Il Visconte Dimezzato (PDF) - Italo Calvino
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Liceo Scientifico Renato Caccioppoli
Italo Calvino
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Il Visconte dimezzato è un romanzo di Italo Calvino, un'opera narrativa avventurosa e ricca di contrasto. L'autore cerca di creare effetti di sorpresa, mettendo in luce il tema dell'incompletezza dell'uomo contemporaneo. Il divertimento è una funzione sociale chiave dell'opera.
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ITALO CALVINO Il visconte Dimezzato Presentazione dell’autore Arnoldo Mondadori Editore e-book realizzato da filuc (2003) © 1993by Palomar S.r.l. e Arnoldo Mondadri S.p.A., Milano I Edizione Oscar Opere di Italo Calvino maggio 1993 ISBN 88-04-37087-4 Questo volume è stato stampato Presso la...
ITALO CALVINO Il visconte Dimezzato Presentazione dell’autore Arnoldo Mondadori Editore e-book realizzato da filuc (2003) © 1993by Palomar S.r.l. e Arnoldo Mondadri S.p.A., Milano I Edizione Oscar Opere di Italo Calvino maggio 1993 ISBN 88-04-37087-4 Questo volume è stato stampato Presso la Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento di Verona Stampato in Italia – Printed in Italy A questa edizione ha collaborato Luca Buranelli Presentazione La prima edizione del Visconte dimezzato uscì presso l’editore Einaudi di Torino nel febbraio del 1952, nella collana «I gettoni» diretta da Elio Vittorini. Più di trent’anni dopo, a uno studente che lo interrogava su questo libro, Calvino rispose con le parole che vengono qui riprodotte (Intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, Italo Calvino, Pesaro 1987, p. 9). Viene riportata in nota la parte centrale e più significativa di una lettera che Calvino scrisse a Carlo Salinari, in risposta a una recensione che egli aveva scritto su «l’Unità» del 6 agosto 1952. Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra 1. Per fare questo ho cercato di mettere su una storia che stesse in piedi, che avesse una simmetria, un ritmo nello stesso tempo da racconto di avventura ma anche quasi da balletto. Il modo per differenziare le due metà mi è sembrato che quella di farne una cattiva e l’altra buona fosse quella che creasse il massimo contrasto. Era tutta una costruzione narrativa basata sui contrasti. Quindi la storia si basa su una serie di effetti di sorpresa: che, al posto del visconte intero, ritorni al paese un visconte a metà che è molto crudele, mi è parso che creasse il massimo di effetto di sorpresa; che poi, a un certo punto, si 1 «A me importava il problema dell’uomo contemporaneo (dell’intellettuale, per esser più precisi) dimezzato, cioè incompleto, “alienato”. Se ho scelto di dimezzare il mio personaggio secondo la linea di frattura “ bene-male”, l’ho fatto perché ciò mi permetteva una maggiore evidenza d’immagini contrapposte, e si legava a una tradizione letteraria già classica (p. es. Stevenson) cosicché potevo giocarci senza preoccupazioni. Mentre i miei ammicchi moralistici, chiamiamoli così, erano indirizzati non tanto al visconte quanto ai personaggi di cornice, che sono le vere esemplificazioni del mio assunto: i lebbrosi (cioè gli artisti decadenti), il dottore e il carpentiere (la scienza e la tecnica staccate dall’umanità), quegli ugonotti, visti un po’ con simpatia e un po’ con ironia (che sono un po’ una mia allegoria autobiografico-familiare, una specie di epopea genealogica immaginaria della mia famiglia) e anche un’immagine di tutta la linea del moralismo idealista della borghesia» (Lettera a C. Salinari del 7 agosto 1952, pubblicata in I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, pag. 67). scoprisse invece un visconte assolutamente buono al posto di quello cattivo creava un altro effetto di sorpresa; che queste due metà fossero egualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un effetto comico e nello stesso tempo anche significativo, perché alle volte i buoni, le persone troppo programmaticamente buone e piene di buoni intenzioni sono dei terribili scocciatori. L’importante in una cosa del genere è fare una storia che funzioni proprio come tecnica narrativa, come presa sul lettore. Nello stesso tempo, io sono sempre anche molto attento ai significati: bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a come la penso io; quindi anche i significati sono molto importanti, però in un racconto come questo l’aspetto di funzionalità narrativa e, diciamolo, di divertimento, è molto importante. Io credo che il divertire sia una funzione sociale, corrisponde alla mia morale; penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento. O penso che il divertimento sia una cosa seria. Cronologia La presente Cronologia riproduce quella curata da Mario Barenghi e Bruno Falcetto per l’edizione dei Romanzi e racconti di Italo Calvino nei Meridiani, Mondadori, Milano 1991. «Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra.Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò.Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura” [lettera a Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964]. «Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io [...], ridicendo le stesse cose con altre parole, spero sempre d’aggirare il mio rapporto nevrotico con ’lautobiografia [lettera a Claudio Milanini, 27 luglio 1985] 1923 Italo Calvino nasce il 15 ottobre a Santiago de las Vegas, presso L’Avana. Il padre, Mario, è un agronomo di vecchia famiglia sanremese, che si trova a Cuba, dopo aver trascorso una ventina d’anni in Messico, per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria. La madre, Evelina Mameli, sassarese d’origine, è laureata in scienze naturali e lavora come assistente di botanica all’Università di Pavia. «Mia madre era una donna molto severa, austera, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose. Anche mio padre era mo lto austero e burbero ma la sua severità era più rumorosa, collerica, intermittente. Mio padre come personaggio narrativo viene meglio, sia come vecchio ligure molto radicato nel suo paesaggio, sia come uomo che aveva girato il mondo e che aveva vissuto la rivoluzione messicana al tempo di Pancho Villa. Erano due personalità molto forti e caratterizzate [...] L’unico modo per un figlio per non essere schiacciato [...] era opporre un sistema di difese. Il che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto» [RdM 80]. 1925 La famiglia Calvino fa ritorno in Italia. Il rientro in patria era stato programmato da tempo, e rinviato a causa dell’arrivo del primogenito: il quale, per parte sua, non serbando del luogo di nascita che un mero e un po’ ingombrante dato anagrafico, si dirà sempre ligure, o, più precisamente, sanremese. «Sono cresciuto in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto d’Italia, ai tempi in cui ero bambino: San Remo, a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l’Italia d’allora: scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori [...] Mio padre [...] di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista [...] mia madre [...], di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel ‘15 ma con una tenace fede pacifista» [Par 60]. I Calvino vivono tra la villa «La Meridiana» e la campagna avita di San Giovanni Battista. Il padre dirige la Stazione sperimentale di floricoltura « Orazio Raimondo», frequentata da giovani di molti paesi, anche extraeuropei. In seguito al fallimento della Banca Garibaldi di San Remo, mette a disposizione il parco della villa per la prosecuzione dell’attività di ricerca e d ’insegnamento. «Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica; anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche [...] io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia» [Accr 60]. 1926 «Il primo ricordo della mia vita è un socialista bastonato dagli squadristi [...] è un ricordo che deve riferirsi probabilmente all’ultima volta che gli squadristi usarono il manganello, nel 1926, dopo un attentato a Mussolini [...] Ma far discendere dalla prima immagine infantile, tutto quel che si vedrà e sentirà nella vita, è una tentazione letteraria» [Par 60]. I genitori sono contrari al fascismo; la loro critica contro il regime tende tuttavia a sfumare in una condanna generale della politica. «Tra il giudicare negativamente il fascismo e un impegno politico antifascista c’era una distanza che ora è quasi inconcepibile» [Par 60]. 1927 Frequenta l’asilo infantile al Saint George College. Nasce il fratello Floriano, futuro geologo di fama internazionale e docente all’Università di Genova. 1929-33 Frequenta le Scuole Valdesi. Diventerà balilla negli ultimi anni delle elementari, quando ’lobbligo dell’iscrizione verrà esteso alle scuole private. «La mia esperienza infantile non ha nulla di drammatico, vivevo in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti» [Par 60]. 1934 Superato l’esame d’ammissione, frequenta il ginnasio-liceo « G. D. Cassini.» I genitori non danno ai figli un’educazione religiosa, e in una scuola statale la richiesta di esonero dalle lezioni di religione e dai servizi di culto risulta decisamente anticonformistica. Ciò fa sì che Italo, a volte, si senta in qualche modo diverso dagli altri ragazzi: «Non credo che questo mi abbia nuociuto: ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più. Ma soprattutto sono cresciuto tollerante verso le opinioni altrui, particolarmente nel campo religioso [...] E nello stesso tempo sono rimasto completamente privo di quel gusto dell’anticlericalismo così frequente in chi è cresciuto in mezzo ai preti» [Par 60]. 1935-38 «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. Non ricordo se ci arrivai attraverso una biblioteca scolastica o perché lo ebbi in regalo. Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling» [manoscritto inedito]. Oltre ad opere letterarie, il giovane Italo legge con interesse le riviste umoristiche (Bertoldo, Marc’Aurelio, Settebello) di cui lo attrae lo spirito d’ironia sistematica [Rep 84], tanto lontano dalla retorica del regime. Disegna vignette e fumetti; si appassiona al cinema. «Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza» [AS 74]. Per la generazione cui Calvino appartiene, quell’epoca è però destinata a chiudersi anzitempo, e nel più drammatico dei modi. L’estate in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza, alla società, alle ragazze, ai libri, era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e Mussolini a Monaco. La “belle époque” della Riviera era finita [...] Con la guerra, San Remo cessò d’essere quel punto d’incontro cosmopolita che era da un secolo (lo cessò per sempre; nel dopoguerra diventò un pezzo di periferia milan-torinese) e ritornarono in primo piano le sue caratteristiche di vecchia cittadina di provincia ligure. Fu, insensibilmente, anche un cambiamento d’orizzonti [Par 60]. 