Capitolo 2 Studiare Pedagogia PDF

Summary

Questo capitolo presenta una panoramica delle teorie dell'istruzione e della formazione, analizzando le diverse prospettive, come quelle comportamentiste di Skinner e Bloom, e quelle cognitive di Bruner e Ausubel. Vengono discussi anche concetti come il lifelong learning e il costruttivismo.

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LE TEORIE DELL’ISTRUZIONE E DELLA FORMAZIONE 1. L’apprendimento umano La conoscenza è una qualità costitutiva dell'esistenza umana e la sua acquisizione richiede l'esercizio di apposite abilità da parte di chi insegna e specifiche disposizioni da parte d...

LE TEORIE DELL’ISTRUZIONE E DELLA FORMAZIONE 1. L’apprendimento umano La conoscenza è una qualità costitutiva dell'esistenza umana e la sua acquisizione richiede l'esercizio di apposite abilità da parte di chi insegna e specifiche disposizioni da parte di quanti apprendono. Insegnare e apprendere costituiscono le due facce di un medesimo problema: come favorire e come potenziare le conoscenze dell'uomo. Pensare all'uomo «educato» significa pensarlo fornito di quelle conoscenze necessarie per soddisfare i suoi bisogni, accumulate attraverso esperienze diverse. La conoscenza è vitale perché permette di dare ordine alla realtà, interpretarla e risolvere i problemi. Migliorare i processi di apprendimento significa assicurare agli uomini e alle comunità umane maggiori chances di progresso e benessere. A partire dalla metà-fine del XIX secolo, studiosi di varia formazione si impegnarono a rendere la scuola più coerente con le attitudini e le capacità degli allievi. Si moltiplicarono gli sforzi per rendere più efficace l'insegnamento e l'apprendimento scolastico e si iniziò a parlare di pedagogia scientifica. Un ulteriore incremento degli studi sulla mente umana si verificò tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso, quando le teorie attivistiche subirono una sostanziale revisione critica. Uomini di scuola, esponenti politici, psicologi e pedagogisti cominciarono a porsi nuove domande: senza togliere nulla ai meriti della pedagogia progressista, non era il caso di garantire ai bambini, la possibilità di padroneggiare conoscenze e saperi coerenti con la maggiore complessità e varietà della cultura scientifica e tecnologica di metà Novecento? 1.1 Skinner / Bloom vs. Bruner / Ausubel: Per venire incontro a questa esigenza, nell’ambito della cultura psicopedagogica statunitense, si svilupparono due linee di tendenza: - la prima, nata dalla cultura comportamentista, ha come esponenti Skinner e Bloom che si concentrarono nella ricerca di strategie più efficaci per migliorare la qualità dell'insegnamento, (aveva quindi come obiettivo l’ottimizzazione delle prestazioni scolastiche attraverso la creazione di un repertorio di comportamenti adattati all'ambiente); - la seconda, di matrice cognitivista, ebbe come esponenti Bruner e Ausubel che privilegiarono invece il rafforzamento delle potenzialità conoscitive e l'indagine delle strutture mentali, esaltandone le capacità di autoapprendimento e di trasferimento del sapere. Skinner disse «l'insegnamento è semplicemente l'organizzazione delle contingenze rafforzative» ovvero è la ricerca sistematica di quali parametri situazionali il comportamento dell'individuo sia funzione. Si tratta, in sostanza, di organizzare i contenuti in forme sequenziali costruite attraverso la concatenazione di cause/effetti e unità di apprendimento/comportamento funzionali a obiettivi pianificati in modo organico e coerente in vista del conseguimento di un obiettivo generale. (T1) Su questa base teorica Skinner innesta la teoria dell'istruzione programmata, che egli prospetta in forma automatizzata con l'impiego di apposite «macchine per insegnare», predisposte per assicurare apprendimenti efficaci e corretti. Con l'applicazione del principio dell'istruzione programmata gli studenti apprendono in modo graduale, lineare e sequenziale, iniziando con la soluzione di un problema semplice e progredendo fino a compiti più complessi. Il comportamento desiderato (o risposta) è rinforzato a ciascun passo dal feedback (ricompensa o riconoscimento) e dalla comparsa di un nuovo problema da risolvere. Bloom, a sua volta, parte dal presupposto che le capacità potenziali del soggetto che apprende non sono così statiche, bensì sono condizionate soprattutto da tre fattori: il tempo, l'assistenza didattica e i controlli che si mettono in atto durante l'insegnamento. Quest’ultimo si attua in: - un modello organizzato per unità didattiche stabilite in funzione di obiettivi, con tempi differenziati in rapporto alle capacità dei diversi alunni; - in batterie di prove di verifica da somministrare agli alunni per individuarne ritardi e lacune e predisporre specifiche attività di recupero (principio della valutazione formativa). L'obiettivo è quello di adeguare il più possibile, l'organizzazione dell'insegnamento alle difficoltà personali dell'allievo. Nel delineare una «nuova teoria dell'istruzione» Bruner e Ausubel si pongono da una prospettiva diversa: Essi rivolgono la loro attenzione all'analisi strutturale della conoscenza, soffermandosi in particolare sui processi di connessione e di derivazione che fanno scaturire un'idea dall'altra; in altre parole sono interessati proprio ai processi che governano quanto entra nella “scatola nera” (=la mente umana) e quanto ne esce. Per Bruner la conoscenza più efficace è quella che riproduce il processo di scoperta scientifica mediante l’attivazione di uno sforzo induttivo, con il quale si procede oltre l’informazione fornita in modo diretto. L’intuizione consente di superare il dato immediato, permette di formulare nuove ipotesi e favorisce la padronanza delle strutture mentali in grado di assicurare gli apprendimenti successivi. La capacità o meno di trasferire una conoscenza costituisce la spia che rivela se l’apprendimento è avvenuto oppure no. (T2) Dunque, mentre Bruner individua diverse modalità conoscitive che possono essere anche autonome fra loro (nel senso che il soggetto può privilegiarne uno rispetto alle altre), Ausubel privilegia l’aspetto della conoscenza paradigmatica anziché l’equilibrio tra le diverse abilità, sottolineando la superiorità del ragionamento formale rispetto ad altre forme di pensiero. Nella teoria di Ausubel risulta infatti fondamentale la nozione di «struttura cognitiva» intesa come l'insieme delle conoscenze che sono possedute dal soggetto in un determinato momento e influenzano il senso dei contenuti appresi. Per imparare in modo significativo occorre poter collegare la nuova informazione con proposizioni già possedute, attraverso un lavoro di selezione e identificazione dei concetti principali che si esplica attraverso i due processi complementari (l’analisi e la sintesi). Senza questa riorganizzazione mentale si verifica soltanto un apprendimento meccanico che, trasferendo passivamente l'informazione in memoria, dà vita a un sapere superficiale e difficilmente recuperabile, perché immagazzinato senza un criterio significativo. 1.2 Le pedagogie dell’insegnamento: Le tesi di Skinner/Bloom e di Bruner/Ausubel sono accomunate dalla dipendenza dalle discipline psicologiche secondo un impianto pedagogico che trova la sua giustificazione nelle leggi dello sviluppo fisico e intellettuale. Un tempo lo si sarebbe detto un modello “naturalistico” perché concepisce l’uomo come un essere tra gli esseri, indagabile in tutte le sue manifestazioni fisiche e psichiche con criteri scientifici. In generale si può osservare che le psicologie dell’educazione sono dominate da un approccio che valorizza soprattutto la razionalità cognitiva. Va ricordato che l’emisfero destro del cervello (dove è localizzata la sede delle esperienze creative e artistiche) governa la mano sinistra, mentre l’emisfero sinistro (sede del linguaggio e della razionalità logica) governa la mano destra. Non bastano insomma i saperi razionali e la padronanza dei procedimenti cognitivi per far crescere una persona preparata ad entrare attivamente nella vita: essi vanno integrati con le cosiddette “abilità della mano sinistra”. Le pedagogie dell’insegnamento puntano alla razionalizzazione e ottimizzazione dell’organizzazione scolastica e dell’azione didattica: dalla definizione degli obiettivi di sistema e specifici si passa alla programmazione delle unità di apprendimento e all’adozione delle necessarie tecniche di valutazione. I parametri di riferimento dell'azione didattica sono identificati, per esempio: - nel livello di esplicitazione dei compiti e degli obiettivi; - nel grado di organizzazione interna di contenuti, materiali e prassi operative; - nella frequenza delle procedure di verifica e recupero. L'azione dell'insegnante, in particolare, segue uno schema prestabilito ed articolato in diverse fasi: 1. l'analisi della situazione di partenza; 2. la definizione precisa degli obiettivi; 3. la descrizione delle prestazioni che si attendono dall'allievo; 4. l'articolazione delle relative «unità didattiche» (che si susseguono in ordine logico l'una dopo l'altra); 5. la predisposizione dei materiali; 6. la definizione di meccanismi di autocontrollo per garantire il successo delle procedure. 