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04-crescita tumorale e CSC-30.09.2022.pdf

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Sbobinatore: Belinghieri Anna, Ciollaro Anna Revisore: Ciollaro Anna, Belinghieri Anna Materia: Onc...

Sbobinatore: Belinghieri Anna, Ciollaro Anna Revisore: Ciollaro Anna, Belinghieri Anna Materia: Oncologia Docente: Marco Presta Data: 30/09/2022 Lezione n°4 Argomento: crescita tumorale e CSC Comunicazioni: nessuna. Riassunto/integrazione: da oggi in poi quando si parlerà di tumori si farà riferimento esclusivamente ai tumori maligni. CRESCITA TUMORALE ORIGINE MONOCLONALE O POLICLONALE DEL TUMORE Una domanda che ci si è posti è se il tumore sia di origine monoclonale o di origine policlonale. Partendo dalle cellule del tessuto sano, ovvero dal parenchima: Se il tumore è di origine monoclonale significa che tutte le cellule parenchimali che compongono la massa tumorale hanno avuto origine da un’unica cellula che ha subito una trasformazione neoplastica, e sono quindi tutte cellule figlie della cellula di partenza. Se il tumore è di origine policlonale significa che più cellule sane del tessuto di partenza sono andate in contro a processi di trasformazione ed insieme hanno dato origine ad una massa composta da diversi cloni, ciascuno dei quali originato da ognuna delle cellule sane. Entrambe le possibilità sono valide. Tuttavia, la maggioranza dei tumori umani è di origine monoclonale, anche se esistono rarissime eccezioni: si pensi ad esempio al Sarcoma di Kaposi, eziologicamente correlato a infezione da HHV8 in associazione con HIV. Come si è potuta ottenere questa informazione? Prima delle tecniche di biologia molecolare ad oggi disponibili, i mezzi erano decisamente più limitati. Si è sfruttato quindi un fenomeno biologico già conosciuto: la lyonizzazione del cromosoma X nelle cellule somatiche degli organismi di sesso femminile. In particolare si è sfruttato il fatto che sul cromosoma X esista un locus codificante per l’enzima glucosio-6- fosfato deidrogenasi, di cui esistono diverse isoforme, ciascuna delle quali codificata da un allele diverso. Per questo motivo, un individuo di sesso femminile può essere, per l’enzima glucosio-6-fosfato deidrogenasi, omozigote o eterozigote. Nel caso di omozigosi gli alleli presenti sui due cromosomi X sono identici; nel 30 caso di eterozigosi, invece, ciascuno dei cromosomi X possiede un allele differente. Prendendo in considerazione individui di sesso femminile eterozigoti per il gene che codifica l’enzima, nello stadio di zigote i due cromosomi sono ugualmente funzionanti ed entrambe le isoforme enzimatiche sono espresse. In seguito, a causa del fenomeno di lyonizzazione che porta alla disattivazione quasi totale di uno dei due cromosomi X e che avviene in maniera casuale nelle diverse cellule, l’organismo diventa simile ad un mosaico: casualmente in alcune cellule è inattivato il cromosoma X codificante per l’isoforma enzimatica B, in altre quello codificante per l’isoforma enzimatica A. Ciò significa che in questo mosaico alcune cellule esprimono l’isoforma A, altre quella B. Questo concetto è stato utilizzato per verificare se un tumore, in una paziente con eterozigosi del gene codificante per la glucosio- 6-fosfato deidrogenasi, fosse o meno di origine monoclonale. Lo studio è stato effettuato su tumori benigni, ma le evidenze ricavate possono essere ritenute valide per qualsiasi tipo di tumore. In particolare, si osservò, in diverse pazienti, tutte eterozigoti, quale fosse l’espressione dell’enzima nei tumori benigni dell’utero. Se il tumore fosse di origine monoclonale, quindi derivante da un’unica cellula muscolare liscia della paziente, la massa tumorale esprimerebbe solo l’isoforma A o l’isoforma B, in funzione di ciò che esprimeva la cellula di partenza. Se il tumore fosse di origine policlonale, la massa tumorale sarebbe costituita da cellule figlie di diverse cellule muscolari lisce, ciascuna delle quali esprimente casualmente o l’isoforma A o l’isoforma B. La massa sarebbe quindi un mix eterogeneo con percentuali diverse di cellule esprimenti le diverse isoforme. Seguendo questo ragionamento si studiarono diverse decine di tumori di questo tipo e quello che si osservò attraverso tecniche allora biochimiche, fu che effettivamente ogni tumore derivante da una paziente eterozigote esprimeva solo una delle due isoforme, o la A o la B, e che non esprimeva mai entrambe le isoforme assieme. Questo fu il primo studio che validò l’idea, almeno per questo tipo di tumore, che il tumore fosse di origine monoclonale. Quindi il leiomioma dell’utero, un tumore benigno della muscolatura liscia dell’utero, è di origine monoclonale: tutte le cellule che compongono il parenchima del tumore originano, attraverso fenomeni ripetitivi, da un’unica cellula muscolare liscia1. Ad oggi le tecniche sono notevolmente più avanzate e grazie ad esse abbiamo l’ulteriore conferma che tutti i tumori umani maligni e benigni sono di origine monoclonale, con qualche rara eccezione. Lo stesso principio fu adottato per altri tipi di tumore: ad esempio, sfruttando la condizione di eterozigosi dell’allele codificante il recettore per gli androgeni, anche in questo caso situato sul cromosoma X, si osservò