Diritto Privato: Dispensa di Torrente-Schlesinger PDF
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Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Nick Petrullo, Ludovico Mainieri
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This document is a handout on private law, specifically covering introductory concepts of the legal system. It explains the structure and function of legal systems, including the Italian legal framework, focusing on how laws regulate social interactions and impose consequences for violations. It details the characteristics of legal norms and the distinctions between positive and natural law.
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Dispensa di DIRITTO PRIVATO: A.TORRENTE - P. SCHLESINGER Nick%Petrullo Ludovico%Mainieri NOZIONI PRELIMINARI Capitolo 1: L’ORDINAMENTO GIURIDICO L’ordinamento giuridico. L’ordinamento giuridico è costitu...
Dispensa di DIRITTO PRIVATO: A.TORRENTE - P. SCHLESINGER Nick%Petrullo Ludovico%Mainieri NOZIONI PRELIMINARI Capitolo 1: L’ORDINAMENTO GIURIDICO L’ordinamento giuridico. L’ordinamento giuridico è costituito dal complesso delle norme e di istituzioni, mediante le quali viene regolato e diretto lo svolgimento della vita sociale e dei rapporti tra i singoli. La cooperazione tra gli uomini rende realizzabili risultati che sarebbero altrimenti irraggiungibili per il singolo. Per aversi un gruppo organizzato occorrono tre condizioni: a) che il coordinamento degli apporti individuali non sia lasciato al caso o alla buona volontà di ciascuno, ma venga disciplinato da regole di condotta; b) che queste regole siano decise da appositi organi ai quali tale compito sia affidato in base a precise regole di struttura o di competenza o organizzative; c) che tanto le regole di condotta quanto quelle di struttura vengano effettivamente osservate. Il sistema di regole, modelli e schemi mediante i quali è organizzata una collettività viene chiamato “ordinamento”. Quindi la finalità dell’ordinamento giuridico è quella di “ordinare” la realtà sociale. Gli uomini danno vita a collettività di vario tipo (pluralità degli ordinamenti giuridici, Costituzione): si pensi alle chiese o ai partiti politici, ai sindacati o alle organizzazioni culturali. Tra tutte le forme di collettività, importanza preminente ha sempre avuto la società politica: quella, cioè, rivolta alla soddisfazione non dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello più importante condizionandone il conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. Naturalmente le società politiche hanno assunto forme diverse nella storia. Un ordinamento giuridico si dice originario quando la sua organizzazione non è soggetta ad un controllo di validità da parte di un’altra organizzazione (superiorem non recognoscit). Lo Stato è un ordinamento giuridico a fini generali, indipendente ed originario, dotato di potere sovrano nell’ambito del proprio territorio. Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea. Interessa la teoria dell’ordinamento giuridico anche la partecipazione dell’Italia alla comunità internazionale: l’art.10 della Costituzione enuncia il principio per cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Il diritto internazionale - insieme di regole che disciplinano i rapporti fra Stati sovrani - è un diritto che ha fonte essenzialmente consuetudinaria, trae origine dalla prassi delle relazioni tra gli Stati, o ha fonte pattizia, ossia nasce da accordi bilaterali o plurilaterali. L’art. 11 della Costituzione Italiana afferma*: a) il principio per cui è resa ammissibile la sottoposizione dello Stato alle regole di un’organizzazione sovrannazionale, le cui norme e provvedimenti si possono dunque imporre alla volontà degli organi dello Stato stesso, con una conseguente limitazione della sovranità dello Stato, per assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni; b) il principio secondo cui la Repubblica Italiana promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Nota: *Trattando delle fonti del diritto si vedrà l’incidenza sul potere legislativo*. Il processo di “integrazione europea” è stato lungo e difficoltoso, partendo dai tre Trattati istitutivi di organismi - CECA, CEE, Euratom -, ricordiamo il Trattato di Roma del 1957 (Convenzione Istitutiva della Comunità Economica Europea), il Trattato di Maastricht del 1992 (Istituzione dell’Unione Europea e modifica del Trattato istitutivo della CEE, numerose modifiche al testo normativo), il Trattato di Amsterdam del 1997 e di Nizza del 2001 (ulteriori modificazioni), il Trattato Istitutivo di una Costituzione per l’Europa a Roma nel 2004, il Trattato di Lisbona del 2007 (ha modificato il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato istitutivo della Comunità Europea). La norma giuridica. L’ordinamento di una collettività è costituito da un sistema di regole. Ciascuna di queste regole, proprio perché concorre a disciplinare la vita organizzata della comunità, si chiama norma; e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società rappresenta il diritto di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica (dotata di autorità). La norma giuridica non va mai confusa con la norma morale, nemmeno quando l’una e l’altra abbiano identico contenuto. Difatti, mentre ciascuna regola morale è assoluta, nel senso che trova solo nel suo contenuto la propria validità, la regola giuridica deriva la propria forza vincolante dal fatto di essere prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di una collettività. I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano “fonti”. La norma è espressione della volontà di un organo investito del potere di elaborare regole destinate ad entrare a far parte dell’ordinamento giuridico e viene consacrata in un documento normativo. In tal caso occorre non confondere la “formula” (il testo) della disposizione, con il “precetto” (il significato) che a quel testo viene attribuito dall’interprete (attività ermeneutica). Non bisogna confondere il concetto di “norma giuridica” con quello di “legge”. Per un verso infatti, la legge è un atto o documento normativo, che contiene norme giuridiche, e che quindi sta con queste in rapporto da contenente a contenuto; per altro verso, accanto a norme aventi “forza di legge”, ogni ordinamento conosce tante altre norme giuridiche frutto di altri atti normativi; per altro verso ancora, una medesima legge può contenere molte norme, ma una norma può anche risultare soltanto dal “combinato disposto” di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può regolare anche un solo aspetto del problema complesso. Diritto positivo e diritto naturale. Il complesso delle norme da cui è costituito ciascun ordinamento giuridico - l’insieme delle regole scaturenti dalle fonti - rappresenta il “diritto positivo” di quella società. Il c.d. “diritto naturale” è talvolta inteso come matrice dei singoli diritti positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti ordinamenti, talvolta raffigurato come un complesso di principi eterni ed universali (giusnaturalismo). L’esigenza che il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare è in ogni caso l’aspirazione a trovare un fondamento obiettivo al diritto positivo che elimini il rischio di arbitrarietà del potere (concezione giusnaturalistica, contratto sociale v.Grozio, Hobbes, Locke). La struttura della norma. La fattispecie. Una norma è un enunciato prescrittivo (proposizione prescrittiva) che si articola nella formulazione di una ipotesi di fatto, al cui verificarsi la norma ricollega una determinata conseguenza giuridica, che può consistere, esemplificando, nell’acquisto di un diritto (art. 1158 c.c - chi possiede una cosa per venti anni ne acquista la proprietà per effetto di usucapione), nell’insorgenza di una obbligazione (art. 2043 c.c - “Qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), nella estinzione o modificazione di un diritto, nell’applicazione di una conseguenza afflittiva (vedi cod. penale). La norma si struttura quindi come un periodo ipotetico: - previsione di accadimento eventuale → “fattispecie”: a) fattispecie astratta → complesso di fatti non realmente accaduti ma descritti ipoteticamente da una norma (es. descrizione di un reato che indica tutte le circostanze che devono concorrere) → si risolve in una pura operazione intellettuale di interpretazione del testo normativo, volta ad individuare i presupposti di fatto dell’applicazione di determinate regole. b) fattispecie concreta → complesso di fatti realmente verificatisi e rispetto ai quali occorre accertare se e quali effetti giuridici ne siano derivati → consiste nell’accertamento (processo - strumenti di istruzione probatoria) del fatto storico, onde porre a confronto tale fatto con l’ipotesi astratta prevista e regolata dalla legge. ò - affermazione di una conseguenza giuridica che deriva dal concreto verificarsi dell’evento prefigurato nell’enunciato normativo. [Enunciato] Il concetto di fattispecie presuppone la strutturazione della norma giuridica come un condizionale del tipo → se A allora B dove: - A è la descrizione di un fatto o un insieme di fatti, ossia la fattispecie; - B è la statuizione, ossia la descrizione degli effetti giuridici prodotti dalla norma (creazione, modifica o estinzione di rapporti giuridici) allorché si verifica A. In questo modo la norma istituisce tra la fattispecie e la statuizione una relazione di causalità giuridica che una teoria, diffusa in passato ma ormai abbandonata, considerava analoga alla causalità naturale. La stessa fattispecie può essere presa in considerazione da norme diverse che ricollegano ad essa differenti effetti giuridici; se tali effetti sono tra loro logicamente incompatibili, si verifica un'antinomia. Quando, invece, una fattispecie non è prevista da alcuna norma giuridica si ha una lacuna. Il complesso di norme che regolano la medesima fattispecie costituisce un istituto giuridico. La sanzione. Le norme giuridiche si caratterizzano per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata (coercizione) o sono comunque garantite dalla predisposizione, per l’ipotesi di trasgressione, di una conseguenza in danno del trasgressore, chiamata “sanzione”, la cui minaccia favorirebbe l’osservanza spontanea della norma. Spesso, accanto a “norme di condotta” (dette primarie), il legislatore prevede una “risposta” o una “reazione” dell’ordinamento (c.d. norme sanzionatorie o secondarie), da far scattare in caso di inosservanza del comportamento prescritto. Vi è peraltro da rilevare che la difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure preventive, di vigilanza e di dissuasione, e perfino con l’ausilio di norme che si limitano ad affermazioni di principio, che svolgono un’importante funzione “esemplare”, indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione. Di recente sono frequenti anche norme che stabiliscono “premi” e “incentivi a favore dei soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni (ad es. a favore di imprese che intraprendono nuove attività in zone considerate depresse o sottosviluppate). La sanzione può operare in modo diretto (realizzando il risultato che la legge prescrive), o in modo indiretto: in questo caso l’ordinamento si avvale di altri mezzi per ottenere l’osservanza della norma o per reagire alla sua violazione. Nel diritto privato, in particolare, la sanzione non opera, di regola, direttamente (es.: se un pittore non dipinge il quadro ordinato non è possibile