il problema è che per sopravvivere in tali condizioni ci voleva una forte cultura in modo da non morire avvelenati o morire di fame per la paura di morire avvelenati. Si narravano leggende in cui animali (tipo una capra), venivano in aiuto mandate dal signore, e mostravano all'eremita quali erbe mangiare e quali no. Queste scelte sono dunque molto culturali e sono un risultato di un apprendimento, di una conoscenza del territorio e delle sue risorse. Nel XXsec il crudo ha trovato riscontri positivi nella scienza dietetica con la riscoperta delle vitamine. 4b. ARROSTO E BOLLITO Giocano ruoli contrapposti sul piano simbolico. -Arrosto: Sta dalla parte della Natura, del selvatico. Non richiede altri mezzi che il fuoco diretto. Una cottura violenta -Bollito: richiede l'uso di un recipiente, un mediatore, manufatto culturale, nozione di domesticità, cucina contadina. Si cuocevano nel bollito le carni salate, che erano simbolo della cultura popolare, mentre le carni fresche erano un privilegio sociale. Contrapposizione di genere: maschile/fuoco, femminile/pentola. 5b. PIACERE E SALUTE Complicità fra cucina e dietetica. La dietetica nacque con la cucina: Ippocrate di Cos, V e IV sec a.C. in Grecia antica. Medicina Galenica: medico romano Galeno I sec d.C., riprendeva e sviluppava le teorie di Ippocrate. Ogni essere vivente possiede una sua particolare natura dovuta alla combinazione di quattro fattori: Caldo/freddo, Secco/umido. Questi derivano dalla combinazione dei quattro elementi. L'uomo può dirsi in perfetta salute quando i quattro elementi si combinano in modo equilibrato. Se uno di essi prevale è indispensabile ripristinare l'equilibrio con il controllo dell'alimentazione. L'individuo in salute invece di consumare cibi "temperati" quindi in equilibrio. In natura non esistono alimenti perfettamente equilibrati, quindi bisogna intervenire per correggere. Due linee di intervento: -tecniche di cottura -abbinamento fra cibi di temperamento opposto. La cucina quindi è intesa fondamentalmente come un artificio. Quindi ci sono tutte delle indicazioni su come cuocere gli alimenti: corrispondenza fra il tipo di alimento e la cottura a cui è destinato. Queste sono scelte che sono entrate poi nell'uso comune, conservatesi fino ad oggi. -La frutta era vista sempre come eccessivamente umida, quindi andava contrastata con alimenti di natura secca. -Le salse: hanno lo scopo di temperare le vivande rendendole digeribile e gustose. Essendo che gli alimenti devono risvegliare i succhi digestivi, bisogna arrivare al piacere di mangiarli. Medico e cuoco sono le due facce di un medesimo sapere. Allestire le vivande: compito dello scalco. Secondo una successione che ne favorisca il buon assorbimento. Idea che il piacere sia salutare: regole della salute, regole alimentari della costruzione di una cultura gastronomica. Dal XVII-XVIII secolo la scienza dietetica ha iniziato a parlare un altro linguaggio, fondato sull'analisi chimica. C. PARTE TERZA: IL PIACERE E IL DOVERE DELLA SCELTA 1c. IL GUSTO E' UN PRODOTTO CULTURALE Il cibo non è buono o cattivo in assoluto. L'organo del gusto è il cervello. Si trasmettono e imparano criteri di valutazione, variabili nello spazio e nel tempo. La definizione di gusto fa parte del patrimonio culturale delle società umane. Se si volesse ricreare il gusto di un epoca a noi lontana? Sarebbe ben difficile perché il cervello non è più quello di un tempo e gli alimenti sono cambiati. Dal punto di vista del gusto inteso come SAPORE è irrimediabilmente perduto, ma dal punto di vista del SAPERE (gusto che viene dal cervello prima che dalla lingua) si può indagare anche storicamente , esaminando le memorie, i reperti, le traccie che ogni società del passato ha lasciato dietro di sé. L’idea che abbiamo noi di cucina e di sitema di sapori che a noi sembra cosi naturale è ben diverso nella società medievale e rinascimentale avevano elaborato un modello di cucina basato sull’idea dell’artificio e sulla mescolanza dei sapori (logica sintetica non analitica come ai giorni nostri) tenere insieme, più che separare. Cucina fondalmentalmente magra , per la preparazioni di salse utilizzava sopratutto ingredienti acidi come vino, aceto, succo di agrumi tenuti insieme con mollica di pane o uova (le salse grasse a base di burro come maionesi e besciamella verranno introdotte sole nel XVII secolo) anche tecniche di cottura tendenti a sovrapporre ed amalgamare sapori (ad esempio la lessatura delle carni prima di ogni altro metodo di cottura) abituata a un rapporto tattile, riducevano al minimo l’uso delle posate cibi serviti a tavolo simultaneamente e spetta a ciascun invitato sceglierli e ordinarli secondo il proprio gusto. 