come i tumori esprimessero un’unica isoforma recettoriale, non entrambe, e fossero quindi di origine monoclonale. Ulteriori evidenze hanno portato alla conferma della tesi che il tumore sia effettivamente di origine monoclonale. Di seguito si riportano alcuni esempi: Il mieloma multiplo è un tumore che colpisce le plasmacellule, cellule in grado di produrre anticorpi differenti per ognuna di esse. Se il tumore fosse di origine monoclonale, tutte le plasmacellule maligne, ancora in grado di produrre anticorpi, produrrebbero esattamente lo stesso anticorpo. Se, invece, fosse di origine policlonale, gli anticorpi prodotti risulterebbero differenti. Anche in questo caso si è osservato, con protidogramma in seguito ad analisi del sangue, che tutte le cellule tumorali, in pazienti affetti da mieloma multiplo, esprimono lo stesso anticorpo, il cosiddetto M-spike2, che altro non è che un anticorpo monoclonale. 1 Per lo stroma il ragionamento è il medesimo. 2 M-spike è un marker del mieloma multiplo. 31 È noto come i tumori siano causati non solo da modificazioni del singolo locus di un gene o più geni, ma anche da aberrazioni cromosomiche. Anche in questo caso dobbiamo immaginare che se esiste un’alterazione cromosomica (traslocazione, delezione, inversione…) che dà origine al tumore e che avviene nella prima cellula, ecco che allora tutte le cellule figlie erediteranno la stessa alterazione cromosomica. Tutte le cellule della massa tumorale saranno quindi caratterizzate dalla medesima alterazione. Anche questo è a sostegno del principio di monoclonalità. Il tumore della cervice uterina è indotto dal Papilloma virus in seguito all’integrazione casuale del genoma virale a Dna in quello cellulare. Quindi, se il virus infetta un milione di cellule, in ciascuna cellula il genoma sarà integrato diversamente: queste cellule saranno di conseguenza tutte diverse l’una dall’altra. Se il tumore della cervice uterina, dovuto all’integrazione del virus del Papilloma in una cellula endometriale, fosse di origine monoclonale, tutte le cellule di una paziente presenterebbero il genoma virale integrato esattamente nello stesso punto. In un’altra paziente, il genoma virale potrebbe essere invece integrato in un punto differente, pur essendo integrato ugualmente in tutte le cellule di quella determinata massa tumorale. Prendendo ad esempio cinque pazienti, l’integrazione sarà differente, ma considerando ciascuna paziente, l’integrazione all’interno del tumore della singola paziente sarà assolutamente identica. Se il tumore fosse invece di origine policlonale, evidenza non riscontrata, la massa tumorale dovrebbe essere formata da un mix di cellule ciascuna presentante il genoma virale integrato in un punto differente di quello cellulare. Con le tecniche di biologia molecolare (sequenziamento del genoma, analisi dei cromosomi, ibridazione in situ e FISH) ad oggi disponibili è possibile compiere analisi estremamente raffinate per affrontare la questione; tuttavia, a prescindere dalle tecniche utilizzate, i risultati portano sempre a identificare i tumori come di origine monoclonale: tutte le cellule parenchimali del tumore originano da un’unica cellula. EVOLUZIONE GENETICA TUMORALE Se il tumore è di origine monoclonale e quindi deriva dalla proliferazione di una singola cellula che è andata in contro a trasformazione neoplastica, al termine di diversi cicli replicativi si dovrebbe ottenere una massa di cellule neoplastiche identiche tra loro. Nella realtà, però, non è così. Se andassimo infatti ad osservare le singole cellule costituenti la massa tumorale potremmo riconoscere la presenza di sub-cloni diversi. Domanda: “ha detto sub-cloni?” Sì, non cloni, ma sub-cloni. Quale è la differenza tra cloni e sub-cloni? I sub-cloni sono cloni del clone di partenza, nei quali sono avvenute mutazioni casuali: inizialmente si hanno i cloni, ovvero cellule tutte uguali originate dalla cellula di partenza, man mano che gli eventi mitotici proseguono possono avere origine, a partire dai cloni, cellule che presentano la stessa mutazione di partenza unitamente a nuove mutazioni casuali tra loro differenti. Queste cellule sono definite sub-cloni. In un tumore, le mutazioni identificate sono numerose e differenti. Infatti, affinché il tumore abbia origine, sono necessarie numerose mutazioni a carico di numerosi geni: quindi, è vero che si parte da una cellula con una determinata alterazione però è altrettanto vero che ciò non è sufficiente a determinare la formazione del tumore. Per arrivare al tumore è necessario che si accumulino molteplici mutazioni (in alcuni tumori sono presenti decine e decine e decine di mutazioni). Modello di successione lineare clonale Si immagini di partire da una popolazione di cellule sane dove avvenga una prima mutazione, qualunque essa sia. La prima cellula trasformata dà origine a numerosi cloni tutti identici tra loro e quindi tutti possidenti la mutazione iniziale. Può accadere però che all’interno di queste cellule una vada incontro ad una seconda mutazione (nell’immagine la mutazione verde). Ecco che quindi ci si trova in presenza di cellule rosse e cellule rosso-verdi. Una prima ipotesi potrebbe essere che le cellule rosso-verdi prendano il sopravvento e che in una di queste