1939-40 La sua posizione ideologica rimane incerta, sospesa fra il recupero polemico di una scontrosa identità locale, «dialettale», ed un confuso anarchismo. «Fino a quando non scoppiò la seconda guerra mondiale, il mondo mi appariva un arco di diverse gradazioni di moralità e di costume, non contrapposte, ma messe l’una a fianco dell’altra [...] Un quadro come questo non imponeva affatto delle scelte categoriche come può sembrare ora» [Par 60]. Scrive brevi racconti, apologhi, opere teatrali - «tra i 16 e i 20 anni sognavo di diventare uno scrittore di teatro» [Pes 83] - e anche poesiole d’ispirazione montaliana: «Montale fin dalla mia adolescenza è stato il mio poeta e continua ad esserlo [...] Poi sono ligure, quindi ho imparato a leggere il mio paesaggio anche attraverso i libri di Montale» [D’Er 79]. 1941-42 Conseguita la licenza liceale (gli esami di maturità sono sospesi a causa della guerra) si iscrive alla Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, dove il padre era incaricato di Agricoltura Tropicale, e supera quattro esami del primo anno, senza peraltro inserirsi nella dimensione metropolitana e nell’ambiente universitario; anche le inquietudini che maturavano nell’ambiente dei Guf gli rimangono estranee. É invece nei rapporti personali, e segnatamente nell’amicizia con Eugenio Scalfari (già suo compagno di liceo), che trova stimolo per interessi culturali e politici ancora immaturi, ma vivi. «A poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane: le novità letterarie di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico- letteraria» [Par 60]. 1943 In gennaio si trasferisce alla Facoltà di Agraria e Forestale della Regia Università di Firenze, dove sostiene tre esami. Le sue opzioni politiche si vanno facendo via via più definite; alla fine di luglio brinda con gli amici alla notizia delle dimissioni di Mussolini [Scalf 85]. Dopo l’otto settembre, renitente alla leva della Repubblica di Salò, passa alcuni mesi nascosto. É questo - secondo la sua testimonianza personale - un periodo di solitudine e di letture intense, che avranno un grande peso nella sua vocazione di scrittore. 1944 Dopo aver saputo della morte in combattimento del giovane medico comunista Felice Cascione, chiede a un amico di presentarlo al PCI; poi, insieme al fratello sedicenne, si unisce alla seconda divisione di assalto «Garibaldi» intitolata allo stesso Cascione, che opera sulle Alpi Marittime, teatro per venti mesi di alcuni fra i più aspri scontri tra i partigiani e i nazifascisti. I genitori, sequestrati dai tedeschi e tenuti lungamente in ostaggio, danno prova durante la detenzione di notevole fermezza d’animo. «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” e perciò mi ero definito anarchico [...] Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata» [Par 60]. L’esperienza della guerra partigiana risulta decisiva per la sua formazione umana, prima ancora che politica. Esemplare gli apparirà infatti soprattutto un certo spirito che animava gli uomini della Resistenza: cioè «una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, di senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa. A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari» [GAD 62]. Il periodo partigiano è cronologicamente breve, ma, sotto ogni altro riguardo, straordinariamente intenso. «La mia vita in quest’ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezie [...] sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto pure di più» [lettera a Scalfari, 6 giugno 1945]. 1945 Dopo la Liberazione inizia la «storia cosciente» delle idee di Calvino, che seguiterà a svolgersi, anche durante la militanza nel PCI, attorno al nesso inquieto e personale di comunismo e anarchismo. Questi due termini, più che delineare una prospettiva ideologica precisa, indicano due complementari esigenze ideali: «Che la verità della vita si sviluppi in tutta la sua ricchezza, al di là delle necrosi imposte dalle istituzioni» e «che la ricchezza del mondo non venga sperperata ma organizzata e fatta fruttare secondo ragione nell’interesse di tutti gli uomini viventi e venturi» [Par 60]. Usufruendo delle facilitazioni concesse ai reduci, in settembre si iscrive al terzo anno della Facoltà di Lettere di Torino, dove si trasferisce stabilmente. «Torino [...] rappresentava per me - e allora veramente era - la città dove movimento operaio e movimento d’idee contribuivano a formare un clima che pareva racchiudere il meglio d’una tradizione e d’una prospettiva d’avvenire» [GAD 62]. Attivista del PCI nella provincia di Imperia, scrive su vari periodici, fra i quali « La Voce della Democrazia» (organo del CLN San Remo), «La nostra lotta» (organo della sezione sanremese del PCI), «Il Garibaldino» (organo della Divisione Felice Cascione). Diviene amico di Cesare Pavese, che negli anni seguenti sarà non solo il suo primo lettore - «finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale» [DeM 59] - ma anche un paradigma di serietà e di rigore etico, su cui cercherà di modellare il proprio stile, e perfino il proprio comportamento. Grazie a Pavese presenta alla rivista «Aretusa» di Carlo Muscetta il racconto Angoscia, che esce sul numero di dicembre. In dicembre inizia anche, con l’articolo Liguria magra e ossuta, la sua collaborazione con «Il Politecnico» di Elio Vittorini. «Quando ho cominciato a scrivere ero un uomo di poche letture, letterariamente ero un autodidatta la cui “didassi” doveva ancora cominciare. Tutta la mia formazione è avvenuta durante la guerra. Leggevo i libri delle case editrici italiane, quelli di “Solaria” [D’Er 79]. 1946 Comincia a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi, vendendo libri a rate [Accr 60]. Pubblica su periodici (« L’Unità», «Il Politecnico») numerosi racconti che poi confluiranno in Ultimo viene il corvo. In maggio comincia a tenere sull’« Unità» di Torino la rubrica «Gente nel Tempo». Alla fine di dicembre vince (ex aequo con Marcello Venturi) il premio indetto dall’«Unità» di Genova, con il racconto Campo di mine. Su esortazione di Pavese e di Giansiro Ferrata si dedica alla stesura di un romanzo, che conclude negli ultimi giorni di dicembre. Sarà il suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno. «Lo scrivere è però oggi il più squallido e ascetico dei mestieri: vivo in una gelida soffitta torinese, tirando cinghia e attendendo i vaglia paterni che non posso che integrare con quel migliaio di lire settimanali che mi guadagno a suon di collaborazioni» [Scalf 89]. 1947 «Una dolce e imbarazzante bigamia» è l’unico lusso che si conceda «in una vita veramente tutta di lavoro e tutta tesa ai miei obiettivi» [Scalf 89]. Fra questi c’è anche la laurea, che consegue con una tesi su Joseph Conrad. Nel frattempo Pavese aveva presentato a Einaudi il Sentiero, che, pubblicato nella collana «I coralli», riscuote un discreto successo di vendite e vince il Premio Riccione. Presso Einaudi Calvino si occupa ora dell’ufficio stampa e di pubblicità. Nell’ambiente della casa editrice torinese, animato dalla continua discussione tra sostenitori di diverse tendenze politiche e ideologiche, stringe legami di amicizia e di fervido confronto intellettuale non solo con letterati (i già citati Pavese e Vittorini, Natalia Ginzburg), ma anche con storici (Delio Cantimori, Franco Venturi) e filosofi, tra i quali Norberto Bobbio e Felice Balbo. Durante l’estate partecipa come delegato al Festival mondiale della gioventù che si svolge a Praga. 1948 Lascia l’Einaudi per lavorare all’edizione torinese dell’«Unità», dove si occupa, per circa un anno, della redazione della terza pagina. Comincia a collaborare al settimanale comunista «Rinascita» con racconti e note di letteratura. 1949 In agosto partecipa al Festival della gioventù di Budapest; scrive una serie di articoli per « L’Unità». Per diversi mesi cura anche la rubrica delle cronache teatrali (Prime al Carignano). Dopo l’estate torna all’Einaudi. Esce la raccolta di racconti Ultimo viene il corvo. Rimane invece inedito il romanzo Il Bianco Veliero, sul quale Vittorini aveva espresso un giudizio negativo. 1950 Primo gennaio: assunto da Einaudi come redattore stabile, si occupa dell’ufficio stampa e dirige la parte letteraria della nuova collana «Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria». Come ricorderà Giulio Einaudi, «furono suoi, e di Vittorini, e anche di Pavese, quei risvolti di copertina e quelle schede che crearono [...] uno stile nell’editoria italiana». Il 27 agosto Pavese si toglie la vita. Calvino è colto di sorpresa: «Negli anni in cui ’lho conosciuto, non aveva avuto crisi suicide, mentre gli amici più vecchi sapevano. Quindi avevo di lui un’immagine completamente diversa. Lo credevo un duro, un forte, un divoratore di lavoro, con una grande solidità. Per cui l’immagine del Pavese visto attraverso i suicidi, le grida amorose e di disperazione del diario, l’ho scoperta dopo la morte» [D’Er 79]. Dieci anni dopo, con la commemorazione Pavese: essere e fare traccerà un bilancio della sua eredità morale e letteraria. Rimarrà invece allo stato di progetto (documentato fra le carte di Calvino) una raccolta di scritti e interventi su Pavese e la sua opera. Per la casa editrice è un momento di svolta: dopo le dimissioni di Balbo, il gruppo einaudiano si rinnova con l’ingresso, nei primi anni ‘50, di Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Daniele Ponchiroli, Renato Solmi, Luciano Foà e Cesare Cases. «Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo e ’laver lavorato in un ambiente editoriale che è stato di modello per il resto dell’editoria italiana, non è cosa da poco» [D’Er 79]. Collabora con «Cultura e realtà», rivista fondata da Felice Balbo con altri esponenti della sinistra cristiana (Fedele D’Amico, Augusto Del Noce, Mario Motta). 1951 Conclude la travagliata elaborazione di un romanzo d’impianto realistico-sociale, I giovani del Po, che apparirà solo più tardi in rivista (su «Officina», tra il gennaio ‘57 e l’aprile ‘58), come documentazione di una linea di ricerca interrotta. In estate, pressoché di getto, scrive Il visconte dimezzato. Fra ottobre e novembre compie un viaggio in Unione Sovietica («dal Caucaso a Leningrado»), che dura una cinquantina di giorni. La corrispondenza («Taccuino di viaggio in URSS di Italo Calvino»), pubblicata sull’«Unità» nel febbraio-marzo dell’anno successivo, gli varrà il Premio Saint-Vincent. Rifuggendo da valutazioni ideologiche generali, coglie della realtà sovietica soprattutto dettagli di vita quotidiana, da cui emerge un’immagine positiva e ottimistica («Qui la società pare una gran pompa aspirante di vocazioni: quel che ognuno ha di meglio, poco o tanto, se c’è deve saltar fuori in qualche modo»), anche se per vari aspetti reticente. Durante la sua assenza (il 25 ottobre) muore il padre. Qualche anno dopo ne ricorderà la figura nel racconto autobiografico La strada di San Giovanni. 