2c. DIVAGAZIONE. “ IL GIOCO DELLA CUCINA STORICA ” Una moda che negli ultimi anni si è diffusa è la “cucina storica” Ma è possibile ricostruire il gusto alimentare di un’epoca cosi lontana nei riferimenti “estetici” di base? Il problema chiave è individuare il confine tra comprensione e adattamento , ricostruzione e rielaborazione. Il passaggio al piano pratico dell’esperienza(quello cioè che riguarda le sensazioni dei sapori) non si può ricostruire perché sono cambiati i soggetti (la loro educazione sensoriale è diversa) cerchiamo di comprendere ma non possiamo condividere. La proposta potrebbe essere quella di giocare alla cucina”storica” rispettando alcune regole senza cadere nell’errore di riproposta nella sua “autenticità”. 3c. IL GUSTO E UN PRODOTTO SOCIALE Se tutti i comportamenti alimentari passano atrraverso un momento di scelta, si deve parlare di “modelli del gusto” ma il gusto DI CHI?? Harris ritiene che le scelte alimentari dei popoli e degli individui siamo sempre determinate da un calcolo dei vantaggi e svantaggi conseguenti: cioè far pendere la bilancia dalla parte dei benefici pratici rispetto a quella dei costi. Il “buono da mangiare ” ossia ciò che conviene mangiare diventa il “buono da pensare”. Anche se non è detto che ciò che le abitudine alimentari corrispondono al gusto degli individui. Il concetto varia da nobili a contadini. 4c. DIMMI QUANTO MANGI… Nel Medioevo il reperimento delle risorse alimentari era la prima preoccupazione degli uomini: in tale contesto, l'abbondanza del cibo segnalava di per se stessa una situazione di privilegio sociale e di potere. La necessità di cibo si traduceva in un desiderio di quantità: i desiderio della pancia piena e della dispensa ben fornita. La qualità veniva dopo. Il potente si definiva in primo luogo come grande mangiatore. La concezione comune vedeva nel capo anzitutto un valoroso guerriero, il più forte e vigoroso di tutti, capace di mangiare tantissimo, qualità che denotava una superiorità prettamente animalesca. La carne era la fonte della forza del guerriero nobile. Immagine del tutto simbolica inquinato carne voleva dire uccidere animali; per la nobiltà la caccia era simulazione di guerra. In più ci si metteva anche la scienza dietetica che identificava nella carne l'alimento perfetto per crescere in robustezza. Il mangiar molto prima era una capacità, si trasforma in un diritto che si può esercitare. L'importante era avere più cibo a disposizione sulla tavola; carattere ostentatorio, scenografico, teatrale. - La diffusione della gotta nell'aristocrazia del 600-700 è una sorta di malattia professionale. Generale apprezzamento del corpo robusto che andò a costituire l'ideale estetico: grasso è bello. Si spiegano certi usi linguistici: città grassa, popolo grasso. Il corpo magro non suscitava desiderio: "dei magri bisogna diffidare" - Shakespeare. - 700: il valore della magrezza cambia, lo si vede come efficienza, rapidità, produttività. Il caffè era la bevanda dell'intelligenza e dell'efficenza. Rovesciamento dei canoni estetici. - Nel corso del XIX e del XX sec. mangiare molto ed essere grassi cessa di essere un privilegio, dal momento in cui i ceti sociali più bassi sono ammessi all'abbuffata. I piaceri troppo condivisi perdono rapidamente il loro fascino. Le èlites assumono nuovi modelli di comportamento. I nuovi potenti: mangiano poco e soprattutto vegetali. Ma dopo la guerra mondiale che riporta la fame si riprendono per un periodo i modelli tradizionali. - Dagli anni 80 si radica definitivamente l'idea del magro: il pericolo e la paura dell'eccesso hanno sostituito quelli della fame. Le malattie da eccesso diventano un fenomeno di massa. La nuova paura è l’obesità. 