cellule si verifichi una terza mutazione (mutazione azzurra). Possiamo osservare, dall’immagine, come la popolazione cellulare cambi nonostante resti sempre di origine monoclonale: la mutazione rossa persiste in tutte le cellule ma queste cellule non sono uguali alla cellula primaria. Derivano infatti dalla cellula 32 primaria e mantengono la mutazione iniziale, tuttavia ne presentano altre: alcune favorevoli, altre sfavorevoli, ma il processo prosegue. Questo modello è però eccessivamente semplicistico. Suggerisce infatti che il tumore evolva in modo che di una serie di cloni alcuni prendano progressivamente il sopravvento su altri e che, quindi, nonostante questi abbiano accumulato ulteriori e diverse mutazioni rispetto alla cellula primaria siano comunque tutti uguali tra loro. Ciò perché si assume che ciascun nuovo sub-clone originatosi sia dominante rispetto agli altri e prenda il sopravvento. Questo modello spiega la possibilità che un tumore sia monoclonale nonostante le numerose mutazioni delle cellule tumorali che non sono presenti nella cellula iniziale, ma non spiega la realtà dei fatti: non è vero, infatti, che il tumore è costituito da cellule tutte uguali dal punto di vista mutazionale. È necessario quindi fare riferimento al modello di diversificazione clonale dinamica: all’interno della massa tumorale possono essere presenti sub-cloni con alterazioni genetiche diverse. Diversificazione clonale dinamica Anche in questo caso, si immagini di partire da una popolazione di cellule sane e che avvenga una prima mutazione, di qualsiasi tipo. La prima cellula trasformata dà origine a numerosi cloni tutti identici tra loro e caratterizzati dalla mutazione iniziale. Se all’interno di queste cellule una va incontro ad una seconda mutazione (nell’immagine la mutazione verde), si ottengono due gruppi di cellule, quelle rosse e quelle rosso-verdi. Nel modello di successione lineare clonale, si ipotizza che le cellule rosso- verdi prendano il sopravvento. Ma ciò non è detto: non è scontato che le cellule rosse scompaiano. Se è vero che le cellule rosse sussistono, si ottiene una popolazione mista composta da cellule rosse e cellule rosso-verdi. Immaginiamo che in una cellula rossa si verifichi una mutazione blu favorevole e che quindi anche i cloni di questa cellula sopravvivano. Le popolazioni cellulari a questo punto sono tre: la popolazione rossa, la popolazione rosso-verde e la popolazione rosso-blu. La monoclonalità è rispettata ma compaiono numerosi sub-cloni, ovvero sottopopolazioni cellulari diverse tra loro composte da cellule identiche tra loro. Nonostante le diverse sottopopolazioni siano in competizione, tutte resistono e ne risulta che, pur mantenendo la monoclonalità, la massa tumorale è costituita da cellule tumorali con caratteristiche genetiche mutazionali diverse tra loro. Quindi, durante la vita del tumore, dall’insorgenza della prima mutazione alla presenza della massa clinicamente diagnosticabile, è necessario immaginare una serie di eventi mutazionali, nella maggior parte somatici3, che si accumulano in maniera casuale dando origine a sottopopolazioni cellulari in competizione tra loro. Domanda: “E’ quindi sbagliato affermare che un tumore sia ereditabile?” Sì, è completamente sbagliato: non si può ereditare un tumore. Si può ereditare una mutazione che predispone all’insorgenza del tumore. Domanda: “Quindi non esiste in nessun caso una mutazione che da sola sia in grado di portare all’insorgenza di un tumore?” 3 In alcuni casi possono essere ereditabili, ma se ne parlerà in futuro. 33 Esattamente. Gli unici tumori che sono dati da un’unica mutazione sono alcuni tumori indotti da virus oncogeni a Rna. Generalmente infatti una mutazione può predisporre all’insorgenza di un tumore ma ne sono necessarie numerose affinché questo insorga effettivamente. In quest’immagine ciascun colore rappresenta un clone che si espande: alcuni prendono il sopravvento, altri vengono eliminati fino a dare origine, nel tempo, ad uno scenario estremamente complesso ed eterogeneo in cui le cellule tumorali del parenchima sono la risultante di fenomeni mutazionali e di selezione naturale. Ciò accade già durante la fase pre-clinica del tumore, ma continua anche dopo. In quest’immagine è invece visibile una massa tumorale sperimentale in cui ciascun colore rappresenta un sub-clone, identificato grazie alle sue specifiche caratteristiche genetiche. Un altro esempio: le cellule rosse, verdi e gialle presentano differenti mutazioni e appartengono infatti a sottopopolazioni differenti. Tuttavia, presentano tutte anche la mutazione iniziale. Queste analisi sono state condotte grazie a tecniche di imaging. Oggi, mediante tecniche di sequenziamento, è possibile studiare il genoma di ciascuna cellula e comprendere sempre meglio il concetto di sub-clonalità e di eterogeneità delle sottopopolazioni che compongono la massa tumorale. Questo è un punto fondamentale per quanto riguarda la biologia del cancro perché spiega una molteplicità di aspetti. Spiega, ad esempio, come tumori che colpiscono il medesimo organo o tessuto, possano, in individui differenti, essere geneticamente differenti ed avere un grado di differenziamento diverso. Ciò ha infinite implicazioni, ad esempio per quanto