1.3 Le pedagogie dell’apprendimento: Nella categoria delle pedagogie dell'apprendimento rientrano tutti i modelli centrati sui processi di apprendimento del soggetto in formazione. L'attenzione si trasferisce dalle procedure ai processi, dai risultati (intesi in termini di contenuti) alla promozione della capacità soggettiva di apprendimento. L’obiettivo di queste pedagogie è in sostanza quella di portare l'allievo alla capacità di apprendere in modo personale. I veri risultati attesi sono i «processi» che accompagnano il percorso didattico, riconosciuto come itinerario di cambiamento. Muta di conseguenza anche il ruolo dell'insegnante: non più un organizzatore-pianificatore di conoscenze predefinite, ma una guida esperta che pone gli alunni in situazioni aperte per stimolarne l'attività esplorativa e creatrice. Cambiano anche gli strumenti valutativi, non più di natura quantitativa, ma a struttura descrittivo-comprensiva. Non si tratta, infatti, di misurare i contenuti appresi, quanto di delineare le caratteristiche del cambiamento personale. Rientrano in questa categoria varie tipologie d'intervento come: - la didattica della ricerca; - le pratiche del problem solving; - lo strutturalismo didattico; - le proposte avanzate dagli esponenti della cosiddetta «pedagogia differenziata» e dai sostenitori della personalizzazione. Secondo Bruner la didattica centrata sull'alunno che scopre, va sistematizzata entro un contesto che consenta di razionalizzare, tesaurizzare e trasferire il risultato raggiunto (strutturalismo didattico). I saperi crescono e l'individuo presenta limiti cognitivi. Da qui l'esigenza di individuare idee generali della disciplina da impiegare come architravi per la lettura dei fenomeni ad essa riconducibili: - da un lato i saperi vanno ricostruiti nei loro elementi generativi e disegnati secondo il loro ordine costitutivo, ovvero secondo parametri congrui alle operazioni di apprendimento («strutture disciplinari»); - dall'altro il soggetto va orientato a esercitare attivamente i processi mentali più potenti ed «economici», ovvero corrispondenti alle proprietà formali dei saperi curricolari («strutture cognitive»). L'insegnamento si configura come un'attività che offre occasioni di tirocinio delle strutture cognitive attraverso la mediazione delle strutture disciplinari, rappresentandole secondo i codici (prassici, iconici, simbolici) congrui con le fasi evolutive del soggetto («strutture didattiche»). Secondo lo strutturalismo didattico non conta insegnare e apprendere molte cose, destinate fatalmente a essere dimenticate o a diventare obsolete; conta piuttosto capire come i prodotti della cultura sono stati raggiunti, con quali formalizzazioni, scelte metodologiche e sfumature semantiche e sintattiche ci si debba confrontare. L'ultimo Bruner insiste, poi, sulla dimensione narrativa del sapere e della conoscenza, in quanto conoscere comporta attribuire significati socialmente rilevanti. Egli propone così un'immagine della mente umana soprattutto come capacità di riflessione e di discorso e non soltanto come funzione per la costruzione di associazioni mentali e problemi da risolvere. Ogni processo di apprendimento si svolge, infatti, in una dimensione che fa riferimento a trame di significati necessari per la sua comprensione. Comprendere significa quindi, cogliere il posto occupato da un'idea o da un fatto nell'ambito di una più generale struttura di conoscenza, ovvero saper attribuire un significato rispetto ai sistemi culturali di riferimento. 1.4 L’approccio costruttivista: Il costruttivismo è, in via generale, una teoria del soggetto che si «autocostruisce», integrando contemporaneamente i prodotti culturali e i processi mentali. Il costruttivista è del tutto a-realista, poiché non ammette che esista qualcosa nella mente definibile come una rappresentazione del mondo «là fuori». La cognizione è un adattamento interno dello stato psicofisico del soggetto e cioè la riorganizzazione delle proprie esperienze che non pretendono in alcun modo di rappresentare lo stato del mondo. Pensare significa eseguire, sul piano simbolico, un'azione sugli oggetti e, per essere più precisi, una trasformazione degli oggetti. Il pensiero è uno strumento che permette all'individuo di adattarsi a nuove circostanze. Il centro di controllo risiede, in altre parole, all'interno delle persone e gli atteggiamenti/comportamenti vengono costruiti di volta in volta in modo originale. Non esiste, insomma, una realtà fuori di noi e un'altra dentro di noi. Conoscere significa costruire ipotesi interpretative valide ed efficaci per sapersi orientare nelle diverse situazioni. Il soggetto, da semplice «scopritore», diventa «inventore» della realtà. Ogni conoscenza è valida fino a quando risponde agli obiettivi di adattamento richiesti al soggetto dall'esperienza. Solo quando le strutture di conoscenza si manifestano inadeguate, si attiva un nuovo processo costruttivo. Questa impostazione centrata sui processi individuali è stata poi arricchita dai «costruttivisti sociali» che hanno sottolineato come la conoscenza si svolga sempre entro un contesto che essa influenza e da cui è influenzata. Il soggetto, agendo sull'ambiente circostante, elabora infatti sia sistemi di organizzazione del reale sia forme di arricchimento cognitivo, attivando processi interattivi fra regolazioni sociali e sviluppo cognitivo. I costruttivisti sociali sono perciò interessati non solo alle azioni cognitive individuali, quanto alle relazioni cognitive che intercorrono fra il soggetto e il contesto socioculturale in cui egli è implicato. La realtà e i prodotti di conoscenza sono interpretati come risultanti da processi di scambio, dialogo e negoziazione sociale. Sulla base di questi presupposti generali scaturiscono alcune linee guida circa la gestione pedagogica e delle attività didattiche: a. principio della negoziazione: la costruzione della conoscenza è basata sia su modalità di «negoziazione interna» (ovvero sull'articolazione di modelli mentali che vengono impiegati per spiegare, predire, riflettere sulla loro utilità) sia su forme di «negoziazione sociale», perché la conoscenza non è mai fine a se stessa, ma poggia su un preciso contenuto da strutturare; b. principio della riproduzione: il processo di apprendimento non è efficace se non sfocia in forme di conoscenza, sempre più varie e complesse; c. principio del contesto (o ambiente di apprendimento): l'apprendimento è favorito dall'immersione degli alunni entro contesti di vita reale ancorati a compiti autentici; d. principio della padronanza degli strumenti cognitivi: la conoscenza risulta più efficace quando l'alunno è consapevole della strumentazione concettuale a sua disposizione; e. principio della collaborazione tra chi apprende e l'insegnante: a quest'ultimo spetta non solo sovrintendere sull'acquisizione degli apprendimenti, ma predisporre gli ambienti più consoni allo scopo. Von Glasersfeld (T3) sostiene che l’insegnamento non deve essere trasmissivo (l'insegnante non deve presentare verità precostituite) e va impostato con modalità didattiche che mobilitino le energie intellettuali degli allievi (gli insegnanti non devono solo sapere la loro materia, ma anche saperla presentare in forme efficaci). Perché gli allievi siano «attivi» occorre aiutarli a ricostruire i percorsi mentali che li hanno portati a determinate conclusioni: è più importante saper ragionare che apprendere nozioni astratte. Occorre che gli insegnanti impieghino un linguaggio comprensibile e non specialistico ed infine è necessario far parlare gli allievi perché attraverso lo sforzo della verbalizzazione, i concetti tendono a definirsi e a chiarirsi. Nella prospettiva costruttivista il ruolo del soggetto che apprende costituisce un imprescindibile punto di partenza. Egli viene concepito come l'attore principale capace di costruire e interpretare il mondo per adattarsi ad esso, non in forma statica ma attiva. 1.5 Applicazioni didattiche: All’impianto culturale e psicopedagogico costruttivista, fanno riferimento numerose pratiche didattiche che hanno in comune alcuni elementi. Nella modalità costruttivista l'apprendimento si svolge all'interno di progetti bene articolati piuttosto che in forma di problemi isolati; gli studenti vanno orientati non solo al problem solving, ma anche al problem finding e cioè alla scoperta di problemi emergenti a mano a mano che la situazione si dipana, il risultato dell'apprendimento va commisurato in rapporto all'acquisizione di competenze esperte intese come capacità di trasferire le conoscenze in azioni pratiche. Meglio se si lavora in contesti collaborativi nei quali è possibile sperimentare il confronto con gli altri e si offrono agli studenti occasioni di scaffolding alla pari (metafora dell'intervento della persona più esperta che aiuta chi sta risolvendo un problema). Queste esperienze didattiche richiedono alcuni cambiamenti nella vita scolastica: - in rapporto agli aspetti organizzativi: gli studi sollecitano il superamento dell'aula scolastica tradizionale e la creazione di ambienti di apprendimento e l'articolazione della classe per piccoli gruppi; - in relazione all'attività dei docenti: il cui profilo professionale si avvicina sempre di più a quello di un abile regista (che predispone per i suoi allievi una serie di attività) e anche quello di un tutor (che affianca e offre consulenza). 