1952 Il visconte dimezzato, pubblicato nella collana «I gettoni» di Vittorini, ottiene un notevole successo e genera reazioni contrastanti nella critica di sinistra. In maggio esce il primo numero del « Notiziario Einaudi», da lui redatto, e di cui diviene direttore responsabile a partire dal numero 7 di questo stesso anno. Estate: insieme a Paolo Monelli, inviato della «Stampa», segue le Olimpiadi di Helsinki scrivendo articoli di colore per l’«Unità». «Monelli era molto miope, ed ero io che gli dicevo: guarda qua, guarda là. Il giorno dopo aprivo “La Stampa” e vedevo che lui aveva scritto tutto quello che gli avevo indicato, mentre io non ero stato capace di farlo. Per questo ho rinunciato a diventare giornalista» [Nasc 84]. Pubblica su «Botteghe Oscure» (una rivista letteraria romana diretta da Giorgio Bassani) il racconto La formica argentina. Prosegue la collaborazione con ’l«Unità», scrivendo contributi di vario genere (mai raccolti in volume), sospesi tra la narrazione, il reportage e l’apologo sociale; negli ultimi mesi dell’anno appaiono le prime novelle di Marcovaldo. 1953 Dopo Il Bianco Veliero e I giovani del Po, lavora per alcuni anni a un terzo tentativo di narrazione d’ampio respiro, La collana della regina, un romanzo realistico-social-grottesco-gogoliano di ambiente torinese e operaio, destinato anch’esso a rimanere inedito. Sulla rivista romana «Nuovi Argomenti» esce il racconto Gli avanguardisti a Mentone. 1954 Inizia a scrivere sul settimanale «Il Contemporaneo», diretto da Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori; la collaborazione durerà quasi tre anni. Esce nei « Gettoni» L’entrata in guerra. Viene definito il progetto delle Fiabe italiane, scelta e trascrizione di duecento racconti popolari delle varie regioni d’Italia dalle raccolte folkloristiche ottocentesche, corredata da introduzione e note di commento. Durante il lavoro preparatorio Calvino si avvale dell’assistenza dell’etnologo Giuseppe Cocchiara, ispiratore, per la collana dei Millenni, della collezione dei « Classici della fiaba». Comincia con una corrispondenza dalla Quindicesima Mostra cinematografica di Venezia una collaborazione con la rivista «Cinema Nuovo», che durerà alcuni anni. Si reca spesso a Roma, dove, a partire da quest’epoca, trascorre buona parte del suo tempo. 1955 Dal primo gennaio acquista presso Einaudi la qualifica di dirigente, che manterrà fino al 30 giugno 1961; dopo quella data diventerà consulente editoriale. Esce su «Paragone. Letteratura» Il midollo del leone, primo di una serie di impegnativi saggi, volti a definire la propria idea di letteratura rispetto alle principali tendenze culturali del tempo. Fra gli interlocutori più agguerriti e autorevoli, quelli che Calvino chiamerà gli hegelo-marxiani: Cesare Cases, Renato Solmi, Franco Fortini. Stringe con l’attrice Elsa De Giorgi una relazione destinata a durare qualche anno. 1956 Appaiono le Fiabe italiane. Il successo dell’opera consolida l’immagine di un Calvino «favolista» (che diversi critici vedono in contrasto con l’intellettuale impegnato degli interventi teorici). Scrive l’atto unico La panchina, musicato da Sergio Liberovici, che viene rappresentato in ottobre al Teatro Donizetti di Bergamo. Partecipa al dibattito su Metello con una lettera a Vasco Pratolini, pubblicata su «Società». Dedica uno degli ultimi interventi sul «Contemporaneo» a Pier Paolo Pasolini, in polemica con una parte della critica di sinistra. Il ventesimo congresso del PCUS apre un breve periodo di speranze in una trasformazione del mondo del socialismo reale. «Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità, i vendicatori dei torti subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin, in nome della Causa. Schizofrenici. Dissociati. Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos’altro potrei essere se non comunista? Ecco perché il disgelo, la fine dello stalinismo, ci toglieva un peso terribile dal petto: perché la nostra figura morale, la nostra personalità dissociata, finalmente poteva ricomporsi, finalmente rivoluzione e verità tornavano a coincidere. Questo era, in quei giorni, il sogno e la speranza di molti di noi» [Rep 80]. Interviene sul «Contemporaneo» nell’acceso Dibattito sulla cultura marxista che si svolge fra marzo e luglio, mettendo in discussione la linea culturale del PCI; più tardi (24 luglio) in una riunione della commissione culturale centrale polemizza con Alicata ed esprime «una mozione di sfiducia verso tutti i compagni che attualmente occupano posti direttivi nelle istanze culturali del part ito» [cfr. «L’Unità», 13 giugno 1990]. Il disagio nei confronti delle scelte politiche del vertice comunista si fa più vivo: il 26 ottobre Calvino presenta all’organizzazione di partito dell’Einaudi, la cellula Giaime Pintor, un ordine del giorno che denuncia «l’inammissibile falsificazione della realtà» operata dall’«Unità» nel riferire gli avvenimenti di Poznan e di Budapest, e critica con asprezza l’incapacità del partito di rinnovarsi alla luce degli esiti del ventesimo congresso e dell’evoluzione in corso all’Est. Tre giorni dopo, la cellula approva un «appello ai comunisti» nel quale si chiede fra l’altro che «sia sconfessato l’operato della direzione» e che «si dichiari apertamente la nostra piena solidarietà con i movimenti popolari polacco e ungherese e con i comunisti che non hanno abbandonato le masse protese verso un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini». In vista di una possibile trasformazione del PCI, Calvino ha come punto di riferimento Antonio Giolitti. 1957 Pubblica su «Città aperta» (periodico fondato da un gruppo dissidente di intellettuali comunisti romani) il racconto-apologo La gran bonaccia delle Antille, che mette alla berlina l’immobilismo del PCI. Dopo l’abbandono del PCI da parte di Antonio Giolitti, il primo agosto ras segna le proprie dimissioni con una sofferta lettera al Comitato Federale di Torino del quale faceva parte, pubblicata il 7 agosto sull’«Unità». Oltre a illustrare le ragioni del suo dissenso politico e a confermare la sua fiducia nelle prospettive democratiche del socialismo internazionale, ricorda il peso decisivo che la militanza comunista ha avuto nella sua formazione intellettuale e umana. L’intenzione di non troncare del tutto i rapporti con il partito è espressa anche in una lettera a Paolo Spriano del 19 agosto: «Caro Pillo, come hai visto, sono riuscito a dimettermi senza una rottura completa, e conto di proseguire il mio dialogo col partito [...] Ora sono improvvisamente preso dal bisogno di fare qualcosa, di “militare”, mentre finché ero nel partito non ne sentivo affatto il bisogno e potevo vivere tranquillo. Vedi che fregatura. Non so bene cosa farò. Da una parte penso che - ora che essendo fuori dal P. non avallo più la politica e le menzogne dell’«Unità» - posso riprendere a collaborare all’«Unità» e sono molto tentato di farlo [...] Ma d’altra parte, la mia firma - anche se è ormai solennemente sancito che non sono d’accordo con la direzione del partito - può agli occhi dei lavoratori servire ad avallare gli inganni di una politica a loro contraria, e questo continuerebbe a pesarmi sulla coscienza. Sono dunque allo stesso punto di prima: i miei bisogni politici sono di parlare ai comunisti e agli operai, e questo non posso fare se non da tribune che non voglio accreditare. Porca miseria» [Spr 86]. Tuttavia, quest’insieme d’avvenimenti lascia una traccia profonda nel suo atteggiamento: «Quelle vicende mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio molto più piccolo di prima. Non l’ho più ritenuta, da allora, un’attività totalizzante e ne ho diffidato. Penso oggi che la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta, e penso che spesso la politica compia operazioni abusive e mistificanti» [Rep 80]. Esce Il barone rampante, mentre sul fascicolo 20 di «Botteghe Oscure» appare La speculazione edilizia. 1958 Pubblica su «Nuova Corrente» La gallina di reparto, frammento del romanzo inedito La collana della regina, e su «Nuovi Argomenti» La nuvola di smog. Appare il grande volume antologico dei Racconti, a cui verrà assegnato l’anno seguente il premio Bagutta. Collabora al settimanale «Italia domani» e alla rivista di Antonio Giolitti «Passato e Presente», partecipando per qualche tempo al dibattito per una nuova sinistra socialista. Per alcuni anni intrattiene rapporti con il gruppo «Cantacronache», scrivendo tra il ‘58 e il ‘59 testi per quattro canzoni di Liberovici (Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte e Il padrone del mondo), e una di Fiorenzo Carpi (Sul verde fiume Po). Scriverà anche le parole per una canzone di Laura Betti, La tigre, e quelle di Turin-la- nuit, musicata da Piero Santi. 1959 Esce Il cavaliere inesistente. Chiude - con il numero 3 dell’anno ottavo - il «Notiziario Einaudi». Inizia le pubblicazioni «Il menabò di letteratura»: « Vittorini lavorava da Mondadori a Milano, io lavoravo da Einaudi a Torino. Siccome durante tutto il periodo dei “Gettoni” ero io che dalla redazione torinese tenevo i contatti con lui, Vittorini volle che il mio nome figurasse accanto al suo come condirettore del “Menabò”. In realtà la rivista era pensata e composta da lui, che decideva l’ impostazione d’ogni numero, ne discuteva con gli amici invitati a collaborare, e raccoglieva la maggior parte dei testi» [Men 73]. Declina un’offerta di collaborazione al quotidiano socialista «Avanti!». In settembre viene messo in scena alla Fenice di Venezia il racconto mimico Allez-hop, musicato da Luciano Berio. A margine della produzione narrativa e saggistica e dell’attività giornalistica ed editoriale, Calvino coltiva infatti lungo l’intero arco della sua carriera l’antico interesse per il teatro, la musica e lo spettacolo in generale, tuttavia con sporadici risultati compiuti. A novembre, grazie a un finanziamento della Ford Foundation, parte per un viaggio negli Stati Uniti che lo porta nelle principali località del paese. Il viaggio dura sei mesi: quattro ne trascorre a New York. La città lo colpisce profondamente, anche per la varietà degli ambienti con cui entra in contatto. Anni dopo dirà che New York è la città che ha sentito sua più di qualsiasi altra. Ma già nella prima delle corrispondenze scritte per il settimanale «ABC» scriveva: «Io amo New York, e l’amore è cieco. E muto: non so controbattere le ragioni degli odiatori con le mie [...] In fondo, non si è mai capito bene perché Stendhal amasse tanto Milano. Farò scrivere sulla mia tomba, sotto il mio nome, “newyorkese”?» (11 giugno 1960). 1960 Raccoglie la trilogia araldica nel volume dei Nostri antenati, accompagnandola con un’importante introduzione. Appare, sul «Menabò» numero 2, il saggio Il mare dell’oggettività. 