riguarda l’aggressività del tumore o la sensibilità di risposta ad una determinata terapia. La variabilità individuale è massima ed in essa risiede la difficoltà dell’approccio terapeutico: infatti non esiste “il” cancro, ma ogni tumore è a sé stante. Da qui la necessità di una medicina personalizzata che miri ad individuare ed analizzare ogni tumore nella sua unicità e trovare contro di esso un’opportuna cura. 34 Un esempio per comprendere ancor meglio questo concetto è quello del tumore al seno: in circa il 20-25% di pazienti affette da tumore al seno le cellule tumorali esprimono alti livelli di un recettore per un fattore di crescita. È stato inventato un anticorpo monoclonale, un farmaco definito “intelligente”, in grado di legare questo recettore e di bloccarlo. Questo farmaco funziona molto bene nelle pazienti che presentano questa alterazione genica, quindi un’over-espressione sulle cellule tumorali di questo recettore. Per tutte le altre pazienti in cui le cellule tumorali hanno altre alterazioni geniche diverse da questa, il farmaco risulta inefficace. Quindi, uno dei primi interessi dell’anatomopatologo, nel caso del tumore al seno, è individuare una serie di caratteristiche, tra cui questa, per poi riferire le informazioni ricavate all’oncologo che le utilizzerà per attuare una corretta terapia. Questo esempio è necessario per capire come conoscere le mutazioni definite “driver”, ovvero quelle che determinano la progressione del tumore di un determinato paziente, consenta di utilizzare approcci terapeutici efficaci. Nuovi farmaci testati sulla popolazione determinano una risposta solo nel 5-10% degli individui. Per capire se il tumore di un paziente è suscettibile ad un determinato farmaco è quindi necessario analizzarne le mutazioni. CRESCITA TUMORALE Si immagini la crescita di un tumore come una serie di eventi replicativi esponenziali, tralasciando il concetto di monoclonalità e di diversificazione, a cui si associano ovviamente eventi mutazionali: se si facesse un calcolo, partendo dalla prima cellula trasformata, quanti eventi mitotici sarebbero teoricamente necessari per ottenere una massa tumorale di all’incirca 1g, che corrisponde circa a 10⁹ cellule? Secondo calcoli teorici, sono sufficienti 30 eventi mitotici 4 per ottenere una massa tumorale di 1g, che corrisponde approssimativamente alla massa diagnosticabile. Per passare da 1g a 1kg sono invece sufficienti 10 raddoppiamenti. Quindi, sembrerebbe che, data la crescita esponenziale del tumore, nel momento in cui il tumore diventa diagnosticabile, cresca molto velocemente. Questo ragionamento è errato ma è necessario per comprendere che la maggior parte della crescita tumorale è preclinica: il tumore viene scoperto quando sono già avvenuti numerosi eventi replicativi e mutazionali. Ciò che avviene in questo lasso di tempo, che abbiamo difficoltà a conoscere con oggettività, si cerca di capirlo mediante studi sperimentali. Solo migliorando le tecniche diagnostiche e individuando il tumore sempre più precocemente, sarà possibile infatti capire meglio cosa succede partendo dalla cellula e giungendo alla massa tumorale clinicamente rilevante. 4 Il professore cita un aneddoto sulla crescita esponenziale riguardante un filosofo cinese. 35 Nel momento in cui il tumore diventa diagnosticabile diventa anche possibile studiare il ritmo proliferativo delle cellule tumorali andando quindi ad osservare quante di esse sono in mitosi. Non tutte le cellule tumorali, infatti, durante la crescita della massa, sono in mitosi, ma solo una certa percentuale. Il numero di cellule tumorali in mitosi rapportato al totale delle cellule è rappresentato dall’indice mitotico. Questo numero lo si può ottenere attraverso un’analisi FACS che misura il contenuto di Dna nelle cellule, che durante la fase S è maggiore. È possibile infatti determinare, in base alla quantità di Dna contenuto nelle cellule, quante di queste sono quiescenti e quante in fase replicativa. Anche i preparati istologici permettono di ricavare il numero di cellule in mitosi e quindi l’indice mitotico. Grazie a queste tecniche, oggi si conosce l’indice mitotico di numerosi tumori: Come possiamo immediatamente notare, l’indice mitotico non è mai pari a 100, ma è anzi molto lontano da questo numero. Per alcuni tumori l’indice è pari a 2. Ciò significa che su 100 cellule tumorali solo 2 sono in attiva replicazione. Assumendo ciò, risulta chiaro come il calcolo teorico precedentemente stimato sia errato. L’errore sta nel considerare tutte le cellule come attivamente proliferanti: ciò non è vero. Solo una piccola percentuale di cellule in un determinato istante è in mitosi. Si consideri che l’indice mitotico del midollo osseo umano è pari a 20-25, quindi superiore all’indice mitotico della maggioranza dei tumori umani. Solo alcuni tipi di tumori ematologici molto rapidi ed aggressivi hanno un indice mitotico che si avvicina a quello del nostro midollo osseo sano. È quindi necessario sfatare il mito secondo cui il tumore cresca più di un tessuto sano, dal punto di vista di capacità proliferativa. Qualsiasi tumore ha sempre capacità proliferativa inferiore a quella di un nostro tessuto sano quale il midollo osseo ematopoietico. È da sfatare anche il mito per cui le