1.6 Il modello della “pedagogia differenziata”: Altri contributi didattici riguardano le indicazioni emergenti nell'ambito della cosiddetta «pedagogia differenziata» e dai promotori della «pedagogia del contratto». Anziché muovere dalla ricerca del metodo più funzionale, si sono esplorate le diverse caratteristiche della mente umana. Essi riprendono e reinterpretano un caposaldo della pedagogia novecentesca, cioè il principio dell'individualizzazione dell'insegnamento, proponendosi tuttavia non solo di perfezionarlo, ma anche di oltrepassarlo mediante la sottoscrizione di precisi impegni etici. Il fulcro della pedagogia differenziata e «del contratto» consiste infatti: - da un lato, nell'ordinare il lavoro scolastico a misura degli allievi secondo pratiche e tecniche individualizzanti ormai consolidate e nella moltiplicazione dei metodi e delle prassi didattiche in funzione delle differenze esistenti fra gli allievi stessi: lezioni frontali, lavori di gruppo, tutorato, impiego di risorse audiovisive e informatiche; - dall'altro è previsto che gli allievi sottoscrivano un vero e proprio contratto che si impegnano ad onorare. Lo scopo di mettere ciascuno nelle condizioni di attivare le proprie capacità cognitive e «costruire il suo apprendimento» è associato alla responsabilizzazione personale. (T4) La creazione di contesti di apprendimento individuali o a piccoli gruppi, ha lo scopo di favorire il rispetto e valorizzazione delle diversità cognitive degli allievi, senza rinunciare a raggiungere alcuni obiettivi comuni. Questo principio si traduce sul piano pratico: a) nell'organizzazione flessibile della classe con molteplici percorsi di apprendimento (es. lezioni frontali, lavoro per gruppi, attività di laboratorio, attività di autoistruzione) e comunicazione (scrittura, parola, immagine, computer); Sono inoltre previsti momenti di “differenziazione simultanea” che consiste nell’assegnazione di compiti distinti agli allievi, commisurati ai loro livelli di apprendimento; b) nella riflessione (da parte del soggetto) su nuove strategie personali di apprendimento, in base alla condizione in cui si trova (metacognizione/metaconoscenze); c) nel potenziamento delle capacità personali cognitive (questo è possibile se il soggetto “sta bene a scuola”); Lo scopo è quello di organizzare e definire un progetto comune nel quale gli obiettivi non sono predeterminati ma costruiti in ragione delle difficoltà incontrate, della complessità e del complessivo procedere dell’esperienza scolastica. 1.7 Le intelligenze multiple di Howard Gardner: Anche l’impianto didattico che scaturisce dal modello delle intelligenze multiple di Howard Gardner rinvia alla necessità di uno stile di lavoro scolastico differenziato e articolato in modo diverso dall’insegnamento per compartimenti rigidi e standardizzati. Secondo questo studioso statunitense, ogni individuo fa uso in modo prevalente di un’intelligenza o di una combinazione di intelligenze attraverso cui seleziona, organizza e memorizza gli apprendimenti. Gardner critica perciò l'impiego dei test per misurare l'intelligenza e gli apprendimenti perché volti a rilevare principalmente solo 2 tipi di intelligenza, quella linguistica e quella logico-matematica; ma in realtà esistono anche: - l'intelligenza spaziale; - l'intelligenza sociale; - l'intelligenza introspettiva; - l'intelligenza corporea; - l'intelligenza musicale; - l'intelligenza naturalistica; - l'intelligenza esistenziale. Se si vuole assicurare a ciascun soggetto la massima espansione delle sue capacità e veramente raggiungere l'obiettivo dell'educazione per tutti, occorre contrastare il tentativo di pianificare l'insegnamento e la valutazione a mezzo dei test e insistere invece sulla necessità di un approccio didattico organizzato, in modo da rispondere «all'immenso numero di variabili in gioco» secondo una logica che rispetti le diversità dell'intelligenza (T5). Gardner è molto sensibile al metodo di apprendimento proprio dell'apprendistato basato su osservazione, imitazione e guida di un maestro esperto, nel quale interagiscono più forme di intelligenza e la comprensione è commisurata sulla capacità di risolvere problemi reali e non è tarata sulla memorizzazione di formule. Il tema del “comprendere” viene esaminato non più in sé quanto in rapporto alle abilità cognitive necessarie per far fronte all’invasione dell’informazione, l’evoluzione degli stili di vita e alla difficoltà a regolarsi sul piano etico. Per attrezzare l'uomo a queste nuove sfide Gardner individua 3 principali esigenze: - saper gestire un ambito della conoscenza e del lavoro (mente disciplinata); - razionalizzare le informazioni (mente sintetica); - esercitarsi nel pensare fuori dagli schemi per produrre nuove idee e nuovi modi di operare (mente creativa). A queste tre qualità cognitive si affiancano la mente rispettosa (la consapevolezza delle differenze tra gli uomini e le culture) e la mente etica (l'accettazione delle proprie responsabilità). 1.8 Le teorie della personalizzazione: La nozione di personalizzazione è alquanto complessa e piuttosto ambiziosa; in essa s'intrecciano difatti: - sia istanze sociali e progetti politici volti a rafforzare la partecipazione civica dei cittadini enunciate dai sostenitori del cosiddetto «welfare positivo»; - sia le strategie educative di pedagogisti ed esperti di politiche formative. Alla tradizionale mentalità assistenzialistica che spesso anima i servizi alla persona, i promotori del nuovo welfare oppongono l'obiettivo di «aiutare le persone ad aiutare se stesse». Questo può avvenire se anziché concentrarsi soltanto sulla riduzione del disagio si lavora per promuovere e sostenere l'autonomia individuale nel senso di saper scegliere nella molteplicità di offerte e proposte. Occorre perciò puntare a sostenere stili di vita e valori positivi e stimolare l'accrescimento del capitale umano (istruzione, formazione) e del capitale sociale (servizi in rete, associazioni di cittadini) per correggere i comportamenti sleali e riscoprire le ragioni dell'etica personale e della responsabilità sociale. La personalizzazione dell'insegnamento/apprendimento si inserisce in tale contesto generale e punta a formare persone capaci di essere autosufficienti, attive e creative nella valorizzazione delle caratteristiche personali. L’obiettivo ultimo delle pratiche personalizzanti è quello di mobilitare le risorse dell'individuo anche sul piano della partecipazione civica e della responsabilità personale. I principali punti di riferimento pedagogici della personalizzazione sono i seguenti: - piena sintonia con il paradigma cognitivo-costruttivista: esiste uno stretto rapporto tra l'efficacia del sapere, la padronanza delle competenze e le modalità con cui esse sono direttamente elaborate (ovvero «costruite») dai soggetti che apprendono; tanto più siamo capaci di apprendere tanto più possiamo apprendere con maggiore efficacia; - valorizzazione dei processi di comprensione, piuttosto che dello svolgimento di compiti prefissati: si tratta di predisporre ambienti di apprendimento e attuare forme didattiche in grado di favorire l'acquisizione di saperi e competenze non standardizzate, ma rispondenti alle caratteristiche, alle aspettative e al potenziale creativo di ogni persona; - formazione di buone abitudini, utili all'individuo per apprendere lungo tutta la vita e per partecipare, discutere e condividere con gli altri le sorti della società. L'idea educativa di base è di coinvolgere gli alunni nella scelta di ciò che apprendono, nel modo di apprenderlo e nella individuazione degli obiettivi. Grande rilievo viene perciò assegnata alla centralità/capacità dello studente di scoprire e sviluppare il proprio stile di apprendimento. La personalizzazione non è solo una strategia educativa interna alla scuola; essa ambisce a modificare anche il «fuori della scuola». Ciò che viene appreso fuori dalle aule è altrettanto importante (e in qualche caso anche più importante) rispetto a quanto s'impara a scuola. Non si tratta perciò di ritarare soltanto le pratiche scolastiche in rapporto all'impiego più incisivo delle tecnologie e alle nuove conoscenze nel campo dell'intelligenza (in particolare di quella che Derrick De Kerckhove ha chiamato «intelligenza connettiva»), ma di reinterpretare il ruolo e la funzione della scuola. intelligenza connettiva= forma di connessione e collaborazione tra soggetti individuali e collettivi, sulla base di una condivisione costruita di scambi reciproci. Essa produce apprendimento e innovazione migliorando le competenze e le prestazioni non solo del sistema nel suo complesso ma anche dei singoli che ne fanno parte. Il futuro dei sistemi d'istruzione andrebbe disegnato in forme meno scuolacentriche e più policentriche. Lo scopo è quello di far interagire, secondo i bisogni propri di quelle specifiche comunità, educazione formale e non formale, tradizione e innovazione, responsabilità parentali e vincoli sociali. Così considerati i processi educativi risultano, d'un lato, l'esito dell'interazione di istituzioni e agenzie che agiscono nell'educativo/formativo e, dall'altro, sono espressione di un sistema sociale vitale, attivo, dinamico capace di rispondere con pertinenza e concretezza alle aspettative educative. La sfida educativa del futuro non potrà essere vinta se le scuole e le famiglie saranno lasciate sole, ma solo se la comunità nelle sue diverse articolazioni saprà farsi carico delle molteplici necessità. Secondo alcuni studiosi la personalizzazione potrebbe diventare nel futuro una alternativa sia per migliorare l'apprendimento sia per riorganizzare i sistemi educativi attuali ancora fortemente standardizzati. Ciò potrebbe essere possibile mediante l'adozione di forme di insegnamento domiciliari realizzati attraverso apposite attività online nonché con la messa a punto di programmi aggiuntivi al di fuori degli orari tradizionali. 