1961 La sua notorietà va sempre più consolidandosi. Di fronte al moltiplicarsi delle offerte, appare combattuto fra disponibilità curiosa ed esigenza di concentrazione: «Da un po’ di tempo, le richieste di collaborazioni da tutte le parti - quotidiani, settimanali, cinema, teatro, radio, televisione -, richieste una più allettante dell’altra come compenso e risonanza, sono tante e così pressanti, che io - combattuto fra il timore di disperdermi in cose effimere, l’esempio di altri scrittori più versatili e fecondi che a momenti mi dà il desiderio d’imitarli ma poi invece finisce per ridarmi il piacere di star zitto pur di non assomigliare a loro, il desiderio di raccogliermi per pensare al “libro” e nello stesso tempo il sospetto che solo mettendosi a scrivere qualunque cosa anche “alla giornata” si finisce per scrivere ciò che rimane - insomma, succede che non scrivo né per i giornali, né per le occasioni esterne né per me stesso» (lettera a Emilio Cecchi, 3 novembre). Tra le proposte rifiutate, quella del « Corriere della sera». Raccoglie le cronache e le impressioni del suo viaggio negli Stati Uniti in un libro, Un ottimista in America, che però decide di non pubblicare quando è già in bozze. In settembre partecipa alla prima marcia della pace Perugia-Assisi, promossa da Aldo Capitini. 1962 In aprile a Parigi fa conoscenza con Esther Judith Singer, detta Chichita, traduttrice argentina che lavora presso organismi internazionali come l’Unesco e l’International Atomic Energy Agency (attività che proseguirà fino al 1984, in qualità di free lance). In questo periodo Calvino si dice affetto da «dromomania»: si sposta di continuo fra Roma (dove ha un pied-à-terre), Torino, Parigi e San Remo. «I liguri sono di due categorie: quelli attaccati ai propri luoghi come patelle allo scoglio che non riusciresti mai a spostarli; e quelli che per casa hanno il mondo e dovunque siano si trovano come a casa loro. Ma anche i secondi, e io sono dei secondi [...] tornano regolarmente a casa, restano attaccati al loro paese non meno dei primi» [Bo 60]. Inizia con il quotidiano milanese «Il Giorno» una collaborazione sporadica che si protrarrà per diversi anni. Sul n. 5 del «Menabò» vede la luce il saggio La sfida al labirinto, sul numero 1 di «Questo e altro» il racconto La strada di San Giovanni. 1963 É l’anno in cui prende forma in Italia il movimento della cosiddetta neoavanguardia; Calvino, pur senza condividerne le istanze, ne segue gli sviluppi con interesse. Dell’attenzione e della distanza di Calvino verso le posizioni del Gruppo ‘63 è significativo documento la polemica con Angelo Guglielmi seguita alla pubblicazione della Sfida al labirinto. Pubblica nella collana «Libri per ragazzi» la raccolta Marcovaldo ovvero Le stagioni in città. Illustrano il volume (cosa di cui Calvino si dichiarerà sempre fiero) 23 tavole di Sergio Tofano. Escono La giornata d’uno scrutatore e l’edizione in volume autonomo della Speculazione edilizia. Compie lunghi soggiorni in Francia. 1964 Il 19 febbraio a L’Avana sposa Chichita. «Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza. Non potrei vivere senza una donna al mio fianco. Sono solo un pezzo d’un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante» [RdM 80]. Il viaggio a Cuba gli dà l’occasione di visitare i luoghi natali e la casa dove abitavano i genitori. Fra i vari incontri, un colloquio personale con Ernesto «Che» Guevara. Dopo l’estate si stabilisce con la moglie a Roma, in un appartamento in via di Monte Brianzo. La famiglia comprende anche Marcelo, il figlio che Chichita ha avuto sedici anni prima dal marito precedente. Ogni due settimane si reca a Torino per le riunioni einaudiane e per sbrigare la corrispondenza. Appare sul «Menabò» numero 7 il saggio L’antitesi operaia, che avrà scarsa eco. Nella raccolta Una pietra sopra (1980) Calvino lo presenterà come «un tentativo di inserire nello sviluppo del mio discorso (quello dei miei precedenti saggi sul «Menabò») una ricognizione delle diverse valutazioni del ruolo storico della classe operaia e in sostanza di tutta la problematica della sinistra di quegli anni [...] forse l’ultimo mio tentativo di comporre gli elementi più diversi in un disegno unitario e armonico». Ripubblica con una fondamentale prefazione Il sentiero dei nidi di ragno. Escono sul «Caffè» quattro cosmicomiche. 1965 Nasce a Roma la figlia Giovanna. «Fare l’esperienza della paternità per la prima volta dopo i quarant’anni dà un grande senso di pienezza, ed è oltretutto un inaspettato divertimento» (lettera del 24 novembre a Hans Magnus Enzensberger). Pubblica Le Cosmicomiche. Con lo pseudonimo Tonio Cavilla, cura un’edizione ridotta e commentata del Barone rampante nella collana «Letture per la scuola media». Esce il dittico La nuvola di smog e La formica argentina (in precedenza edite nei Racconti). Interviene con due articoli («Rinascita», 30 gennaio e «Il Giorno», 3 febbraio) nel dibattito sul nuovo italiano «tecnologico», aperto da Pier Paolo Pasolini. 1966 Il 12 febbraio muore Vittorini. «É difficile associare l’idea della morte - e fino a ieri quella della malattia - alla figura di Vittorini. Le immagini della negatività esistenziale, fondamentali per tanta parte della letteratura contemporanea, non erano le sue: Elio era sempre alla ricerca di nuove immagini di vita. E sapeva suscitarle negli altri» [Conf 66]. Un anno dopo, in un numero monografico del “Menabò” dedicato allo scrittore siciliano, pubblicherà l’ampio saggio Vittorini: progettazione e letteratura. Dopo la scomparsa di Vittorini la posizione di Calvino nei riguardi dell’attualità muta: subentra, come dichiarerà in seguito, una presa di distanza, con un cambiamento di ritmo. «Una vocazione di topo di biblioteca che prima non avevo mai potuto seguire [...] adesso ha preso il sopravvento, con mia piena soddisfazione, devo dire. Non che sia diminuito il mio interesse per quello che succede, ma non sento più la spinta a esserci in mezzo in prima persona. É soprattutto per via del fatto che non sono più giovane, si capisce. Lo stendhalismo, che era stata la filosofia pratica della mia giovinezza, a un certo punto è finito. Forse è solo un processo del metabolismo, una cosa che viene con l’età, ero stato giovane a lungo, forse troppo, tutt’a un tratto ho sentito che doveva cominciare la vecchiaia, sì proprio la vecchiaia, sperando magari d’allungare la vecchiaia cominciandola prima» [Cam 73]. La presa di distanza non è però una scontrosa chiusura all’esterno. Nel settembre invia a un editore ni glese un contributo al volume Authors take sides on Vietnam («In un mondo in cui nessuno può essere contento di se stesso o in pace con la propria coscienza, in cui nessuna nazione o istituzione può pretendere d’incarnare un’idea universale e neppure soltanto la propria verità particolare, la presenza della gente del Vietnam è la sola che dia luce»). 1967 In luglio si trasferisce con la famiglia a Parigi, in una villetta sita in Square de Châtillon, col proposito di restarvi cinque anni. Vi abiterà invece fino al 1980, compiendo peraltro frequenti viaggi in Italia, dove trascorre anche le estati. Finisce di tradurre I fiori blu di Raymond Queneau. Alla poliedrica attività del bizzarro scrittore francese rinviano vari aspetti del Calvino maturo: il gusto della comicità estrosa e paradossale (che non sempre s’identifica con il divertissement), l’ interesse per la scienza e per il gioco combinatorio, un’idea artigianale della letteratura in cui convivono sperimentalismo e classicità. Da una conferenza sul tema Cibernetica e fantasmi ricava il saggio Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, che pubblica su «Nuova Corrente». Sulla stessa rivista e su «Rendiconti» escono rispettivamente La cariocinesi e Il sangue, il mare, entrambi poi raccolti nel volume Ti con zero. 1968 Il nuovo interesse per la semiologia è testimoniato dalla partecipazione ai due seminari di Barthes su Sarrasine di Balzac all’Ecole des Hautes Etudes della Sorbona, e a una settimana di studi semiotici all’Università di Urbino, caratterizzata dall’intervento di Greimas. A Parigi frequenta Queneau, che lo presenterà ad altri membri dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, emanazione del Collège de Pataphysique di Alfred Jarry), fra i quali Georges Perec, Franois Le Lionnais, Jacques Roubaud, Paul Fournel. Per il resto, nella capitale francese i suoi contatti sociali e culturali non saranno particolarmente intensi: «Forse io non ho la dote di stabilire dei rapporti personali con i luoghi, resto sempre un po’ a mezz’aria, sto nelle città con un piede solo. La mia scrivania è un po’ come un’isola: potrebbe essere qui come in un altro paese [...] facendo lo scrittore una parte del mio lavoro la posso svolgere in solitudine, non importa dove, in una casa isolata in mezzo alla campagna, o in un’isola, e questa casa di campagna io ce l’ho nel bel mezzo di Parigi. E così, mentre la vita di relazione connessa col mio lavoro si svolge tutta in Italia, qui ci vengo quando posso o devo stare solo» [EP 74]. Come già nei riguardi dei movimenti giovanili di protesta dei primi anni Sessanta, segue la contestazione studentesca con interesse, ma senza condividerne atteggiamenti e ideologia. Il suo «contributo al rimescolio di idee di questi anni» [Cam 73] è legato piuttosto alla riflessione sul tema dell’utopia. Matura così la proposta di una rilettura di Fourier, che si concreta nel ‘71 con la pubblicazione di un’originale antologia di scritti: «É dell’indice del volume che sono particolarmente fiero: il mio vero saggio su Fourier è quello» [Four 71]. Rifiuta il premio Viareggio per Ti con zero (« Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio premio perché non mi sento di continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome fra vincitori stop. Credete mia amicizia»); accetterà invece due anni dopo il premio Asti, nel ‘72 il premio Feltrinelli e quello dell’Accademia dei Lincei, poi quello della Città di Nizza, il Mondello e altri. Pubblica presso il Club degli Editori di Milano La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. 1969 Nel volume Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York di Franco Maria Ricci appare Il castello dei destini incrociati. Prepara la seconda edizione di Ultimo viene il corvo. Sul «Caffè» appare La decapitazione dei capi. Cura per l’editore Zanichelli, in collaborazione con Giambattista Salinari, La lettura. Antologia per la scuola media. Di concezione interamente calviniana sono i capitoli Osservare e Descrivere, nei quali si propone un’idea di descrizione come esperienza conoscitiva, «problema da risolvere» («Descrivere vuol dire tentare delle approssimazioni che ci portano sempre un po’ più vicino a quello che vogliamo dire, e nello stesso temp o ci lasciano sempre un po’ insoddisfatti, per cui dobbiamo continuamente rimetterci ad osservare e a cercare come esprimere meglio quel che abbiamo osservato» [LET 69]). 1970 Esce il volume di racconti Gli amori difficili. Rielaborando il materiale di un ciclo di trasmissioni radiofoniche, pubblica una scelta di brani del poema ariostesco, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Durante gli anni Settanta torna più volte a occuparsi di fiaba, scrivendo tra l’altro prefazioni a nuove edizioni di celebri raccolte (Lanza, Basile, Grimm, Perrault, Pitré). 