cellule tumorali compiano il ciclo cellulare più rapidamente di quelle dei nostri tessuti sani. Infatti, alcuni studi hanno permesso di conoscere la durata totale del ciclo cellulare di cellule tumorali, ovvero 2-3 giorni, che è pari a quello delle cellule umane sane. Quindi non solo non tutte le cellule tumorali proliferano in un determinato istante, ma oltretutto quando proliferano impiegano il medesimo tempo delle cellule sane. Tempo di raddoppiamento di un tumore Alcuni sperimentatori hanno calcolato, partendo dall’indice mitotico e dal tempo impiegato dalla cellula tumorale a duplicare, quanto tempo impiegherebbe la massa tumorale a raddoppiare il suo volume. Ad esempio, supponendo di avere indice mitotico pari a 10 e tempo di duplicazione cellulare di 3 giorni, quanto sarebbe il tempo potenziale di duplicazione di una massa tumorale di 1g? Secondo un calcolo puramente 36 aritmetico, è stato stimato che tale intervallo temporale oscilla attorno ai 10 giorni. In questo tempo il tumore è in grado quindi di raddoppiare il proprio volume. Sorge spontaneo domandarsi se questo calcolo teorico trovi riscontro nella realtà della malattia. Prima di tutto è necessario ricordare che nessun medico resterà ad osservare un tumore che cresce in un paziente solo per misurare quanto tempo impiega a duplicare in volume, per cui i dati sul tempo reale di duplicazione di un tumore non sono molto abbondanti, in quanto derivano da osservazioni casuali. Grazie a quei casi in cui, per vari motivi, il volume del tumore è stato misurato in tempi successivi senza che vi fossero stati interventi, quali chirurgia, radio o chemioterapia, è stato possibile raccogliere le informazioni sul tempo di duplicazione reale di una serie di tumori. Rispetto al tempo potenziale, risultato dei calcoli aritmetici, il tempo reale non si misura nell’ordine dei giorni, ma in settimane o mesi, quindi una scala completamente diversa. Si hanno tumori a lenta crescita, come il tumore al colon retto che impiega due anni a duplicare, mentre altri sono più veloci, ma duplicano comunque nell'arco di 10-12- 20 mesi. Solo alcune metastasi, tendenzialmente più aggressive del tumore di partenza, per via della loro sub-clonalità, possono avere un tempo di duplicazione anche di pochi mesi. Resta comunque evidente come si tratti di tempistiche molto differenti rispetto a quelle a cui si era giunti con i calcoli teorici. Sorge quindi spontaneo domandarsi perché. Perdita cellulare in un tumore Dalle osservazioni reali risultano delle discrepanze a partire da 1-3 settimane fino ad addirittura 10-20. Il difetto del calcolo è dato dal fatto che esso non prende in considerazione il tasso di perdita cellulare tramite apoptosi. Non tutte le cellule prodotte infatti sopravvivono, anzi, la maggioranza viene persa. Questa enorme perdita di cellule prodotte e poi perse spiega la differenza tra il tempo potenziale e quello reale di duplicazione. Si immagini di partire dalla cellula mutata che dà origine ai vari subcloni: tra essi ci saranno cellule proliferanti, cellule che entrano in una sorta di differenziamento in fase C0 e cellule che vanno incontro ad apoptosi, rappresentanti una grande parte della massa totale. Si pone quindi un altro problema: se in alcuni tumori viene perso addirittura fino al 90% o più delle cellule prodotte, come è possibile che il tumore cresca? Esso ha infatti un indice mitotico basso, il tempo di duplicazione è ampio e moltissime cellule vanno incontro ad apoptosi. Quindi come è possibile la 37 crescita neoplastica? E soprattutto, come è possibile che, al contrario, il midollo osseo che ha indice mitotico elevato non aumenti in volume? Per cercare di comprendere questo concetto, è utile fare un paragone con una vasca da bagno. Paragoniamo il midollo osseo umano e la massa tumorale ad una vasca da bagno: il volume midollare/tumorale è rappresentato dalla quantità di acqua nella vasca. Tale quantità è determinata dalla gittata della vasca da bagno, che la riempie, e dalla portata dello scarico che ne determina lo svuotamento. Per mantenere l'acqua costante si hanno diverse opzioni: si possono chiudere sia il rubinetto che lo scarico, oppure aprire il rubinetto e fare altrettanto con lo scarico. Il midollo osseo e il tumore funzionano secondo la stessa logica: il midollo ha un alto indice proliferativo, ma tutte le cellule che produce vengono rilasciate in circolo, come accade con lo scarico della vasca. Si ha quindi un differenziale tra produzione e perdita (non nel senso di apoptosi ma di liberazione in circolo) pari a zero, che permette di mantenere costante il volume midollare. Nel tumore avviene lo stesso processo: le cellule vengono prodotte e perse per apoptosi. In questo caso però si ha un dislivello, una differenza tra produzione e perdita. Il tasso mitotico è basso, eccezion fatta per determinate leucemie, e nonostante vi sia un discreto tasso di apoptosi, il differenziale è sempre in favore delle cellule prodotte. Anche se vengono prodotte poche cellule e di queste una grande quantità va incontro a morte, comunque il bilancio sarà in favore della crescita, per cui la massa tumorale, più o meno lentamente, aumenterà. Come già accennato, tumori quali il carcinoma al colon impiegano più di due