1.9 Neuroscienze e apprendimento: Gli apporti delle ricerche condotte nell’ambito delle scienze cognitive e il rapido sviluppo delle neuroscienze negli ultimi decenni hanno introdotto nuovi elementi di conoscenza della formazione del pensiero. L’attenzione si è spostata verso l’origine e la natura stessa del pensiero e del suo rapporto rapporto con l’organo (il cervello) senza il quale esso non sussisterebbe. Ecco gli aspetti di carattere generale, su cui si confrontano 2 principali tesi: - la prima è quella sostenuta da quanti ritengono che attraverso l’esplorazione del cervello e del suo funzionamento sia possibile indagare anche la realtà della mente. La mente insomma sarebbe riducibile ad un puro dato biologico e saremo “macchine dell’io”, sistemi naturali di elaborazione dell’informazione, sviluppatisi nel corso del processo di evoluzione biologica su questo pianeta. - la seconda ritiene invece che l’identificazione mente/cervello sia un’indebita e non giustificata semplificazione. Esperienza e conoscenza sarebbero reciprocamente generative e cioè produttrici di nuovi ed imprevedibili prodotti mentali. Il diverso orientamento intorno al rapporto tra cervello e mente comporta letture assai diverse sul piano educativo. Poiché in materie così complesse è opportuno evitare drastici giudizi, il dibattito sul rapporto tra cervello e mente, tra determinismo e libertà è un invito ad accostare il tema dell'educabilità, con la prudenza necessaria ad evitare interpretazioni estremizzate. I dati neuroscientifici offrono una pluralità di informazioni quanto mai utili, vere e proprie fonti da potenziare e sviluppare, ma con l'avvertenza che il loro «senso pedagogico» è affidato a chi agisce sul terreno educativo. Se è poco probabile che le neuroscienze siano in grado di esprimere l'ultima parola su «cos'è» la persona, esse possono comunque contribuire a migliorare importanti aspetti della vita dell'uomo (per esempio nel campo delle malattie cerebrali) e, in ambito pedagogico, a concorrere nella riconsiderazione di talune questioni educative. Questo territorio è esplorato soprattutto dagli studi e dalle ricerche riconducibili a varie denominazioni, la più frequente è quella di Educational Neuroscience. A questo riguardo occorre distinguere: a) le indicazioni generali che scaturiscono dagli studi sulla mente e forniscono alcuni criteri di cui tenere conto nell'agire educativo tra cui: - la plasticità del cervello (intesa come capacità di modificazione in rapporto all’ambiente); - la mente incorporata (nel senso che mente e corpo costituiscono un tutt’uno e quindi razionalità ed emotività si influenzano reciprocamente) → le emozioni costituiscono un modo di arricchire le nostre conoscenze; - la mente estesa e cioè capace di stabilire la continuità con quanto materiale ed immateriale; - l’inconscio cognitivo (che conferma in forma sperimentale alcune fondamentali intuizioni psicoanalitiche: in primo luogo l’esistenza di un intenso lavoro cerebrale che si svolge a nostra insaputa); b) le questioni più specifiche legate a singoli problemi tra cui: - le strategie di compensazione per allievi con ridotta memoria; - gli interventi mirati per bambini con disturbi di attenzione; - le diagnosi precoci delle difficoltà di lettura; - la valorizzazione del rapporto emozioni/apprendimento. 1.10 Il Cooperative Learning: L’apprendimento cooperativo si basa sulla naturale disposizione dell'essere umano alla socializzazione, sulla quale far leva non solo per favorire l'inserimento nella vita sociale, ma anche per agevolare l'apprendimento e migliorare le competenze cognitive. Un secondo presupposto del Cooperative Learning è che l'apprendimento si possa compiere non solo in forma diretta e asimmetrica (maestro-alunno) ma anche in forme orizzontali e simmetriche (alunno-alunno). Questo è possibile se il clima scolastico non è competitivo e se si favoriscono gli scambi di informazioni, materiali e strategie di apprendimento. Dunque l’apprendimento cooperativo è una corrente pedagogica nella quale confluiscono esperienze maturate in contesti ambientali e culturali diversi. (T6) Il gruppo cooperativo è tenuto insieme innanzi tutto dalla condivisione di un obiettivo comune, ma questa caratteristica non è sufficiente per garantire che esso sia davvero «cooperativo» e non soltanto un generico lavoro di gruppo. Perché sia davvero tale esso deve soddisfare alcune altre caratteristiche tenute insieme dal principio dell'interdipendenza positiva (T7): - essere percepito da ogni componente come vitale; - essere accettato o condiviso da tutti i membri del gruppo; - indurre alla sfida: il gruppo va percepito come necessario rispetto all’obiettivo da conseguire; esso si forma attorno a un obiettivo per il quale le forze individuali sono ritenute insufficienti; - gruppo e obiettivo devono essere strettamente relazionati. Un altro punto qualificante del Cooperative Learning è il cosiddetto «clima» entro cui si svolge l'esperienza. Il clima può essere immaginato come una condizione distribuita a vari livelli. Esiste un clima di scuola, di classe e di gruppo. I livelli godono di una certa autonomia, ma la diffusione garantisce ad ognuno di essi sostegno e sviluppo. Poiché è bene che i gruppi lavorino in una comunità di apprendimento, lo sviluppo del «clima di classe», cioè di una relazione ricca, intensa, estesa e profonda di ogni studente con ogni compagno di classe, è il primo obiettivo da ricercare. Il clima si alimenta attraverso l’assistenza, l’apertura e la conoscenza reciproca, il riconoscimento delle competenze, le ricchezze dell'altro e le esperienze. Il clima potrebbe essere definito come lo «stile» relazionale che consente di mettere a proprio agio gli altri, soprattutto i compagni di lavoro, e di «sentirsi e stare bene» con loro. La costruzione del clima richiede tempi lunghi ed è una condizione molto fragile e precaria poiché può essere facilmente distrutta anche da reazioni minime di difesa, chiusura, antagonismo e rivalità. L'efficacia del lavoro cooperativo dipende, infine, dallo sviluppo di competenze sociali adeguate. Esse servono a regolare e a rendere efficienti le relazioni interpersonali fra i membri del gruppo e includono comportamenti che con una corretta collaborazione. Possono essere così riassunte: - abilità comunicative faccia a faccia; - abilità che permettono al gruppo di affrontare bene il compito richiesto; - abilità che rendono il lavoro comune piacevole e gratificante; Una delle osservazioni critiche ricorrenti a proposito dell’apprendimento cooperativo riguarda il rischio di attenuare la responsabilità individuale. Nel Cooperative Learning lo scopo comune è infatti raggiunto attraverso il lavoro dei singoli ma questo può essere vanificato se qualche partecipante non svolge al meglio il compito assegnatogli. Non c’è dubbio che la mancanza di una specifica responsabilità individuale può generare difficoltà al lavoro cooperativo. Spesso gli atteggiamenti e/o i comportamenti di disimpegno e pigrizia dipendono da una inadeguata distribuzione del lavoro. Quando questo accade c'è chi è gravato di obblighi e chi approfitta del lavoro altrui; chi si impegna anche per gli altri e qualcuno che si ritaglia spazi per fare il meno possibile. Se non riesce a costituirsi in forme realmente cooperative, il gruppo si trasforma da risorsa a strumento che penalizza i migliori (che si impegneranno meno) e agevola i peggiori, incoraggiando atteggiamenti individualistici e/o competitivi. 