1971 Dirige la collana einaudiana «Centopagine». Fra gli autori pubblicati si conteranno, oltre ai classici europei a lui più cari (Stevenson, Conrad, Stendhal, Hoffmann, un certo Balzac, un certo Tolstoj), svariati minori italiani a cavallo fra Otto e Novecento. Nella miscellanea Adelphiana appare Dall’opaco. 1972 Pubblica Le città invisibili. Per qualche tempo, ragiona con alcuni amici (Guido Neri, Carlo Ginzburg e soprattutto Gianni Celati) sulla possibilità di dar vita a nuove riviste. Particolarmente viva in lui è l’esigenza di rivolgersi a un pubblico nuovo, che non ha ancora pensato al posto che può avere la letteratura nei bisogni quotidiani: di qui il progetto, mai realizzato, di una rivista a larga tiratura, che si vende nelle edicole, una specie di “Linus”, ma non a fumetti, romanzi a puntate con molte illustrazioni, un’impaginazione attraente. E molte rubriche che esemplificano strategie narrative, tipi di personaggi, modi di lettura, istituzioni stilistiche, funzioni poetico-antropologiche, ma tutto attraverso cose divertenti da leggere. Insomma un tipo di ricerca fatto con gli strumenti della divulgazione» [Cam 73]. In novembre partecipa per la prima volta a un déjeuner dell’Oulipo, di cui diventerà membre étranger nel febbraio successivo. Sempre in novembre esce, sul primo numero dell’edizione italiana di «Playboy», Il nome, il naso. 1973 Appare Il castello dei destini incrociati. Rispondendo a un’inchiesta di «Nuovi Argomenti» sull’estremismo, dichiara: «Credo giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione, e che proprio questa gravità richieda spirito analitico, senso della realtà, responsabilità delle conseguenze di ogni azione parola pensiero, doti insomma non estremiste per definizione» [NA 73]. Viene ultimata la costruzione della villa di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia, dove Calvino trascorrerà d’ora in poi tutte le estati. Fra gli amici più assidui Carlo Fruttero e Pietro Citati. 1974 Inizia a scrivere sul «Corriere della sera» racconti, resoconti di viaggio e una nutrita serie d’interventi sulla realtà politica e sociale del paese. La collaborazione durerà sino al 1979; tra i primi contributi, il 25 aprile, Ricordo di una battaglia. Nello stesso anno un altro scritto d’indole autobiografica, L’Autobiografia di uno spettatore, appare come prefazione a Quattro film di Federico Fellini. Scrive per la serie radiofonica « Le interviste impossibili» i dialoghi Montezuma e L’uomo di Neanderthal. 1975 Il primo di agosto si apre sul «Corriere della sera», con La corsa delle giraffe”, la serie dei racconti del signor Palomar. Ripubblica nella « Biblioteca Giovani di Einaudi» La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. 1976 Tiene conferenze in varie università degli Stati Uniti. I viaggi in Messico e in Giappone gli danno spunto per un gruppo di articoli sul Corriere. Verranno poi ripresi per Collezione di sabbia, con l’aggiunta di materiale inedito (tra cui gli appunti relativi al soggiorno in Iran dell’anno precedente). Riceve a Vienna lo Staatpreis. 1977 Esce su «Paragone. Letteratura» La poubelle agrée. Dà alle stampe La penna in prima persona (Per i disegni di Saul Steinberg). Lo scritto si inserisce in una serie di brevi lavori, spesso in bilico tra saggio e racconto, ispirati alle arti figurative (in una sorta di libero confronto con opere di Fausto Melotti, Giulio Paolini, Lucio Del Pezzo, Cesare Peverelli, Valerio Adami, Alberto Magnelli, Luigi Serafini, Domenico Gnoli, Giorgio De Chirico, Enrico Baj, Arakawa...). 1978 All’età di 92 anni muore la madre. La villa «Meridiana» sarà venduta qualche tempo dopo. 1979 Pubblica il romanzo Se una notte d ’inverno un viaggiatore. Con l’articolo Sono stato stalinista anch’io? (16-17 dicembre) inizia una fitta collaborazione alla « Repubblica» in cui i racconti si alternano alla riflessione su libri, mostre e altri fatti di cultura. Sono quasi destinati a sparire invece, rispetto a quanto era avvenuto con il Corriere, gli articoli di tema sociale e polit ico (fra le eccezioni l’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, 15 marzo 1980). 1980 Si trasferisce a Roma, in piazza Campo Marzio, in una casa con terrazza a un passo dal Pantheon. Raccoglie, nel volume Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società («Gli struzzi»), la parte più significativa dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi. 1981 Riceve la Legion d’onore. Cura l’ampia raccolta di scritti di Queneau Segni, cifre e lettere. L’anno successivo preparerà una Piccola guida alla piccola cosmogonia, per la traduzione di Sergio Solmi della Piccola cosmogonia portatile. Appare, su «Il cavallo di Troia», Le porte di Bagdad, azione scenica per i bozzetti di Toti Scialoja. Su richiesta di Adam Pollock (che ogni estate organizza a Batignano spettacoli d’opera del Seicento e del Settecento) compone un testo a carattere combinatorio, con funzione di cornice, per l’incompiuto Singspiel di Mozart Zaide. Presiede a Venezia la giuria della Ventinovesima Mostra Internazionale del Cinema, che premia, oltre ad Anni di piombo di Margarethe von Trotta, Sogni d’oro di Nanni Moretti. 1982 Al Teatro alla Scala di Milano viene rappresentata La Vera Storia, opera in due atti scritta da Berio e Calvino. Di quest’anno è anche l’azione musicale Duo, primo nucleo del futuro Un re in ascolto, sempre composta in collaborazione con Berio. Su «FMR» pubblica Sapore sapere. 1983 Viene nominato per un mese «directeur d’études» all’Ecole des Hautes Etudes. Il 25 gennaio tiene una lezione su Science et métaphore chez Galilée al seminario di Algirdas Julien Greirnas. Legge in inglese alla New York University (« James Lecture») la conferenza Mondo scritto e mondo non scritto. Esce il volume Palomar. 1984 In seguito alla grave crisi aziendale dell’Einaudi decide di accettare l’offerta dell’editore milanese Garzanti, presso il quale appaiono Collezione di sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove. Compie in aprile un breve viaggio in Argentina. In settembre è a Siviglia, dove è stato invitato insieme con Borges a un convegno sulla letteratura fantastica. Viene rappresentato a Salisburgo Un re in ascolto. 1985 Traduce La canzone del polistirene di Queneau (il testo appare, come strenna fuori commercio della Montedison, presso Scheiwiller). Durante l’estate lavora a un ciclo di sei conferenze (Six Memos for the Next Millennium), che avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard (Norton Lectures) nell’anno accademico 1985-86. Colto da ictus il 6 settembre a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato all’ospedale Santa Maria della Scala di Siena. Muore in seguito a emorragia cerebrale nella notte fra il 18 e il 19. Questa cronologia è stata curata da Mario Barenghi per gli anni 1923-1955, da Bruno Falcetto per gli anni 1956-1985. Si è fatto ricorso alle seguenti abbreviazioni: Accr 60 = Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Sodalizio del Libro, Venezia 1960. AS 74 = Autobiografia di uno spettatore, prefazione a Federico Fellini, Quattro film, Einaudi, Torino 1974; poi in I.C., La strada di San Giovanni, Mondadori, Milano 1990. Bo 60 = Il comunista dimezzato , intervista a Carlo Bo, «L’Europeo», 28 agosto 1960. Cam 73 = Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore, conversazioni critiche con G. Bassani, I. Calvino, C. Cassola, A. Moravia, O. Ottieri, P. P. Pasolini, V. Pratolini, R. Roversi, P. Volponi, Garzanti, Milano 1973. Conf 66 = «Il Confronto», 2, 10, luglio-settembre 1966. D’Er 79 = Italo Calvino, intervista a Marco d’Eramo, «mondoperaio», XXXII, 6, giugno 1979, pagine 133-138. DeM 59 = Pavese fu il mio lettore ideale, intervista a Roberto De Monticelli, «Il Giorno», 18 agosto 1959. EP 74 = Eremita a Parigi, Edizioni Pantarei, Lugano 1974. Four 71 = Calvino parla di Fourier, «Libri - Paese sera», 28 maggio 1971. GAD 62 = Risposta all’inchiesta La generazione degli anni difficili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini, Renato Palmieri, Laterza, Bari 1962. LET 69 = Descrizioni di oggetti, in La lettura. Antologia per la scuola media , a cura di Italo Calvino e Giambattista Salinari, con la collaborazione di Maria D’Angiolini, Melina Insolera, Mietta Penati, Isa Violante, volume 1, Zanichelli, Bologna 1969. Men 73 = Presentazione de Il Menabò (1959-1967), a cura di Donatella Fiaccarini Marchi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973. NA 73 = Quattro risposte sull’estremismo, «Nuovi Argomenti», n.s., 31, gennaio-febbraio 1973. Nasc 84 = Sono un po’ stanco di essere Calvino, intervista a Giulio Nascimbeni, «Corriere della sera», 5 dicembre 1984. Par 60 = Risposta al questionario di un periodico milanese, «Il paradosso», rivista di cultura giovanile, 5, 23-24, settembre-dicembre 1960, pagine 11-18. Pes 83 = Il gusto dei contemporanei. Quaderno numero tre. Italo Calvino, Banca Popolare Pesarese, Pesaro 1987. RdM 80 = Se una sera d’autunno uno scrittore, intervista a Ludovica Ripa di Meana, «L’Europeo», XXXVI, 47,17 novembre 1980, pagine 84- 91. Rep 80 = Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze, «la Repubblica», 13 dicembre 1980. Rep 84 = L’irresistibile satira di un poeta stra lunato , «la Repubblica», 6 marzo 1984. Scalf 85 = Quando avevamo diciotto anni..., «la Repubblica», 20 settembre 1985. Scalf 89 = Autoritratto di un artista da giovane, «la Repubblica Mercurio », 11 marzo 1989. Spr 86 = Paolo Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Garzanti, Milano 1986. Bibliografia essenziale Monografie G. Pescio Bottino, “Italo Calvino”, La Nuova Italia, Firenze 1967 (1976 (2)). G. Bonura, “Invito alla lettura di Italo Calvino”, Mursia, Milano 1972 (nuova edizione aggiornata, ivi 1985). C. Calligaris, “Italo Calvino”, Mursia, Milano 1973 (nuova edizione aggiornata a cura di G. P. Bernasconi, ivi 1985). F. Bernardini Napoletano, “I segni nuovi di Italo Calvino. Da Le Cosmicomiche a Le città invisibili”, Bulzoni, Roma 1977. S. M. Adler, “Calvino. The writer as fablemaker”, José Porrùa Turanzas, Potomac 1979. J. 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IL VISCONTE DIMEZZATO I C’era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome Curzio. Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi traversando ’laria opaca e ferma. - Perché tante cicogne? - chiese Medardo a Curzio, - dove volano? Mio zio era nuovo arrivato, essendosi arruolato appena allora, per compiacere certi duchi nostri vicini impegnati in quella guerra. S’era munito d’un cavallo e d’uno scudiero all’ultimo castello in mano cristiana, e andava a presentarsi al quartiere imperiale. - Volano ai campi di battaglia, - disse lo scudiero, tetro. - Ci accompagneranno per tutta la strada. Il visconte Medardo aveva appreso che in quei paesi il volo delle cicogne è segno di fortuna; e voleva mostrarsi lieto di vederle. Ma si sentiva suo malgrado, inquieto. - Cosa mai può richiamare i trampolieri sui campi di battaglia, Curzio? chiese. - Anch’essi mangiano carne umana, ormai, - rispose lo scudiero, - da quando la carestia ha inaridito le campagne e la siccità ha seccato i fiumi. Dove ci son cadaveri, le cicogne e i fenicotteri e le gru hanno sostituto i corvi e gli avvoltoi. Mio zio era allora nella prima giovinezza: l’età in cui i sentimenti stanno tutti in uno slancio confuso, non distinti ancora in male e in bene; l’età in cui ogni nuova esperienza, anche macabra e inumana, è tutta trepida e calda d’amore per la vita. - E i corvi? E gli avvoltoi? - chiese. - E gli altri uccelli rapaci? dove sono andati? - Era pallido, ma i suoi occhi scintillavano. Lo scudiero era un soldato nerastro, baffuto, che non alzava mai lo sguardo. - A furia di mangiare i morti di peste, la peste ha preso anche loro, - e indicò con la lancia certi neri cespugli, che a uno sguardo più attento si rivelavano non di frasche, ma di penne e stecchite zampe di rapace. - Ecco che non si sa chi sia morto prima, se l’uccello o l’uomo, e chi si sia buttato sull’altro per sbranarlo, - disse Curzio. Per sfuggire alla peste che sterminava le popolazioni, famiglie intere s’erano incamminate per le campagne, e l’agonia le aveva colte lì. In groppi di carcasse, sparsi per la brulla pianura, si vedevano corpi d’uomo e donna, nudi, sfigurati dai bubboni e, cosa dapprincipio inspiegabile, pennuti: come se da quelle macilente braccia e costole fossero cresciute nere penne e ali. Erano le carogne d’avvoltoio mischiate ai loro resti. Già il terreno s’andava disseminando dei segni d’avvenute battaglie. L’andatura s’era fatta più lenta perché i due cavalli s’impuntavano in scarti e impennate. - Cosa prende ai nostri cavalli? - chiese Medardo allo scudiero. - Signore, - lui rispose, - niente spiace ai cavalli quanto l’odore delle proprie budella. La fascia di pianura che stavano traversando era infatti cosparsa di carogne equine, talune supine, con gli zoccoli rivolti al cielo, altre prone, col muso infossato nella terra. - Perché tanti cavalli caduti in questo punto, Curzio? -`chiese Medardo. - Quando il cavallo sente d’essere sventrato, - spiegò Curzio, - cerca di trattenere le sue viscere. Alcuni posano la pancia a terra, altri si rovesciano sul dorso per non farle penzolare. Ma la morte non tarda a coglierli ugualmente. - Dunque sono soprattutto i cavalli a morire, in questa guerra? - Le scimitarre turche sembrano fatte apposta per fendere d’un colpo i loro ventri. Più avanti vedrà i corpi degli uomini. Prima tocca ai cavalli e dopo ai cavalieri. Ma ecco, il campo è là. Ai margini dell’orizzonte s’alzavano i pinnacoli delle tende più alte, e gli stendardi dell’esercito imperiale, e il fumo. Galoppando avanti, videro che i caduti dell’ultima battaglia erano stati quasi tutti rimossi e seppelliti. Solo se ne scopriva qualche sparso membro, specialmente dita, posato sulle stoppie. - Ogni tanto c’è un dito che ci indica la strada. - disse zio Medardo. - Che vuol dire? - Dio li perdoni: i vivi mozzano le dita ai morti per portar via gli anelli. - Chi va là? - disse una sentinella dal cappotto ricoperto di muffe e muschi come la corteccia d’un albero esposto a tramontana. - Viva la sacra corona imperiale! - grido Curzio. - E che il sultano muoia! - replicò la sentinella. - Ma, vi prego, arrivati al comando dite loro quando si decidono a mandarmi il camb io, che ormai metto radici! I cavalli ora correvano per sfuggire alla nuvola di mosche che circondava il campo ronzando sulle montagne d’escrementi. - Di molti valorosi, - osservò Curzio, - lo sterco d’ieri è ancora in terra, e loro son già in cielo, - e si segnò. All’ingresso dell’accampamento, fiancheggiarono una fila di baldacchini, sotto ai quali donne ricce e spesse con lunghe vesti di broccato e i seni nudi, li accolsero con urla e risatacce. - Sono i padiglioni delle cortigiane, - disse Curzio. - Nessun altro esercito ne ha di così belle. Mio zio già cavalcava col viso voltato indietro, a guardar loro. - Attento, signore, - aggiunse lo scudiero, - sono tanto sozze e impestate che non le vorrebbero neppure i turchi come preda d’un saccheggio. Ormai non son più soltanto cariche di piattole, cimici, e zecche, ma indosso a loro fanno il nido gli scorpioni e i ramarri. Passarono davanti alle batterie da campo. A sera, gli artiglieri facevano cuocere il loro rancio d’acqua e rape sul bronzo delle spingarde e dei cannoni, arroventato dal gran sparare della giornata. Arrivavano dei carri pieni di terra e gli artiglieri la passavano al setaccio. - Già scarseggia la polvere da sparo, - spiegò Curzio, - ma la terra dove si son svolte le battaglie n’è tanto impregnata che, volendo, si può recuperare qualche carica. Dopo venivano gli stalli della cavalleria, dove, tra le mosche, i veterinari sempre all’opera rabberciavano la pelle dei quadrupedi con cuciture, cinti ed empiastri di catrame bollente, tutti nitrendo e scalciando, anche i dottori. Gli attendamenti delle fanterie seguitavano poi per un gran tratto. Era il tramonto, e davanti a ogni tenda i soldati erano seduti coi piedi scalzi immersi in tinozze d’acqua tiepida. Soliti come erano a improvvisi allarmi notte e giorno, anche nell’ora del pediluvio tenevano l’elmo in testa e la picca stretta in pugno. In tende più alte e drappeggiate a chiosco, gli ufficiali s’incipriavano le ascelle e si facevano vento con ventagli di pizzo. - Non lo fanno per effeminatezza, disse Curzio, - anzi: vogliono mostrare di trovarsi completamente a loro agio nelle asprezze della vita militare. Il visconte di Terralba fu subito introdotto alla presenza dell’imperatore. Nel suo padiglione tutto arazzi e trofei, il sovrano studiava sulle carte geografiche i piani di future battaglie. I tavoli erano ingombri di carte srotolate e ’l imperatore vi piantava degli spilli, traendoli da un cuscinetto puntaspilli che uno dei marescialli gli porgeva. Le carte erano ormai tanto cariche di spilli che non ci si capiva più niente, e per leggervi qualcosa dovevano togliere gli spilli e poi rimetterceli. In questo togli e metti, per aver libere le mani, sia l’imperatore che i marescialli tenevano gli spilli tra le labbra e potevano parlare solo a mugolii. Alla vista del giovane che s’inchinava davanti a lui, il sovrano emise un mugolìo interrogativo e si cavò tosto gli spilli dalla bocca. - Un cavaliere appena giunto dall’Italia, maestà - lo presentarono, - il visconte di Terralba, d’una delle più nobili famiglie del Genovesato. - Sia nominato subito tenente. Mio zio batté gli speroni scattando sull’attenti, mentre l’imperatore faceva un ampio gesto regale e tutte le carte geografiche s’avvolgevano su se stesse e rotolavano giù. Quella notte, benché stanco, Medardo tardò a dormire. Camminava avanti e indietro vicino alla sua tenda e sentiva i richiami delle sentinelle, i cavalli nitrire e il rotto parlar nel sonno di qualche soldato. Guardava in cielo le stelle di Boemia, pensava al nuovo grado, alla battaglia dell’indomani, e alla patria lontana, al suo fruscìo di canne nei torrenti. In cuore non aveva né nostalgia, né dubbio, né apprensione. Ancora per lui le cose erano intere e indiscutibili, e tale era lui stesso. Se avesse potuto prevedere la terribile sorte che l’attendeva, forse avrebbe trovato anch’essa naturale e compiuta, pur in tutto il suo dolore. Tendeva lo sguardo al margine dell’orizzonte notturno, dove sapeva essere il campo dei nemici, e a braccia conserte si stringeva con le mani le spalle, contento d’aver certezza insieme di realtà lontane e diverse, e della propria presenza in mezzo a esse. Sentiva il sangue di quella guerra crudele, sparso per mille rivi sulla terra, giungere fino a lui; e se ne lasciava lambire, senza provare accanimento né pietà. II La battaglia cominciò puntualmente alle dieci del mattino. Dall’alto della sella, il luogotenente Medardo contemplava ’lampiezza dello schieramento cristiano, pronto per l’attacco, e protendeva il viso al vento di Boemia, che sollevava odor di pula come da un’aia polverosa. - No, non si volti indietro, signore, - esclamò Curzio che, col grado di sergente, era al suo fianco. E, per giustificare la frase perentoria, aggiunse, piano: - Dicono porti male, prima del combattimento. In realtà, non voleva che il visconte si scorasse, avvedendosi che l’esercito cristiano consisteva quasi soltanto in quella fila schierata, e che le forze di rincalzo erano appena qualche squadra di fanti male in gamba. Ma mio zio guardava lontano, alla nuvola che s’avvicinava all’orizzonte, e pensava: Ecco, quella nuvola è i turchi, i veri turchi, e questi al mio fianco che sputano tabacco sono i veterani della cristianità, e questa tromba che ora suona è l’attacco, il primo attacco della mia vita, e questo boato e scuotimento, il bolide che s’insacca in terra guardato con pigra noia dai veterani e dai cavalli è una palla di cannone, la prima palla nemica che io incontro. Così non venga il giorno in cui dovrò dire: “E questa è l’ultima”. A spada sguainata, si trovò a galoppare per la piana, gli occhi allo stendardo imperiale che spariva e riappariva tra il fumo, mentre le cannonate amiche ruotavano nel cielo sopra il suo capo, e le nemiche già aprivano brecce nella fronte cristiana e improvvisi ombrelli di terriccio. Pensava: Vedrò i turchi! Vedrò i turchi! Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e vedere se sono proprio come ci s’immagina. Li vide, i turchi. Ne arrivavano due proprio di lì. Coi cavalli intabarrati, il piccolo scudo tondo, di cuoio, veste a righe nere e zafferano. E il turbante, la faccia color ocra e i baffi come uno che a Terralba era chiamato Miché il turco. Uno dei due turchi morì e l’altro uccise un altro. Ma ne stavano arrivando chissà quanti e c’era il combattimento all’arma bianca. Visti due turchi era come averli visti tutti. Erano militari pure loro, e tutte quelle robe erano dotazione dell’esercito. Le facce erano cotte e cocciute come i contadini. Medardo, per quel che era vederli, ormai li aveva visti; poteva tornarsene da noi a Terralba in tempo per il passo delle quaglie. Invece aveva fatto la ferma per la guerra. Così correva, scansando i colpi delle scimitarre, finché non trovò un turco basso, a piedi, e l’ammazzò. Visto come si faceva, andò a cercarne uno alto a cavallo, e fece male. Perché erano i piccoli, i dannosi. Andavano fin sotto i cavalli, con quelle scimitarre, e li squartavano. Il cavallo di Medardo si fermò a gambe larghe. - Che fai? - disse il visconte. Curzio sopraggiunse indicando in basso: - Guardi un po’ lì -. Aveva tutte le coratelle di già in terra. Il povero animale guardò in su, al padrone, poi abbassò il capo come volesse brucare gli intestini, ma era solo un sfoggio d’eroismo: svenne e poi morì. Medardo di Terralba era appiedato. - Prenda il mio cavallo, tenente, - disse Curzio, ma non riuscì a fermarlo perché cadde di sella, ferito da una freccia turca, e il cavallo corse via. - Curzio! - gridò il visconte e s’accostò allo scudiero che gemeva in terra. - Non pensi a me, signore, - fece lo scudiero. - Speriamo solo che all’ospedale ci sia ancora della grappa. Ne