5c. E CHE COSA… La qualità del cibo ha un forte valore comunicativo ed esprime un'identità sociale. -nobile: carne, selvaggina -contadino: verdure, maiale -religiosi: esclusione della carne dalla dieta. Negarsi la carne significa allontanare da sé la lusinga del potere. E' una scelta voluta non dettata dalla necessità, favorisce l'avvicinamento al cielo, eccezione per i volatili, volano, sono più alti e leggeri, più adatti ad una dieta spirituale. L'area del privilegio sociale si esprime nel diritto/dovere di consumi qualitativamente migliori. I simboli sono un prodotto culturale e cambiano da un'epoca all'altra così come da una società all'altra. Avvengono anche inversioni di significato: si considera segni di alta qualità culturale i prodotti tradizionalmente poveri e rustici, una sorta di revival folklorico. Uno dei modi con cui la società contemporanea recupera il passato stravolgendone i significati. 6c. CIBO E CALENDARIO: UNA DIMENSIONE PERDUTA? Il cibo assume significato rispetto allo scorrere del tempo. I medici raccomandavano: bere e mangiare caldo nei mesi freddi e viceversa. Il calendario liturgico divideva l'anno fra giorni e periodi di grasso e di magro, quindi il popolo si inventò ricette alternando il lardo all'olio, la carne al pesce, il formaggio alle verdure. Si segnalava attraverso certi cibi le principali ricorrenze festive: pasqua, natale, ecc… 7c. DALLA GEOGRAFIA DEL GUSTO AL GUSTO DELLA GEOGRAFIA Conoscere o esprimere una cultura di territorio attraverso una cucina. Bisogna distinguere fra i prodotti e i piatti, da un lato e la cucina dall'altro. I piatti locali, legati a prodotti locali, esistono da sempre. L'obiettivo del gastronomo premoderno era quello di riunire insieme tutte le esperienze, di accumulare sulla propria tavola tutti i territori possibili in una sorta di grande banchetto universale, superare la dimensione del locale, oltrepassare il territorio. Lo stesso vale per i piatti, o per le specialità locali: nel medioevo l'obiettivo era di raccogliere insieme culture diverse, confonderle, mescolarle. Solo con il passare del tempo, l'attenzione verso la valorizzazione delle cucine del territorio, inizia a crescere. L'orgoglio di queste identità cresce fra il XVIII e il XIX sec. Da allora in Italia compaiono i libri di ricette regionali. Pellegrino Artusi, 1891, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene: scopo del libro è quello di unificare l'Italia, progetto che funzionò meglio del progetto di unificazione linguistica di Manzoni. La debolezza dell'Italia nazione (multiregionale), si è trasformata in un punto di forza. Il gusto della geografia: un vera e propria mutazione culturale. Sviluppo maggiore nell'800 con l'industrializzazione, quindi omologazione che ha provocato una nuova attenzione alle culture locali. La territorialità come nozione e dato positivo è un'invenzione nuova. Nel medioevo, la nozione di territorio indeboliva o annullava le differenze sociali, quindi il "cibo di territorio" non era conveniente. 8c. IL PARADOSSO DELLA GLOBALIZZAZIONE Nel villaggio globale di oggi si affermano valori dello specifico locale. Si ha un nuovo universalismo di massa. Le diversità non sono destinate a scomparire, ma ad accentuarsi nel contesto della globalizzazione. Si hanno nuovi significati dei concetti: scoperta, riscoperta, invenzione delle identità alimentari. D. PARTE QUARTA: CIBO LINGUAGGIO IDENTITA' 1d. MANGIARE INSIEME Mangiare insieme è tipico della specie umana. La vocazione conviviale si traduce mediante l'attribuzione di un senso ai gesti che si fanno mangiando. Il cibo si definisce come una realtà culturale. Il sistema alimentare si organizza come un codice linguistico portatore di valori aggiunti. La carica simbolica è ancora più forte quando il cibo è percepito come strumento di sopravvivenza quotidiana. Simbolismo: la tavola come metafora della vita. Convivio: cum vivere, vivere