1.11 Edgar Morin e l’apprendimento nella complessità: Anche indagine di Edgar Morin sulla conoscenza nella realtà complessa attuale fa infatti riferimento ad un’analisi filosofica critica verso le presunte “certezze” della conoscenza razionale e del metodo sperimentale. La «vera conoscenza» deve perciò accettare la prova del limite e dell'impotenza, della pluralità dei punti di vista, della prospettiva probabilistica, del moltiplicarsi degli approcci metodologici. L'errore non ha un valore solo negativo, ma costituisce un'opportunità per ripensare un dato e scoprire una situazione imprevista. Il principio di complessità oltre ad essere una categoria filosofica si configura anche come una forma di analisi sociale. Sotto questo profilo Morin sottolinea che la società contemporanea è a-centrica, retico-lare, senza gerarchie prestabilite, del tutto diversa dalla società del passato, ordinata secondo una scala gerarchica di valori condivisi che rappresentava la chiave di volta del sistema sociale e, al tempo stesso, dell'identità personale. L'uomo deve imparare, dunque, a convivere all'interno delle reti, dei sistemi complessi, a familiarizzare con le dissolvenze e con il pluralismo metodologico. Alla «ragione della certezza» si sostituisce la «ragione della possibilità», capace di confrontarsi con il senso del limite, con il non ancora chiarito. Cade così il mito della chiarificazione dell'universo, mentre viene stimolata l'avventura della conoscenza. Da qui l'esigenza di «pensare senza mai chiudere i concetti». Tradotto in chiave educativa questo significa imparare a convivere con la precarietà, la diversità, la molteplicità delle esperienze, la liberazione dalla trama delle abitudini, l'abilità di muoversi in reti di relazioni molto diverse dal semplice rapporto oggetto/soggetto. La vitalità del pensiero umano risiederebbe, perciò, nella sua capacità di muoversi come «mente ecologica» e, dunque, nella possibilità e nella capacità di reagire, inviare e ricevere messaggi, di essere interattiva, di imparare dall'errore, di «ragionare sragionando». 1.12 Riforma del pensiero e apprendimento per interconnessione: Morin ha esplorato in modo ampio anche i temi connessi con l’insegnamento e l’educazione; Il nostro tempo sarebbe scandito, secondo Morin, da alcune sfide cognitive ed educative che rimescolano le carte rispetto al passato: la sfida del globale e del complesso, dell'espansione incontrollata del sapere, l'indebolimento del senso di responsabilità e del principio di solidarietà, il rischio di una forte regressione della democrazia (T8). La «sfida delle sfide» (il problema cruciale) è tuttavia individuata in una «riforma del pensiero», in grado di assicurare il pieno (e nuovo) impiego dell'intelligenza all'insegna di una «testa ben fatta». Essa è affidata alla formazione di 2 fondamentali «attitudini»: 1) l'«attitudine generale»: si tratterebbe d'incoraggiare e di spronare «l'attitudine indagatrice e di orientarla sui problemi fondamentali», di coltivare l'esercizio del dubbio, «lievito di ogni attività critica», di esercitare la disposizione a trasformare dettagli apparentemente insignificanti in «indizi che consentono di ricostruire tutta una storia». L'incertezza è più educativa della certezza perché, non essendo appagante, fa crescere la conoscenza e insegna a convivere con l'imprevedibilità a lungo termine. Saper convivere e saper gestire l'incertezza si intreccia con la consapevolezza di una condizione umana (precaria, casuale, complessa, identica e diversa al tempo stesso) e costituisce una delle condizioni per il successo educativo. 2) l'attitudine a contestualizzare: essa riguarda la «padronanza dei processi di contestualizzazione». A questo proposito Morin si affida all'immagine del «pensiero ecologizzante». Infatti, questo situa ogni evento, informazione e conoscenza in una relazione di inseparabilità con l'ambiente culturale, sociale, economico, politico e, beninteso, naturale. Il pensiero diventa così anche «pensiero del complesso» perché non basta inscrivere ogni cosa in un quadro o in un orizzonte, ma si tratta «di ricercare sempre le relazioni e le inter-retroazioni tra ogni fenomeno e il suo contesto. La formazione di queste attitudini è funzionale alla promozione del «pensiero che interconnette»: ad esso è affidato il compito di «rimpiazzare la causalità lineare e unidirezionale con una causalità circolare e multireferenziale», unendo la spiegazione alla comprensione. Esso postula nuove modalità e forme organizzative dell'apprendimento: i curricoli centrati prevalentemente sulle discipline non sono infatti più efficaci per rispondere alle esigenze espresse dalla cultura trans- e pluri-disciplinare propria della complessità. I processi di apprendimento dovrebbero invece svolgersi in modo tale da garantire, oltre alla specificità e alla padronanza disciplinare, l'intercomunicazione tra differenti campi di conoscenza e di ricerca. Per raggiungere questo scopo occorre mettere in atto processi di costruzione e di rappresentazione di reti concettuali in grado di promuovere saperi senza chiusure definitive. Questi saperi dovrebbero oltrepassare la tradizionale distinzione fra contenuti e metodi ed essere segnati piuttosto da visioni multidimensionali e da logiche reticolari. Non ci sarebbe più un centro privilegiato da indagare, ma si dovrebbero concentrare risorse e attenzioni sulle relazioni che ogni apprendimento può allacciare con ciò che è contiguo. Il sapere, in altre parole, si configurerebbe come un intreccio di relazioni non solo fra conoscente e conosciuto, ma fra conoscenti, conoscenze pregresse esplicite e tacite, azioni intenzionali e non intenzionali. L'apprendimento sarebbe perciò l'esito di un'esperienza contestuale/ ecologica e il risultato di un'interazione diacronica e sincronica fra soggetto, oggetti materiali, significati sociali impliciti ed espliciti, azioni di altri soggetti, e via dicendo. Il suo svolgersi sarebbe sempre aperto a nuovi esiti. Soltanto attraverso la riforma del «pensiero che interconnette» si può rispondere ai problemi globali del nostro tempo. A questo proposito Morin individua, infine, due “super-saperi” per il futuro dell'umanità: - l'educazione alla comprensione; - la formazione all'«identità e alla coscienza terrestre» (intesa come consapevolezza di un comune destino che unisce tutti gli uomini del pianeta); L'obiettivo è quello di «civilizzare e solidarizzare la Terra, trasformare la specie umana in vera umanità e promuovere un'etica della comprensione planetaria». 2. La formazione in età adulta A fianco delle teorie dell'istruzione si sono sviluppate le teorie della formazione centrate sulle condizioni e le prassi riguardanti l'apprendimento in età adulta. Questo ambito di riflessione è cresciuto in seguito a una duplice spinta: - la constatazione che l'uomo si modifica in modo permanente, compie esperienze, attraversa ruoli diversi e, dunque, può essere soggetto di educazione per l'intero ciclo della vita; - le esigenze del mondo del lavoro e delle professioni che sollecitano flessibilità cognitiva, tensione creativa, sforzo continuo di riallineamento delle competenze; Il concetto di alfabetizzazione (saper leggere, scrivere e far di conto) guadagnò nuovi obiettivi: esso doveva comportare un insegnamento in grado di permettere all'analfabeta o al sottoalfabeta di integrarsi socialmente ed economicamente in un mondo nuovo in cui i progressi tecnici e scientifici sollecitavano conoscenze sempre più complesse e specialistiche. Il concetto di «alfabetizzazione» (in uso negli anni Cinquanta) fu, tuttavia, rapidamente superato in favore di quello di «educazione permanente». All'impostazione in prevalenza funzionalista degli alfabetizzatori si affiancò una tesi più «umanistica», basata sulla necessità della persona di rivedere costantemente le proprie conoscenze, ripensare le proprie esperienze, stabilire nuove relazioni. Con sempre maggiore insistenza si cominciò a pensare alla formazione come a un processo disteso per tutto il corso della vita (lifelong learning). Queste ambiziose visioni del futuro si intrecciarono con il rinnovamento delle strategie e dei metodi formativi in campo produttivo e aziendale (anche con il ricorso a tecnologie più complesse). Alle prescrizioni fisse di compiti prestabiliti (le «mansioni»), si sostituirono i «ruoli», ossia insiemi di regole che tenevano conto di molte variabili, comprese le aspettative dei lavoratori. Cominciò ad essere rivalutata anche l'importanza delle dimensioni relazionali. Il lifelong learning risultò un processo ambivalente, animato da 2 istanze ora viste in termini contrapposti: un'educazione volta alla piena realizzazione personale e alla scoperta della creatività individuale e/o un'attività piegata nel senso delle esigenze di aggiornamento delle comunità professionali e adeguata agli imperativi dettati dalla competizione economica. 