anni, mentre una leucemia necessita di pochi mesi: tutto dipende dal differenziale tra proliferazione e perdita, che però, in ogni caso, resta in favore della proliferazione. Domanda: “questo concetto potrebbe essere spiegato dal fatto che le cellule tumorali che sopravvivono alle mutazioni sono di fatto immortalizzate, cioè hanno una capacità proliferativa mantenuta a tempo indeterminato?” Attenzione, le cellule tumorali non sono immortali nel senso che non è possibile indurle a morte, infatti anch’esse in assenza di ossigeno muoiono. Il punto fondamentale è che le cellule tumorali non vanno incontro a senescenza: immortale significa questo, non che sono resistenti a qualsiasi tipo di insulto. Domanda: “il grafico di aumento della massa tumorale è solo stromale o anche parenchimale?” Entrambe: la crescita del tumore si accompagna alla proliferazione anche della componente stromale. In parallelo alla crescita del parenchima si assiste a quella dello stroma, anche se quest’ultimo è subordinato al primo: se muore il parenchima che fa da “guida”, infatti, muore anche lo stroma. Domanda: “non esiste quindi un tumore che ha indice mitotico molto basso ma che si accompagna a crescita stromale alta?” In realtà sì, ci sono alcuni tumori che presentano poco parenchima e molto stroma, poiché le poche cellule tumorali inducono una forte risposta stromale con abbondante connettivo. CELLULE STAMINALI TUMORALI Il tumore è un tessuto neoplastico ed in quanto tale risponde a caratteristiche proprie dei tessuti. Infatti, si è cominciato a vedere che effettivamente all'interno del parenchima ci sono cellule che proliferano, cellule che non lo fanno, altre che muoiono, altre che si differenziano ed altre ancora che possono tornare a proliferazione e determinare un evento mitotico anche dopo essere state quiescenti per un certo tempo. Quello che manca è capire se, come nei tessuti sani, la componente staminale esiste anche nei tumori. Questo problema, piuttosto recente, rappresenta una materia di studio fondamentale. In generale, è possibile affermare che le cellule staminali esistono anche nel tumore, e sono definite CSC, cioè cancer stem cell. Quindi è possibile dedurre che esistano CSC che duplicando danno origine non solo ad un’altra CSC, ma anche ad una cellula progenitrice trans-amplificante che costituisce la componente proliferativa più significativa della massa tumorale, quella che porta all’aumento in volume della massa. Da 38 queste cellule derivano poi quelle che vengono definite differenziate. Il discorso che vale per i tessuti sani è valido quindi anche per i tessuti tumorali. Storicamente gli studi sono iniziati sui tumori ematologici, perché esistevano moltissimi marcatori dei vari stadi di differenziamento delle componenti delle cellule ematopoietiche, ed è stato così possibile individuare le prime CSC tumorali. In seguito, si è potuti passare ai tumori solidi, e nonostante manchino ancora molti marcatori e quelli presenti non siano estremamente precisi, è ormai assodato che anche le cancer stem cell esistono. Anche nei tumori, come nei tessuti sani, le cellule staminali sono poche, circa un 1% come ordine di grandezza, valore che cambia leggermente per ogni tessuto. Anche le cellule staminali tumorali hanno un lento ritmo proliferativo e sono importanti per la sopravvivenza del tumore. Se esistono le cellule staminali nella massa tumorale, è necessario immaginare che, come nei tessuti sani, una piccola popolazione di staminali sia responsabile del mantenimento dell’intero tessuto. Nel midollo osseo ematopoietico le cellule staminali che proliferano permettono non solo l’intero processo di ematopoiesi, ma anche la sopravvivenza del midollo; analogamente accade per i tessuti tumorali. Le CSC mantengono vivo il tumore, benché non siano quelle che proliferano di più, danno origine alle trans-amplificanti che hanno invece indice mitotico altissimo e che creano la massa tumorale e la fanno crescere. Le CSC mantengono sostanzialmente in crescita il pool cellulare e permettono la vita del tumore. È quindi la componente staminale ad avere capacità tumorigenica, non le cellule proliferanti. Per mantenere vivo il tumore servono le CSC, le trans-amplificanti non hanno la potenzialità staminale e non possono da sole sostenere la crescita e la sopravvivenza del tumore. Marcatori di staminalità Con discrete difficoltà si sono iniziati a evidenziare marcatori che identificano le CSC nel tumore. Di seguito si trova una tabella che elenca una serie di marcatori specifici per cellule staminali di neoplasie diverse. Tali marker sono molto eterogenei, per molti tumori non si hanno marker univoci, ma condivisi con altri. Il CD133, ad esempio, viene usato per marcare moltissime tipologie di tumore, quindi non è molto specifico, ma alcuni 39 tumori non lo esprimono. In quei tumori si avranno quindi delle cellule staminali che però non rispondono a questo marker: è necessario quindi continuare a cercare marker utili per la rintracciabilità delle staminali tumorali in ogni tipologia tumorale. Si osservi la seguente analisi: ogni punto rappresenta una cellula che deriva dalla disgregazione di un tumore. Esse sono divise in base all’espressione di due antigeni, CD44 e CD24. Esistono cellule, quelle nella