insieme, mangiare assieme. A tutti i livelli, la partecipazione alla mensa comune è il primo segno di appartenenza al gruppo. Eremita: mangia in solitudine, commensali con animali selvatici. Scomunicati: temporaneamente esclusi dal refettorio. Banchetti nobiliari: non necessariamente mangiare assieme significa andare d'accordo. In questo caso la tavola rappresenta i rapporti all'interno di un gruppo. Il posto non si può assegnare a caso: serve a segnalare l'importanza e il prestigio degli individui. Questi tipi di ritualità persistono ancora oggi quando si tratta di esprimere rapporti formali: vedi i pranzi o le cene di gala dei politici. Moderna società democratica: abitudine al tavolo rotondo. Medioevo: tavolo rettangolare. XII-XIIIsec apparvero i primi manuali di buone maniere a tavola (il cortigiano, il galateo) Il comportamento alimentare diventa segno di barriere sociali: il nobile sa stare a tavola, il povero no. La spartizione del cibo: attribuzione di un pezzo rispetto ad un altro, cosa mai casuale. Importanza politica del trinciante. E' indispensabile individuare quindi una grammatica del cibo. 2d. LA GRAMMATICA DEL CIBO Struttura all'interno della quale ogni elemento definisce il suo significato. Lessico: repertorio dei prodotti disponibili, piante e animali. Esistono "lessici speciali" destinati a gruppi di consumatori ristretti. Morfologia: modi con cui i prodotti vengono elaborati e adattati alle varie esigenze di consumo; pratiche di cucina. Piatti e vivande diverse, cono diversa funzione. Sintassi: è il pasto che ordina i piatti secondo criteri di successione, di accostamento, di relazione. Soggetti: carne, cereali, diversi a seconda delle culture e delle disponibilità. Complementi: precedono, accompagnano, seguono i soggetti. Quindi gli antipasti, intermezzi, contorni, dessert. Morfemi Grammaticali: le salse, prive di significato autonomo ma essenziali. Aggettivi o avverbi: I condimenti. Retorica: il modo in cui viene allestito, servito e consumato il cibo, con il quale acquista piena capacità espressiva. 3d. SOSTITUZIONI, INCORPORAZIONI In caso di penuria si tenta di restare il più possibile attaccati alla propria cultura. L'atteggiamento prevalente è quello della sostituzione: individuare qualcosa da utilizzare al posto di qualcos'altro che manca. I pani della miseria o i pani di carestia: con cereali inferiori, con legumi, castagne, ghiande, radici, erbe selvatiche, terra. La forma, la morfologia dell'alimento è quella che garantisce la continuità al sistema. Risposta razionale alla carestia. Si crea quindi un sapere complesso. Le incorporazioni avvengono nel momento in cui arrivano i nuovi prodotti da terre lontane: vedi il pomodoro, il mais, la patata, ecc… All'inizio c'è un atteggiamento di grande curiosità e grande cautela. Incorporare l'ignoto assimiliandolo a sé. Il trucco: trattare prodotti nuovi per procedure e preparazioni tradizionali. Vedi la polenta, che una volta si faceva con il miglio, ecc…si iniziò a farla con il mais. L'ingresso del mais significò la progressiva scomparsa di prodotti tradizionali dagli usi di cucina e dalle pratiche di coltivazione. Addirittura i nomi di piante tradizionali furono affibbiati al mais. Il pomodoro lo si usò per friggerlo in padella, e poi lo si trasformò in salsa di accompagnamento. Solo nel XIX sec si mise sulla pasta. Il successo della patata vide declinare rapidamente l'importanza della rapa. La diffusione del tè e di caffè segnò un calo notevole dei consumi di vino e di birra. 4d. RADICI ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità è un prodotto della storia, dinamico e instabile generato da fenomeni di scambio, incrocio, di contaminazione. La ricerca delle radici, fatta con metodo critico, non giunge mai a definire un punto da cui siamo partiti. Noi siamo il punto fisso: l'identità non esiste all'origine ma al termine del percorso. Più si cercano le radici, più si incontrano fitti ricami sempre più ramificati. Il prodotto alla superficie siamo noi. Le radici sono sotto: è la storia che ci ha costruiti.

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