2.1 La formazione come ricerca e azione: Fu in questo contesto che maturò la valorizzazione delle ricerche e degli studi di Kurt Lewin, in particolare quella sulla «teoria del campo». Il concetto di campo, è inteso come «la totalità dei fattori coesistenti considerati come interdipendenti». Tra questi fattori, nella determinazione del comportamento, è di fondamentale importanza il ruolo dell'ambiente. L'intreccio unitario di ambiente e persona delimita lo spazio di vita: la persona o il gruppo vivono un complesso di fatti in un tempo determinato. La teoria del campo è al tempo stesso un metodo per analizzare le relazioni causali e un insieme di costrutti per descrivere e interpretare i fenomeni psicologici e sociali. Lewin si convinse che l'attività di ricerca potesse oltrepassare i tradizionali orizzonti della cosiddetta «ricerca pura» e svolgersi anche nella realtà in cui l'individuo agisce. La messa a punto della teoria del campo rispondeva a questa esigenza. Allo schema lineare-sequenziale dominato dalle procedure si sostituisce un'impostazione circolare in cui causa e azione agiscono in forma reciproca e sinergica (principio della ricerca-azione). In tal modo Lewin intese affermare non soltanto l'esigenza di fruibilità concreta della ricerca, ma la natura intrinsecamente trasformatrice del processo di conoscenza e del rapporto tra ricercatore e individuo/gruppo su cui la ricerca si svolge. 2.2 Come impara l’adulto secondo Malcom Knowles: Nel campo della cultura formativa del mondo adulto è giocoforza misurarsi con gli studi e le ricerche di Malcolm Knowles, una delle massime autorità del settore. Knowles ha ridefinito il quadro teorico della formazione adulta, situandolo in una nuova disciplina, l'andragogia (scienza della formazione adulta), da lui presentata, almeno nella fase iniziale della sua riflessione, in forme contrapposte alla pedagogia (scienza della formazione del fanciullo). La prospettiva andragogica è connotata soprattutto dalla convinzione che gli adulti abbiano interessi e capacità diversi da quelli dei soggetti in età evolutiva e che l'approccio formativo debba svolgersi secondo linee centrate sull'esperienza e con modalità meno direttive a differenza dell'intervento pedagogico tradizionale nel quale l'allievo è situato in una posizione di dipendenza. Il successo della formazione in età adulta sarebbe perciò assicurato dalla capacità di procedere attraverso una progettazione e una costruzione in partnership con i soggetti stessi. Questa tesi poggia su alcuni presupposti che Knowles individua nei seguenti punti: - il bisogno di conoscere (accrescere le conoscenze); - il concetto di sé come discente: gli adulti desiderano essere considerati e trattati come persone in grado di gestirsi in modo autonomo; - il ruolo dell'esperienza: gli adulti entrano in un'attività di formazione con un'esperienza personale; - la disponibilità ad apprendere in funzione di bisogni reali; - l’importanza delle motivazioni: non sempre i moventi che spingono gli adulti ad apprendere sono concreti e pratici, come denaro o avanzamento di carriera, essendo spesso più potenti le pressioni interne come l'autostima, la soddisfazione personale, la qualità della vita e via dicendo (T9). Il modello andragogico assegna inoltre particolare rilevanza al contesto nel quale si svolge l'apprendimento e, in specie, alla responsabilità dell'adulto discente e alla sua partecipazione attiva al progetto formativo. I fattori che determinano il buon esito di quest'ultimo sono così individuati: - un clima favorevole nell'ambiente fisico, nella facilità dell'accesso ai materiali e nel clima umano; - la progettazione comune; - l'individuazione di obiettivi; - la disponibilità di esperienze di apprendimento in cui esercitarsi in forma attiva; - la gestione comune del programma, intesa come facilitazione del processo di apprendimento; - la valutazione finale rappresentata come la verifica del raggiungimento o meno di nuovi livelli di competenze. Le tesi di Knowles sono state oggetto di numerose riflessioni critiche. L'obiezione più forte gli rimprovera di considerare l'educazione degli adulti un campo separato e autonomo e si configura come una lettura troppo schematica che sottovaluta l'incidenza della pedagogia attiva. Knowles ha risposto a questa critica rendendo più flessibile il proprio modello: il modello pedagogico ne costituirebbe la fase iniziale e il modello andragogico andrebbe identificato come la fase matura e attiva. 2.3 L’apprendimento trasformativo: Le suggestioni di Jack Mezirow sull'«apprendimento trasformativo» rinviano a riflessioni e proposte che sviluppano ulteriormente le indicazioni di Knowles. Mezirow ritiene fondamentale imparare a riflettere sulla propria esperienza: la qualità delle nostre esperienze e convinzioni è direttamente proporzionale alla riflessione che il soggetto è capace di svolgere nel contesto in cui opera. Quando si trovano ragioni che inducono a dubitare della validità o dell'autenticità di asserzioni già condivise e acquisite in precedenza, si mettono in moto strategie cognitive e motivazionali che spingono l'individuo a continuare ad apprendere. Attraverso queste transizioni si possono modificare sia gli schemi di significato veri e propri sia i criteri che li hanno determinati. Mezirow definisce l'emancipatory learning, ovvero un processo in senso ricostruttivo non solo della quantità delle conoscenze, ma soprattutto degli schemi mentali su cui esse poggiano. Se questo processo, poi, riuscirà a superare le dimensioni personali per assumere fisionomia sociale, ciò si tradurrà in un aumento di consapevolezza critica, di motivazioni e di interessi. In tal modo Mezirow prospetta un'immagine di età adulta e anziana non statica, capace di cambiamento, continuamente disponibile a ricostruire il proprio «essere stati» ed «essere divenuti», in funzione di una sempre maggiore conoscenza di sé. Insomma, l'uomo che sa vivere appieno la propria condizione di adulto e anziano è quello che si interroga senza sosta, si pone domande, sa accostarsi senza nostalgie al nuovo, sa rielaborare i propri vissuti, riscrivendo la propria biografia giorno dopo giorno (T10). Mezirow propone una drastica alternativa tra l’ «uomo della risposta» e l’«uomo della domanda». L'uomo della risposta ha bisogno di certezze, è a suo agio solo nella sicurezza, cerca ripari e rifugi; per lui il sapere è elemento da capitalizzare e si appella alla logica per dimostrare la «verità». L’uomo della domanda non ha certezze, si appella alla dialettica; la logica è solo un aspetto dell'approccio scientifico, perché si arrivi alla conoscenza dei cambiamenti della realtà. Oltre la verità per lui c'è anche la vita. Nessuno può però dirsi totalmente identificato con l'uno o con l'altro. Istinto di sicurezza e istinto di rischio si combattono nell'uomo, ciascuno presentando incerte tendenze. I pericoli che corre il primo sono il dogmatismo e l'accumulazione, quelli che corre il secondo, l'evasione e la superficialità. 2.4 La formazione nel mondo delle professioni: Donald A. Schön affronta il tema della preparazione dei professionisti e cioè di quegli specialisti che operano in forma autonoma e in regime di libere professioni (avvocati, medici, psicologi, ingegneri, manager, ecc.). In questi casi la formazione va vista come un processo che esalta l'autonomia e l'iniziativa del professionista stesso. Al modello della razionalità tecnica - affidarsi agli «esperti» e alle loro procedure collaudate - Schön oppone il modello della razionalità pratica, basato cioè sulla capacità riflessiva (ovvero di far tesoro delle esperienze). I problemi non si presentano al professionista già impostati, definiti e pronti a essere risolti mediante protocolli prestabiliti. Al contrario, essi hanno bisogno di un'analisi preliminare attraverso la quale il professionista mette a punto un intervento coerente con l'indicazione dei fini attesi e le condizioni di fattibilità. La razionalità che orienta questo tipo di indagine è perciò una razionalità creatrice ed esploratrice. Conoscenza e azione sono inscindibilmente collegate e i professionisti si possono perciò definire «indagatori che incontrano una situazione problematica la cui realtà essi devono costruire». Sulla base della ricorrenza di situazioni differenti (o di sequenze diverse) si costituisce un «repertorio di aspettative, immagini e tecniche» che formano il bagaglio esperienziale del professionista. Naturalmente questo bagaglio si può rivelare anche controproducente, se, anziché essere una base per l'ulteriore arricchimento, si manifesta nelle forme di un repertorio scontato, rigido, ripetitivo, assiomatico che rifiuta il nuovo e l'imprevisto. Questo rischio è molto alto nella popolazione adulta, quando, dopo essersi impadronita di competenze specifiche, tende a ripeterle in modo stereotipato (T11). Per scongiurare un tale pericolo, occorre assicurare una formazione capace di rinnovarsi il cui itinerario è così tratteggiato da Schön: - capacità di scomporre le strutture della realtà e di ricercare modi alternativi di organizzarla; - sistemazione ordinata e organica di casi da cui attingere per affrontare i problemi e le situazioni nuove; - conoscenza delle principali teorie di ciascun sapere professionale per orientarsi in campi non ancora esplorati; - comprensione della «riflessione nel corso dell'azione»; L'organizzazione (fabbrica, uffici, servizi, l'impresa in generale) ha assunto una nuova fisionomia: non più soltanto luogo di produzione, ma anche occasione e sede di apprendimento, di sviluppo di competenze, di crescita delle abilità e di sapere. Da qui il moltiplicarsi delle esperienze di «apprendimento organizzativo», basato sul presupposto che «la sede dell'apprendimento è la realtà organizzata nella quale agiamo». 