costringerlo materialmente a dipingerlo - nemo ad factum cogi potest). Caratteri della norma giuridica: Generalità ed astrattezza. Il principio Costituzionale di eguaglianza. I caratteri essenziali della norma giuridica avente forza di legge sono la generalità e la astrattezza dei relativi precetti. Con il carattere della generalità si intende sottolineare che la legge non deve essere dettata per singoli individui, bensì o per tutti i consociati o per classi generiche di soggetti. Con il carattere della astrattezza si intende sottolineare che la legge non deve essere dettata per specifiche situazioni concrete, bensì per fattispecie (stato di cose) astratte, ossia per situazioni individuate ipoteticamente. Peraltro oggi si riconosce anche l’ammissibilità di leggi in senso formale che non dettino norme generali ed astratte (c.d leggi-provvedimento, ad esempio la costituzione di un ente pubblico). Importante è diventata, per caratterizzare la norma avente valore di legge, il c.d. “principio di eguaglianza” (art. 3 Cost.). Dal principio di eguaglianza va tenuto distinto il principio per cui i pubblici uffici devono rispettare il criterio della imparzialità (art. 97 Cost.), ossia l’obbligo di applicare le leggi in modo eguale. Nell’art. 3 della Cost. è invece codificato il vero principio di eguaglianza, che ha due profili: a) il primo è di carattere formale (art. 3.1) ed importa che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali”. b) il secondo è di carattere sostanziale (art. 3.2) ed impegna la Repubblica a ”rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è affidato alla corte Costituzionale, la quale può dichiarare l’illegittimità di una norma avente forza di legge quando ritenga “irragionevole” o “incongruente” o “contraddittoria” o “arbitraria” una differenziazione normativa di situazioni che, in realtà, siano omogenee, ovvero un’assimilazione di trattamento nei confronti di situazioni che, in realtà, siano diverse. L’equità. In qualche ipotesi può avvenire che l’applicazione del comando al caso concreto dia luogo a conseguenze che urtano contro il sentimento di giustizia. L’equità è stata, pertanto, definita la giustizia del caso singolo. L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, in quanto ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattamente quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti (principio della certezza del diritto → positivismo → “summum ius, summa iniuria”). Perciò, nel diritto privato, il ricorso all’equità è ammesso solo in casi eccezionali e precisamente in quelli in cui la stessa norma giuridica rinvia all’equità (art.113 c.p.c). Dall’equità come criterio decisorio (caso singolo) va distinta l’equità ‘integrativa’ che si riferisce ai casi in cui la legge prevede che il giudice provveda ad integrare o determinare ‘secondo equità’ gli elementi di una fattispecie. Capitolo 2 : IL DIRITTO PRIVATO e LE SUE FONTI Diritto pubblico e diritto privato. Una distinzione tradizionale, un tempo considerata fondamentale, è quella tra diritto pubblico e diritto privato. - diritto pubblico → disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la loro azione, interna e di fronte ai privati, ed impone a questi ultimi il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata e il reperimento dei mezzi finanziari necessari per il perseguimento delle finalità pubbliche. Si articola nelle varie branche del costituzionale, penale, amministrativo. - diritto privato → invece, si limita a disciplinare le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati, non affidandone la cura ad organi pubblici, ma lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione delle norme. Anche il diritto privato è parte dell’ordinamento (ius positum) ma si tratta pur sempre di disposizioni in base a cui il singolo opera su un piano di uguaglianza con altri individui, non trovandosi in situazione di soggezione di fronte ad un potere pubblico supremo. La linea di demarcazione tra diritto pubblico e privato è variabile e incerta: lo Stato può avocare a se la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati, enti pubblici possono svolgere attività di diritto privato in concorrenza con aziende private, soggetti privati possono essere concessionari di servizi pubblici, ed un medesimo fatto può venire disciplinato sia da norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico. Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. Le norme di diritto privato si distinguono in: - derogabili (o dispositive) → quelle norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati; - inderogabili (o cogenti) → quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli, il cui carattere risulta spesso direttamente dalla formulazione (es.: art. 147 c.c. “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole”); - supplettive → sono destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto della fattispecie, in relazione al quale sussiste una lacuna, cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione (esempio: art. 1193 comma 1 c.c. attribuisce in prima istanza al debitore, che abbia più debiti nei confronti del creditore, la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare, qualora non lo faccia il comma 2 dispone a quale dei debiti deve essere imputato il pagamento). Sebbene le norme di diritto pubblico siano quasi sempre cogenti, e quelle di diritto privato per la maggior parte dispositive, possono anche aversi norme di diritto pubblico suscettibili di deroga o norme di diritto privato cogenti (che richiedono comunque l’iniziativa del singolo). Con la norma dispositiva il legislatore, ai fini della certezza del diritto, enuncia una regola conforme alla disciplina che viene adottata di solito dalle parti stesse, e perciò può considerarsi “tipica”, potendosi presumere che, se l’ipotesi fosse stata contemplata, la volontà comune dei contraenti si sarebbe indirizzata verso quella soluzione. Fonti delle norme giuridiche. Per “fonti” legali di “produzione” delle norme giuridiche si intendono gli atti e i fatti che producono o sono idonei a produrre diritto. Per fonti di “cognizione”, si intendono i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prendere conoscenza del testo di un atto normativo (es. la Gazzetta Ufficiale). Alle fonti di produzione delle singole norme giuridiche si possono contrapporre le fonti di un intero ordinamento, ossia le vicende storico-politiche che ne hanno determinato la nascita con quelle determinate caratteristiche. Le fonti si possono distinguere in materiali (atti o fatti produttivi di norme generali e astratte) e formali (atti o fatti idonei a produrre diritto, a prescindere dal concreto contenuto della singola fattispecie, l’accento cade sull’atto non sul suo risultato). Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un “atto”, si può distinguere: a) l’Autorità investita del potere di emanarlo (il Parlamento, il Governo); b) il procedimento formativo dell’atto (es: il procedimento di emanazione di una legge cost.); c) il documento normativo (la legge considerata nella sua lettera); d) i precetti ricavabili dal documento. E’ chiaro che ogni ordinamento deve stabilire ante omnia le norme sulla produzione giuridica, ossia a quali Autorità, a quali organi, e con quali procedure, sia affidato il potere di emanare norme giuridiche, e con quali valori gerarchici. La gerarchia delle fonti esprime perciò una regola sulla produzione giuridica, che identifica la norma applicabile in caso di contrasto tra norme provenienti da fonti diverse. [SCHEMA: Il c.d. sistema della fonti del diritto] 1) Fonti di rango costituzionale → Costituzione fondamentale norma sulla produzione giuridica: ò — principi supremi dell’ordinamento costituzionale, non modificabili da leggi di revisione costituzionale (da cui discendono i diritti inviolabili, godono di “super-legalità” costituzionale); — Costituzione e consuetudini costituzionali (comportamenti ripetuti nel tempo dagli organi costituzionali e dai soggetti politici in assenza di regole scritte); — leggi di revisione costituzionale (art. 138 Cost.) e altre leggi costituzionali (es., le leggi che si limitano a derogare una norma costituzionale senza modificarla). 2) Fonti comunitarie → valore prevalente rispetto alle stesse leggi ordinarie statali: a) Atti vincolanti: — regolamenti comunitari (atti aventi portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno Stato membro); — direttive (atti che vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva la competenza del singolo Stato in merito alla forma e ai mezzi per raggiungere il fine. A differenza dei regolamenti non sono immediatamente vincolanti, ma devono essere recepite dallo Stato membro al quale sono rivolte); — decisioni (atti obbligatori in tutti i loro elementi per i destinatari da essi designati. Hanno lo stesso carattere vincolante del regolamento e della direttiva, ma si indirizzano a uno o più soggetti individuati); b) Atti non vincolanti: — raccomandazioni (esortazioni e moniti dirette ai singoli Stati membri); — pareri (espressione di un’opinione su una determinata questione); 3) Fonti di rango primario e subprimario: — leggi ordinarie dello Stato (approvate dal Parlamento, può modificare ed abrogare qualsiasi norma non avente valore di legge, mentre può essere modificata e abrogata solo da una legge successiva → art.15 disp. prel.); — referendum abrogativo; — decreti-legge e decreti legislativi (equiparati alle leggi ordinarie, si tratta di provvedimenti aventi forza di legge emanati dal Governo e non dal Parlamento, in virtù o di una legge delega del Parlamento → art. 76 Cost., oppure in presenza di casi straordinari di urgenza, ma è necessario che il decreto del Governo sia convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni oppure perde efficacia sin dall’inizio → art. 77 Cost.); — decreti legislativi di attuazione degli statuti delle regioni ad autonomia speciale; — statuti delle regioni speciali e ordinarie; — leggi regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano (oggi il criterio fondamentale cui si ispirano i rapporti tra legge statale e regionale non è più quello della gerarchia, bensì della competenza, in quanto sono stabiliti distinti ambiti di operatività rispettivamente della legislazione statale e regionale, mentre il principio di gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione concorrente, nei qual casi spetta allo Stato la funzione di stabilire i principi fondamentali). 4) Fonti di rango secondario → (art.1 preleggi menziona le seguenti) subordinate alle leggi: — regolamenti governativi (emanati dal Governo, ministri e altre autorità amministrative anche non statali come le autorità indipendenti quali la Consob); — regolamenti ministeriali e di altre autorità; — statuti degli enti locali; — regolamenti degli enti locali; — statuti degli enti minori; — ordinanze. 