parte in alto a destra del grafico, che esprimono molto entrambi gli antigeni; altre cellule, poche, esprimono molto CD44 e poco CD24. Quest’ultimo gruppo rappresenta solo il 10% del totale, ed è costituito dalle cellule staminali. Come è noto, è possibile impiantare delle cellule staminali umane in un topo immunodeficiente (in modo che non ci sia rigetto), ed osservare nel topo la crescita tumorale, ottenendo quindi uno xenotrapianto. Si è osservato che se nel topo vengono innestate anche solo 200 CSC, CD44+ e CD24- del grafico, si sviluppa un tumore. Se invece vengono innestate anche 20 000 cellule progenitrici, CD44+ e CD24+ del grafico, non si ottiene nulla, né a livello macroscopico né istologico. Questo significa che anche pochissime staminali sono in grado di riprodurre il tumore, così come bastano poche cellule staminali multipotenti ematopoietiche per ricostituire l'intero midollo osseo. Se però vengono innestate anche un enorme numero di progenitrici, esse non possono riprodurre il tumore. All’interno della massa tumorale esiste dunque una sottopopolazione limitata che è in grado di riprodurre il tumore, ossia le CSC, mentre la maggior parte del tumore, costituito da cellule trans-amplificanti altamente proliferative e da cellule differenziate, non è in grado di farlo. Il discorso è analogo a livello del tessuto sano, come il midollo osseo: le staminali lo possono ricostituire, mentre le progenitrici, a qualsiasi livello, possono solo proliferare e differenziarsi, ma non ricostituire l’interno tessuto. Sono stati svolti moltissimi esperimenti a sostegno di questa tesi, di seguito due esempi mostrano cellule isolate da un tumore al seno e da un tumore cerebrale. A livello della massa, si hanno cellule positive ad alcuni marker specifici per le staminali. Anche in questo caso, 10 000 cellule che non esprimono il maker staminale, anche se inoculate non danno tumore, mentre un numero molto inferiore di staminali, 100 o 1000, sono in grado di dare un tumore. Le staminali sono dunque, nei tumori così come nei tessuti sani, una piccola percentuale di cellule che ha basso ritmo proliferativo ma alta attività tumorigenica, cioè capacità di ricostituire, mantenere e rigenerare il tumore. Domanda non chiara riguardo all’inoculazione delle cellule progenitrici. 40 Le cellule progenitrici se iniettate nel topo non riescono a dare il tumore poiché muoiono, non hanno il potenziale replicativo utile a rigenerare il tessuto. Il tumore è come il midollo, prolifera e differenzia, ma senza le staminali non riesce a rigenerarsi. Origine delle cellule tumorali È ora lecito domandarsi se la prima cellula da cui è derivato il tumore, quella della prima mutazione, fosse una staminale o una trans-amplificante. Se fosse una staminale del tessuto, ciò spiegherebbe la presenza delle staminali tumorali. In questo caso, in una cellula staminale del tessuto sano, c'è stata una prima mutazione, poi eventualmente una seconda, e da questa serie di eventi si è sviluppato il tumore, con la componente staminale e quella delle progenitrici e delle differenziate, che si dividono nei vari sub-cloni. A sostegno di questa tesi, fu condotto uno studio che si poneva come obiettivo la validazione della seguente ipotesi: vi è correlazione tra il rischio di sviluppare un certo tipo di tumore con il numero di cellule staminali e quante volte esse replicano in quel determinato tessuto? E di conseguenza, i tumori a maggior rischio di comparsa sono anche quelli che derivano da tessuti con maggiori staminali e che replicano più volte? Risultato: si sono osservati i grafici di correlazione tra i due parametri: risultò evidente come le due curve fossero sovrapponibili, e questo indica una certa correlazione tra i due eventi, cioè comparsa del tumore e alto numero di staminali. Questo porterebbe maggiori conferme a sostengo dell’ipotesi per cui la prima cellula mutata fosse una cellula staminale. È utile ricordare però l’esistenza delle IPS5 (cellule staminali pluripotenti indotte), cellule create in laboratorio a partire da una cellula differenziata: in essa viene indotta, tramite tecniche di ingegneria genetica, una modificazione specifica del genoma, che riattiva i geni caratteristici delle cellule staminali, riportando la cellula ingegnerizzata da uno stato di differenziazione ad uno di staminalità. Questo permette di comprendere come, a seguito di eventi mutazionali, una cellula possa riacquisire capacità staminali. Quindi, se a livello di una cellula differenziata del tessuto, si sviluppa una mutazione casuale spontanea in un determinato gene, questa riacquisisce proprietà di staminalità, e rappresenta la prima cellula trasformata da cui nasce il tumore. Da essa si otterranno poi la parte staminale del tumore, e quella trans-amplificante. Pertanto, la prima cellula neoplastica può essere di due tipi: 5 È importante ricordare che le IPS, se inoculate in un topo immunodeficiente, causano la comparsa di teratomi, tumori caratterizzati dalla presenza di diverse linee cellulari, come ossee, epiteliali, nervosi e mesenchimali, poiché le IPS possiedono potenziale tumorigenico trasformante molto alto. 41 Cellula staminale sana in cui si verifica una mutazione che induce trasformazione neoplastica. Da essa deriva