2.5 Apprendimento organizzativo e comunità di pratica: Caratteristica propria dell'apprendimento organizzativo sono la circolarità del sapere, la capacità di comprendere e di comprendersi e di far emergere la progettualità e la creatività dei singoli, in una parola saper pensare e saper fare in comune. L'apprendimento organizzativo si articola intorno a 3 fasi successive e concatenate: - trasformazione dell'informazione in conoscenza (fase dell'arricchimento personale); - trasformazione delle conoscenze in sapere (passaggio dalla conoscenza individuale alla padronanza del sapere da parte dell'organizzazione); - trasformazione del sapere in comportamenti operativi (con il doppio esito della realizzazione del cambiamento atteso e della creazione delle premesse per rinnovare il ciclo informazioni-conoscenza-sapere-cambiamento); Così concepito l'apprendimento «è un fenomeno collettivo nel quale le conoscenze individuali si intrecciano, si confrontano e si combinano in un processo che coinvolge l'organizzazione nel suo insieme». L'apprendimento organizzativo rappresenta perciò il principale veicolo attraverso cui è possibile favorire l'accrescimento delle risorse cognitive esperienziali e culturali. Muta, quindi, anche il modo di guardare alle competenze proprie di uno specifico campo professionale. La competenza perde la fisionomia individualistica, con cui viene in genere concepita, per assumere una dimensione socializzata. Di fronte alla necessità di fronteggiare situazioni nuove, i gruppi sono spinti ad una continua verifica delle proprie conoscenze e delle proprie capacità di produrre. Accanto agli studi di Argyris e Schön - i pionieri di questa concezione dell'apprendimento collettivo - gli studi di Étienne Wenger sulle «comunità di pratica» hanno apportato nuove prospettive in una visione meno efficientistica con una più forte sottolineatura degli interessi individuali e dell'intensità delle relazioni interpersonali. Per comunità di pratica si intende un gruppo di persone che è impegnato in una impresa condivisa e allo scopo di raggiungere il migliore risultato si mobilita, mediante regolari e reciproche interazioni, per far circolare conoscenze, competenze e buone pratiche. Non basta avere un interesse comune o stringere rapporti di amicizia per definirsi una comunità di pratica: essa si costituisce in funzione di precisi obiettivi in genere di tipo professionale. L’attività dei membri è in ogni caso legata e addirittura condizionata dagli scambi di informazioni e riflessioni. La prima caratteristica della pratica come fonte di coerenza di una comunità è l'impegno reciproco dei partecipanti. La pratica non esiste in astratto, non risiede nei libri o negli strumenti bensì in una comunità di persone e nelle relazioni di impegno reciproco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno. L'appartenenza a una comunità di pratica è dunque un patto di impegno reciproco. È ciò che definisce la comunità. La comunità di pratica è perciò al tempo stesso, per usare i termini di Wenger, partecipazione e reificazione. Con la prima espressione si indicano i processi di socializzazione tra i partecipanti, per reificazione s'intende il processo con cui si dà forma all'esperienza, producendo vere e proprie «entità materiali» prodotte dall'esperienza nelle quali si dà forma a un'idea. Qualunque comunità di pratica è l'esito di un intreccio di relazioni interpersonali, di nozioni esplicite, di conoscenza tacita, di obiettivi condivisi e tradotti in attività concrete. Secondo Wenger l'apprendistato è un caso emblematico di apprendimento che si compie all'interno di una comunità di pratica. conoscenza tacita: si tratta insomma di una conoscenza non codificata, non contenuta in testi o manuali, non gestita attraverso una comunicazione strutturata; ma una conoscenza direttamente collegata alla capacità di comprensione dei contesti di azione, intuizioni, sensazioni che difficilmente possono essere comprese da chi non condivide tale esperienza. L'apprendista non solo acquisisce informazioni e impara attraverso l'esercizio diretto, ma diventa «una persona differente con una diversa relazione con il mondo e con la comunità». Con l'apprendimento, in altre parole, si trasforma anche la sua identità. Tanto l'apprendimento organizzato quanto l'esperienza delle comunità di pratica fanno molto affidamento sulle modalità proprie del pensiero riflessivo e cioè sulla capacità di tenere aperta la domanda, di alimentarla, provarla, inseguirla (T12). Più che alla competenza acquisita, esse sono attente ai processi attraverso cui la competenza si costruisce. 2.6 Modernizzare senza escludere: Una interpretazione alquanto diversa del lifelong learning rispetto a quelle fin qui esaminate, meno funzionalistica e più solidaristica ispirata a ideali socialisti, è offerta dalle ricerche e dalle esperienze di Bertrand Schwartz il cui interesse è rivolto soprattutto a livelli più modesti e marginali del mondo del lavoro dipendente. Secondo Schwartz le prospettive del lifelong learning vanno orientate ad assicurare maggiore equità nella fruizione dei diritti educativi ed a creare una democrazia autentica e cioè solidale. Questo è possibile se le azioni formative puntano a combattere le disuguaglianze, a promuovere la partecipazione attiva e considerano il soggetto in formazione nella sua globalità di persona (T13). Lo studioso francese è convinto che si possa perseguire una politica economica d'avanguardia e competitiva senza abbandonare al loro destino i meno fortunati. La formula «modernizzare senza escludere» rende bene il pensiero e la militanza di Schwartz ed è il titolo di un'associazione da lui fondata e di un volume pubblicato. Egli rifiuta la tesi della fatalità dell'esclusione e dimostra che si possono trovare soluzioni idonee a riconciliare i soggetti trascurati dalla scuola con la conoscenza e il lavoro fino a reimmetterli nel circuito produttivo. Solo agendo nei territori della marginalità e combattendo l'esclusione è possibile dare soluzione alla palese contraddizione tra l'affermazione di principio che «l'educazione è un diritto di tutti e per tutta la vita» e l'esclusione di migliaia di giovani dalle scuole e di milioni di adulti dal sapere. Il luogo privilegiato del lifelong learning è il territorio ove si svolge la vita sociale quotidiana dei cittadini. Il sistema educativo, annota Schwartz, è invece tradizionalmente caratterizzato dalla separazione: dal lavoro, dall'ambiente, dalla vita. Schwartz ha avviato iniziative destinate soprattutto a coloro che meno si avvalgono delle opportunità formative. Non è affatto scontato, per questi soggetti, entrare in formazione. In più si aggiunge la difficoltà psicologica di ammettere una condizione personale di ignoranza/ incompetenza. Schwartz lamenta, inoltre, la persistenza di alcuni pregiudizi che condizionano ulteriormente l'efficacia della formazione dei soggetti deboli. Lo studioso francese contrasta vigorosamente ciò. Anche i soggetti con esiti scolastici non positivi possono reinserirsi nel circuito formativo. La principale strategia consiste nella concretezza reale delle esperienze formative e della partecipazione personale. L’apprendimento deve essere commisurato al soggetto: non può essere standardizzato ma va commisurato alle capacità e alle aspettative dei soggetti coinvolti. Secondo Schwartz non si può inoltre separare come si è già detto la formazione dall’ambiente. Con questa impostazione egli riflette una sensibilità politica secondo cui non è sufficiente fornire agli adulti abilità mentali ma è fondamentale costruire anche coscienze critiche e capaci di emanciparsi dalle condizioni di subalternità e di sfruttamento. Egli conclude infine dicendo che più utile ed efficace lavorare per l’inserimento e la formazione anziché prendere la scorciatoia dell’esclusione (lasciare la gente disoccupata). 3. La formazione in rete Il mutare dell'informazione colloca la società contemporanea in una struttura spazio-temporale radicalmente nuova e al tempo stesso innesca cambiamenti a livello profondo: inaugura infatti nuove modalità di produrre, muta la fonte di ricchezza, crea inediti stili di vita legati al mondo della virtualità. Protagoniste in ogni senso dei mutamenti in corso sono le reti infotelematiche. Accanto alla società dell'informazione non a caso si è infatti sviluppata la «società della rete» (T14). Si produce in rete, si lavora in rete, si fa ricerca in rete, si studia in rete, ci si scambia opinioni in rete. Essa ha assunto la fisionomia del modello organizzativo predominante nel quale l'ampiezza e la novità dei mezzi tecnologici si manifestano con tale forza da oscurare o, per lo meno, marginalizzare i fini. É proprio questa eccedenza «a infondere quel senso di libertà unico, senza precedenti», perché la rete non sembra aver né principio né fine, ovvero non è dato sapere dove precisamente essa cominci e dove esattamente finisca. Nel modello a rete la tecnologia agirebbe in termini quasi salvifici garantendo una società completamente trasparente, che assicurerebbe il massimo di felicità, equità, ordine sociale, progresso. Questa realtà non è immune da sospetti e analisi critiche. Secondo un'altra corrente di pensiero, ci troveremmo in presenza soltanto di una nuova fisionomia del capitalismo maturo e la notevole velocità di diffusione delle informazioni non produrrebbe cambiamenti così radicali e positivi come i suoi sostenitori vorrebbero far credere. Le reti produrrebbero sempre più clienti consumatori che soggetti capaci di scelte e di cura personale e dunque nuove ingiustizie sociali si aprirebbero. 