5) Usi normativi - Consuetudine → diritto consuetudinario: Sussiste quando ricorrono la ripetizione generale e costante in un certo ambiente, un atteggiamento di osservanza di quel comportamento in quanto ritenuto doveroso. In dottrina si usa distinguere tre tipi di consuetudini: a) secundum legem - operano in accordo con la legge; b) praeter legem - operano al di là della legge, relativamente a materie non disciplinate; c) contra legem - si pongono contro la legge (non sono ammesse). La Consuetudine non è prevista o disciplinata in Costituzione, ed essendo non scritta, solleva delicati problemi di accertamento e di prova. Il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a conoscenza, anche se le parti la ignorino o comunque non ne domandino l’applicazione (iura novit curia). Se il giudice non ne è a conoscenza, spetta alla parte interessata all’applicazione provare l’esistenza della norma consuetudinaria. Esistono raccolte ufficiali di usi (ad esempio quelle della Camera di Commercio). Il codice civile. Speciale rilievo tra tutte le leggi ordinarie dello stato va riconosciuto a quel tipo di leggi che vengono definiti “codici” (civile, penale, p.c, p.p, cod. nav.) il termine codice in origine indicava una raccolta di materiali normativi (es. Costitutiones) realizzata coordinando e manipolando i testi precedenti, che assurgeva a rango nuovo. La successiva evoluzione della teoria giuridica ha portato ad individuare come Codice una legge del tutto nuova, che si caratterizzi per le note della: - organicità (volto a disciplinare un intero settore dell’esperienza giuridica); - sistematicità (coordinamento logico del materiale normativo); - universalità ed uguaglianza (funzione unificatrice delle classi sociali); - abrogazione di tutto il diritto precedente e l’accentramento della disciplina (univocità delle soluzioni e facilità del reperimento e consultazione del materiale normativo). Il codice civile oggi vigente in Italia è il Codice emanato nel 1942 e contiene differenze rilevanti rispetto al modello della tradizione francese e italiana dell'Ottocento. Libro Primo - Delle Persone e della Famiglia, artt.1-455 - contiene la disciplina della capacità giuridica delle persone, dei diritti della personalità, delle organizzazioni collettive, della famiglia; Libro Secondo - Delle Successioni, artt. 456-809 - contiene la disciplina delle successioni a causa di morte e del contratto di donazione; Libro Terzo - Della Proprietà, artt. 810-1172 - contiene la disciplina della proprietà e degli altri diritti reali; Libro Quarto - Delle Obbligazioni, artt. 1173-2059 - contiene la disciplina delle obbligazioni e delle loro fonti, cioè principalmente dei contratti e dei fatti illeciti (la cosiddetta Responsabilità civile); Libro Quinto - Del Lavoro, artt.2060-2642 - contiene la disciplina dell'impresa in generale, del lavoro subordinato ed autonomo, delle società aventi scopo di lucro e della concorrenza; Libro Sesto - Della Tutela dei Diritti, artt. 2643-2969 - contiene la disciplina della trascrizione delle prove, della responsabilità patrimoniale del debitore e delle cause di prelazione, della prescrizione. I Codici sono soggetti anch’essi al controllo di legittimità della Corte Costituzionale e possono essere sempre modificati o, in tutto o in parte abrogati, con leggi ordinarie successive; spesso le modifiche vengono apportate con la tecnica della “Novella”, ossia sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la numerazione originaria, ovvero aggiungendo articoli nuovi. Capitolo 3: EFFICACIA TEMPORALE DELLE LEGGI Entrata in vigore della legge. Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede oltre all’approvazione da parte delle due Camere: a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione (Art.73 Cost.); b) la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica (Art.73 ult. comma, Cost.); c) il decorso di un periodo di tempo, detto vacatio legis, che va dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, e che di regola è di 15 gg. Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, in realtà, non ne abbia conoscenza. Vale, infatti, il principio per cui ignorantia iuris non excusat, cosicché nessuno può invocare a propria scusa, per evitare una sanzione, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge. La Corte costituzionale ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile. Abrogazione della legge. Una disposizione di legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia (anche se una norma, pur dopo abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente, e può anche essere previsto un apposito regime transitorio). Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore (art.15 disp. prel. cod.civ). L’abrogazione può essere espressa o tacita: - Espressa → quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore. - Tacita → se manca, nella legge successiva, una tale dichiarazione formale, ma le disposizioni posteriori: a) o sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti; b) o costituiscono una regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. La deroga si ha quando una nuova norma sostituisce, ma solo per specifici casi, la disciplina prevista dalla norma precedente, che continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi. Un’altra figura di abrogazione espressa può essere realizzata mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno 500.000 elettori o 5 Consigli regionali, e la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto purché la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti espressi (Art.75 Cost.). Anche la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire (la legge, benché abrogata, può e deve essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità, invece, annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicché non può più essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure ai fatti già verificatisi in precedenza. L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria. Irretroattività della legge. L’art.11.1 delle preleggi stabilisce che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si dice, quindi, retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore. Nel nostro ordinamento solo la norma penale non può essere retroattiva: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. Efficacia retroattiva hanno, poi, le c.d. “leggi interpretative”, ossia le leggi emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime, quand’anche anteriori alla emanazione della legge interpretativa. Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore. Successione di leggi. In alcuni casi interviene il legislatore a regolare il passaggio tra la vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. Relativamente alle questioni di diritto transitorio vi sono due teorie: a) teoria del diritto quesito → la legge nuova non può colpire i diritti quesiti, che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto; b) teoria del fatto compiuto → la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti. Quest’ultima teoria è maggiormente seguita, anche se in definitiva occorre sempre risalire alla volontà del legislatore in vista delle nuove esigenze sociali. Si parla, invece, di ultrattività quando una disposizione di legge stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore. Capitolo 4: L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE L’applicazione della legge. Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono il diritto dello Stato. E’ compito dello Stato attraverso i suoi organi, curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico. Viceversa l’applicazione delle norme di diritto privato non è imposta in modo autoritario, ma è lasciata all’iniziativa, alla prudenza e al buon senso dei singoli. La maggior parte delle liti che quotidianamente insorgono, non viene portata all’esame del giudice: o si trascinano restando insolute, oppure vengono composte attraverso una delle seguenti vie. a) rinuncia alla lite da parte di uno dei litiganti; b) transazione (art.1965 c.c.), ossia accordo col quale le parti compongono la lite facendosi reciproche concessioni rispetto agli iniziali punti di vista; c) compromesso, ossia accordo per deferire la soluzione della controversia ad uno o più arbitri privati, la cui decisione acquisterà valore vincolante analogo a quello delle sentenze. Ciascuna delle parti, se non vuole lasciare insoluta la lite e non trova alcun altro mezzo per giungere ad una composizione stragiudiziale, ha sempre il diritto di rivolgersi ai giudici dello Stato, chiamando in giudizio la controparte. Di fronte all’iniziativa giudiziale dell’attore, il convenuto può assumere uno dei seguenti atteggiamenti: a) non costituirsi in giudizio, rinunciando a difendersi; anche in tale ipotesi, tuttavia, il giudice non può accogliere la domanda proposta dall’attore, ma deve controllarne il fondamento sia in linea di fatto che in linea di diritto (se Tizio chiede la condanna di Caio al pagamento di una somma di danaro, ma non fornisce alcuna prova del credito vantato, il giudice deve respingere la domanda pure se Caio è contumace); b) costituirsi in giudizio per opporsi all’accoglimento della domanda dell’attore; c) costituirsi in giudizio per proporre a sua volta delle domande riconvenzionali contro l’attore. Per risolvere sia le questioni “di fatto” che quelle “di diritto” è indispensabile avere individuato la disposizione da applicare e averla “interpretata”. L’interpretazione della legge. Interpretare un testo normativo non vuol dire solo conoscere quanto il testo in sé già esprimerebbe, bensì attribuire un senso, ossia decidere che cosa si ritiene che il testo effettivamente possa significare e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che insorgono nelle sua applicazione. L’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel solo esame dei dati testuali. In primo luogo, infatti, non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali. In secondo luogo le leggi, nel disciplinare rapporti sociali, si riferiscono, in generale a classi di rapporti: spetterà all’interprete, di fronte a rapporti concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina della singola norma, oppure no, ed a tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di “estensione” o di “integrazione” delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-legislativi. In terzo luogo le formulazioni delle leggi sono spesso in conflitto tra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti, a criteri cronologici, a criteri di specialità. In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di nozioni sistematiche a carattere dottrinario ed extra-testuali. L’attribuzione da parte dell’interprete a un documento legislativo nel senso più immediato e intuitivo viene detta interpretazione “dichiarativa”. Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che apparirebbe, a prima vista, esserle “proprio”, si parla di interpretazione “correttiva” (che può essere estensiva o restrittiva). Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si distingue tra interpretazione giudiziale, dottrinale e autentica. L’attività interpretativa assume valore vincolante solo quando è compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale). Si deve chiarire che l’interpretazione giudiziale svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole parti del giudizio, che sono le sole destinatarie del provvedimento del giudice. Una sentenza è però idonea ad assumere anche valore di precedente nei confronti di altri casi simili, infatti in termini tecnici si definisce giurisprudenza l’orientamento applicativo espresso dalla costante o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici. Il valore di precedente nel nostro ordinamento è però limitato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione espresso dalla sentenza (a differenza degli ord. di Common Law), poiché non vi è forza vincolante ai fini della risoluzione di successivi casi analoghi. L’interpretazione dottrinale è costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche, i quali si preoccupano di raccogliere il materiale utile alla interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le conseguenze delle varie soluzioni interpretative. Non costituisce, infine, vera attività interpretativa la c.d. interpretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana apposite norme per chiarire il significato di norme preesistenti. Questa ha efficacia retroattiva: infatti essa chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente, troncando i dubbi che erano sorti sulla sua interpretazione. Le regole dell’interpretazione. L’indagine dell’interprete non può dunque limitarsi alla lettura della legge. Il c.c. (art. 12, comma 1 disp. prel. c.c.) impone di valutare non solo il significato proprio delle parole (c.d. interpretazione letterale), ma anche l’intenzione del legislatore. Con la formula “intenzione del legislatore”, poiché nelle società moderne nessuna persona fisica costituisce in realtà il legislatore, ci si riferisce quindi ad individuare non tanto l’intenzione (soggettiva) di un inesistente (concreto) legislatore, ma lo scopo che la disposizione persegue (criterio di interpretazione teolologico) ossia della sua ratio. Altri criteri cui l’interprete e il giudice si rivolge, sono: a) il criterio logico, attraverso: - l’argumentum a contrario (volto ad escludere dalla norma quanto non vi appare espressamente compreso), - l’argumentum a simili (volto ad estendere la norma per comprendervi anche fenomeni simili a quelli risultanti dal contenuto letterale della disposizione), - l’argumentum a fortiori (volto ad estendere la norma in modo da includervi fenomeni che a maggior ragione meritano il trattamento riservato a quello risultante dal contenuto letterale della disposizione), - l’argumentum ad absurdum (volto ad escludere quella interpretazione che dia luogo ad una norma assurda); b) il criterio storico: nessuna disposizione spunta all’improvviso in un ordinamento, si tratta dell’analisi delle motivazioni con cui un istituto è stato introdotto in un sistema giuridico precedente, delle modifiche che ha via via subito e del modo con cui è stato interpretato e applicato; c) il criterio sistematico: per determinare il significato di una disposizione è indispensabile collocarla nel quadro complessivo delle norme in cui va inserita, onde evitare contraddizioni e ripetizioni; d) il criterio sociologico: la conoscenza degli aspetti economico-sociali dei rapporti regolati è spesso illuminante per pervenire ad una interpretazione congruente con la realtà disciplinata e su cui quelle regole sono destinate ad avere rilievo; e) il criterio equitativo: volto ad evitare interpretazioni che contrastino col senso di giustizia della comunità, favorendo invece soluzioni equilibrate degli interessi confliggenti. L’analogia. Essendo impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero ambito dell’esperienza umana, si verifica che il giudice si trovi di fronte a problemi che nessuna norma positiva prevede o risolve. L’art.12 delle preleggi stabilisce che qualora il giudice non riesca a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi nè applicando una norma direttamente, nè utilizzandone un altra per interpretazione estensiva, deve procedere applicando “per analogia” le disposizioni che regolino casi simili, e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando “i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Ricorrere ad un ragionamento per analogia significa applicare ad un caso non regolato una norma non scritta ricopiata da una norma scritta, la quale, però, risulta dettata per regolare un caso diverso, sebbene simile a quello da decidere. Individuare tra due fattispecie diverse, una regolata ed un’altra non regolata, un rapporto di somiglianza, significa che di due entità può dirsi che sono simili se hanno qualche elemento in comune. Deve trattarsi proprio dell’elemento che giustifica la disciplina accordata al caso: l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pur il caso non regolato merita identica disciplina. L’analogia si fonda su una identità di ratio: ove tra due fattispecie sussista una somiglianza data da identità di alcuni elementi e la ratio della norma che disciplina uno dei due casi va rintracciata proprio in esigenze legate all’elemento che risulta comune ad entrambe le fattispecie, anche al secondo caso, per il quale ricorre una identica ratio (giustificazione), potrà applicarsi la norma dettata per la prima fattispecie. - analogia legis → colma la mancanza normativa utilizzando un'altra norma magari della stessa branca del diritto o di branche simili; - analogia iuris → colma la mancanza normativa facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Il ricorso all’analogia è sottoposto, nel nostro ordinamento a limiti: essa non è consentita né per le leggi penali, né per quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi. Il divieto si giustifica in relazione alle norme penali, per il principio di stretta legalità che caratterizza le norme incriminatrici: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto compiuto. Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali non vale, peraltro, per l’interpretazione estensiva, con la quale ci si limita ad adeguare la portata letterale della norma alla effettiva volontà legislativa. Capitolo 5: I CONFLITTI DI LEGGI NELLO SPAZIO Il diritto internazionale privato. In ciascun Paese, vengono elaborate norme di diritto internazionale privato: il diritto internazionale privato è l’insieme delle norme di diritto interno che il giudice italiano deve applicare - nel caso in cui si debba decidere una controversia relativa ad una fattispecie che presenti elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento giuridico - per individuare la legge regolatrice della fattispecie, ossia l’ordinamento giuridico in base al quale dev’essere decisa la controversia. a) sebbene venga tradizionalmente denominato così, non è in realtà un diritto internazionale: tale è il c.d. diritto internazionale pubblico, ossia il diritto che ha fonte in accordi tra soggetti internazionali, ma non il diritto internazionale privato, che è invece il diritto interno, ciascun ordinamento stabilendo il proprio; b) non abbraccia solo norme relative a rapporti di diritto privato, ma comprende pure altri tipi di rapporti soprattutto quelli di tipo processuale; c) è costituito non da norme materiali, ossia che disciplinano esse stesse la sostanza di taluni rapporti, bensì da regole strumentali, che si limitano cioè ad individuare a quale ordinamento debba farsi capo, per giungere poi, applicando l’ordinamento così individuato, a stabilire come quel rapporto vada disciplinato. Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento. Per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in questione, evidenziandone la natura (rapporto coniugale, di successione, di obbligazione contrattuale o extracontrattuale, etc). Fatto ciò, occorre che la norma di diritto internazionale privato precisi un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia al momento decisivo per l’individuazione dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto. I vari momenti di collegamento. a) Per quanto riguarda la capacità giuridica delle persone fisiche (art.20) si applica la legge nazionale della persona. Se questa ha più cittadinanze si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale (art. 19, comma 2). b) La capacità d’agire delle persone fisiche è pure regolata dalla loro legge nazionale (art. 23, comma 1). c) Gli enti, le società, le associazioni e le fondazioni sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione (art. 25, comma 1). Tuttavia si applica la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti. d) Per quanto riguarda il matrimonio si distingue tra: - la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio, sono regolata dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio (art.27); - per la forma del matrimoni vale la legge del luogo di celebrazione, ma può applicarsi pure la legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o la legge dello Stato di comune residenza in quel momento (art.28); - per i rapporti personali tra coniugi si applica la legge nazionale se hanno uguale cittadinanza o, se hanno diversa cittadinanza, la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è localizzata (art.29); - i rapporti patrimoniali tra coniugi vanno regolati dalla legge applicabile ai rapporti personali a meno che i coniugi abbiano convenuto per iscritto l’applicabilità della legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede (art.30, comma 1); e) Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita. Il riconoscimento di un figlio naturale è regolato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene (art.33, comma 1); f) L’adozione è regolata dal diritto nazionale dell’adottato o degli adottanti se comune o, in mancanza, del diritto dello stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti al momento dell’adozione (art.38, comma 1); g) La successione mortis causa è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta al momento della morte (art.46, comma 1); h) Per i beni immobili (diritti reali e possesso) si applica la lex rei sitae (art.54, comma 1), per i beni immateriali la legge dello Stato di utilizzazione (art.54); i) Le obbligazioni contrattuali sono regolate dalla legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto (art.57 rinvia alla alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle convenzioni contrattuali del 1980, che fonda un diritto internazionale privato uniforme, si tratta di un regolamento di applicazione universale); l) Le obbligazioni non contrattuali sono regolate con riferimento al Regolamento 864/2007/CE - Roma II - si tratta anche in questo caso di un regolamento di applicazione universale. Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. L’eventuale rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero pone problemi delicati. Nell’ipotesi in cui quell’ordinamento a sua volta, nella stessa situazione rinvii ad un altro ordinamento, l’art. 13, comma 1, della L. n. 218 stabilisce che “si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italiana. Il rinvio alle norme di un altro ordinamento, quale fonte regolatrice di un rapporto sottoposto ad un giudice italiano, pone l’ulteriore e delicato problema della compatibilità con i principi fondamentali del nostro ordinamento. L’art. 16 comma 1, della citata L. n. 218 ribadisce che la legge straniera non può essere applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico, il 2 comma aggiunge che - nel caso operi il ricordato limite della contrarietà all’ordine pubblico - si deve tentare ugualmente di applicare la legge richiamata “mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa”. Solo ove manchi tale possibilità si applica la legge italiana. La conoscenza della legge straniera. In passato la giurisprudenza tendeva a ritenere che fosse onere della parte, che pretendeva di far valere un qualche diritto fondato su norme di un ordinamento straniero richiamato, provare al giudice l’esistenza delle norme invocate a proprio favore. La nuova disciplina (art.14) stabilisce invece che spetta al giudice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui non risulti possibile in alcun modo, il giudice deciderà in base alla legge italiana. La condizione dello straniero. Tra gli stranieri occorre distinguere i c.d. cittadini comunitari dai c.d. extracomunitari. Per i primi si applica l’art.17 del Trattato Istitutivo della CE, cosi come modificato dal Titolo II del Trattato di Maastricht, che ha introdotto la “cittadinanza dell’Unione”, che costituisce un complemento della cittadinanza nazionale, attribuita a chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Ai cittadini comunitari non solo va riconosciuto pieno diritto di circolazione e soggiorno negli stati membri, ed il godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale, ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici, quali il voto delle elezioni comunali. Per gli extracomunitari è applicabile sia il diritto d’asilo, sia l’inammissibilità della estradizione per reati politici. Inoltre allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno. Pure all’extracomunitario “regolarmente soggiornante” è assicurato il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, a meno che le convenzioni internazionali in vigore per Italia dispongano diversamente. La regola della condizione di reciprocità, ossia la concessione di un diritto allo straniero a condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel paese di cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti riconosciuto, malgrado sia superata, è però sopravvissuta, anche se ridotta ad un ambito di applicazione residuale. A tutti i lavoratori stranieri, infine, è garantita parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. L’ATTIVITA’ GIURIDICA e LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI Capitolo 6: LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE Il rapporto giuridico. Il rapporto giuridico è la relazione tra due soggetti, regolata dall’ordinamento giuridico (diritto oggettivo). - Soggetto attivo → colui a cui l’ordinamento giuridico attribuisce il potere (o diritto soggettivo) (per es. di pretendere il pagamento). - Soggetto passivo → colui a carico del quale sta il dovere (per es. di pagare). Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico (per es. per effetto di un contratto) si usa l’espressione “parti”. - Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo. Terzo è chi non è parte o non è soggetto di un rapporto giuridico. Regola generale è che il rapporto giuridico non produce effetti né a favore, né a danno del terzo. Tuttavia la legge non di rado si deve preoccupare di regolare la posizione dei terzi rispetto ad un determinato rapporto, in quanto possono essere toccati anche gli interessi degli estranei. Il rapporto giuridico non è che una figura (la più importante) di una categoria più ampia: la situazione giuridica. Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status). Soggetto attivo del rapporto giuridico → titolare di un diritto soggettivo (ius est facultas agendi). La norma è un precetto (es: art. 2043 c.c. divieto di arrecare danni agli altri) → diritto oggettivo. Si realizza la più ampia protezione dell’interesse del singolo al quale, al tempo stesso si riconosce una situazione di libertà (di chiedere o non chiedere il risarcimento del danno). Il diritto soggettivo è il potere di agire (agere licere) per il soddisfacimento di un proprio interesse individuale, protetto dall’ordinamento giuridico. L’aspetto della tutela è essenziale nel qualificare una situazione di interesse personale come contenuto di un diritto del soggetto, poiché esistono molteplici interessi individuali irrilevanti per l’ordinamento giuridico, a cui non viene concessa protezione. In alcuni casi il potere non è attribuito al singolo nell’interesse proprio, ma per realizzare un interesse altrui. Le figure di poteri che al tempo stesso sono doveri (poteri-doveri) si chiamano potestà. Mentre l’esercizio del diritto soggettivo è libero, in quanto il titolare può perseguire i fini che ritiene più opportuno, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi al fine della cura dell’interesse altrui. Le facoltà (o diritti facoltativi) sono, invece, manifestazioni del diritto soggettivo che non hanno carattere autonomo, ma sono in esso comprese. Le facoltà non si estinguono se non si estingue il diritto di cui fanno parte. Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di più elementi successivi. Se di questi alcuni si siano verificati ed altri no, si ha la figura dell’aspettativa (Esempio: l’ipotesi di un’eredità lasciata a taluno a condizione che si laurei. Egli non acquisterà il diritto all’eredità se non quando si sarà laureato: intanto si trova in una posizione di attesa che viene tutelata dall’ordinamento). Quest’ipotesi del diritto soggettivo che si realizza attraverso stadi successivi viene anche considerata, oltre che dal lato del soggetto (aspettativa), sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla, infatti, di fattispecie a formazione progressiva, per dire che il risultato si realizza per gradi e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto anticipato della fattispecie. A volte alcuni diritti e doveri si ricollegano alla qualità di una persona, la quale deriva falla sua posizione in un gruppo sociale. Status è, pertanto, una qualità giuridica che si ricollega alla posizione dell’individuo in una collettività. Lo status può essere di diritto pubblico (es. stato di cittadino) o di diritto privato (es. stato di figlio). Qualità giuridica si usa per designare le situazioni di stato di erede, socio, etc. L’esercizio del diritto soggettivo. Colui al quale l’ordinamento giuridico attribuisce il diritto soggettivo si chiama titolare del diritto medesimo. L’esercizio del diritto soggettivo consiste nell’esplicazione dei poteri di cui il diritto soggettivo consta (Esempio: il proprietario esercita il diritto soggettivo di proprietà utilizzando la cosa, percependone i frutti, etc.) e deve essere distinto dalla sua realizzazione, che consiste nella soddisfazione dell’interesse protetto, sebbene spesso i due fenomeni possono coincidere. La realizzazione dell’interesse può essere spontanea o coattiva: quest’ultima si verifica quando occorre far ricorso ai mezzi che l’ordinamento predispone per la tutela del diritto soggettivo (Esempio: il debitore non adempie; il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, fa espropriare i beni del debitore - art. 2910 c.c.). Si ha abuso del diritto soggettivo quando il titolare del diritto si avvale della facoltà e dei poteri che gli sono concessi non per perseguire l’interesse che propriamente forma oggetto del diritto soggettivo - e come tale tutelato - bensì per realizzare finalità ulteriori eccedenti l’ambito di interesse (disposizioni legislative che vietano l’abuso artt.833, 844, 1175 c.c.) Categorie di diritti soggettivi. a) diritti assoluti → garantiscono al titolare un potere che egli può far valere verso tutti (erga omnes), di cui fanno parte: - i diritti reali (iura in re, diritti su una cosa): attribuiscono al titolare una signoria piena (proprietà) o limitata (diritti reali su cosa altrui) su un bene. Relazione immediata tra l’uomo e l cosa, gli altri soggetti devono solo astenersi dall’impedire lo svolgimento pacifico della signoria. - i diritti della personalità (diritto all’integrità fisica, al nome, all’immagine): sono tutelati in capo al singolo nei confronti di tutti i consociati. b) diritti relativi → attribuiscono al titolare un potere che egli può far valere solo nei confronti di una o più persone determinate: - diritti di credito (personali): riferiti ad una persona tenuta ad un determinato comportamento nei confronti del titolare del diritto. Il rovescio sia nei diritti reali che nei diritti di credito è costituito dal dovere: - a fronte del diritto reale si pone, in capo a qualsiasi consociato, un generico dovere negativo di astensione dal compiere qualsiasi atto volto a impedire o limitare il godimento del bene. - a fronte del diritto di credito si pone il dovere, di una o più persone determinate, tenute ad eseguire una determinata prestazione o comportamento per il soddisfacimento del creditore. c) diritti potestativi → consistono nel potere di operare il mutamento della situazione giuridica di un altro soggetto. Esempio: nel caso di beni indivisi appartenenti a più soggetti (comunione) ciascuno dei comproprietari può chiedere la divisione (art. 1111 c.c.), gli altri comproprietari nulla possono fare di fronte a questa iniziativa. Infine i diritti personali di godimento (situazione in cui il soggetto è obbligato a far godere di un proprio bene un altro soggetto, es: locazione o comodato), hanno duplice natura: relativa verso chi ha concesso il godimento, assoluta verso tutti i consociati i quali sono tenuti ad astenersi dal turbare tale godimento. Gli interessi legittimi. In taluni casi, l’osservanza di una disposizione interessa determinati individui non più genericamente quali cittadini, bensì specificamente come portatori di interessi coinvolti dall’azione pubblica: ad es. il candidato di un concorso. In questi casi al privato viene riconosciuto uno specifico potere di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di impugnativa degli atti eventualmente viziati. L’esercizio dei pubblici poteri, da parte degli organi amministrativi, deve avvenire nel rispetto della legge e secondo criteri di razionalità. Il privato pertanto, portatore di un interesse legittimo in relazione ad un determinato provvedimento, della P.A, può contestarne la validità, rivolgendosi agli organi giudiziari competenti (T.A.R = tribunale amministrativo regionale), e denunciarne il relativo vizio, che può essere di: - incompetenza (un organo amministrativo ha compiuto un atto non rientrante nei suoi poteri) - violazione della legge (il provvedimento si pone in contrasto con le norme di legge) - eccesso di potere (l’atto risulta viziato da illogicità e contraddittorietà) ò La situazione giuridica dei portatori di tali interessi qualificati viene definita come “interesse legittimo” (il candidato ad un concorso non ha diritto di vincerlo, ma ha un interesse legittimo al regolare svolgimento della gara e può quindi chiedere l’annullamento di tutti gli atti che siano illegittimi). Situazioni di fatto. L’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro la violenza e il dolo altrui anche la situazione di fatto in cui il soggetto può trovarsi rispetto ad un bene ed attribuisce anche ad essa alcuni effetti (indipendentemente dalla sua conformità alla legge). Si hanno le due figure del: - Possesso, - Detenzione. Le situazioni di fatto possono essere altresì rilevanti in tema di società, di pre-uso di un marchio, di famiglia, di rapporti di lavoro, di mezzadria. Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere). - la figura del dovere generico di astensione incombe su tutti come rovescio della figura del diritto assoluto: dovere di astenersi dal ledere il diritto assoluto; - la figura dell’obbligo cui è tenuto il soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, a cui fa riscontro nel soggetto attivo la pretesa, ossia il potere di esigere il comportamento; - la figura della soggezione invece, corrisponde al diritto potestativo. Da queste situazioni passive si deve distinguere la figura dell’onere. Quest’ultima ricorre quando ad un soggetto è attribuito un potere, ma l’esercizio di tale potere è condizionato ad un adempimento (che però, essendo previsto nell’interesse dello stesso soggetto, non è obbligatorio e quindi non prevede sanzioni per l’ipotesi che resti inattuato). Esempio: il compratore che intenda avvalersi della garanzia per i vizi della cosa vendutagli ha l’onere di denunciare i vizi della cosa entro otto giorni dal momento in cui li ha scoperti (art.1495). Vicende del rapporto giuridico. Il rapporto giuridico si costituisce quando un soggetto attivo acquista il diritto soggettivo. L’acquisto può essere di due specie: - a titolo derivativo → quando il diritto si trasmette da una persona ad un’altra (fenomeno di successione); - a titolo originario → quando il diritto soggettivo sorge a favore di una persona senza essere trasmesso da nessuno. Titolo d’acquisto o causa adquirendi è l’atto che giustifica l’acquisto. Con la successione, colui che per effetto di essa perde il diritto si chiama autore o dante causa; chi lo acquista si chiama successore o avente causa. E’ chiaro che la successione non si verifica nel caso di acquisto originario. L’acquisto a titolo derivativo può essere di due specie: si può trasmettere proprio lo stesso diritto che aveva il precedente titolare (acquisto derivativo-traslativo) o può attribuirsi al nuovo titolare un diritto differente che, peraltro, scaturisce dal diritto del precedente titolare (acquisto derivativo-costitutivo o successione a titolo derivativo-costitutivo), in quanto lo suppone e ne assorbe il contenuto, o, in parte, lo limiti. Nelle due forme dell’acquisto a titolo derivativo, il nuovo soggetto ha lo stesso diritto che aveva il precedente titolare. La successione è di due specie: a titolo universale, quando una persona subentra in tutti i rapporti di un’altra persona, e, cioè, sia nella posizione attiva, sia in quella passiva (es. nella fusione tra società); a titolo particolare, quando una persona subentra solo in un determinato diritto o rapporto (es. nel caso di morte di una persona). La vicenda finale di un rapporto è la sua estinzione. Il rapporto si estingue quando il titolare perde il diritto senza che questo sia trasmesso ad altri. Non di tutti i diritti soggettivi è consentito al titolare disfarsi o trasferendoli ad altri o rinunziandovi. Oltre ai diritti disponibili ci sono i diritti indisponibili che sono in genere i rapporti che servono a soddisfare un interesse superiore: tali le potestà e i diritti familiari. Capitolo 7: IL SOGGETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO Soggetti e Persone. Le situazioni giuridiche soggettive (diritti, obblighi) fanno capo ai soggetti. L’idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive viene definita capacità giuridica. La capacità giuridica nel nostro ordinamento compete: a) alle persone fisiche, b) agli enti (es. associazioni, fondazioni, comitati) tra cui distinguiamo: - enti ‘persone giuridiche’ (associazioni riconosciute, società di capitali,etc) con autonomia patrimoniale perfetta. - enti non dotati di personalità (associazioni non riconosciute, società di persone,etc) che difettano di autonomia patrimoniale. c) ad altre strutture organizzate che la legge tratta, almeno a certi fini, come autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive (es: il condominio). A) LA PERSONA FISICA La capacità giuridica della persona fisica. La capacità giuridica è l’idoneità a diventare titolare di diritti e doveri, e compete indifferentemente a tutti gli esseri umani (art.3 Cost. “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale...”). Capacità giuridica di diritto privato compete non solo al cittadino ma anche allo straniero, con il limite del principio di reciprocità, mentre in ogni caso sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana, previsti dalle norme di diritto interno e dalle convenzioni internazionali. Le persone fisiche acquistano la capacità giuridica al momento della nascita (art.1.1 c.c.), ossia con la piena indipendenza dal corpo materno che si realizza con l’inizio della respirazione polmonare. Non occorre la vitalità del soggetto, basta la nascita per permettere l’acquisizione. Entro dieci giorni l’evento della nascita deve essere dichiarato all’ufficiale dello stato civile per la formazione dell’atto di nascita. La capacità giuridica si perde con la morte (cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo) oggi sempre più difficile da stabilire (tecniche di rianimazione, etc). Entro 24h dal decesso la morte va dichiarata all’ufficiale di stato civile per la formazione dell’atto di morte. Le incapacità speciali. Per l’accesso a taluni rapporti non è sufficiente la nascita (condizione di acquisto della capacità giuridica generale) ma è richiesto il concorso di altri presupposti (es: la capacità matrimoniale si acquista al compimento del 16° anno di età, di testare al compimento del 18° anno di età, etc.). Dette capacità si distinguono in: a) assolute (se al soggetto è precluso quel determinato tipo di rapporto o di atto), b) relative (se al soggetto è precluso quel determinato tipo di rapporto o di atto ma solo con determinate persone o solo in determinate circostanze). In tutti questi casi si ravvisa una limitazione della capacità giuridica. Il concepito. Talune posizioni giuridiche sono tutelate anche a favore di chi, seppur non ancora nato, sia però concepito: - L’art.462.2 c.c. attribuisce al concepito la capacità di succedere per causa di morte, sia per legge che per testamento. - Accanto alla capacità di succedere, ai nascituri non concepiti, il legislatore accorda pure una capacità di ricevere per donazione (art.784 c.c.) sempre che sia fatta sempre in favore di figli di una determinata vivente al tempo della donazione e in favore di tutti i figli di questa. - La giurisprudenza riconosce al concepito il diritto al risarcimento del danno alla salute ed all’integrità fisica eventualmente cagionatogli, prima o durante il parto, o al danno sofferto dall’uccisione del padre ad opera di un terzo durante la gestazione. In ogni caso questi diritti potranno essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita. La capacità di agire. La capacità di agire è l’idoneità del soggetto a porre in essere in proprio atti negoziali destinati a produrre effetti nella sua sfera giuridica. La capacità di agire presuppone la capacità giuridica, ma non si confonde con essa, in quanto anche quando difetta la capacità di agire permane la capacità giuridica. La capacità di agire si acquista al raggiungimento della maggiore età (art.2, comma 1, c.c.). A protezione di soggetti privi in tutto o in parte di autonomia (malattia fisica, mentale, disagio), il codice civile prevede gli istituti: a) della minore età; b) dell’interdizione giudiziale; c) dell’inabilitazione; d) dell’emancipazione; e) dell’amministrazione di sostegno; f) dell’incapacità di intendere o di volere (incapacità naturale). Ad una logica sanzionatoria e non di protezione risponde invece l’interdizione legale. Da distinguere infine: a) la capacità negoziale (di cui abbiamo trattato fin qui) → ossia l’idoneità del soggetto a compiere personalmente atti di autonomia negoziale (es: vendere, comprare). b) la capacità extranegoziale → l’idoneità del soggetto a rispondere delle conseguenze dannose degli atti dallo stesso posti in essere (es: ferite cagionate). La minore età. Con la legge 8 marzo 1975 la maggiore età è fissata al compimento del 18° anno (art.2 c.c.). Con essa si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non si è richiesta un’età diversa (sup. inf.). Gli atti posti in essere da un minorenne sono, di regola, annullabili (art.1425 c.c.), a meno che il minore abbia, non soltanto dichiarato, falsamente, di essere maggiorenne, ma addirittura abbia con raggiri occultato la sua minore età (art.1426 c.c.). L’atto annullabile può essere impugnato dal rappresentante legale del minore o dallo stesso minorenne entro cinque anni da quando sia divenuto maggiorenne. Non può mai, viceversa, essere impugnato dalla controparte maggiorenne (si parla perciò di negozi claudicanti, art.1441, comma 1, c.c.). Nella quotidianità i minori vengono ammessi a stipulare tutta una serie di contratti (es: acquistare biglietti dell’autobus), l’art. 409.2 c.c. rende accessibili al minore tutti quegli atti che siano necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. La gestione del patrimonio del minore ed il compimento di ogni atto relativo, competono ai genitori in via esclusiva: - disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione (es: riscossione del canone di locazione dell’appartamento intestato al minore); - congiuntamente, per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione che incidono significativamente (es: vendita appartamento di cui il minore è proprietario). Peraltro la legge richiede che i genitori, per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, si muniscano della preventiva autorizzazione del giudice tutelare (art.320, 3 e 4 cod. civ.). Gli atti posti in essere dai genitori senza l’autorizzazione del giudice sono annullabili (art. 322 cod. civ.). Se uno dei due genitori è morto, l’amministrazione spetta in via esclusiva all’altro genitore (art.317 cod. civ.). Se entrambi i genitori sono morti, o per altra causa non possono esercitare la potestà, la gestione del patrimonio del minore e la relativa rappresentanza competono ad un tutore (art. 343, comma 1 c.c.) nominato dal giudice tutelare, che offrendo meno garanzie deve essere sempre autorizzato. L’interdizione giudiziale. L’interdetto si trova in una condizione non dissimile da quella del minore, non può compiere direttamente alcun atto negoziale, se non quelli di stretta necessità di vita quotidiana. L’interdizione preclude al soggetto il matrimonio, il riconoscimento dei figli naturali, il testamento. L’interdizione è pronunciata con sentenza del tribunale in base ai seguenti presupposti (art. 414 cod. civ.) : a) infermità di mente; b) abitualità di detta infermità (infermità non transitoria); c) incapacità del soggetto, a causa di detta infermità, di provvedere ai propri interessi; d) necessità di assicurare al soggetto una adeguata protezione. L’interdizione può essere pronunciata solo a carico del maggiore di età (art. 414 c.c.), essendo il minorenne già legalmente incapace e tutelato dall’ordinamento. → Il procedimento di interdizione può essere promosso (art. 417 c.c.): a) dallo stesso interdicendo; b) da un coniuge; c) dalla persone stabilmente convivente; d) dai parenti entro il quarto grado; e) dagli affini entro il secondo grado; f) dal pubblico ministero. → Fasi del procedimento di interdizione: a) promozione del procedimento di interdizione (art. 417 c.c.), b) esame diretto dell’interdicendo da parte del giudice (art. 419, comma 1. c.c.), c) se il giudice lo ritiene, può nominare un tutore provvisorio dell’interdicendo ( 419, com. 3, c.c.). d) nelle more del giudizio di interdizione, l’interdicendo è legalmente rappresentato dal tutore provvisorio; e) in caso di successiva interdizione, gli atti compiuti dall’interdicendo prima della nomina del tutore provvisorio sono annullabili (art.427, comma 2, c.c.). Gli effetti dell’interdizione decorrono dal momento della pubblicazione della sentenza di 1° grado, che pronuncia l’interdizione stessa (art. 421 c.c.). La sentenza viene annotata dal cancelliere nel registro delle tutele e comunicata entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per essere annotata a margine dell’atto di nascita (art. 423 c.c.). Se e quando dovessero venir meno i presupposti che hanno condotto all’interdizione, quest’ultima può essere revocata con sentenza del tribunale (art. 429 c.c.). L’interdizione legale. Il codice penale, oltre all’incapacità d’agire del minore e quella dell’interdetto giudiziale, prevede un altro caso di incapacità