tocca una scodella a ogni ferito. Mio zio Medardo si gettò nella mischia. Le sorti della battaglia erano incerte. In quella confusione, pareva che a vincere fossero i cristiani. Di certo, avevano rotto lo schieramento turco e aggirato certe posizioni. Mio zio, con altri valorosi, s’era spinto fin sotto le batterie nemiche, e i turchi le spostavano, per tenere i cristiani sotto il fuoco. Due artiglieri turchi facevano girare un cannone a ruote. Lenti com’erano, barbuti, intabarrati fino ai piedi, sembravano due astronomi. Mio zio disse: - Adesso arrivo lì e li aggiusto io -. Entusiasta e inesperto, non sapeva che ai cannoni ci s’avvicina solo di fianco o dalla parte della culatta. Lui saltò di fronte alla bocca da fuoco, a spada sguainata, e pensava di fare paura a quei due astronomi. Invece gli spararono una cannonata in pieno petto. Medardo di Terralba saltò in aria. Alla sera, scesa la tregua, due carri andavano raccogliendo i corpi dei cristiani per il campo di battaglia. Uno era per i feriti e l’altro per i morti. La prima scelta si faceva lì sul campo. - Questo lo prendo io, quello lo prendi tu -. Dove sembrava ci fosse ancora qualcosa da salvare, lo mettevano sul carro dei feriti; dove erano solo pezzi e brani andava sul carro dei morti, per aver sepoltura benedetta; quello che non era più neanche un cadavere era lasciato in pasto alle cicogne. In quei giorni, viste le perdite crescenti, s’era data la disposizione che nei feriti era meglio abbondare. Così i resti di Medardo furono considerati un ferito e messi su quel carro. La seconda scelta si faceva all’ospedale. Dopo le battaglie l’ospedale da campo offriva una vista ancor più atroce delle battaglie stesse. In terra c’era la lunga fila delle barelle con dentro quegli sventurati, e tutt’intorno imperversavano i dottori, strappandosi di mano pinze, seghe, aghi, arti amputati e gomitoli di spago. Morto per morto, a ogni cadavere facevan di tutto per farlo tornar vivo. Sega qui, cuci là, tampona falle, rovesciavano le vene come guanti e le rimettevano al suo posto, con dentro più spago che sangue, ma rattoppate e chiuse. Quando un paziente moriva, tutto quello che aveva di buono serviva a racconciare le membra di un altro, e così via. La cosa che imbrogliava di più erano gli intestini: una volta srotolati non si sapeva più come rimetterli. Tirato via il lenzuolo, il corpo del visconte apparve orrendamente mutilato. Gli mancava un braccio e una gamba, non solo, ma tutto quel che c’era di torace e d’addome tra quel braccio e quella gamba era stato portato via, polverizzato da quella cannonata presa in pieno. Del capo restavano un occhio, un orecchio, una guancia, mezzo naso, mezza bocca, mezzo mento e mezza fronte: dell’altra metà del capo c’era più solo una pappetta. A farla breve, se n’era salvato solo metà, la parte destra, che peraltro era perfettamente conservata, senza neanche una scalfittura, escluso quell’enorme squarcio che l’aveva separata dalla parte sinistra andata in bricioli. I medici: tutti contenti. - Uh, che bel caso! - Se non moriva nel frattempo, potevano provare anche a salvarlo. E gli si misero d’attorno, mentre i poveri soldati con una freccia in un braccio morivano di setticemia. Cucirono, applicarono, impastarono: chi lo sa cosa fecero. Fatto sta che l’indomani mio zio aperse l’unico occhio la mezza bocca, dilatò la narice e respirò. La forte fibra dei Terralba aveva resistito. Adesso era vivo e dimezzato. III Quando mio zio fece ritorno a Terralba, io avevo sette o otto anni. Fu di sera, già a buio; era ottobre; il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale. Ogni nave che si vedeva allora, si diceva: - Questo è Mastro Medardo che ritorna, - non perché fossimo impazienti che tornasse, ma tanto per aver qualcosa da aspettare. Quella volta avevamo indovinato: ne fummo certi alla sera, quando un giovane chiamato Fiorfiero, pigiando l’uva in cima al tino, gridò: - Oh, laggiù; era quasi buio e vedemmo in fondovalle una fila di torce accendersi per la mulattiera; e poi, quando passò sul ponte, distinguemmo una lettiga trasportata a braccia. Non c’era dubbio: era il visconte che tornava dalla guerra. La voce si sparse per le vallate; nella corte del castello s’aggruppò gente: familiari, famigli, vendemmiatori, pastori, gente d’arme. Mancava solo il padre di Medardo, il vecchio visconte Aiolfo, mio nonno, che da tempo non scendeva più neanche nella corte. Stanco delle faccende del mondo, aveva rinunciato alle prerogative del titolo a favore dell’unico suo figliolo maschio, prima ch’egli partisse per la guerra. Ora la sua passione per gli uccelli, che allevava dentro il castello in una grande voliera, s’era andata facendo più esclusiva: il vecchio s’era portato in quell’uccelliera anche il suo letto, e ci s’era rinchiuso, e non ne usciva né di giorno né di notte. Gli porgevano i pasti assieme al becchime pei volatili attraverso le inferriate dell’uccelliera, e Aiolfo divideva ogni cosa con quelle creature. E passava le ore accarezzando sul dorso i fagiani, le tortore, in attesa del ritorno dalla guerra di suo figlio. Nella corte del nostro castello io non avevo mai visto tanta gente: era passato il tempo, di cui ho solo sentito raccontare, delle feste e delle guerre tra vicini. E per la prima volta m’accorsi di come i muri e le torri fossero in rovina, e fangosa la corte, dove usavamo dare l’erba alle capre e riempire il truogolo ai maiali. Tutti, aspettando, discutevano di come il visconte Medardo sarebbe ritornato; da tempo era giunta la notizia di gravi ferite che egli aveva ricevute dai turchi ma ancora nessuno sapeva di preciso se fosse mutilato o infermo, o soltanto sfregiato dalle cicatrici: e ora l’aver visto la lettiga ci preparava al peggio. Ed ecco la lettiga veniva posata a terra, e in mezzo all’ombra nera si vide il brillìo d’una pupilla. La grande vecchia balia Sebastiana fece per avvicinarsi, ma da quell’ombra si levò una mano con un aspro gesto di diniego. Poi si vide il corpo nella lettiga agitarsi in uno sforzo angoloso e convulso e davanti ai nostri occhi Medardo di Terralba balzò in piedi, puntellandosi a una stampella. Un mantello nero col cappuccio gli scendeva dal capo fino a terra; dalla parte destra era buttato all’indietro scoprendo metà del viso e della persona stretta alla stampella, mentre sulla sinistra sembrava che tutto fosse nascosto e avvolto nei lembi e nelle pieghe di quell’ampio drappeggio. Stette a guardarci, noi in cerchio attorno a lui, senza che nessuno dicesse parola; ma forse con quel suo occhio fisso non ci guardava affatto, voleva soltanto allontanarci da sé. Un’alzata di vento venne su dal mare e un ramo rotto in cima a un fico mandò un gemito. Il mantello di mio zio ondeggiò, e il vento lo gonfiava, lo tendeva come una vela e si sarebbe detto che gli attraversasse il corpo, anzi, che questo corpo non ci fosse affatto, e il mantello fosse vuoto come quello d’un fantasma. Poi, guardando meglio, vedemmo che aderiva come a un’asta di bandiera, e quest’asta era la spalla, il braccio, il fianco, la gamba, tutto quello che di lui poggiava sulla gruccia: e il resto non c’era. Le capre osservavano il visconte col loro sguardo fisso e inespressivo, girate ognuna in una posizione diversa ma tutte serrate, con i dorsi disposti in uno strano disegno d’angoli retti. I maiali, più sensibili e pronti, strillarono e fuggirono urtandosi tra loro con le pance, e allora neppure noi potemmo più nascondere d’esser spaventati. - Figlio mio! - gridò la balia Sebastiana e alzò le braccia. - Meschinetto! Mio zio, contrariato d’aver destato in noi tale impressione, avanzò la punta della stampella sul terreno e con un movimento a compasso si spinse verso l’entrata del castello. Ma sui gradini del portone s’erano seduti a gambe incrociate i portatori della lettiga, tipacci mezzi nudi, con gli orecchini d’oro e il cranio raso su cui crescevano creste o code di capelli. Si rizzarono, e uno con la treccia, che sembrava il loro capo, disse - Noi aspettiamo il compenso, señor. - Quanto? - chiese Medardo, e si sarebbe detto che ridesse. L’uomo con la treccia disse: - Voi sapete qual è il prezzo per il trasporto di un uomo in lettiga... Mio zio si sfilò una borsa dalla cintola e la gettò tintinnante ai piedi del portatore. Costui la soppesò appena, ed esclamò: - Ma questo è molto meno della somma pattuita, señor! Medardo, mentre il vento gli sollevava il lembi del mantello, disse: - La metà -. Oltrepassò il portatore e spiccando piccoli balzi sul suo unico piede salì i gradini, entrò per la gran porta spalancata che dava nell’interno del castello, spinse a colpi di gruccia entrambi i pesanti battenti che si chiusero con fracasso, e ancora, poich’era rimasto aperto l’usciolo, lo sbatté, scomparendo ai nostri sguardi. Da dentro continuammo a sentire i tonfi alternati del piede e della gruccia, che muovevano nei corridoi verso l’ala del castello dov’erano i suoi alloggi privati, e anche là sbattere e inchiavardar di porte. Fermo dietro l’inferriata dell’uccelliera, lo attendeva suo padre. Medardo non era neppur passato a salutarlo: s’era chiuso nelle sue stanze solo, e non volle mostrarsi o rispondere neppure alla balia Sebastiana che restò a lungo a bussare e a compatirlo. La vecchia Sebastiana era una gran donna nerovestita e velata, con il viso rosa senza una ruga, tranne quella che quasi le nascondeva gli occhi; aveva dato il latte a tutti i giovani della famiglia Terralba, ed era andata a letto con tutti i più anziani, e aveva chiuso gli occhi a tutti i morti. Ora andava e tornava per le logge dall’uno all’altro dei due rinchiusi, e non sapeva come venire in loro aiuto. L’indomani, poiché Medardo continuava a non dar segno di vita, ci rimettemmo alla vendemmia, ma non c’era allegria, e nelle vigne non si parlava d’altro che della sua sorte, non perché ci stesse molto a cuore, ma perché l’argomento era attraente e oscuro. Solo la balia Sebastiana rimase nel castello, spiando con attenzione ogni rumore. Ma il vecchio Aiolfo, quasi prevedendo che il figlio sarebbe ritornato così triste e selvatico, aveva già da tempo addestrato uno dei suoi animali più cari, un’averla, a volare fino all’ala del castello in cui erano gli alloggi di Medardo, allora vuoti, e a entrare per la finestrella della sua stanza. Quel mattino il vecchio aperse lo sportello dell’averla, ne seguì il volo fino alla finestra del figlio, poi tornò a spargere il becchime alle gazze e alle cince, imitando i loro zirli. Di lì a poco, sentì il tonfo d’un oggetto scagliato contro le impannate. Si sporse fuori, e sul cornicione c’era la sua averla stecchita. Il vecchio la raccolse nel cavo delle mani e vide che un’ala era spezzata come avessero tentato di strappargliela, una zampina era troncata come per la stretta di due dita, e un occhio era divelto. Il vecchio strinse l’averla al petto e prese a piangere. Si mise a letto lo stesso giorno, e i famigli di là dalle inferriate della voliera vedevano che stava molto male. Ma nessuno poté