3.1 Pensare in rete: La rete è un’indefinita descrizione del mondo dell’esperienza e un mondo altrettanto indeterminato, che esiste per conto proprio, un autonomo universo parallelo. Noi siamo spesso colti da un senso di insicurezza dinanzi alla possibilità che l’identità, la qualità, il contesto, la verità dei materiali che ci sono presentati siano altre da quelli che ci appaiono. Il soggetto sviluppa nuove abilità o perlomeno sperimenta un diverso modo di mettersi in rapporto con la realtà. L’antico scambio tra la mente e il mondo è da reinterpretare in relazione all’abbattimento dei tempi di conoscenza: olggi la velocità di interazione è aumentata fino all’immediatezza. Marc Prensky ha coniato l'espressione digital natives per quanti crescono in un ambiente segnato dalla presenza dei media digitali e Derrick de Kerckhove, a sua volta, ha parlato di cyberception. Con la cosiddetta «esternalizzazione dei processi mentali» si verifica lo spostamento all'esterno (sulla macchina), di alcune delle funzioni proprie della mente umana. L'esternalizzazione della memoria (cioè la possibilità di archiviare dati concreti in un posto che non è la nostra testa) rappresenta l’esempio forse più scontato, ma assai pertinente: l’hard disk di un computer o la stessa rete si appropriano di una tipica capacità umana. Dunque, ci troviamo ormai in una situazione ben più avanzata rispetto all'interpretazione di Skinner dell'impiego del computer come sostituto dell'insegnante in alcune attività, che, se ben programmate e gestite con procedure corrette, possono rinforzare e ottimizzare le capacità di apprendimento degli allievi. Seymour Papert parla del computer come di una vera e propria learning machine, e cioè di uno strumento che il soggetto (sia esso adulto o bambino), può gestire in modo flessibile e originale all'interno del nuovo spazio della conoscenza reso possibile dalla rete. Egli ha dunque una visione positiva e creativa perché considera lo strumento importante per la formazione del sapere personale. Saremmo, perciò, ben lontani dal rischio, prefigurato da Umberto Galimberti, della caduta del soggetto nel ruolo di «funzionario della tecnica», ma ci troveremmo, al contrario, di fronte a nuove e finora inedite possibilità di reciproco arricchimento. Al suo ottimismo fa da controcanto la prudenza dei critici, cioè di quanti non credono in quel cambiamento epocale evocato dai sostenitori della rete o, ancor più drasticamente, percepiscono le nuove tecnologie come un potenziale nuovo strumento di conformismo alienato (= manipolazione della mente che ha come conseguenza anche la solitudine). Occorrerebbe perciò sfuggire a facili luoghi comuni e accrescere la riflessione sulla natura stessa del media, sui rapporti con l'esperienza reale e con la costruzione dei saperi nonché sulla struttura stessa dell'impianto infotelematico e dei linguaggi ad esso connessi. Un altro nodo problematico riguarda il prevalere dell'approccio individuale (e spesso individualistico) nell'esperienza della rete, a danno della dimensione naturalmente sociale dei processi educativi e formativi. Anziché esercitare il nostro «controllo» e favorire la nostra personale partecipazione all'ambiente sociale a noi più vicino, l'esperienza infotelematica sarebbe molto più banale e meno creativa di quanto si potrebbe pensare. L'esposizione degli strumenti infotelematici alla virtualità rischierebbe, in sostanza, di generare un «uomo elettronico» nutrito di immagini virtuali che ne metterebbero a repentaglio la stessa identità esistenziale. 3.2 Vivere la multimedialità: La rete viene dunque vista: - da un lato come “educazione che si consegna alla tecnologia” e come luogo della solitudine individualistica (visione negativa); - dall’altro si muove nella prospettiva di una “pedagogia virtuale” in virtù della quale la rete, pur senza prescindere da doverose cautele, si propone come un ambiente ricco di nuove opportunità di socializzazione di esperienza e dunque di apprendimento (visione positiva); La rete si presenta come un’entità comunicativa ad alta intensità interattiva a cui è possibile attribuire a un’indeterminata verità di significati. La tecnologia infotelematica non offre soltanto accessi più rapidi e completi ad eventi e comportamenti: essa introduce a «qualcosa di diverso» dalla comunicazione tradizionale e produce nuovi eventi e nuovi comportamenti. Vivere la multimedialità significa semplicemente prendere atto e imparare a convivere con una nuova realtà che si manifesta con finalità, strumenti e regole sue proprie. Essa non mette in discussione il valore della comunicazione umana a cui siamo abituati. La multimedialità si propone come un'«altra» forma di interazione: si tratta di accettarla per quello che è, cercando di migliorarne l'efficacia rispetto allo scopo perseguito. 3.3 Come educare alla multimedialità → l’educazione alla multimedialità: Oggi siamo in presenza della faticosa rincorsa della generazione adulta e degli insegnanti (formati in un contesto senza tecnologie o con tecnologie molto elementari) che vogliono colmare ritardi di mentalità e lacune anche di tipo tecnico. Una delle difficoltà è rappresentata, non a caso, nella cosiddetta «divergenza cognitiva» tra docenti e studenti. Questi ultimi vantano infatti in genere competenze superiori a quelle dei loro insegnanti, anche se il gap si sta gradualmente colmando. Gli studi e le ricerche nel campo dell'educazione alla multimedialità si snodano intorno a 3 nuclei principali: - l'acquisizione di abilità e conoscenze nell'uso degli strumenti multimediali; - la definizione degli ambienti di apprendimento e delle condizioni educative entro cui il loro impiego si può svolgere in condizioni ottimali; - la formazione del senso critico e della capacità di discernimento. La semplice abilità strumentale va progressivamente implementata con l'acquisizione di livelli di padronanza più complessi mediante la familiarità con più linguaggi comunicativi da impiegare contemporaneamente. Tutto ciò presuppone l'organizzazione di adeguati ambienti di apprendimento, dove sperimentare le modalità di acquisizione delle abilità cognitive, cooperative ed emotive necessarie per il dominio personale degli strumenti telematici. Disponiamo di qualificate ricerche che documentano come siano particolarmente congeniali al mondo delle tecnologie due importanti teorie dell'apprendimento già considerate nelle pagine precedenti: a) il costruttivismo: esso si affida infatti a 3 principi coerenti con l'uso del computer e della rete: la conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto; è strettamente ancorata a un contesto concreto; si svolge attraverso forme di interazione sociale; b) il Cooperative Learning: le pratiche proprie dell'apprendimento cooperativo, a loro volta, consentono di rafforzare la dimensione dell'intersoggettività e della collaborazione in rete, contrastando il rischio dell'impiego individualistico degli strumenti informatici. Il forum telematico, in specie, può rappresentare non solo un luogo ideale di scambio di opinioni e di costruzione collettiva di ipotesi, ma anche un luogo non burocratizzato e non formalizzato dove lasciar liberamente emergere istanze, intuizioni, esigenze, discussioni non condizionate dagli stati emotivi che si verificano nelle situazioni in presenza. Non basta però distribuire in modo capillare computer e moltiplicare i contatti in rete per misurare il progresso nel campo infotelematico. Il cuore educativo del problema sta altrove e precisamente nella «qualità» dell'esperienza tecnologica e cioè nella padronanza (e non sudditanza) strumentale, nella consapevolezza critica con cui l'uomo entra in rapporto con la quotidianità delle nuove tecnologie e con gli ambienti che queste gli dischiudono. Non è inutile sottolineare come la qualità di qualsiasi esperienza umana dipende dalla capacità di viverla in forma personale e cioè in grado di spiegare le ragioni di consenso e di dissenso. Qualunque azione umana è infatti governata da uno scopo rispetto a cui l'uomo può essere soggetto di decisione oppure semplice oggetto/strumento di un'azione determinata da altri.

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