d’agire, come pena accessoria di una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni: per indicare questa ipotesi si parla di interdizione legale. Il condannato è in stato di interdizione legale fino a quando dura la pena (funzione sanzionatoria). All’interdetto legale si applicano, per la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni, le norme dettate per l’interdetto giudiziale, per gli atti a carattere personale nessuna incapacità consegue. Incapacità relativa (emancipazione, inabilitazione). La minore età e l’interdizione sono incapacità legali assolute: in quanto non consentono al soggetto di compiere validamente alcun atto giuridico. Ma il minore può essere talvolta emancipato o l’infermità non essere così grave da farsi luogo all’interdizione. In queste ipotesi si ha la c.d. incapacità relativa o parziale: il soggetto non può compiere da solo gli atti che possano incidere sul suo patrimonio, ma può compiere validamente atti di ordinaria amministrazione (art.394,424 c.c.). Atti di ordinaria amministrazione sono quelli che riguardano la conservazione del bene e il consumo del reddito che il bene dà. Incapaci relativi o parziali sono il minore emancipato e l’inabilitato. - L’emancipazione può essere quindi conseguita soltanto dal minore che venga ammesso dal tribunale a contrarre matrimonio prima del compimento del 18° anno (art.84, comma 2, c.c.). In tal caso con il matrimonio il minore risulta emancipato di diritto, ossia senza bisogno di altri provvedimenti (art.390 c.c.), sottraendosi alla disciplina della minore età. Se il minore emancipato è sposato con una persona di maggiore età, questa ne diviene il curatore, sennò il giudice tutelare può disporre un curatore, scelto preferibilmente tra i genitori. - L’inabilitazione può essere pronunciata dal giudice nei confronti dell’infermo di mente lo stato del quale non sia talmente grave da far luogo all’interdizione (art.415 c.c.). Sono anche causa di inabilitazione: la prodigalità del soggetto, l’abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, il sordomutismo o la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia. Il procedimento di inabilitazione ricalca quello di interdizione (vedi sopra). La revoca dell’inabilitazione è disposta quando cessa la causa che via ha dato luogo. Legittimati a chiedere la revoca sono gli stessi soggetti che possono promuovere il procedimento di inabilitazione. L’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno si apre con decreto motivato del giudice tutelare, allorquando ricorrano - congiuntamente - i seguenti presupposti (art. 404 c.c.): a) infermità o menomazione fisica della persona: b) impossibilità per il soggetto, a causa di detta infermità o menomazione, di provvedere ai propri interessi. Ai fini dell’apertura della procedura di amministrazione di sostegno, rispetto ai presupposti per la pronuncia di interdizione, rilevano: - non solo una infermità di mente, ma anche una semplice menomazione psichica; - non solo una infermità o menomazione psichica, ma anche un’infermità o menomazione fisica; - non solo una infermità o menomazione che coinvolga la sfera psichica o fisica del soggetto globalmente, ma anche un’infermità o menomazione che incida soltanto su taluni profili della sua personalità; - anche l’abituale infermità di mente (come per l’interdizione). L’amministrazione di sostegno di regola può essere aperta solo nei confronti del maggiore di età, essendo il minorenne già tutelato in quanto tale. Il procedimento di amministrazione di sostegno può essere promosso (art. 406 c.c.): a) dallo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato); b) da un coniuge; c) dalla persone stabilmente convivente; d) dai parenti entro il quarto grado; e) dagli affini entro il secondo grado; f) dal tutore o curatore; g) dal pubblico ministero. Fasi del procedimento di amministrazione di sostegno: a) promozione del procedimento di amministrazione di sostegno, b) audizione personale dell’interessato da parte del giudice (art. 407, comma 2, c.c.), c) se il giudice lo ritiene, può nominare un amministratore di sostegno provvisorio, adottando provvedimenti di urgenza per la cura della persona interessata (art. 405, com. 4, c.c.), d) gli effetti dell’amministrazione di sostegno decorrono dal deposito del relativo decreto di apertura, emesso dal giudice tutelare (art. 405, comma 7, cod.c.), che viene annotato dal cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno e comunicato, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile per essere annotato in margine all’atto di nascita; e) gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono determinati volta a volta dal giudice tutelare. Il giudice tutelare nomina all’interessato un amministratore di sostegno nella persona designata - mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata - dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, o in mancanza scegliendolo tra i familiari (art. 408, cm 1, c.c.). Il giudice tutelare, all’atto della nomina dell’amministratore di sostegno, indica, in relazione alla specificità della situazione ed alle esigenze del singolo amministrato: a) gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, con conseguente annullabilità degli atti che lo stesso avesse a concludere; b) gli atti cui l’amministratore di sostegno deve dare il proprio assenso, prestando assistenza. Il beneficiario conserva integra la capacità di agire relativamente agli atti non indicati dal giudice. Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge o in eccesso rispetto ai poteri conferitigli dal giudice sono annullabili (art.412 comma 1, c.c.) L’incapacità naturale. E’ incapace naturale la persona che sebbene legalmente capace, sia tuttavia incapace di intendere o di volere nel momento concreto in cui pone in essere un atto determinato (art.428 c.c.). In tale situazione può trovarsi l’infermo di mente, il malato grave, l’anziano, il drogato, l’ubriaco. Come si vede l’incapacità naturale può consistere sia in una condizione permanente di incapacità, sia in una situazione transitoria: ciò che conta, affinchè l’incapacità naturale assuma rilevanza, è il momento in cui un atto giuridico sia stato posto in essere. L’impugnabilità consegue automaticamente alla sola incapacità naturale per alcuni atti più gravi (matrimonio, testamento, donazione). L’art.428 distingue tre ipotesi: a) per gli atti unilaterali (es. accettazione di una eredità dannosa), per l’invalidità dell’atto occorre altre all’incapacità di intendere o di volere, un grave pregiudizio a danno dell’incapace. b) per i contratti, per l’invalidità dell’atto occorre oltre all’incapacità di intendere e di volere la mala fede dell’altro contraente. c) il matrimonio, il testamento e la donazione sono impugnabili solo dimostrando che il soggetto era incapace di intendere o di volere nel momento in cui ha compiuto l’atto. Incapacità legale ed incapacità naturale. Incapacità legale → rileva il fatto che il soggetto si trovi in una determinata situazione di: minore età, interdizione giudiziale, interdizione legale, inabilitazione, emancipazione, inabilitazione, amministrazione di sostegno. Incapacità naturale → rileva il fatto che il soggetto - seppur legalmente capace - si trovi concretamente, nel momento in cui copie l’atto negoziale, in una situazione di menomazione della propria sfera intellettiva e/o volitiva. La legittimazione. L’apparenza. La legittimazione è l’idoneità del soggetto ad esercitare e/o a disporre di un determinato diritto. Legittimato è chi ha il potere di disposizione rispetto ad un determinato diritto (es: proprietario), o, chi è qualificato o ha veste per esercitarlo. Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto soggettivo (es: mandatario che vende le cose detenute per conto del mandante). Peraltro non sempre il difetto di legittimazione produce l’invalidità dell’atto: talora infatti l’ordinamento si accontenta dell’apparenza (es: se compro un bene mobile come un vestito da chi non ne è proprietario, ne acquisto egualmente la proprietà, se ne ricevo la consegna, ignorando che il bene non apparteneva al venditore). La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio dell’apparenza, subordinandolo al ricorso di due presupposti: a) una situazione di fatto non corrispondente ad una situazione di diritto; b) il convincimento dei terzi - derivante da errore scusabile non da colpa - che la situazione di fatto rispecchi la situazione di diritto. La sede della persona. Il luogo dove la persona fisica vive e svolge la propria attività ha per l’ordinamento giuridico rilievo da diversi punti di vista. Al riguardo la legge distingue (art.43 c.c.): a) il domicilio → luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari, anche morali e familiari: (legale se fissato dalla legge, volontario se eletto dall’interessato); b) la residenza → luogo in cui la persona ha la sua volontaria ed abituale dimora; c) la dimora → luogo in cui la persona attualmente abita. L’interdetto ha domicilio del tutore e il minore quello del luogo di residenza della famiglia o del tutore. Se i genitori non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive (art. 45 c.c.). Inoltre, per determinati affari si può stabilire un luogo diverso (domicilio speciale) da quello in cui è la sede principale dei propri affari (domicilio generale). Mentre unico è il domicilio generale, si possono avere più domicili speciali. La cittadinanza. La cittadinanza è la situazione di appartenenza di un individuo ad un determinato Stato. La cittadinanza italiana si acquista: a) iure sanguinis → è cittadino per nascita il figlio di madre o padre con cittadinanza italiana (acquisto originario). Anche i figli adottivi, se stranieri, acquistano la cittadinanza italiana ove l’adottante o uno degli adottanti sia cittadino italiano, ma naturalmente l’acquisto avviene non per nascita per effetto di adozione; b) iure soli → è cittadino chi è nato nel territorio della repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi; c) per iuris communicatio → acquista la cittadinanza il coniuge straniero o apolide, di cittadino italiano purchè ne faccia richiesta e in quanto o risieda da almeno 6 mesi in Italia o sia unita in matrimonio da almeno 3 anni; d) per naturalizzazione/concessione → la cittadinanza può essere concessa allo straniero del quale un genitore o un nonno fosse cittadino italiano purchè risieda in Italia da almeno 3 anni o presti il servizio militare per l’Italia o assuma pubblico impiego alle dipendenze dello Stato; allo straniero che presti servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato per almeno 5 anni; al cittadino di uno dei Paesi della CEE che risieda per almeno 4 anni in Italia; all’apolide che risieda in Italia per almeno 5 anni; a qualsiasi straniero che risieda in Italia da almeno 10 anni. Con la nuova disciplina si è ammessa la possibilità che un cittadino abbia anche contemporaneamente un’altra cittadinanza e si è ammessa la possibilità di riacquistare la cittadinanza anche avendola in precedenza perduta. L’art.22 Cost. statuisce che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici. La posizione della persona della famiglia. Il rapporto che lega le varie persone appartenenti alla stessa famiglia dà luogo ad una serie di diritti e doveri (status familiae). La parentela è il vincolo che unisce le persone che discendono dalla stessa persona e quindi dallo stesso stipite (art.74 cod.civ.). Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo occorre considerare le linee e i gradi: a) la linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra (nonno-nipote, padre-figlio); b) la linea collaterale quella che, pur avendo uno stipite comune non discendono l’una dall’altra (art.75 c.c. es. fratelli, zio e nipote). c) I gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite. Così tra padre e figlio vi è parentela di primo grado; tra fratelli, di secondo grado (figlio, padre, figlio=3; 3-1=2;); tra nonno e nipote vi è parentela di secondo grado (nonno, padre, figlio=3, 3-1=2); tra cugini vi è parentela di 4°grado e cosi via (art.76 c.c.). Di regola, la legge riconosce effetti alla parentela solo fino al 6° grado (art.77 c.c.). L’affinità è il vincolo che unisce un coniuge e i parenti dell’altro coniuge (art.78 c.c.). Per stabilire il grado di affinità si tiene conto del grado di parentela con cui l’affine è legato al coniuge; così suocera e nuora sono affini in primo grado; i cognati sono affini di secondo grado. Di regola la morte di uno dei coniugi, anche se non vi sia prole, non estingue l’affinità. Questa cessa, invece, se il matrimonio è stato dichiarato nullo. Tra coniugi non v’è né rapporto di parentela né di affinità ma di coniugio. Scomparsa, assenza e morte presunta. La personalità giuridica dell’individuo si estingue con la morte. Si tende a considerare decisiva la morte cerebrale, consistente nell’irreversibile cessazione di ogni attività del sistema nervoso centrale. L’accertamento del momento della morte è importante ai fini della disciplina dei trapianti. Nel nostro ordinamento, il tentativo di suicidio non è sanzionabile mentre è punita la istigazione al suicidio. Se due persone muoiono nello stesso sinistro, può avere talora rilevanza stabilire quale delle sue sia morta prima. - Persona scomparsa → è quella rispetto alla quale concorrono questi due elementi: l’allontanamento dal luogo del suo ultimo domicilio o residenza; la mancanza di notizie. Accertati questi requisiti, il tribunale dell’ultimo domicilio o residenza può nominare un curatore il quale rappresenterà lo scomparsi negli atti che siano necessari per la conservazione del suo patrimonio (curatore dello scomparso art.48 c.c.). - L’assenza → è la situazione che si verifica quando la scomparsa della persona si protrae per più tempo. Essa è dichiarata con sentenza, trascorsi due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia della persona (art.49 c.c.). Il tribunale ordina l’apertura dei testamenti, se vi sono, e i presunti eredi, legittimi o testamentari, sono immessi nel possesso temporaneo dei beni (art.50 c.c.). La dichiarazione di assenza non scioglie però il matrimonio dell’assente. - La dichiarazione di morte presunta → viene pronunciata con sentenza del tribunale quando la scomparsa si protrae per un periodo di tempo maggiore o si riconnette ad avvenimenti (guerra, infortuni) che fanno apparire probabile la morte, produce effetti analoghi a quelli prodotti dalla morte: gli aventi diritto possono disporre liberamente dei beni (art.63 c.c.); il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art.65 c.c.). Essa tuttavia da luogo solo ad una presunzione di morte, quindi, se la persona ritorna e se ne prova l’esistenza, recupera i beni nello stato in cui si trovano ed ha diritto di conseguire il prezzo di quelli alienati (art.66 c.c.), il nuovo matrimonio contratto dal suo coniuge è invalido (art.68 e 117.5 c.c.). Tuttavia, l’annullamento non pregiudica i figli, i quali restano legittimi. Si applicano i principi che l’art.128 c.c. stabilisce per il matrimonio putativo. Per la dichiarazione di morte presunta occorre che siano trascorsi 10 anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia dell’assente (art.58 c.c.); termini minori sono richiesti dall’art.60 c.c. nell’ipotesi di scomparsa in operazioni belliche, prigionia di guerra, infortuni. Gli atti dello stato civile. Le vicende più importanti della persona fisica sono documentate in appositi registri (registri dello stato civile), tenuti nell’ufficio di ogni comune. I registri sono 4: a) di cittadinanza b) di nascita c) di matrimonio d) di morte. Essi sono pubblici (art.450 c.c.): chiunque può chiedere estratti e certificati. I registri dello stato civile adempiono, pertanto, anche alla funzione di pubblicità-notizia delle vicende principali della persona fisica. B) I DIRITTI DELLA PERSONALITà Nozioni e caratteri. Art.2 Costituzione : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nella formazioni sociali”. La Costituzione mira a garantire il cittadino, in primo luogo, contro gli abusi e l’arbitrio dei pubblici poteri, in altri termini, mira ad assicurare a quest’ultimo una sfera intangibile di libertà nei confronti dello stato (giusnaturalismo → garantismo → Locke → welfare state). La tutela Costituzionale dei diritti inviolabili prevede inoltre che i diritti inviolabili della persona sono tali anche nei confronti degli altri consociati. In questa prospettiva il codice penale sanzione i delitti contro la persona, e il codice civile detta norme specifiche a tutela dell’integrità fisica (art.5 c.c.), del nome (artt.6-9 c.c.) e dell’immagine (art.10 c.c.). L’art.2 Costituzione non fa riferimento unicamente ai diritti inviolabili specificatamente tipizzati in altre norme della stessa Costituzione, bensì anche a quelli che la coscienza sociale ritiene essenziali per la tutela della persona umana. L’elenco dei diritti inviolabili è dunque - da un lato - aperto e - da altro lato - storicamente condizionato. Negli ultimi anni la Giurisprudenza ha mostrato una progressiva propensione ad ampliare il novero dei diritti inviolabili della persona. Al fine di individuare i diritti che nel nostro ordinamento devono considerarsi inviolabili, un ruolo decisivo, oltre che le disposizioni di diritto interno, è svolto anche da norme di derivazione extrastatuale: a) la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (garantita dalla Corte dell’Aja); b) la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (CEDU - azionabile davanti alla Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo); c) il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali culturali ed il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York - azionabile davanti ad un apposito comitato); d) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (affidata alla Corte di Giustizia delle comunità europee di Lussemburgo). Dopo molte incertezze la giurisprudenza pare orientata ad ammettere che le disposizioni di tali trattati siano direttamente invocabili anche davanti al giudice nazionale. Tradizionalmente si afferma che i diritti della personalità siano qualificati dai caratteri: a) della necessarietà → competono a tutte le persone fisiche; b) della imprescrittibilità → il non uso prolungato non ne determina l’estinzione; c) della assolutezza → tutelabili erga omnes; d) della non patrimonialità → tutelano valori non suscettibili di valutazione economica; e) della indisponibilità → non sono rinunziabili. Diritto alla Salute. Art.32 Costituzione: ”La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”: ma un trattamento sanitario può diventare obbligatorio solo dove si tratti di neutralizzare una malattia diffusa considerata pericolosa per le sorti della collettività e di ciascun individuo (es.: vaccinazione antipoliomelitica). Vi è un indennizzo a carico dello Stato a favore dei soggetti che siano “danneggiati da complicazioni di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni, somministrazioni di emoderivati “. Il singolo può acconsentire a diminuzioni transitorie della propria integrità fisica (es. trasfusione di sangue), ma sono vietati atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (es. un espianto di un organo). Il paziente deve venire correttamente informato in ordine a natura ed esiti possibili dei trattamenti prospettatogli (c.d consenso informato). La legge consente l’espianto da vivente del rene e di parti del fegato e la modificazione dei caratteri sessuali se per pulsioni sessuali o al livello psicologico si avverta di appartenere al sesso opposto. Il diritto alla salute compete anche al nascituro, egli ha diritto di nascere sano e se vi è incuria dei medici nel segnalare che egli non lo sarà (es. errore dell’ecografo che non segnali malformazioni congenite) la struttura ospedaliera ne dovrà rispondere alla madre e al figlio nato con handicap. E’ consentito, il prelievo di organi e di tessuti, purché da un soggetto di cui sia stata accertata la morte e che abbia previamente concesso il suo assenso ( che può anche solo essere presunto, dove il cittadino non abbia espresso volontà contraria). Il prelievo deve essere effettuato in modo da evitare mutilazioni non necessarie e dopo il prelievo il cadavere deve essere ricomposto con la massima cura. Gli espianti devono essere finalizzati a trapianti a favore di soggetti che ne abbiano necessità, assicurando, per la relativa scelta, criteri di trasparenza e di pari opportunità tra i cittadini. Le parti staccate dal corpo sono beni autonomi di proprietà del soggetto a cui appartenevano possono perciò essere oggetto di atti di disposizione (esempio: posso vendere i capelli per farci confezionare extension). Se si è in stato di incoscienza il medico deve provvedere a fare quanto necessario per salvargli la vita. La persona può disporre della propria salma per testamento o attraverso l’iscrizione ad associazioni riconosciute. Diritto alla vita. Riconosciuto, anche se in via indiretta, dall’art.27 Costituzione, che, vietando la pena di morte, attribuisce alla vita umana il carattere di intangibilità ponendola al di sopra della potestà punitiva dello Stato. Sotto il profilo sostanziale tale diritto riceve tutela sia dalla legislazione penale che quella civile. Diritto al nome. Il nome - costituito dal prenome (nome di battesimo) e dal cognome (art.6, comma 2 c.c.) - svolge funzione di identificazione sociale della persona. - Il figlio legittimo assume il cognome del padre. - Il figlio naturale acquista il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, se il riconoscimento è effettuato in contemporanea, quello del padre. - I bambini non riconosciuti acquisiscono il nome a loro attribuito dall’ufficiale di stato civile. - Il figlio adottivo assume il cognome degli adottanti. - La moglie aggiunge al suo cognome quello del marito e lo conserva anche in vedovanza, perdendolo in seguito a nuove nozze, mentre in caso di divorzio può chiedere al giudice di mantenerlo quando sussista un interesse (ad es. è nota nell’ambiente lavorativo con il nome del marito). Il nome è tendenzialmente immodificabile: - Il mutamento di cognome può essere concesso dal Ministero dell’Interno. - Il mutamento del prenome può invece essere concesso dal Prefetto del luogo di residenza (quest’ultima procedura semplificata si applica anche al cognome se ridicolo o vergognoso o perché rileva l’origine naturale). Il nome viene tutelato contro (art.7, comma 1 c.c.): la contestazione: un terzo copie atti che ostacolano l’utilizzo del nome (es. il marito separato tenta di impedire alla moglie l’utilizzo del cognome maritale, senza legge); l’usurpazione: un terzo utilizza un nome altrui per indicare la propria persona (es. per accreditarsi nel mondo degli affari); l’utilizzazione abusiva: un terzo utilizza il nome altrui per identificare un personaggio di fantasia o un prodotto commerciale. La vittima può richiedere la cessazione del fatto lesivo e il risarciment