una staminale mutata, che si divide in un’altra staminale e in una progenitrice trans-amplificante Cellula progenitrice sana, in cui la mutazione colpisce un gene responsabile delle capacità staminali. Si ottiene un progenitore mutato con proprietà staminali, che si divide in una cellula progenitrice tumorale e in una trans- amplificante. Sempre grazie allo studio dei tumori ematologici, si è notato che nella leucemia mieloide cronica c'è una mutazione caratterizzante rappresentata da una traslocazione cromosomica che se colpisce una cellula staminale crea una staminale tumorale responsabile della neoplasia. La stessa cosa avviene nella leucemia acuta, ma in questo caso la mutazione è una traslocazione che colpisce un progenitore, che in seguito a tale mutazione acquisisce caratteristiche di staminalità e quindi dà origine al tumore. Queste evidenze sono a conferma del fatto che sono possibili entrambe le vie sopra illustrate per generare cancro, sia a partire da una cellula progenitrice che da una staminale. Staminali e difficoltà terapeutiche Questo concetto ha delle implicazioni fondamentali: si immagini di avere un tumore, da trattare con chemio o radioterapia (la terapia chirurgica non fa differenza perché agisce indistintamente su cellule progenitrici e staminali). Una volta applicata la terapia, essa sembra funzionare perché rallenta la crescita e diminuisce la massa tumorale. Tuttavia, se con tale terapia non si sono andate ad uccidere le cellule staminali ma solo le progenitrici, è solo questione di tempo prima che il tumore recidivi. Le tempistiche saranno diverse, in base alle caratteristiche intrinseche del tumore e all’aggressività della terapia, ma in ogni caso, qualora fossero rimaste delle CSC, il tumore ritornerà. Questo complica enormemente il quadro di malattia, perché non solo il tumore è costituito da sub-cloni diversi che rispondono diversamente alla terapia, ma si deve considerare anche il fatto che le staminali possono o meno rispondere alla terapia. È quindi di fondamentale importanza conoscere le caratteristiche biologiche specifiche delle CSC, per capire come aggredirle ed eliminarle, in modo da creare la terapia perfetta per eliminare definitivamente il tumore con chemio e radioterapia. Caratteristiche delle cellule staminali Oltre alla difficoltà nello svolgere una terapia mirata alle staminali, il quadro è complicato anche dal fatto che le staminali sono molto resistenti, perché evoluzionisticamente sono necessarie alla vita e devono quindi resistere agli insulti esterni per garantire la vita dell'organismo e dei tessuti sani. Quando però la staminale diventa tumorale, essa mantiene la resistenza delle staminali sane e quindi resiste a moltissimi tipi di aggressione. Tra le caratteristiche di resistenza troviamo: Capacità di evadere le difese del sistema immunitario, restando ad esso invisibili e quindi non aggredibili. Al giorno d’oggi, infatti, la ricerca mira a immunoterapici in grado di risvegliare il sistema immunitario contro le cellule trans-amplificanti ma soprattutto contro le staminali. Efficienti meccanismi di riparo del DNA, che creano resistenze nei confronti dei chemioterapici. Molti di essi, infatti, agiscono andando a danneggiare direttamente il DNA, cosa che risulterebbe letale, ma che in presenza di meccanismi di riparazione molto efficaci come quelli delle cellule staminali, determina la sopravvivenza della cellula. Lo stesso discorso vale anche per la radioterapia. 42 Enzimi detossificanti e trasportatori che detossificano o estrudono i farmaci. Qualora una sostanza citotossica entri nella cellula, essa è in grado, a differenza e maggiormente rispetto alle cellule differenziate, di estruderla con i trasportatori o di detossificarla tramite i sistemi endosomiali intracellulari. I farmaci, quindi, non riescono ad attaccare la cellula staminale, che li metabolizza in molecole non tossiche o li estrude. Quiescenza. I chemioterapici, volti a uccidere le cellule in attiva proliferazione, non hanno azione sulle staminali, ma anzi danno gravi effetti collaterali poiché agiscono anche sulle cellule sane. Uccidendo le cellule dei tessuti sani, dall’uso dei chemioterapici scaturiscono alti effetti di tossicità, che danno sintomi caratteristici quali perdita di capelli, problemi all'apparato digerente e problemi di anemia per via dell’attacco al midollo osseo ematopoietico. Il problema è dato quindi dal fatto che spesso il farmaco agisce meglio sul tessuto che sul tumore, perché il secondo ha indice proliferativo molto più basso. Infatti, questi farmaci agiscono molto meglio su quei tumori che hanno indice proliferativo alto, come alcune leucemie infantili super-proliferanti: esse rispondono benissimo, mentre un tumore poco proliferante non viene sostanzialmente attaccato. Resistenza all’apoptosi in caso di deprivazione di nutrienti e ipossia, condizioni che normalmente conducono le cellule a morte. La sommatoria di tutte queste caratteristiche e il fatto che non si siano ancora identificate con certezza tutte le popolazioni di cellule staminali, e che quindi non è possibile sintetizzare farmaci intelligenti diretti contro di esse rende la terapia tumorale molto complessa. 43

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