andare a curarlo perché s’era chiuso dentro nascondendo le chiavi. Intorno al suo letto volavano gli uccelli. Da quando s’era coricato avevano preso tutti a svolazzare e non volevano posarsi né smettere di battere le ali. La mattina dopo, la balia, affacciandosi all’uccelliera, vide che il visconte Aiolfo era morto. Gli uccelli erano tutti posati sul suo letto, come su un tronco galleggiante in mezzo al mare. IV Dopo la morte di suo padre, Medardo cominciò a uscire dal castello. Fu ancora la balia Sebastiana la prima a accorgersene, un mattino, trovando le porte spalancate e le stanze deserte. Una squadra di servi fu mandata per la campagna a seguire le tracce del Visconte. I servi correvano e passarono sotto un albero di pero che avevan visto, a sera, carico di frutti tardivi ancora acerbi. - Guarda lassù, - disse uno dei servi: videro le pere che pendevano contro il cielo albeggiante e a vederle furono presi da terrore. Perché non erano intere, erano tante metà di pera tagliate per il lungo e appese ancora ciascuna al proprio gambo: d’ogni pera però c’era solo la metà di destra (o di sinistra secondo da dove si guardava, ma erano tutte dalla stessa parte) e l’altra metà era sparita, tagliata o forse morsa. - Il visconte è passato di qui ! - dissero i servi. Certo, dopo essere stato chiuso a digiuno tanti giorni, quella notte gli era venuta fame, e al primo albero era montato su a mangiare pere. Andando, i servi su una pietra incontrarono mezza rana che saltava, per la virtù delle rane, ancora viva. - Siamo sulla traccia giusta! - e proseguirono. Si smarrirono, perché non avevano visto tra le foglie mezzo melone, e dovettero tornare indietro finché non l’ebbero trovato. Così dai campi passarono nel bosco e videro un fungo tagliato a mezzo, un porcino, poi un altro, un boleto rosso velenoso, e via via andando per il bosco continuarono a trovare, uno ogni tanto, questi funghi che spuntavano da terra con mezzo gambo e aprivano solo mezzo ombrello. Sembravano divisi con un taglio netto, e dell’altra metà non si trovava neanche una spora. Erano funghi d’ogni specie, vesce ovuli, agarici, e i velenosi erano pressappoco altrettanti che i mangiabili. Seguendo questa sparsa traccia i servi arrivarono al prato chiamato delle monache dove c’era uno stagno in mezzo all’erba. Era l’aurora e sull’orlo dello stagno la figura esigua di Medardo, ravvolta nel mantello nero, si specchiava nell’acqua, dove galleggiavano funghi bianchi o gialli o colore del terriccio. Erano le metà dei funghi ch’egli aveva portato via, ed ora erano sparse su quella superficie trasparente. Sull’acqua i funghi parevano interi e il visconte li guardava: e anche i servi si nascosero sull’altra riva dello stagno e non osarono dir nulla fissando anch’essi i funghi galleggianti, finché s’accorsero che erano solo funghi buoni da mangiare. E i velenosi? Se non li aveva buttati nello stagno, cosa mai ne aveva fatto? I servi si ridiedero alla corsa per il bosco. Non ebbero da andar lontano perché sul sentiero incontrarono un bambino con un cesto: dentro aveva tutti quei mezzi funghi velenosi. Quel bambino ero io. Nella notte giocavo da solo intorno al Prato delle Monache a farmi spavento sbucando d’improvviso di tra gli alberi, quando incontrai mio zio che saltava sul suo piede per il prato al chiaro di luna, con un cestino infilato al braccio. - Ciao, zio! - gridai: era la prima volta che riuscivo a dirglielo. Lui sembrò molto contento di vedermi. - Vado per funghi, - mi spiegò. - E ne hai presi? - Guarda, - disse mio zio e ci sedemmo in riva a quello stagno. Lui andava scegliendo i funghi e alcuni li buttava in acqua, altri li lasciava nel cestino. - Te’ - disse dandomi il cestino con i funghi scelti da lui. - Fatteli fritti. Io avrei voluto chiedergli perché nel suo cesto c’era solo metà d’ogni fungo; ma capii che la domanda sarebbe stata poco riguardosa, e corsi via dopo aver detto grazie. Stavo andando a farmeli fritti quando incontrai la squadra dei famigli, e seppi che erano tutti velenosi. La balia Sebastiana, quando le raccontarono la storia, disse: - Di Medardo è ritornata la metà cattiva. Chissà oggi il processo. Quel giorno doveva esserci un processo contro una banda di briganti arrestati il giorno prima dagli sbirri del castello. I briganti erano gente del nostro territori e quindi era il visconte che doveva giudicarli. Si fece giudizio e Medardo sedeva nel seggio tutto per storto e si mordeva un’unghia. Vennero i briganti incatenati: il capo della banda era quel giovane chiamato Fiorfiero che era stato il primo ad avvistare la lettiga mentre pigiava l’uva. Venne la parte lesa ed erano una compagnia di cavalieri toscani che, diretti in Provenza, passavano attraverso i nostri boschi quando Fiorfiero e la sua banda li avevano assaliti e derubati. Fiorfiero si difese dicendo che quei cavalieri erano venuti bracconando nelle nostre terre, e lui li aveva fermati e disarmati credendoli appunto bracconieri, visto che non ci pensavano gli sbirri. Va detto che in quegli anni gli assalti briganteschi erano un’attività molto diffusa, per cui la legge era clemente. Poi i nostri posti erano particolarmente adatti al brigantaggio, cosicché pure qualche membro della nostra famiglia, specie nei tempi torbidi, s’univa alle bande dei briganti. Del bracconaggio non dico, era il delitto più lieve che si potesse immaginare. Ma le apprensioni della balia Sebastiana erano fondate. Medardo condannò Fiorfiero e tutta la sua banda a morire impiccati, come rei di rapina. Ma siccome i derubati a loro volta erano rei di bracconaggio, condannò anch’essi a morire sulla forca. E per punire gli sbirri, che erano intervenuti troppo tardi, e non avevano saputo prevenire né le malefatte dei bracconieri né quelle dei briganti, decretò la morte per impiccagione anche per loro. In tutto erano una ventina di persone. Questa crudele sentenza produsse costernazione e dolore in tutti noi, non tanto per i gentiluomini toscani che nessuno aveva visto prima d’allora, quanto per i briganti e per gli sbirri che erano generalmente benvoluti. Mastro Pietrochiodo, bastaio e carpentiere, ebbe l’incarico di costruir la forca: era un lavoratore serio e d’intelletto, che si metteva d’impegno a ogni sua opera. Con gran dolore, perché due dei condannati erano suoi parenti, costruì una forca ramificata come un albero, le cui funi salivano tutte insieme manovrate da un solo argano; era una macchina così grande e ingegnosa che ci si poteva impiccare in una sola volta anche più persone di quelle condannate, tanto che il visconte ne approfittò per appender dieci gatti alternati ogni due rei. I cadaveri stecchiti e le carogne di gatto penzolarono tre giorni e dapprima a nessuno reggeva il cuore di guardarli. Ma presto ci si accorse della vista imponente che davano, e anche il nostro giudizio si smembrava in disparati sentimenti, così che dispiacque persino decidersi a staccarli e a disfare la gran macchina V Quelli erano per me tempi felici, sempre per i boschi col dottor Trelawney cercando gusci d’animali marini diventati pietre. Il dottor Trelawney era inglese: era arrivato sulle nostre coste dopo un naufragio, a cavallo d’una botte di bordò. Era stato medico sulle navi per tutta la sua vita e aveva compiuto viaggi lunghi e pericolosi, tra i quali quelli con il famoso capitano Cook ma non aveva mai visto nulla al mondo perché era sempre sottocoperta a giocare a tresette. Naufragato da noi, aveva fatto subito la bocca al vino chiamato «cancarone», il più aspro e grumoso delle nostre parti, e non sapeva più farne senza, tanto da portarsene sempre a tracolla una borraccia piena. Era rimasto a Terralba e diventato il nostro medico, ma non si preoccupava dei malati, bensì di sue scoperte scientifiche che lo tenevano in giro, - e me con lui, - per campi e boschi giorno e notte. Prima una malattia dei grilli, malattia impercettibile che solo un grillo su mille aveva e non ne pativa nessun danno; e il dottor Trelawney voleva cercarli tutti e trovar la cura adatta. Poi i segni di quando le nostre terre erano ricoperte dal mare; e allora andavamo caricandoci di ciottoli e silici che il dottore diceva essere stati, ai loro tempi; pesci. Infine, l’ultima grande sua passione: i fuochi fatui. Voleva trovare il modo per prenderli e conservarli, e a questo scopo passavamo le notti a scorrazzare nel nostro cimitero, aspettando che tra le tombe di terra e d’erba s’accendesse qualcuno di quei vaghi chiarori, e allora cercavamo d’attirarlo a noi, di farcelo correr dietro e catturarlo, senza che si spegnesse, in recipienti che di volta in volta sperimentavamo: sacchi, fiaschi, damigiane spagliate, scaldini, colabrodi. Il dottor Trelawney s’era fatto la sua abitazione in una bicocca vicino al cimitero, che serviva una volta da casa del becchino, in quei tempi di fasto e guerre epidemie in cui conveniva tenere un uomo a far solo quel mestiere. Là il dottore aveva impiantato il suo laboratorio, con ampolle d ’ogni forma per imbottigliare i fuochi e reticelle come quelle da pesca per acchiapparli; e lambicchi e crogiuoli in cui egli scrutava come dalle terre del cimitero e dai miasmi dei cadaveri nascessero quelle pallide fiammelle. Ma non era uomo da restare a lungo assorto nei suoi studi: smetteva presto, usciva e andavamo insieme a caccia di nuovi fenomeni della natura. Io ero libero come l’aria perché non avevo genitori e non appartenevo alla categoria dei servi né a quella dei padroni. Facevo parte della famiglia dei Terralba solo per tardivo riconoscimento, ma non portavo il loro nome e nessuno era tenuto a educarmi. La mia povera madre era figlia del visconte Aiolfo e sorella maggiore di Medardo, ma aveva macchiato l’onore della famiglia fuggendo con un bracconiere che fu poi mio padre. Io ero nato nella capanna del bracconiere, nei terreni gerbidi sotto il bosco; e poco dopo mio padre fu ucciso in una rissa, e la pellagra finì mia madre rimasta sola in quella misera capanna. Io fui allora accolto nel castello perché mio nonno Aiolfo si prese pietà, e crebbi per le cure della gran balia Sebastiana. Ricordo che quando Medardo era ancora ragazzo e io avevo pochi anni, alle volte mi lasciava partecipare ai suoi giochi come fossimo di pari condizione; poi la distanza crebbe con noi, e io rimasi alla stregua dei servi. Ora nel dottor Trelawney trovai un compagno come mai ne avevo avuto. Il dottore aveva sessant’anni ma era alto quanto me; un viso rugoso come una castagna secca, sotto il tricorno e la parrucca; le gambe, che le uose inguainavano fino a mezza coscia, sembravano più lunghe, sproporzionate come quelle d’un grillo, anche per via dei lunghi passi che faceva; e indossava una marsina color tortora con le guarnizioni rosse, sopra alla quale portava a tracolla la borraccia del vino «cancarone». La passione per i fuochi fatui ci spingeva a lunghe marce notturne per raggiungere i cimiteri dei paesi dove si potevano vedere talvolta fiamme più belle per colore e grandezza di quelle del nostro camposant